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Contro la colonizzazione digitale

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 87-94)

di Roberto Casati

La scuola deve aprirsi alle nuove tecnologie,

e se sì, in che modo? La domanda è in parte normativa e in parte fattuale. Come rispondere? Il

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to tra educazione, nuovi media, lettura e apprendimento viene studiato di so-lito in modo settoriale. Per esempio, si può cercare di misurare l’impatto sui risultati scolastici dell’introduzione di una nuova tecnologia in classe, o l’ero-sione del tempo di lettura a casa, o la correlazione tra lettura su carta e risulta-ti scolasrisulta-tici, e via dicendo. Le metodologie variano, possono richiedere strumenrisulta-ti sociologici, di scienza dell’educazione, misure psicologiche o psicofisiche.

Qui vorrei suggerire un approccio diverso che invece di focalizzarsi su un singolo aspetto dilata il campo di visione al problema generale della delega di-gitale. La delega digitale avviene quando spostiamo o progettiamo di sposta-re verso le tecnologie digitali alcune attività, quelle che si psposta-restano alla delega in quanto basate sul trattamento dell’informazione – la lettura, il fare foto, l’educazione, il voto, l’interazione sociale, la comunicazione. Ovviamente non tutto è delegabile, per esempio non possiamo mangiare digitalmente un po-modoro; al massimo possiamo cercare di ingerire una rappresentazione di un pomodoro. Ma non è detto che tutto quello che è in linea di principio dele-gabile debba essere delegato. Il tema di questo contributo si basa su questo assioma normativo. Non c’è nessuna normatività automatica che ci imponga di digitalizzare tutto quello che è digitalizzabile. Farò alcuni esempi: il voto elettronico e il voto online, la riunione, gli estratti conto. La discussione de-gli esempi vorrebbe decostruire l’incanto dalle promesse messianiche delle tec-nologie. A questo punto, se non ci sono ragioni forti per la delega digitale, se questa non è un vero attrattore del sistema, appare chiaramente come la di-gitalizzazione sia in realtà il risultato di un processo esplicito e aggressivo di colonizzazione, al quale si dovrebbe resistere. Non ho spazio qui per discute-re di proposte concdiscute-rete che pdiscute-resento altrove(Contro il colonialismo digitale, istruzioni per continuare a leggere, Laterza 2013); si tratta semplicemente di considerare le deleghe una per una, di negoziare singolarmente la loro intro-duzione, e di cercare di addomesticare la tecnologia piegandola a fini per la quale non era stata progettata. La fotografia digitale è stata addomestica nel momento in cui le macchine fotografiche sono entrate nelle tasche di chiun-que possegga un telefonino; da attività cerimoniale è diventata un semplice prendere appunti visivi. È possibile addomesticare tutti gli strumenti digita-li per non subire passivamente la delega, e abbiamo tutti i diritti di essere fan-tasiosi e creativi.

Le parole chiave di questo intervento sono quindi: rifiuto della delega au-tomatica, demistificazione del colonialismo, negoziato per addomesticare le tecnologie.

Film La smaterializzazione degli estratti conto

La mia banca mi propone uno scambio: accesso online a dieci anni di movi-menti sul conto in cambio della “smaterializzazione” degli estratti conto. Tut-to su internet, ma solo su internet. Da un laTut-to avrei accesso tramite il mio pc di casa o il mio smartphone a tutto quello che ho fatto (o subìto) sul mio con-to, e che adesso vedo solo attravero una finestra di qualche mese); dall’altro il pc e lo smartphone finirebbero con l’essere il mio unico accesso. Ho gentilmen-te, ma fermamengentilmen-te, declinato l’offerta con l’argomento che esistono dei limi-ti alla smaterializzazione.

La smaterializzazione delle transazioni è un altro tassello nel processo di colonizzazione digitale che investe il libro, la scuola, i sistemi di voto, e gli scam-bi sociali. La storia della moneta è una storia metafisica, di progressiva perdi-ta di concretezza. Il denaro non è un oggetto concreto, la sua storia non ha fatto che rivelare progressivamente questa natura profonda. E l’ontologia del denaro è un tema di un certo successo nei dipartimenti di filosofia. John Se-arle vi aveva incardinato la sua teoria della costruzione del mondo sociale.

Senza un vasto insieme di promesse, di credenze individuali condivise (alcune delle quali riguardano il credere e il voler credere alle promesse) nessun came-riere accetterebbe di servirvi un’aranciata in cambio del pezzo di carta colora-to che voi estraete con nonchalance dal portafoglio. Ma viscolora-to che sono le promesse e le credenze condivise quello che importa, i pezzi di carta colorata si sono rivelati fungibili; la vostra banca non ha forzieri pieni di liquidi ma si limita a registrare su un database i movimenti del vostro conto. I vostri ricavi o guadagni o stipendi o rendite si manifestano attraverso la cancellazione di alcuni numeri dal database dei vostri debitori, e riscritture degli stessi numeri sul database che vi corrisponde.

Se la banconota è diventata decorativa, non lo è il lasciare tracce. Non so-lo per una questione di memoria. In linea di principio una società formata da individui con vaste capacità mnestiche potrebbe fare a meno di trascrivere debiti e crediti. Gli allibratori clandestini, cui non conviene rilasciare ricevu-te, tengono a mente decine di puntate. Ma la loro è un’economia speciale, in cui la fiducia va di pari passo con la violenza e in cui l’arbitrio non è certo un rischio che chi scommette può prendere a cuor leggero. Per tutti gli altri la traccia è non solo memoria ma anche e soprattutto disponibilità di una veri-fica. È stato l’estratto conto a permettermi di verificare che qualcuno aveva clonato la mia carta di credito. Mi si dirà, che differenza c’è tra verificare on-line dal tuo pc e verificare sul pezzo di carta che ti spedisce la banca ogni me-se? La differenza principale riguarda l’asimmetria informazionale che esiste tra

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me e la mia banca. La banca è un “terzo” nel contenzioso tra me e il clonato-re di carte di cclonato-redito. Non saclonato-rebbe più un terzo se un contenzioso mi oppo-nesse a lei.

Se non basta lasciare tracce, deve anche trattarsi di tracce facilmente acces-sibili e il cui funzionamento sia comprensibile a chiunque. Chiunque sia in grado di fare una somma può ricostruire la sua storia bancaria usando gli estrat-ti conto stampaestrat-ti. Ma solo chi si destreggia con l’informaestrat-tica e ha accesso al si-stema informatico di un istituto di credito può valutare se gli algoritmi usati sono corretti e leali. Se è importante lasciare tracce, si deve anche valutare la qualità e la natura delle tracce che si lasciano.

La linea del Piave della democrazia: il voto elettronico

Il Parlamento italiano ricorre al voto elettronico: il sistema è affidabile, ma in molti sono rimasti stupiti per la semplicità con cui i parlamentari riescono a violare la regola della rappresentanza, per cui a ciascun individuo dovrebbe cor-rispondere un solo voto. Dato che si parla della possibilità di una società in cui si vota elettronicamente anche nelle elezioni generali, si pongono due doman-de. Il passaggio tecnico è possibile, è possibile per esempio giungere al voto via internet? Se sì, è auspicabile farlo? Vorrei esprimere un parere scettico su que-sto secondo punto, che richiede uno sguardo molto più ampio che non le di-scussioni tecniche sull’affidabilità dei sistemi proposti.

Se si ripensa alle elezioni presidenziali americane del 2000, e alle polemi-che polemi-che ne sono seguite, si vede quanto sia difficile far coesistere gli standard di segretezza e di accuratezza; casi persino più drammatici si pongono alla co-scienza di ogni scrutatore che in Italia debba valutare la grandezza e la posizio-ne di una croce apposta su un simbolo, le eventuali sbavature, ovvero un continuo di variabili per cui sorgono infinite possibilità di casi limite. Da più parti si è suggerito che il voto elettronico possa ovviare al problema dell’accuratezza sen-za per questo sacrificare la segretezsen-za. Ma da dove viene il conflitto?

Chi vota si trova ingabbiato in un dilemma epistemologico. Da un lato, potrebbe voler desiderare la segretezza del suo voto (desiderare che gli altri igno-rino per che cosa ha votato); d’altro lato, potrebbe volersi accertare che nel ri-sultato finale il suo voto sia effettivamente stato contato. Naturalmente ciò che rende visibile il voto individuale in un conteggio finale è anche ciò che ne im-pedisce la segretezza, e viceversa la segretezza non permette di rintracciare il pro-prio voto nella conta finale. Il voto segreto risolve il dilemma cancellando la possibilità di seguire il destino del voto; il voto palese risolve il dilemma nella direzione opposta, permettendo il controllo del voto a scapito della segretezza.

Film I sistemi elettorali richiedono di norma il voto segreto per sottrarlo all’in-fluenza di chi vorrebbe comprare il voto o scambiarlo (con un altro voto, o con una prestazione) o semplicemente imporlo con la violenza. L’influenza non è efficace se non viene controllato il comportamento del votante, che viene quindi protetto dal voto segreto. In un sistema di voto come quello italiano l’elettore ha una garanzia tangibile di segretezza. La sua identità compare solo sul registro elettorale; all’elettore viene consegnata una scheda del tutto ano-nima, su cui esprime la sua preferenza e che depone nell’urna assieme ad altre schede, in disordine. È l’elettore stesso che con la sua azione separa la scheda dal proprio nome e si fa garante della segretezza. C’è un punto fondamentale che ri-schia di sfuggire in questo processo: non solo l’elettore si fa garante della se-gretezza del proprio voto, ma sa di farlo. Ovvero, è in una situazione epistemologicamente trasparente, non ha bisogno di mediazioni troppo com-plesse, di garanti esterni.

Se si passasse al voto elettronico, questo accesso immediato alle garanzie di segretezza verrebbe inesorabilmente a mancare. Anche gli elettori che conosco-no i dettagli tecnici dei sistemi per cifrare messaggi devoconosco-no prima o poi affi-darsi a una macchina sotto la cui interfaccia non hanno modo di andare a vedere. Non hanno modo, per esempio, di verificare se il sistema usa una tran-sazione sicura, anche se dice di farlo. Non hanno modo, per fare un altro esempio, di verificare che il voto venga effettivamente deposto nell’urna elet-tronica dopo che loro l’hanno inviato: o che non venga modificato una volta deposto.

In ciascuno di questi casi l’elettore deve delegare l’epistemologia del voto che gli era invece accessibile con il sistema della transazione fisica di una sche-da di carta che, per un seppur breve periodo, rimaneva in suo esclusivo pos-sesso.

Peggio ancora, il voto online

“Sarà bellissimo quando potremo tutti votare da casa o per strada con il no-stro iPhone, presto, create un’app! È la democrazia liquida!” Risposta: Se mai ciò avverrà, avremo spostato la cabina elettorale in ogni tasca e in ogni casa.

Sembra bello, ma le conseguenze sono assai tristemente prevedibili: il marito torcerà il braccio alla moglie, il padre al figlio, il fidanzato alla fidanzata, il ni-pote alla nonna, e il capobastone inviterà a casa i suoi fanti e le loro famiglie e si farà consegnare l’iPhone di tutti – “non ve lo spiego neanche ché perdia-mo tempo, faccio tutto io”. La cabina elettorale al seggio presidiato dalle for-ze dell’ordine non è un ingrediente decorativo dei processi di voto, è il suo

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elemento essenziale: è un luogo in cui il debole può sottrarsi per qualche im-portantissimo secondo alla tutela del forte. Che poi il forte trovi altri modi di controllare il debole (cosa non difficile con piccoli bacini di votanti e sistemi di voto che permettono di esprimere le preferenze) nulla toglie al fatto che al-meno in linea di principio il voto manuale al seggio è il solo che protegge il votante.

Il mito dei nativi digitali

Dopo aver tanto sentito parlare di “nativi digitali” è giunto il momento di in-trodurre nel dibattito una nuova categoria, quella dei coloni digitali. I coloni digitali hanno una missione intellettuale: fornire pezze d’appoggio alla pene-trazione della tecnologia digitale in aree che per il momento ne sono libere, in primis la scuola. Lodano sperticatamente le iniziative concitate di ministri che hanno fretta (permettere l’acquisto disgiunto dei testi scolastici in formato elet-tronico), parlano di “rivoluzione epocale”, la paragonano a quella di Guten-berg, nientemeno, addirittura e incredibilmente lamentano la “scarsa attenzione”

dei media alla novità. Avanzano argomenti eterogenei come il risparmio di car-ta, la smaterializzazione, la necessità di collegare la scuola alla società; dato che là fuori tutti userebbero ormai l’iPhone o omologhi, deplorano che la scuola resti al palo, rischi di perdere il treno elettronico. Giustamente incerti sulla for-za retorica di queste considerazioni, non esitano a invocare come un mantra categorie ambigue che ritengono scientifiche, come quella dei nativi digitali.

In assenza completa di dati a loro favore, ci frastornano di aneddoti: i nativi digitali “hanno spesso poche motivazioni a stare in classe: uno di loro, su un blog, ha scritto recentemente una [sic] frase emblematica: ‘Se la noia fosse un fossile la scuola sarebbe un museo’” (Pirani).

Ma i nativi digitali non esistono: non nel senso in cui si interpreta di soli-to questa ambigua descrizione, non nel senso molsoli-to preciso in cui si parla di madrelingua. Ci sono invece bambini che sono stati abituati a interagire con degli schermi e delle interfacce elettroniche di varia natura. Questa è una sem-plice e controversa abitudine, non l’alba di una nuova specie (è stato detto an-che questo (Ferri): una nuova specie, gli alieni sono tra noi). Non si accompagna nemmeno a chissà quali nuove e straordinarie competenze, non dà luogo a una specifica “intelligenza digitale”, e gli stessi coloni hanno qualche difficol-tà a dirci precisamente che cosa siano le caratteristiche specifiche di questa pretesa novità psicologica.

E poi, se anche fosse? Se l’abitudine fin da piccoli alla Playstation facesse veramente sì che i bambini e gli adolescenti si annoino a stare in classe?

Ebbe-Film ne, chiediamoci qual è il male, quale il rimedio. Qui i coloni digitali ringhia-no ancora di più, perché loro sì che lo sanringhia-no: la colpa sarebbe degli insegnan-ti, troppo vecchi, quindi refrattari alla “trasformazione”. Non sarebbero in grado di adattarsi alle abitudini dei nativi, stampano le email, non stanno su Face-book e bisogna dir loro come accendere la lavagna elettronica, sono dei bradi-pi “gutenberghiani”. Non ci fosse di mezzo l’avventura difficile di una categoria di lavoratori mal pagati che fanno un lavoro eroico per i nostri figli, verrebbe voglia di fare qualche commento ironico su codesti argomenti. Suvvia. L’abi-tudine a cioccolatini e caramelle non fa sì che i bambini trovino frutta e ver-dura noiose? L’abitudine a stare in poltrona non vi fa trovare fastidioso l’esercizio fisico? L’abitudine a dire parolacce e a non usare i congiuntivi non farà trova-re noioso il modo compìto di parlatrova-re della prof di italiano? Possiamo anche decidere di abolire ginnastica, dietologi dalle mense scolastiche, e sinanco il congiuntivo a lezione.

La controprova flagrante che quella dei nativi digitali è una favola viene dai nonni digitali. Guardatevi intorno: gli alieni sono veramente tra noi. La si-gnora attempata che in autobus fa scorrere il dito sullo schermo tattile dello smartphone, nonno Paolo che con Skype fa babysitting a distanza, la zia Pina che programma il navigatore per andare a trovare un cugino a Lecco, la mam-ma amorosa di Campobasso che grazie alla rete fa consegnare a domicilio la spesa al figlio studente a Magonza. Pensateci un momento. Siete Apple o Sam-sung o Sony o Google. Il vostro target è l’universo mondo. Non vi bastano certo i bambini e gli adolescenti. I vostri prodotti sono fatti per essere usati an-che da un bambino, certo: è la frontiera del design totale, an-che rende la tecno-logia trasparente. Se esistesse una specifica intelligenza digitale che solo i nativi hanno, il dipartimento di ricerca e sviluppo di tutti questi Lord Digita-li chiuderebbe dall’oggi al domani.

I coloni credono fortissimamente che la tecnologia migliorerà la resa sco-lastica. Ma i rari studi disponibili mostrano che gli incrementi dei risultati scolastici (una delle poche cose misurabili, non parliamo mica ancora dello svi-luppo morale e intellettuale delle persone) laddove si usano le tecnologie a scuo-la hanno due tristissime caratteristiche: sono marginali, e sono correscuo-lati con le categorie socioeconomiche. Se vieni da un ambiente culturalmente ricco – e magari ti hanno fatto leggere libri e fatto suonare uno strumento invece che darti il tranquillante della Playstation – poi quando hai a disposizione le tec-nologie fai faville. Perché? Perché le avresti fatte comunque. Come ha detto Kentaro Toyama (Berkeley): non ci sono scorciatoie tecnologiche per un’edu-cazione di qualità.

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I coloni digitali hanno bisogno della favola dei nativi digitali per il loro vasto progetto di penetrazione tecnologica fine a se stessa. L’inventore del ter-mine (Prensky) non è uno psicologo o un sociologo, è uno che produce vi-deogiochi. Ma la favola è soltanto una favola. La riflessione sulla scuola, sul suo ruolo nella società, e soprattutto sul suo ruolo nella vita delle persone, merita di meglio.

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 87-94)