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Cosa è successo fra giovani e media?

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 77-83)

di Stefano Laffi

Voci, volti. Per chi si occupa di ragazzi, a vario titolo,

il dato scon-volgente degli ultimi dieci anni è la nascita di una loro narrazione pubblica.

Sui social media, nelle chat e nei forum, sui display dei cellulari e dei tablet, sono comparse parole e volti, in un continuum narrativo e figurato a infini-te voci, che è stato il loro racconto del preseninfini-te. Non una contronarrazione, non la presa di parola che rivendica di diritto di scrivere la propria storia, ma un racconto molto più silente, leggero, emotivo e divertito, peer to peer, ep-pure efficacissimo nel dare la distanza dall’informazione quotidiana dei quo-tidiani e dei telegiornali, nel rendere l’idea di quanto fosse diversa la loro agenda da quella dettata dalla politica e dall’informazione istituzionale. In un mon-do in cui gli adulti hanno saturato tutti gli spazi, in cui sembrava di mon-dover sempre bussare piano piano e aspettare all’infinito per ricevere udienza, è na-to un universo parallelo in cui i ragazzi si sono raccontati, nel registro del-l’amicizia, del gioco, dello sfogo, del divertimento, un romanzo di formazione scritto giorno per giorno.

Cose che voi umani... Con Skype metti in contatto i ragazzi coi genitori sepa-rati o col papà all’estero per lavoro, mentre le mamme badanti in Italia posso-no vedere e parlare ai loro figli in Ucraina o nelle Filippine... con Facebook puoi organizzare campagne di sensibilizzazione o di raccolta fondi... nel

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mato pdf o ebook puoi diffondere testi senza stamparli abbattendo i costi... e se vuoi far esordire un band musicale o un collettivo di fotografi è tutto mol-to più semplice. Gli ultimi dieci anni ci hanno regalamol-to straordinarie possibi-lità, e ci hanno soprattutto insegnato che la domanda “che cosa posso fare?” per aiutare qualcuno, per guidare un ragazzo nelle sue scelte, per realizzare qual-cosa, può avere da un mese all’altro risposte diverse, perché cambia di continuo il sistema di opportunità.

Repertori. Se vale la pena riformulare quella domanda a ogni progetto, perché non è mai scontato che il modo di fare le cose di ieri abbia più senso, dispor-re di buoni dispor-repertori di esperienze è diventato fondamentale. Il web ci ha aiu-tato molto a superare i confini e a guardare cosa succede altrove, abbattendo il rischio del provincialismo come attitudine italiana, e ha di contro generato un po’ di amnesia, impoverendo la ricchezza dei repertori di quanto è stato fatto, magari molti anni fa. Basta ascoltare l’esperienza didattica di chi oggi usa il tablet in classe per ritrovare le stesse direttrici di chi provava a innovare la didattica quarant’anni fa, chi rivede oggi Diario di un maestro (lo sceneggia-to realizzasceneggia-to per la Rai da Vitsceneggia-torio de Seta all’inizio degli anni settanta, di re-cente ripubblicato da Feltrinelli) scopre che già allora si lavorava sulla trasformazione dell’aula per favorire una diversa modalità di relazione fra i ragazzi e di ap-prendimento cooperativo, sul superamento del libro di testo per costruire piut-tosto il “proprio libro di testo”, sull’analisi e la diversificazione delle fonti superando il confine delle mura scolastiche e promuovendo i tanti ambienti di apprendimento... Questa stagione di innovazione dei supporti e delle modali-tà di lavoro ha quindi bisogno anche del racconto delle tante esperienze di cui gli adulti sono portatori.

Coi ragazzi, dai ragazzi. Quella domanda, rispetto al come, va posta ai ragaz-zi, e risolta insieme a loro. Gli adulti peccano spesso di presunta superiorità e di autoritarismo quando faticano ad aver basi solide per giustificare la di-sparità di potere verso i più giovani di cui socialmente beneficiano, e nel campo dei media e delle tecnologie digitali in generale rischia di risultare ri-dicolo presupporre quella superiorità. È avvenuta in questa anni un’inversio-ne del sistema dei saperi fin troppo evidente, la ciclica immissioun’inversio-ne di nuove tecnologie e supporti unita all’attitudine dei più giovani e dei bambini stessi alla curiosità e all’apprendimento fa sì che ci sia una fortissima differenza nel-la padronanza d’uso di strumenti e linguaggi fra giovani e adulti, quasi a ri-baltare le gerarchie d’età: un tablet è governato perfettamente da un bambino,

Film un po’ meno da un ragazzo, è tutto da tradurre rispetto al pc da un adulto, è estraneo al campo di esperienza di un anziano. Riconoscere che questa è pro-babilmente – non certamente – la situazione in cui ci si trova nel proprio am-biente di lavoro, di studio o di relazione educativa, implica che occorra chiedere aiuto ai più giovani, dismettere i panni di una superiorità che non ha senso dimostrare su questo piano e umilmente riconoscere che la ricerca del come si possano fare oggi le cose abbia da loro una maggiore aderenza al nuovo sistema di opportunità.

Apprendere dalle cose? Imparare per tentativi, dagli oggetti stessi, guidati dal-le proprie esigenze di base e dalla straordinaria accessibilità di tecnologie che non hanno più fogli d’istruzione ma logiche plug and play, ha il pregio del-l’utilizzo immediato, e il difetto di una contrazione del sapere. Anche i più giovani sanno quasi sempre solo usare meglio, prima e più velocemente i nuovi supporti, ma non hanno alcuna idea di come siano costruiti, come funzioni-no, su quali principi, come si aggiustino. Anche per loro i media sono scatole magiche, e la padronanza si risolve di fatto solo nell’abilità di consumatori pri-vilegiati. Il sapere d’uso si ossifica spesso nei propri usi abituali, ovvero è auto-riduttivo, autoreferenziale, non esplora i mondi possibili. Aprire le scatole magiche, chiedersi come funzionano, rompere le routine d’uso per scoprire al-tre possibilità è un esercizio fondamentale di rapporto critico con gli oggetti e col presente da fare coi ragazzi, una pratica che occorre non dimenticare anche se schiacciati dalla sensazione di inadeguatezza di adulti in un mondo digitale.

Quali saperi. Può trarre in inganno la velocità d’uso di un ragazzo di fronte a un display, può far credere che da adulti non si abbia voce in capitolo. Da un’osservazione più attenta e dalla letteratura di ricerca oggi sappiamo che i media sono utilizzati molto in senso verticale – per coltivare i propri interes-si, per ritrovare ciò che già si conosce – ed essenzialmente come strumenti di comunicazione e relazione, per stare connessi e in contatto con gli altri. Ne derivano alcune linee guida sul rapporto fra generazioni: 1) i media sono oggi l’ambiente fondamentale per agganciare i ragazzi, per dare continuità a contat-ti avviacontat-ti, per costruire parcontat-ti di racconto di un’esperienza avviata con loro (per-sino l’educativa di strada non può prescindere dal gruppo Facebook); 2) agire insieme e stare in relazione è la modalità in cui le nuove generazioni sono cre-sciute, un’attività educativa, didattica o artistica va declinata come occasione di relazioni con altri, “con quali altri ragazzi si può affrontare questa avventura?”

è la domanda obbligata da porsi quando si formula una proposta. Un

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po di lettura funziona meglio di un compito individuale, un torneo meglio di una prova individuale, un seminario residenziale di gruppo meglio di due giorni di formazione sui banchi; 3) i media sono sottoutilizzati come strumen-ti di ricerca e conoscenza, come opportunità per allargare il proprio spettro di in-teressi e farsi sorprendere da nuove passioni, ed è questa certamente la funzione sulla quale gli adulti possono essere più di guida, a patto di acquisire la pa-dronanza che serve per esercitare quel ruolo; 4) i media sono utilizzati indi-stintamente rispetto alla loro autorità di fonte, le news di una radio commerciale in fm valgono quanto il notiziario di un network di informazione, i siti web sono consultati secondo la sequenza proposta dal motore di ricerca: insegna-re a utilizzainsegna-re le fonti vale in università ma ancora di più come life skill nella vita quotidiana.

Diluvio tecnologico. Occorre lucidità per ricordarsi che l’universo di possibi-lità aperto dai nuovi dispositivi è essenzialmente “etero-diretto”: non sono gli insegnanti ad aver chiesto le Lim, non i bambini ad aver progettato i tablet, non i manager ad aver ideato gli smartphone, ma si tratta di merci che hanno dovuto costruire la propria domanda, di “bisogni indotti” come avviene sem-pre quando si asem-pre un mercato. Le merci hanno bisogno di noi per riprodursi – lo capì McLuhan oltre sessant’anni fa – devono generare senso di inadegua-tezza o prefigurare mondi fantastici per indurre all’acquisto – questo è il me-stiere del marketing e dell’advertising – e hanno sempre un costo nascosto oltre al prezzo d’acquisto, quello del cambiamento, del nostro conformarci al loro uso. Per non perdere in umanità, per tenere noi il timone e giocare alla pari la sfida con le tecnologie, occorre non solo conoscere questi strumenti ed esplo-rare cosa rende possibile il loro utilizzo rispetto ai propri compiti, ma anche riconoscere e mostrare sempre il loro volto commerciale. Cosa compare sul lato destro della pagina di Facebook, o come l’algoritmo di Google differenzia per ciascuno di noi i risultati di ricerca – perché tiene traccia delle nostre ricerche – sono apprendimenti essenziali per un rapporto critico coi media. Da media educator o semplicemente da adulti urge anche la consapevolezza, un po’ ama-ra, del fatto che la didattica è un perfetto alibi commerciale: nulla come un’ap-plicazione che serve a disegnare, scrivere o imparare qualcosa è efficace nell’imporre in modo silenzioso e scontato – acritico, quindi – quell’oggetto o quello stan-dard per fare tutto il resto, è il cavallo di Troia per creare consumatori.

Fare a meno. Forse nessun esercizio critico è più valido del provare a fare a meno. Non di tratta di proibire o demonizzare, ma di tener vive le abilità che

Film si formano quando non si hanno tecnologie che ci sostituiscono in quella fun-zione. Qualunque genitore sa che le scarpe con l’allacciatura in velcro inibi-scono nei bambini la formazione di un’abilità ad annodare i lacci, e sa pure che un bambino tenderà a preferire sempre scarpe con quell’allacciatura, mol-to più comoda e rapida, senza alcuna ambizione a passare a scarpe con lacci.

Ma sulle stringhe delle scarpe si sperimenta la capacità di fare i nodi, dai qua-li dipendono cose come l’arte della navigazione e quella della scalata in mon-tagna, oltre che gesti comunissimi nella quotidianità di adulti.

Le tecnologie sono mediazioni fra le persone e fra le persone e le azioni che devono compiere, finalizzate ad agevolare tali relazioni: aggiungono possibili-tà e tolgono capacipossibili-tà, promettendo che sia più semplice fare la stessa cosa.

Nessuno userebbe un microfono se non amplificasse la voce, ma parlare a una platea senza microfono richiede una voce, una respirazione, una postura e una gestualità rese vane dall’amplificazione. Non solo: quando se ne fa a meno succedono cose diverse, le persone in platea devono stare più attente, e forse il relatore deve andare incontro al suo pubblico, ovvero entrambe le parti devo-no porre più cura nella relazione. Fare a medevo-no del telefodevo-no, dell’automobile, della televisione, del tablet, non ha solo il valore di insegnare a capire com’era il mondo prima e com’è il mondo senza, ma sviluppa abilità altrimenti inibi-te, di fatto sconosciute se qualunque rapporto con l’ambiente è mediato dalla tecnologia digitale.

Esserci. I ragazzi hanno fame di relazioni, anche col mondo adulto. Ma al mon-do adulto non chiemon-dono necessariamente di adeguarsi a standard digitali o di dialogare via Facebook, soprattutto se questa modalità è innaturale e scomo-da per gli adulti. Sono dispostissimi a insegnarci a usare quel che può servirci, felici di essere loro per una volta in posizione di maestri – Youtube è ricchissi-ma di pillole dimostrative o illustrative su come usare o fare qualunque cosa – ma soprattutto ci chiedono di “esserci con il nostro corpo”, di tradire passioni e idee, senza retorica o paternalismi, di ascoltare senza giudicare, di consiglia-re e condivideconsiglia-re esperienze. Dobbiamo sempconsiglia-re ricordarci che, seppur diversi, siamo una forma possibile della loro proiezione dell’età adulta, l’inettitudine tecnologica e il silenzio sui contenuti non sono un bello spettacolo, se mo-striamo soltanto affanno, frustrazione, crisi, stanchezza formiamo giocoforza il loro congedo da noi, il noto e mortificante “non voglio fare la vostra fine”.

Fare per davvero. L’imperativo della comunicazione, l’ipertrofia progettuale e un uso compulsivo della “pedagogia del fare” hanno finito in questi ultimi

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ni per inflazionare le proposte laboratoriali, senza reale sbocco produttivo.

Miriadi di corsi e concorsi, laboratori di alfabetizzazione a tutto senza profes-sionalizzazione a niente hanno finito per logorare la motivazione a partecipa-re, di fronte alla perplessità inevitabile sull’utilità reale di queste palestpartecipa-re, oggi che l’utilità è presto verificabile. “Facciamo come se...” non regge più oltre una certa età e una soglia di reddito, i ragazzi ti chiedono conto del perché tu poi hai o fai qualcosa mentre a loro la proponi in scala ridotta, soprattutto ora che il problema non è scoprire o apprendere l’uso, ma vederne l’impiego rea-le. Se si fa un giornale in classe, bisogna davvero provare a impaginarlo e stam-parlo, è fondamentale andare a vedere come lavora una vera redazione, la sfida vera è provare a collaborare con una testata e pubblicare. E se si fa teatro, è di-verso andare in scena in un teatro della città, la sera, con un pubblico, oppu-re faoppu-re il saggio a scuola, davanti ai genitori o meglio davanti ai loro smartphone (e dietro i genitori impegnati a immortalare la recita...).

Avere un’estetica. È un allegato della precedente annotazione, è un vecchio dilemma che va sciolto. Processo o prodotto? Attenzione alla relazione educa-tiva o finalizzazione al risultato? Ora lo sappiamo, entrambe le cose. Da adul-ti, educatori, insegnanti o genitori abbiamo sempre pensato al primato della relazione, alla cura del processo, a “l’importante è partecipare”, ma questo ha senso solo nei primi anni, quando ci si muove per tentativi, quando occorre davvero proteggere da agonismo e competizione. Poi a un certo punto occor-re andaoccor-re in scena, esordioccor-re nello spazio pubblico, misurarsi con l’impegno di un confronto aperto, ovvero qualcosa che non è meno formativo del processo stesso. Anche il web è uno spazio pubblico, ma è praticamente privo di un’este-tica, se non quella del flusso e dell’immediatezza. Trasformare l’espressività in ricerca di sé, misurarsi coi saperi e i dispositivi delle discipline artistiche, lavo-rare a lungo sulla cura del prodotto anziché metterlo subito in rete. Tutto que-sto significa prendere sul serio quanto i ragazzi stanno dicendo o facendo, dare allo spazio pubblico valenza di responsabilità e non di esibizione, stabilire un dialogo fra le generazioni in cui si ricevono parole, gesti, immagini e si resti-tuisce bellezza.

Avere delle storie da raccontare. Uno dei danni peggiori fatti dalla tv cui gli adulti di oggi sono stati esposti fin dalla loro infanzia – ma chi oltre a Pasolini se ne era accorto? – è la deprivazione di massa della facoltà di racconto. Reclu-si nei salotti, sotto il flusso, allora magnetico, del tubo catodico che ci sommer-geva delle storie di altri e ci cresceva come spettatori, abbiamo smesso di uscire,

Film di abitare lo spazio pubblico, di avere un’epica personale da condividere: quan-do passavi una sera davanti alla tv che cosa potevi raccontare se non la vita de-gli altri, quando andava bene? Così che a cena in casa o a lezione a scuola de-gli adulti sparivano nella propria esemplarità e nei propri racconti, dietro a un muro di precetti, di nozioni, di raccomandazioni che ai discenti facevano sor-gere spontanea la domanda “e voi? dove siete in tutto quello che dite? cosa ave-te fatto di quello che ci raccontaave-te? quale contributo aveave-te dato?” Non possiamo solo essere donatori di tablet, portatori di nozioni, ripetitori di precetti, e al con-tempo vivere una quotidianità smarrita, vuota, frustrata: è sul piano della vita personale che va cercato il riscatto, non nell’inseguimento delle tecnologie, oc-corre riguadagnare la dignità di determinare il proprio destino, prendere deci-sioni, assumersi responsabilità, esprimere dissenso, cercare domande e risposte, per avere un racconto da condividere con le nuove generazioni.

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 77-83)