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Come parlare a un muro

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 99-107)

di Simone Caputo

Gianni è stato a vedere “Django”.

Il giradischi di Giulia si è rotto di nuovo. Nicola ha comprato i biglietti per il concerto dei Beach house. Grillo mi invita a firmare un nuovo appello contro i partiti con un nuovo video-co-municato. San Suu Kyi mi tiene aggiornato sulle proteste contro la giunta bir-mana. A Davide piace l’ultima versione di Adobe Premiere. La squadra di Maurizio, come al solito, non ha vinto. eDreams mi ha mandato un messag-gio invitandomi a visitare la città di Parigi. Il Primavera Sound Festival mi se-gnala che da oggi posso seguirlo anche su Twitter. Cosa altro manca nella home page di Facebook? È il sistema di news-feed a generare questo frullato emo-zionale di notizie: mescolando aggiornamenti personali, curiosità casuali, an-nunci politici, richieste di attenzione, foto, video, ricorsi, petizioni e link, condivisi da persone che si conoscono molto o abbastanza bene, da chi si è ap-pena o mai incontrato, da personaggi pubblici. Una strana miscela di comu-nicazione personale e pubblicitaria, a volte politica, altre militante, spesso pruriginosa.

Come together right now over me!

“Convergere” – il congiungersi in un punto di cose che in precedenza erano separate – è uno dei verbi che potrebbe definire il nuovo secolo di internet.

Un’affermazione su scala globale che ha colpito con veemenza l’industria dei media tradizionali, che si ritrovano a lottare quotidianamente per affrontare lo shock del nuovo: proliferazione di piattaforme (informative, connettive, asso-ciative, promozionali) concorrenti; riconfigurazione e ridefinizione del ruolo del “pubblico”; creazione di un nuovo contesto digitale di scambio/cessione/ac-quisto in cui i prodotti possono essere condivisi, copiati e re-mixati da milio-ni di persone. Un nuovo in cui persistono alcune delle caratteristiche fondanti dei grandi media del secolo precedente: una forte partecipazione alla forma-zione di identità politiche e di pensiero, la censura come strumento di regola-mentazione/privazione di libertà, un’ambigua concezione della proprietà intellettuale, la presenza di grandissimi blocchi di potere nel ruolo di finanzia-tori dietro possibili sviluppi/tendenze/modelli del web.

“Convergere” è l’imperativo chiave su cui si giocano le partite più impor-tanti on line. Unire contenuti, informazioni e comunicazione è l’obiettivo a cui mirano gli smartphone, l’oggetto che in media, ogni giorno, più viene toc-cato, aggiornato, usato dagli esseri umani. Aggregare è l’obiettivo di grandi

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lossi come Google, Microsoft, News Corporation, che hanno fondato su mo-nopoli le nuove interazioni tra le persone, il dialogo tra software e la produ-zione artistica audio-video, per poi ampliarli a dismisura in un processo di acquisizione e fusione continua (Google si è sovrapposto, ad esempio, a You-tube, News Corporation a Myspace, Microsoft a Yahoo): il risultato è una sor-ta di indefinibile e gigantesco new media digisor-tale che opera su scala globale raccogliendo, riunendo ed elaborando una enormità di dati. Aggregazioni di convergenze continue: testuali (un libro che diventa un fumetto che diventa un gioco che diventa un film che diventa una suoneria), professionali e non-professionali (si pensi all’affermazione del giornalismo partecipativo, il citizen journalism o open source journalism), personali (l’accesso agli altrui dati, curri-cula, immagini) e pubblicitarie (quel che si legge/ascolta/visita determina au-tomaticamente pubblicità personalizzata in un processo continuo di riconversione dei dati dedotti dalla vita in rete dell’utente). E Facebook rappresenta il pun-to più avanzapun-to, espospun-to e controllapun-to di questa corsa all’offuscamenpun-to dei confini tra i rapporti persona-a-persona e la comunicazione di massa. Un so-cial network in evoluzione continua, nato nel 2004 e quotato in borsa nel 2012, con più di un miliardo di utenti attivi a partire dal 2011, di cui, ancora oggi, non comprendiamo del tutto le influenze che esercita sull’identità, la privacy, la reputazione, non solo degli iscritti – come erroneamente in molti hanno cre-duto negli ultimi anni – ma anche di quelli che non lo sono.

Strada a doppia corsia

Fino a poco tempo fa, il modello dominante di trasmissione della comunica-zione era unidirezionale: erano i media stessi a produrre i contenuti, a decide-re quali veicoladecide-re, a cdecide-readecide-re una scala di valodecide-re tra notizie, modelli, desideri.

Con l’esplosione del web e delle possibilità fruitive da esso offerte, la possibi-lità di decidere è stata data anche a noi utenti: utilizzando un servizio come iTv o dispositivi quali gli iPod possiamo personalizzare visioni e ascolti; il peer to peer ci consente di vedere, ad esempio, le serie tv ancor prima che esse giunga-no sui canali televisivi nazionali, oppure film che giunga-non hangiunga-no trovato distribu-zione nelle sale; lo streaming consente agli appassionati di sport di tutto il mondo di seguire in diretta migliaia di eventi non trasmessi dalle emittenti televisive o visibili solo a pagamento. In uno scenario di questo tipo siamo in grado di esercitare una sorta di controllo sulla produzione dei contenuti che vengono veicolati on line, determinando e incentivando parzialmente scelte distributi-ve e di consumo. Così come possiamo – anche se limitatamente –, attradistributi-verso le nostre preferenze, incentivare in modo diretto la diffusione di notizie,

con-Film nettere quelle solo apparentemente distanti o svelare e far conoscere quelle al-le quali difficilmente avrebbe accesso un vasto pubblico.

Lo slogan che passa è il seguente: siamo noi utenti a generare le notizie e la Rete è lo strumento di propagazione! Che poi non si abbia un’idea ben chia-ra del “che fare” con questa massa di informazioni a disposizione sembchia-ra non essere, almeno al momento, un problema da porsi. Così come è evidente che l’infinità di dati e di possibilità di fruizione e scambio di cui ci sentiamo at-tori protagonisti sposta l’attenzione dagli interrogativi che sempre ci si do-vrebbe porre di fronte ai soggetti che gestiscono la comunicazione: chi vi sta dietro? con quali interessi? quale il potere di gestione dei dati che ci riguarda-no? in che modo la loro influenza sta incidendo sulla crescita delle generazio-ni di “nativi digitali” (ad esempio, una recente ricerca di McAfee e Tns, Secret life of teens, ha evidenziato che il 72% degli adolescenti americani passa più di un’ora della giornata collegato a Facebook e che il 92% di essi possiede un account)?

Se un tempo la nozione di “pubblico” era chiara (da un lato la notizia e chi la confeziona, dall’altro la comunità di quelli che la ricevono), con l’avvento del web 2.0 e l’affermazione di Facebook il concetto è esploso del tutto. Con-dividiamo nostre immagini, testi altrui, notizie, foto personali e non; inven-tiamo progetti e inviinven-tiamo chiunque a sostenerci, a darci un parere e a prendervi parte in maniera creativa: in un continuo remix e scambio di contenuti che tra-sforma il concetto di audience e confonde e sovrappone la figura di chi crea la notizia a quella di chi la riceve. Con un fare che in molti utenti digitali è com-pulsivo, scattiamo foto coi nostri cellulari e le carichiamo in tempo reale su Flickr e Instagram, pubblichiamo video su YouTube, componiamo playlist mu-sicali su Spotify, scriviamo recensioni di libri su Amazon, correggiamo le im-perfezioni che si trovano nelle voci di Wikipedia, condividiamo link di appuntamenti e news su Twitter. Digitalizziamo tutto ciò che è importante per noi (purtroppo molti digitalizzano anche quello di cui un tempo non sa-rebbe fregato nulla a nessuno!): passato, lavori, amori, interessi, cari, nascite e morti. Grazie al web 2.0 e a Mark Zuckerberg e alla sua creatura, Facebook, siamo diventati degli attivissimi e impagabili archiviatori delle nostre stesse vi-te. Dimenticando che le stiamo archiviando anche per qualcun altro: i ricer-catori dello Psycometrics Centre dell’Università di Cambridge sono riusciti a estrarre dai banali “I like” pubblicati su Facebook età, razza, idee politiche, pre-ferenze sessuali e persino il quoziente intellettivo di 50mila utenti volontari esaminati. Tutte informazioni, sulla carta riservate e molto sensibili, che essen-do proprietà di Facebook possono finire – per la gioia degli ignari utenti! –

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nelle mani di terzi (società di pubblicità, enti parastatali, gruppi di intelligen-ce); la normativa che regola il servizio all’atto di iscrizione avvertirebbe al ri-guardo l’utente, se non fosse che la sua lunghezza – superiore a quella della Costituzione italiana – spinge gli aderenti a non preoccuparsene e a cliccare senza pensarci due volte su “accetto”.

Resta però il dato ineludibile che genera consenso su scala globale: se è ve-ro che il divario tra un utente della rete e Rupert Murdoch sarà sempre incol-mabile, non si può nascondere che l’era digitale ci consente come non mai di essere attori protagonisti della comunicazione e della determinazione di ciò che è importante far emergere, spingere, sostenere (che si tratti di arte, informa-zione, innovazione tecnologica, impegno sociale, azione politica). Tutti fanno media oggi! Ciononostante diventa sempre più difficile rispondere all’interro-gativo “chi fa davvero media?” o avere il coraggio di domandarsi “seguire tut-to e tutti non significa forse seguire nulla e nessuno?”

The wall

Per meglio comprendere in che modo Facebook sta trasformando il nostro modo di interagire e relazionarci è bene ricordare alcuni dei modelli di co-municazione possibili fino a oggi dominanti. Il primo che viene in mente è quello della conversazione “faccia a faccia”, quella che abbiamo quotidiana-mente (o avremmo avuto se solo non avessimo portato con noi l’iPod) an-dando al bar, prendendo la metro, entrando in un negozio: l’interazione è bidirezionale, coinvolge persone che si trovano nello stesso luogo, momento e posizione e mette in azione l’intero corpo (dal tono della voce ai gesti, alle espressioni del viso). Vi è poi un’altra forma di comunicazione “a tu per tu”, quella che avviene attraverso la messaggistica instantanea, scambio di e-mail, telefonate, lettere: l’interazione è anche in questo caso bidirezionale, anche se i partecipanti devono ricorrere a un mezzo di trasmissione e fornire alcu-ne informazioni di base relative al contesto (chi sono, dove sono); essi non condividono la stessa posizione nel tempo e nello spazio, e proprio per que-sto possono scegliere di interagire, di farlo quando preferiscono o di non far-lo affatto (più facilmente di quanto non accada su Facebook, dove è possibile seguire nel dettaglio le mosse di un utente, sapere se sia on line o meno, se abbia postato link e video, se abbia visualizzato i messaggi ricevuti, dove si trovi sfruttando la funzione di localizzazione). Infine, terza via di comunica-zione, che ha monopolizzato e cambiato il corso del Novecento, la comuni-cazione di massa: radio, tv, cinema, giornali, riviste, musica registrata. Il passaggio di notizie e di contenuti avviene in una sola direzione: è più o

me-Film no rivolto a tutti quelli che posso permettersi una tv o comprare un giorna-le, ma in fondo non è rivolto a nessuno in particolare.

La ragione per cui Facebook risulta essere così affascinante – soprattutto agli occhi dei nativi digitali, per i quali l’idea che i “filtri” siano necessari, in quanto agenti utili e necessari per scegliere quali informazioni e proposte arti-stiche prendere in considerazione, non è radicata nella formazione dell’identi-tà culturale – è il suo sovrapporre e confondere la sfera della comunicazione personale con quella di massa. Attraverso la home page di Facebook ci rivolgia-mo agli “amici” con messaggi e conversazioni pubbliche che sono al contem-po leggibili e commentabili anche da utenti a noi connessi; così come numerosi appelli, affermazioni e video non indirizzati a noi direttamente, comparendo sulla home possono diventare oggetto del nostro discutere o essere nuovamen-te condivisi raggiungendo così tutta la nostra schiera di amici. Se un nuovamen-tempo per conoscere cantanti, scrittori, registi, attivisti, politici, era necessario recar-si a concerti, presentazioni di libri, proiezioni, manifestazioni, assemblee, di-battiti, grazie a Facebook è possibile saltare questi passaggi: perché uno scrittore può rispondere ai nostri commenti sul suo ultimo libro, un musicista può in-tromettersi nella polemica che un nostro post ha scatenato sulla Siae, un poli-tico può invitarci a firmare la sua campagna contro i costi della politica e a indicargli direttamente “cosa vogliono i cittadini”. Un tempo eravamo abitua-ti ad attendere che il 31 dicembre il presidente si palesasse in tv e parlasse alla nazione; oggi Beppe Grillo vince le elezioni italiane sfruttando la freschezza, le zone d’ombra e le possibilità di condivisione e interazione istantanee offerte da un blog e dalle pagine di Facebook e Twitter. Assistiamo all’affermazione di una sorta di democrazia diretta delle idee, delle informazioni, dell’arte, in cui si confondono la dimensione del pubblico e del privato, il ruolo del propo-nente e del giudicante, la funzione della critica con quella della promozione, mentre il rischio di perdersi tra visioni e letture parziali, “mi piace” e condivi-sioni frenetiche, aggiornamenti di status e creazione di eventi è altissimo, non essendoci bussole da consultare o stelle da scrutare all’orizzonte.

Con Facebook si perde di vista il destinatario delle nostre intenzioni e azio-ni: per chi aggiorno il mio status? a chi mi rivolgo quando sottolineo che mi piace quel film o quella canzone? a chi indirizzo quell’appello per la salvaguar-dia di un bene come l’acqua?

A volte ci si rivolge a una singola persona, altre a uno specifico gruppo di riferimento o ancora alla cerchia degli amici; in tutti questi casi avremmo po-tuto scegliere di incontrarci, utilizzare un messaggio telefonico, inviare una e-mail, ma abbiamo preferito ricorrere alla home page di Facebook. Quello che

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ci attrae sembra essere la possibilità di mettere in piazza i nostri fatti e le no-stre passioni, di controllare le vite degli altri, di indirizzare scelte e gusti, in un ostentato mix di narcisismo, sentimentalismo, utilitarismo, marketing virale.

Stati d’ansia

Che tipo di interazione offre dunque Facebook? Anzitutto Facebook replica il servizio già offerto dalle comuni caselle di posta elettronica: è possibile in-viare messaggi e allegati in privato a un utente che fa parte della nostra cer-chia di amici; è inoltre possibile contattare in tempo reale gli amici attraverso un servizio di chat, che ci indica in ogni istante chi tra loro sta navigando su Facebook e chi no. Alla via di comunicazione privata si affianca la già descrit-ta via pubblica: si possono posdescrit-tare messaggi personali diretdescrit-tamente sul “mu-ro” della home page; in tal caso una discussione che nasce come privata si può aprire (in base alle impostazioni di privacy adottate) non solo agli uten-ti amici, ma anche a quanuten-ti la ricevono in condivisione o sul proprio profilo.

Nella parte superiore della home page ogni utente può inoltre aggiornare il suo status: questa funzione, pensata in origine per consentire all’utente di in-dicare se era “occupato” o “disponibile” alla conversazione, si è trasformato in una sorta di messaggio lanciato alla comunità. Quasi un haiku attraverso cui presentarsi, esprimere uno stato d’animo, lanciare una richiesta. Sfuma il va-lore della comunicazione interpersonale, il peso che si dà all’espressione di una preferenza, l’attenzione alla riflessione, la forza dei dialoghi e degli scambi di opinione (che troppo spesso – favoriti dall’irrealtà di un contatto che avvie-ne dietro la protezioavvie-ne offerta da uno schermo e dalla distanza – si trascina-no in coda ai post di Facebook in maniera improduttiva e rancorosa). Molti utenti sembrano spinti a postare status, informazioni e contenuti in preda a un perenne stato d’ansia partecipativa e d’affermazione di un surrogato di spa-zio vitale condiviso, piuttosto che per un’oggettiva necessità comunicativa.

La possibilità che Facebook offre di diventare fan o membro di un gruppo (di supporto a un’artista, di informazione, di azione sociale, di moda, politica o religione) sembra depotenziare inoltre il valore che un tempo si dava a quel-la consapevolezza e senso d’adesione che ci dovrebbe essere dietro quel-la scelta di appartenere a un gruppo: mentre, infatti, alcuni gruppi creati su Facebook possono effettivamente diventare strumenti attivi per la mobilitazione cultu-rale e politica (come dimostrano i casi Occupy Wall Street e Primavera ara-ba), la maggior parte sembrano piuttosto rispondere alla domanda “che maglietta mi metto quest’oggi?” Al riguardo Graham Meikle nell’articolo It’s Like Tal-king to a Wall (in Facebook and Philosophy, a cura di D. E. Wittkower, Illinois,

Film Open Court, 2010) fa il seguente esempio: “se mi iscrivo a un gruppo di istru-zione superiore che ha per nome Keep Your Fucking Hand Down in Lectures and Shut Up. No One Cares che conta 263.171 iscritti o mi dichiaro fan di Not Being on Fire insieme a un altro milione di utenti, sto registrando una pre-ferenza, sto indicando uno stato d’animo, o sto semplicemente facendo una cosa del tutto casuale, che non interessa a nessuno, come scegliere quale ma-glietta indossare?”

Facebook non sta semplicemente facendo convergere in forme ibride la comunicazione personale, quella pubblica, quella pubblicitaria: sta trasfor-mando il senso stesso di queste distinzioni e il valore degli elementi su cui es-se si basano. Il verbo “piacere” o la parola “amici” assumono su Facebook una dimensione nuova: l’ammissione di piacere, che si dà di solito con assoluta leggerezza, è quasi svuotata di valore, non indicando una vera e propria posi-zione, né una precisa linea di pensiero; il termine “amicizia” non sta più a in-dicare una reale affettività vissuta e sentita, ma assume un senso metaforico, indicando semplicemente chi ci è affine perché è stato compagno di scuola, collega di lavoro, fan della nostra stessa band preferita. Quanto contano ef-fettivamente questi “amici” nelle nostre vite? Un tempo li avremo tutti anno-verati tra le persone con cui confrontarsi, scambiare opinioni, condividere interessi?

Facebook sta inoltre ridefinendo – con un processo che accettiamo sen-za esserne parte – il concetto di privacy: non solo perché i nostri dati sensi-bili possono essere sfruttati da grossi soggetti commerciali o intercettati da società di intelligence, ma anche perché, nella quotidianità, l’orizzontalità del-le notizie ci rende soggetti più vulnerabili ed esposti al giudizio e alla critica superficiale di datori di lavoro, organi di controllo, possibili partner lavora-tivi e affetlavora-tivi.

Target

La formazione di identità virtuali standardizzate e individuabili è uno degli obiettivi che Facebook si è posto con le recenti ristrutturazioni che lo hanno riguardato. Il social network si sta strutturando in modo da rendere sempre più rispondenti a target individuabili i profili degli utenti: di fatto questo sistema rende più facile individuare le informazioni rilevanti di una persona e la pre-sentazione del sé auto-costruita si lega immediatamente a una serie di imma-gini alle quali siamo stati taggati e che ci rappresentano, in qualche modo.

Quando andiamo sul profilo di un amico troviamo in evidenza la storia del no-stro rapporto e con un clic su “vedi dettagli amicizia” possiamo ripercorrere la

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relazione attraverso i contenuti che ci accomunano: post in bacheca, foto, even-ti a cui abbiamo partecipato, commeneven-ti, cose che ci piacciono. In praeven-tica si crea un’ulteriore forma di convergenza e sovrapposizione: un profilo a due, che è simile al profilo personale, ma che racconta – secondo Facebook – tutta la sto-ria di un rapporto. Ciò non ha lo scopo di misurare l’intensità della relazione personale, quanto piuttosto la prolificità di scambi connessi: l’amicizia, nel-l’epoca dei social network, viene ridefinita in base alle possibilità di raggrup-pamento. Un racconto della nostra identità, che è sì imposto dall’alto nelle modalità attraverso cui viene “preparato”, ma che è in fondo dato dal “come ci mostriamo” agli amici, più che dal “come siamo” realmente. Con ciò Face-book ci sovraespone, perché ci chiede di farci suoi complici nel trovare affini-tà con gli altri, nel mostrare le nostre vocazioni più che quello che siamo realmente.

Perché in fondo Facebook è un apparato, un dispositivo, che strategica-mente, per fini commerciali, manipola soggetti e relazioni, incentivando

Perché in fondo Facebook è un apparato, un dispositivo, che strategica-mente, per fini commerciali, manipola soggetti e relazioni, incentivando

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 99-107)