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La genesi e la logica della legge fallimentare del 1942

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Il volume raccoglie le relazioni presentate nel Ciclo di Conferenze promosso dalla !=ondazione C~SI!=IN Alberto Predieri

e dalla !=ondazione Palazzo Strozzi in occasione della Mostra

Antonio Donghi, Donna al caffè, 1931

Venezia, f=ondazione Musei Civici di Venezia, Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Ca' Pesaro

ISBN 978-88-368-1457-2

JIJLJL

(2)

Sandra Rogari

gono soppresse o entrano in grandissima crisi, e sarà un grosso problema poi nel secondo dopoguerra recu-perare terreno su questo versante.

MAURIZIO !=IORAVANTI*

LA

GENESI E l,il LOmCil OEI.J.1\ LEmiE FilLUMEl\lT!lRE

IJEr. 1942

INTRODUZIONE

La lezione di oggi pomeriggio s'inserisce in un ciclo dedicato alla cultura degli anni '30. Cultura in senso ampio e nelle sue diverse manifestazioni. Dunque, an-che cultura giuridica, ovvero la cultura dei giuristi, siano essi accademici, o legislatori, o applicatori inter-preti, o comuni operatori pratici. Da tempo gli storici della cultura giuridica hanno posto l'attenzione sugli anni '30. Sono andati scoprendo che si tratta di anni di straordinaria rilevanza: i formidabili anni '30, si po-trebbe dire. Appena sotto la dura scorza del regime scorre un pensiero che trascende ampiamente la con-tingenza politica del regime medesimo, e che su un piano più alto registra piuttosto le grandi trasforma-zioni del Novecento, dello Stato e della società. Nel campo del diritto pubblico, si scoprono i limiti sempre più evidenti della riflessione tradizionale sullo Stato, e avanzano i nuovi concetti: la funzione di governo, l'indi-rizzo politico, il potere discrezionale come pondera-zione di una pluralità d'interessi. Costantino Mortati, Massimo Severo Giannini, Carlo Esposito, Vezio Crisa-fulli sono i protagonisti del rinnovamento della cultura giuspubblicistica, e non per caso saranno protagonisti anche dopo, àlla Costituente, e dopo ancora, nel tempo della democrazia repubblicana.

* Professore ordinario di Storia del diritto medievale e moderno nell'Università degli Studi di !=irenze.

(3)

Maurizio !=ioravanti

Ora, per avvicinarci all'incontro di oggi pomeriggio, possiamo chiederci: è così anche per il diritto commer-ciale, per il diritto dell'impresa? Direi che in forma meno estesa, e più legata a singoli personaggi - come ad esempio Lorenzo Mossa - anche nel campo civili-stico è in atto un processo di rinnovamento, a partire proprio dallo specifico del diritto dell'impresa. S'inizia a pensare che l'impresa non

è

solo, e non è tanto, una variante della proprietà privata individuale; e che il di-ritto debba valutaria non solo a partire dai poteri del proprietario, ma anche, e forse soprattutto, nella sua oggettività, per i suoi contenuti economici, come com-plesso di beni e di persone, in sé strutturato e dotato di valore. Si potrebbe dire: l'impresa è privata, ma non individuale, nel senso di racchiudibile in modo esclu-sivo ed escludente nella dimensione del mero oggetto su cui il proprietario eserciti i suoi poteri. Si andrebbe probabilmente oltre a sostenere che un'impresa così intesa è il primo nucleo del diritto privato sociale. Si sta invece nel vero a sostenere che questa

è

la via del nuovo diritto dell'economia, che rende sempre meno plausibile la formalistica ,indifferenza del giurista di fronte al contenuto economico dell'impresa, del suo stesso ragionare sull'impresa.

Un ultimo passo, per arrivare allo specifico di oggi pomeriggio, e dare così finalmente la parola al Prof. Stanghellini. Che cosa ha a che fare tutto questo con la legge fallimentare, con le procedure di insolvenza? Molto, io direi. Se infatti si parte da una concezione tra-dizionale dell'impresa, ovvero da quella concezione di stampo individualistico che già negli anni '30 - come abbiamo visto - s'inizia a mettere in discussione, allora

INTRODUZIONE A LA GENESI E LA LOGICA DRLA LEGGE rALLIMENTARE DEL 1942

la lettura della insolvenza avviene tutta a partire dalla cattiva gestione del proprietario, e lo scopo principale della procedura

è

afflittivo, e soprattutto la procedura medesima ha natura liquidatoria, con un ridottissimo ruolo dei creditori. Mi pare che questa sia la soluzione prevalente nella legge del 1942, che dunque rimane, nonostante gli aneliti di rinnovamento degli anni '30, da questo punto di vista in un'ottica di tipo tradizionale. Avanzo ora in conclusione l'ipotesi che quegli aneliti abbiano trovato un seguito in tempi più recenti e re-centissimi, a partire dalle riforme degli anni 2004, 2005 e 2006. Per quanto in modo spesso confuso, sembra riemergere infatti nel nostro presente quell'altra idea, e concezione, dell'impresa, che vuole che nella situa-zione della crisi, e della insolvenza, l'ottica da privile-giare sia quella oggettiva della conservazione del va-lore d'impresa, anche in funzione di una più efficace soddisfazione dei creditori. Da quest'altro modo di concepire l'impresa, e la sua condizione di crisi, deri-vano procedure diverse da quelle previste dalla legge del' 42, con poteri e spazi di azione diversi della auto-rità giudiziaria, del proprietario, dei creditori.

Non

è

più materia mia, ma del Prof. Stanghellini. Il mio intento era quello di mostrare che le procedure non stanno in piedi da sole. Sono orientate in un certo modo perché ispirate da una certa cultura, da un certo modo d'intendère l'impresa, nella sua vita ordinaria e anche nella situazione di crisi. Insomma, il diritto, anche quello in apparenza più disperso nei mille rivoli della normazione, nei meandri di procedure complesse, ha sempre una radice profonda, che si colloca nella cul-tura del suo tempo, del nostro tempo.

(4)

LOR~NZO STANGH~LLlNI*

I.ll GEl\JESI E

L!l

LOGU:1l DELLIl LEGGE FIlLLIMEl\JT!lRE DEL

1942**

l. Due debitori diversi

Poniamo di trovarci di fronte a una persona fisica che abbia contratto un rilevante debito per l'acquisto della propria casa. Data la finalità per cui

è

stato stipu-lato il mutuo egli

è,

a questi fini, un "consumatore".

La decisione di indebitarsi era stata da lui presa sulla base di ipotesi che all'epoca apparivano del tutto razio-nali. Ipotizziamo però che la sua situazione sia mutata, per effetto di vicende sopravvenute, quali la separa-zione coniugale, la perdita del lavoro, una malattia. Ipo-tizziamo infine che la crisi del mercato immobiliare non gli consenta di recuperare, mettendo in vendita la sua casa, il capitale ancora dovùto.

La situazione, che con una terminologia recente de-finiremmo di "sovraindebitamento", non

è

destinata a un lieto fine.

~

ragionevole pensare, infatti, che la banca, dopo aver atteso un tempo congruo per valu-tare se le difficoltà possano essere superate, proceda alla espropriazione forzata dell'immobile,

soddisfacen-* Professore ordinario di Diritto commerciale nell'Università de-gli Studi di Firenze.

** Ringrazio Paolo Cappellini, Maurizio Fioravanti, Giuseppe Morbidelli e Irene Stolzi per i moltissimi spunti che mi hanno for-nito nel corso di lunghe discussioni, nonché Jacopo Donati, Leo-nardo Giani e Andrea Zorzi per i loro commenti sul testo. Marino Zorzi, infine, mi ha grandemente coadiuvato nella ricerca sulla le-gislazione veneziana. A nessuno di loro sono imputabili i risultati di questo lavoro e i suoi inevitabili errori e carenze.

(5)

Lorenzo Stanghellini

dosi sul ricavato.

Non solo, se liquidato tutto il patrimonio del debi-tore residuasse un debito, la banca rimarrebbe credi-trice, potendosi soddisfare anche sui suoi redditi fu-turi. In questo senso è

il

rigoroso disposto dell'art.

2740 c.c., secondo cui il debitore risponde dell'adempi-mento delle proprie obbligazioni "con tutti i suoi beni presenti e futuri". Questo, almeno, è stato quanto il no-stro ordinamento giuridico ha previsto per secoli.

Ipotizziamo invece che ad essere sovraindebitato sia un tipico imprenditore italiano. ~a alcune decine di di-pendenti, un prodotto di nicchia che esporta, ordini ri-cevuti, competenze tecniche. Errori gestionali compiuti in passato e ambizioni di espansione smentite dagli ac-cadimenti hanno tuttavia generato un indebita mento che ormai non può più essere ripagato. In sostanza, l'impresa produce ricchezza, ma non abbastanza da soddisfare tutti i creditori, non solo oggi, ma anche in prospettiva futura.

I fornitori sarebbero disposti a proseguire le forni-ture, ma se non vengono pagati per il credito che hanno ormai accumulato non intendono farlo. Un cre-ditore (ipotizziamo una società che ha concesso un bene in locazione finanziaria) si accinge a riprendere il possesso di un macchinario strategico, senza il quale la produzione cesserà. La sua prospettiva è egoistica, ma perfettamente razionale: non gli importa della soddi-sfazione di tutti i creditori, ma solo della propria. I cre-ditori, nel loro complesso, desidererebbero che il pa-trimonio di ricchezza e di competenze rappresentato dall'imprenditore non andasse perduto, ma perché ciò accada occorre che !'impresa venga finanziata al fine di

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE FALLIMENTARE DEL 1942

poter riprendere l'attività.

Cosa può fare l'imprenditore? Potrebbe trovare qualcuno che lo finanzia? I fornitori proseguirebbero i rapporti? Potrebbe egli fermare l'aggressione del cre-ditore che gli porta via il macchinario? Ai creditori con-viene attivare l'espropriazione forzata o concon-viene cer-care un accordo per la gestione concordata della crisi? Le risposte a tali fondamentali domande si trovano per la massima parte, sorprendentemente, in un testo normativo di oltre settant'anni fa: il r.d. 16 marzo 1942,

n. 267, conosciuto come "legge fallimentare". Sorpren-dentemente, perché la risposta potrebbe non apparire soddisfacente, soprattutto agli occhi di un imprendi-tore straniero, in quanto le regole sulla crisi d'impresa sono considerate importantissime per gli investitori: esse sono uno degli indicatori dell'efficienza del si-stema economico e della sua attrattività per coloro che operano sul mercato (imprenditori, finanziatori, fondi di investimento, ecc.).

L'iniziativa economica privata

è,

lo sappiamo, il prin-cipale motore dei sistemi di mercato, dei quali l'Italia fa parte per scelta della Costituzione del 1948 prima, e per l'adesione alla costruzione europea dopo. Essa

è

dunque in linea di principio favorita dal sistema, che deve creare - nel rispetto di altri valori ugualmente im-portanti - un ambiente favorevole al suo sviluppo. Nel calcolo che un potenziale imprenditore esegue nel mo-mento in cui decide se iniziare o sviluppare un'impresa vi sono fattori naturali, sociali e giuridici. !=ra questi ul-timi spiccano le regole in materia di inizio dell'attività, di rapporti di lavoro, di rispetto dei contratti, di credito e, conseguentemente, di insolvenza, che scatta quando

(6)

Lorenzo Stanghellini

il credito ottenuto non viene rimborsato.

Con riferimento a quest'ultimo punto, gli interessi in gioco sono particolarmente complicati e, spesso, con-fliggenti. L'imprenditore, infatti, desidera regole che, in caso di insuccesso e di insolvenza, non lo penalizzino, e gli consentano invece sia il raggiungimento di un ac-cordo con i creditori, sia un'uscita ordinata dal mer-cato, senza eccessive conseguenze sul piano perso-nale. I finanziatori e tutti coloro che fanno credito all'imprenditore (anche altri imprenditori, dunque, quali i fornitori), invece, desiderano regole che consen-tano loro di ottenere alla scadenza quanto a loro spet-tante, senza indugi. Regole troppo dure per l'imprendi-tore possono scoraggiare la produzione di ricchezza, regole troppo morbide, all'opposto, possono scorag-giare il credito, senza il quale in un'economia moderna nessuna ricchezza viene prodotta.

Le regole in materia di crisi dell'impresa devono compiere questa difficilissima sintesi di opposti inte-ressi. La difficoltà è accresciuta dal fatto che questi in-teressi sono sensibili al contesto, e mutano rapida-mente con questo: gli incentivi sono diversi per la pic-cola impresa a conduzione familiare e la grande società a conduzione manageriale e dunque mutano con il mu-tare del tessuto imprenditoriale; le caratteristiche dei finanziatori cambiano nel tempo e nello spazio: banche vicine all'impresa nel passato dell'Europa, finanziatori distanti nel passato degli Stati Unitil, mentre il

pre-l M.J. ROE, La public company e i suoi nemici. Determinanti

po-litiche di governo d'impresa, Milano, Il Sole 24 Ore, 2004 (tit. or.:

LA GENESI E LA LOGICA DaLA LEGGE ~ALLIMENTARE DEL 1942

sente vede linee meno nette e vede dovunque le ban-che soffrire, e con esse le imprese. Si usa dire ban-che la normativa sull'insolvenza

è

un cantiere sempre aperto, e la cosa

è

confermata anche da quanto diremo alla fine del nostro discorso.

Come può dunque una legge scritta nel 1942 rego-lare efficientemente un settore così delicato dell'eco-nomia? Non si tratta di una zavorra, l'ennesima, per la competitività dell'Italia? Come si giustifica una soprav-vivenza così lunga di quel pezzo di legislazione? E, sotto la superficie, quanto davvero sopravvive della lo-gica della legge fallimentare del 1942?

La risposta

è

complessa, e richiede che ci immer-giamo nello spirito degli anni '30, che la produssero; per comprenderlo appieno occorre poi che facciamo un passo ancora più indietro. Prima di concludere, tor-neremo poi, nell'ultimo paragrafo, con un'ideale chiu-sura del cerchio, al primo debitore: il consumatore so-vraindebitato.

2.

"Si fallitus, ergo fraudator"

Certamente sappiamo che cosa sarebbe accaduto nel Medioevo ai mercanti, antenati del nostro impren-ditore, in una delle tante città italiane in cui il commer-cio fioriva.

In tali città la classe dei mercanti aveva una

posi-Political Determinants of Corporate Governance, Oxford, Oxford University Press, 2003); J. ARMOUR-B.R. CI-IEI=I=INS-D.A. SKEEL, Cor-porate Ownership Structure and the [volution of Bankruptcy Law: Lessons from the United Kingdom, in Vanderbilt Law Peview, 2002 (55),1699.

(7)

Lorenzo Stanghellini

zio ne di potere, in alcuni casi anche rilevante, e poneva per sé regole ferree che dovevano essere rispettate.

~sse si applicavano, a !=irenze, a tutti i mercanti, cam-biatori e banchieri

(campsores),

lanaiuoli, spezia li, ecc., i quali "sono soliti ricevere denaro o merci sulla base di scritture contabili" dotate di fede pubblica. A Siena, secondo il Constituto del Comune del 1262, chi eserci-tava attività mercantile doveva giurare fedeltà ai capi dell'arte, assoggettandosi alle norme corporative, e la violazione di tali norme era sanzionata da un magi-strato comunale specificamente addetto a verificarne l'osservanza2

Il rigore del rispetto delle regole si manifestava natu-ralmente anche nel caso di insolvenza del mercante. Le regole in materia erano poche, non organiche e ovvia-mente diverse da città a città3 • Chiaro ne era però il tratto caratterizzante, fortemente punitivo per il debi-tore, che non ammetteva giustificazioni di sorta sulle ragioni che avevano causato l'insolvenza, e sintetizza-bile nel noto aforisma di Baldo degli Ubaldi "si fallitus, ergo fraudator"4: all'insolvenza seguivano conseguenze

2 C. PECORELLA-U. GUALAZZINI, Voce Fallimento (storia), in fnc.

dir., XVI, Milano, Giuffrè, 1967, 220 ss., ivi 223.

3 Per un'ampia analisi delle normative dell'epoca si veda il noto e approfondito lavoro di U. SANTARELLI, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell'età intermedia, Padova, Cedam, 1964.

4 BALDO DEGLI UBALDI, Consi/ia, val. V, n. 382 (la citazione com-pieta dell' edizione consultata è Baldi Ubaldi Perusini lurisconsulti Omnium Concessu Doctissimi Pariter & Acutissimi, Consiliorum sive responsorum, Venezia, 1574). In realtà il Consilium si dimostra

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE FALLIMENTARE DEL 1942

personali e patrimoniali significative e gravi.

Anche se vi erano diverse gradazioni in ragione del comportamento più o meno riprovevole del fallito, in generale, la punizione prevista per chi si rendeva insol-vente era durissima, in termini di infamia e persino sul piano personale. In taluni casi era prevista la reclu-sione, la tortura e persino la morte. "L'originaria seve-rità, che non escludeva talvolta neppure i familiari, tro-vava in fondo origine nella concezione familiare dell'at-tività mercantile, nel tramandarsi di padre in figlio la stessa attività, sicché il fallito oltre al recar danno ai suoi creditori appariva colui che spezzava una linea tra-dizionale, che faceva venir meno una tradizione sulla quale, almeno in parte, aveva riposato il credito"5.

Data la durezza della punizione, non era raro che l'in-solvente fuggisse, con la conseguenza che la fuga del debitore

(fugitivus)

divenne non solo elemento indica-tore, ma sintomo di per sé del suo dissesto.

Solo con il tempo tali regole assunsero le caratteri-stiche che oggi tendiamo ad associare al fallimento: l'accertamento pubblico dello stato di insolvenza (si-tuazione di incapacità di adempiere generalizzata, che

molto più problematico di quanto parrebbe emergere dalla frase nel testo, frequentemente citata: il fallito si presume un soggetto che perpetra una frode, e la presunzione diviene assoluta in caso di fuga o irregolare tenuta delle scritture contabili. In questo senso,

r:.

ANTOLISEI, Manuale di diritto penale: Leggi complemen-tari. /I - I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell'urbanistica, 12a ed. a cura di

c.r:.

Grosso, Milano, Giuffrè, 2008, 29, che dà conto di opinioni meno nette di quella di Baldo degli Ubaldi.

5 C. PECORELLA-U. GUALAZZINI, Voce Fallimento (storia), cit.,

(8)

Lorenzo Stanghellini

va oltre il singolo inadempimento nei confronti di uno specifico creditore), l'apprensione dell'intero patrimo-nio e la sua liquidazione forzata, la distribuzione del cavato fra i creditori, in proporzione fra loro ma nel ri-spetto dei diritti di prelazione6

3.

Venezia e

il

rischio d'impresa

f=orse la situazione sarebbe stata diversa a Venezia. In quella città il commercio fioriva e tutti, anche i nobili, vi erano in varia misura coinvolti e ne dipendevano. Il denaro, da impiegare in attività che ne assorbivano molto, in vista di una remunerazione alta ma forte-mente incerta, era scarso e costoso.

In quest'ambiente già alla fine del Trecento apparve ufficialmente una considerazione di pietà e un dovere di soccorso per i falliti: il fallimento poteva infatti es-sere non solo la conseguenza di un comportamento fraudolento, ma

il

frutto della sfortuna che poteva ca-pitare a tutti? In più, dato l'alto costo del denaro po-teva essere conveniente anche per i creditori non umi-liare il debitore, ma avvalersi della sua collaborazione per recuperare di più e', soprattutto, prima, rinunziando

6 Questi tratti sono distintamente ravvisabili già nella legisla-zione veronese del 1228, prima a presentarli: U. SANTARELLI, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell'età intermedia, cit., 43 ss. Segnalano per relativa completezza il regolamento det-tato nel 1341 dai Signori di Milano C. PECORELLA-U. GUALAZZINI, Voce Fallimento (storia), cit., 222.

7 U. SANT ARELLI, Mercanti e società tra mercanti, y ed., T orino, Giappichelli, 1998, 104 ss.

LA G!=:N!=:SI !=: LA LOGICA DRLA L!=:GG!=: f'ALLlM!=:NTAR!=: DR 1942

ad una soddisfazione integrale ma del tutto teorica8

In sostanza, se la punizione minacciava il debitore con il bastone, la prospettiva di una chiusura non disa-strosa lo spingeva con la carota, non scoraggiandolo ad assumere giusti rischi e inducendolo a non fuggire quando la crisi stava per esplodere. Il fallimento dive-niva così un evento spiacevole, ma non un reato in sé, e

il

fallito poteva provare che non era frutto di reati9 •

8 Su quest'ultimo punto, C. PECORELLA-U. GUALAZZINI, Voce

Fal-limento (storia), cit., 223-224. G.1. CASSANDRO, Le rappresaglie e il fallimento a Venezia nei secoli XIII-XVI, Torino, Lattes, 1938, 114,

riferisce che nel Quattrocento la procedura divenne "assai bene-vola verso i falliti": "Così solo nel caso del fallito con dolo, caso che fu poi, per l'abilità dei debitori insolventi, per la longanimità degli officiali competenti, per la difficoltà di raggiungere la prova della frode e per la spinta irresistibile della pratica, assai raro, era necessario passare alla vendita dei beni". La benevolenza dei ma-gistrati era dimostrata dalla ripetizione delle disposizioni che cer-cavano di disciplinare la materia in senso più rigoroso, apparente-mente senza successo. In particolare i termini dell'affida, o fida (in sostanza, l'ordine dei Sopra consoli che apriva la procedura), erano in pratica molto elastici (117), e la fida veniva concessa "con molta larghezza". Lo scopo cui si tendeva era l'accordo tra debi-tore e creditori, entro il periodo dell'affida. Sull'affida, sul ruolo dei creditori e sulle conseguenze per il fallito che non rispettava i termini si veda inoltre In Materia de i Falliti, decisione del Gran Consiglio 13 marzo 1611, in Novissimum statutorum ac Veneta-rum legum volumen, duabus in partibus divisum, Venezia, 1729, [x Typographia Ducale Pinelliana (disponibile su Google Books),

278.

9 Marco f=erro, nel suo "Dizionario del diritto comune e ve-neto", uscito nel 1778-81 a Venezia e ristampato nel 1845, dice (M. f=ERRO, Dizionario del diritto comune e veneto, Il ed., VoI. I,

(9)

An-Lorenzo Stanghellini

La nuova consapevolezza del rischio come elemento inevitabile e non solo patologico dell'attività mercan-tile emerge plastica mente nei dialoghi del Mercante di Venezia di William Shakespeare, opera scritta alla fine del Cinquecento. Antonio, nel prestare la folle garanzia per l'amico Bassanio,

è

animato dal sano ottimismo dell'imprenditore:

drea Santini e i=iglio, 1845, 693-94; il testo è disponibile anche su Google Books) riferisce che c'erano "tre sorta di falliti": quelli fal-liti per necessità (disgrazia, come incendio o naufragio, ma anche imperizia senza mala fede): quelli falliti per malizia, contro cui gli Avogadori di Comun procedono "criminalmente"; quelli falliti "per necessità insieme e per malizia".

Questi ultimi venivano più precisamente definiti come "quelli a danno dei quali congiurò la fortuna unitamente alla loro poca at-tenzione nei proprii affari e forse anche ebbe molta parte la loro colpa per aver essi ecceduto nel lusso e nelle spese", ed essi veni-vano trattati in pratica come i primi, segno che la colpa del mer-cante nel cagionare l'insolvenza veniva sostanzialmente perdo-nata. "Alle nostre leggi [è] ignoto quel rigore inumano delle leggi barbare, che abbandonavano interamente il debitore in balia dei creditori".

La materia dell'insolvenza era affidata ai tre Sopraconsoli, ma-gistratura già esistente nel Duecento, eletta dal Maggior Consi-glio. "L'istituzione del Magistrato dei sopra-consoli ebbe appunto la sua origine per sollievo di quelli, che per sinistri eventi fossero decaduti dalle proprie fortune. Chi è per fallire si assoggetta a questo Magistrato, e dipende dallo stesso intieramente ( ... ). ~gli

porta in seno del medesimo Magistrato tutte le sue carte, libri, crediti, debiti, acciocché possa il Magistrato stesso qual padre proteggerlo, difenderlo dalle invasioni dei creditori, concedendo-gli l'affida o salvocondotto, con cui ottiene un certo periodo di tempo per accordarsi coi suoi creditori" (M. i=ERRO, op. loc. cit.). Così tra l'altro il fallito evitava il carcere.

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE i=ALLIMENTARE DEL 1942

Via, caro amico,

non

aver

paura, quella penale non

la pagherò: entro due

mesi - e

dunque un

mese

prima

che scada questa

mia

obbligazione -

io

conto

d'incas-sare

degli introiti pari

a

tre volte

il

triplo della somma.

Più lucidamente Shylock, al momento in cui accetta tale garanzia, sa di aver comunque fatto un affare: se verrà ripagato da Bassanio, bene, altrimenti otterrà la morte di Antonio, che gli fa una concorrenza spietata e, da Shylock, giudicata sleale. ~ in fondo

è

questo che spera, quando, sapendo che il rimborso del debito di-pende dall'arrivo a destinazione di alcune navi che An-tonio ha in viaggio, dice:

Oh no, no. No. Quando dico che

è

buono,

intende-temi, voglio dire che

è

solido.

f

tuttavia

i

suoi beni sono

ipotetici: possiede una

ragusea

in rotta per Tripoli,

un'altra per le Indie; vengo a sapere, poi, a Rialto, che

ne ha una terza verso

il

Messico e una quarta diretta

verso l'Inghilterra.

f

altri investimenti distribuiti

all'estero. Ma che cosa sono le navi

se

non tavole,

e i

marinai

se

non

uomini?

f

ci

sono ratti di terra

e

ratti di

d'acqua, ladri d'acqua e ladri di terra - intendo

i

pirati

-e

il pericolo di mareggiate, venti

e rocce ... lO •

La sfortuna era dunque sempre in agguato:

hodie

mihi, cras tibi.

f=orse per questo, i nobili caduti in rovina non solo restavano nel Maggior Consiglio ma, a quanto

10 W. SHAKESPEARE, Il mercante di Venezia, atto primo scena terza. La seconda citazione è tratta dall'edizione a cura di C. Lom-bardi, Torino, ~inaudi, 2014, mentre la prima dalla versione dispo-nibile su www.liberliber.it/mediateca/libri/s/shakespeare/iCmer-cante_de venezia/html/testo.htm.

(10)

Lorenzo Stanghellini

pare, di regola reclamavano e ottenevano impieghi che in qualche modo potessero permetter loro una vita di-gnitosa.

~

in questo quadro di relativa clemenza per il debitore insolvente che vennero introdotte garanzie procedimentali a suo favore, e venne consolidata la di-stinzione fra chi fallisce per frode e chi a causa di sfor-tuna o errori, anche quando questi errori erano ben ri-conoscibilil l

.

Non è certo possibile instaurare un automatico le-game fra il successo di un'economia, quale quella vene-ziana, e un atteggiamento di maggiore indulgenza verso l'insolvenza.

~

tuttavia ragionevole ipotizzare che la dif-fusione dell'imprenditorialità, la percezione del valore dell'assunzione del rischio come necessario ingre-diente di un'economia vitale e la consapevolezza dell'ineludibilità del rischio d'insolvenza possano aver contribuito ad un atteggiamento della legislazione

ve-11 Questo atteggiamento durò nel tempo: le vicende umane, le astuzie e la sostanziale benevolenza che circondavano il falli-mento del mercante ai primi del Settecento sono ben descritte nella commedia "La bancarotta" di Carlo Goldoni. Si veda G. CA-BRAS, Il diritto fallimentare nel teatro di Carlo Goldoni, in "II diritto commerciale d'oggi", disponibile su www.dircomm.it.VI.1 gennaio-giugno 2007, secondo cui "il fallimento del mercante offre a Gol-doni l'opportunità di descrivere i meccanismi dell'economia vene-ziana, con al centro il commercio ed i rapporti del mercante con i clienti ed i creditori, rapporti basati sulla prudenza nella gestione degli affari, sul credito nelle transazioni commerciali e sulla repu-tazione, che si acquisisce nella piazza in cui si opera. La banca-rotta rappresenta un momento di rottura, ma anche di rinnova-mento nella gestione dell'attività commerciale".

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE ~ALLIMENTARE DEL 1942

neziana significativamente diverso da quello delle legi-slazioni di altre città, e rispetto a queste più moderno.

4.

l'Oraonnance

sur le commerce dei

1613.

la

com-parsa dell'esdebilazione nell'Inghilterra del

1105

La legislazione delle città italiane

è

universalmente considerata la base delle normative moderne in mate-ria di fallimento12

• Diffusasi in Europa, con il contributo determinante dei mercanti italiani13 , essa entrò nella

Ordonnance de

Commerce del 167314, e in particolare nel Titolo XI,

Des faillites et banqueroutes,

composto da soli tredici articoli.

La lettura di tale testo, che costituisce l'antecedente diretto della nostra legislazione,

è

interessantissima. Nei primi nove articoli, infatti, si trovano scolpiti quasi tutti i caratteri del diritto fallimentare moderno:

l'ese-12 Il cui titolo esatto è: fdit du roi servant de règlement pour le commerce des négociants et marchands tant en gros qu'en detail.

131=. I=ERRARA, Il fallimento, 3a ed., Milano, Giuffrè, 1974, 58.

14 Si tratta di vicenda che trascende il diritto fallimentare e ri-guarda l'intero diritto commerciale: "AI suo perdurante carattere di diritto di classe fa così riscontro il progressivo espandersi del ius mercatorum, come diritto tendenzialmente uniforme, in am-bito ultra-comunale e, infine, europeo (. .. ) ~ si intende che il diritto destinato ad espandersi (e a prevalere presso i magistrati prepo-sti alle fiere) è quello formatosi, originariamente, nelle città dalle quali muove il capitale commerciale capace di dominare i mercati, di imporre la propria supremazia economica e, quindi, il proprio diritto. Il diritto commerciale del Medioevo fu, per tutta l'~uropa, il diritto commerciale italiano, quello formato a I=irenze, a Genova, a Milano, a Venezia, ossia nelle città che erano alla testa del com-mercio europeo": 1=. GALGANO, Lex mercatoria, Bologna, Il Mulino,

(11)

Lorenzo Stanghellini

cuzione sulla totalità dei beni del debitore nell'inte-resse di tutti i creditori, con formazione di un patrimo-nio separato, l'azione revocatoria, la distinzione fra cre-ditori privilegiati e ipotecari, da un lato, e gli altri (chiro-grafari).

~merge qui, importante, la distinzione fra fallito e bancarottiere. " secondo è colui che distrae i suoi beni, simula crediti inesistenti o ne esagera l'importo, non presenta le scritture contabili.

Scelta del tutto contingente

nell'Ordonnance,

che conviene tenere bene a mente alla luce di quello che diremo, è invece quella di dare potere assoluto sul pa-trimonio del fallito all'assemblea dei creditori: ciò che essa decide è vincolante per tutti, e il giudice omologa le decisioni, superando il dissenso della minoranza15 •

In Inghilterra, a poca distanza di tempo e di spazio dalla !=rancia

dell'Ordonnance,

accadeva qualcosa di straordinario. Nel 1705, nel quadro di una normativa che inaspriva le pene per i falliti colpevoli (lo

Statute of

Anne),

faceva per la prima volta la sua comparsa un

isti-15 "ART. 5. Les résolutions prises dans l'assemblée des créan-ciers, à la pluralité des voix, pour le recouvrement des effets ou l'acquit des dettes, seront exécutées par provision, et nonobstant toutes oppositions ou appellations.

ART. 6. Les voix des créanciers prévaudront, non par le nom-bre des personnes, mais eu égard à ce qui leur sera dO, s'il monte aux trois quarts du total des dettes.

ART. 7. [n cas d'opposition et de refus de signer les délibéra-tions par les créanciers dont les créances n'excèderont pas le quart du total des dettes, voulons qu'elles soient homologuées en justice, et exécutées comme s'ils avaient tous signé".

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE f'ALLIMENTARE DEL 1942

tuto del tutto nuovo: il

discharge

o, come si usa dire con una terminologia recente ma ormai diffusissima, esdebitazione.

In forza di tale istituto, il fallito che rendeva disponi-bili tutti i suoi beni e cooperava con i "commissioners" veniva liberato da tutti i debiti che erano sorti al tempo in cui venne dichiarato il fallimento, e riceveva persino una percentuale sul ricavato dei beni che consentiva di recuperare16Ciò gli dava la possibilità di reinserirsi

nella società come soggetto degno al pari degli altri, non più costretto a fuggire fino alla morte e potenzial-mente in grado di rientrare nel tessuto economico.

Significativamente, il

discharge

venne introdotto solo per i mercanti, e rimase connaturato a sistemi

giu-16 In sostanza, "[t]he discharge was the 'carrot' offered to

in-duce debtors to cooperate in disclosing and turning over their estates; the death penalty was the 'stick"': c.J. T ABB, The I-listori-cal fvolution of the Bankruptcy Discharge, in American Bank-ruptcy Law Journal, 1991 (65),325, ivi 337. Il testo della legge è il

seguente: "And be it further [naded by the Authority aforesaid, That ali and every Person and Persons so becoming Bankrupt, as aforesaid, who shall, within the ti me Limited by this Ad, Surren-der him, her or themselves to the major part of the Commissio-ners therein named, and in ali things Conform as in and by this Ad is Direded ( ... ) shall be Discharged from ali Debts by him, her, or them due and owing at the time that he, she, or they did become Bankrupt". Questo passaggio costituisce il VII articolo della legge che va sotto il nome di Statute of Anne, il cui nome completo è "An Ad to prevent f=rauds frequently committed by Bankrupts", ed è tratto da The Statutes at Large from the Second Year of the Reign of King George the Third to the !=ifth Year of the Reign of King George the Third, voI. IX, Basket, Woodfall, Strahan, Londra,

(12)

Lorenzo Stanghellini

ridici più amichevoli per l'impresa, transitando dall'In-ghilterra agli Stati Uniti, dove nessuno mai, anche a fronte di abusi che ne sono stati fatti e che nel 2005

hanno prodotto un maggior rigore nel suo ottenimen-to17 , si sognerebbe di metterlo in discussione.

Sembra dunque esistere un filo rosso che congiunge Venezia e l'Inghilterra. ~sse furono storicamente, pur se in epoche diverse, due potenze mercantili domina-trici dei mari, e in entrambe troviamo alcune tra le più importanti innovazioni in materia fallimentare: la com-posizione concordata a Venezia e il

discharge

in Inghil-terra.

Teniamo bene a mente l'esdebitazione, introdotta in Italia solo trecento anni più tardi (nell'ambito della riforma del diritto fallimentare del 2006). Ci torneremo sopra.

5.

Dal

Code Napoléon al primo Codice italiano

(1865)

La disciplina fallimentare dell'Ordonnance transitò, con aggiornamenti e ampliamenti relativamente mode-sti, nel

Code Napoleon

del 1807, poi nella legge fran-cese sui fallimenti del 1838, quindi da

nel Codice al-bertino del 1842.

Tale disciplina divenne quindi, ancora con marginali modifiche, la prima normativa fallimentare italiana, in-clusa nel primo Codice di commercio successivo all'Unità d'Italia: il Codice di commercio del 186518

. A

17 A seguito del Bankruptcy Abuse Prevention and Consumer

Protection Act (BAPCPA), approvato il 20 aprile 2005.

18 Si noti che all'epoca dell'Unità, in Lombardia la normativa in materia di insolvenza dei commercianti era la stessa di quella

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE f'ALLIMENTARE DEL 1942

quell'epoca, la dottrina giuridica italiana sul fallimento era quasi inesistente, tanto che, fino all'Unità d'Italia, "in genere si [andava] innanzi coll'autorità degli scrit-tori francesi, di cui si traducono e si citano le opere"19. Il Codice di commercio postunitario, infatti, fu poco più che una trascrizione del Codice albertino del 1842, an-che se arricchito da alcune esperienze20

La parte fallimentare del codice, contenuta nel Libro III, si caratterizzava, in ideale continuità con quella dell'Ordonnance, per il grandissimo potere attribuito all'organo gestore della procedura, i sindaci, nominati dai creditori, e per il correlativo ridotto potere del giu-dice, al quale spettavano solo funzioni di vigilanza.

La legge facilitava, mediante la regola maggioritaria (artt. 618-620), la conclusione di un concordato fra il debitore ormai dichiarato fallito e i creditori, concor-dato che, se regolarmente adempiuto, consentiva al fallito di evitare alcune delle conseguenze civili della dichiarazione di fallimento21

• Tale concordato non

po-delle procedure esecutive che si svolgevano in concorso fra i cre-ditori: in questo senso la relazione al nuovo Codice di commercio postunitario.

19 G. BONElLl, Del fallimento, 3a ed., con note di V. Andrioli,

Mi-lano, Vallardi, 1939, I, XVII.

20 A. ASQUINI, Dal Codice di commercio del 1865 al Libro della-voro del Codice civile del 1942, in Riv. dir. comm., 1967, I, l sS., ivi 2. 21 A colui che, non condannato per bancarotta, avesse otte-nuto un concordato, era infatti consentito di riprendere la profes-sione di commerciante e di far indicare sull'albo dei falliti l'avve-nuta conclusione del concordato; questi benefici decadevano in caso di mancato integrale pagamento entro i sei mesi successivi ai termini fissati per l'ultimo pagamento delle quote spettanti ai

(13)

cre-Lorenzo Stanghellini

teva tuttavia avere ad oggetto la mera cessione dei beni ai creditori22: come recitava la relazione di accom-pagnamento, concordati siffatti erano inaccettabili "perché repugnanti ai principii direttivi del codice del

1842 e perché si temette che sotto le facilitazioni e le agevolezze di un trattato fra il fallito e i suoi creditori potessero ascondersi per avventura quel pericoli d'in-ganni e di frodi che già consigliarono al legislatore del

1842 di negare al commerciante il benefizio della ces-sione dei beni, respinto oggimai anco dal codice civile italiano"23.

Nell'ideale triangolo fra Stato, debitore e creditori, la nuova legislazione italiana dava voce a questi ultimi, lasciandoli arbitri del destino del patrimonio del fallito. Il fallito, soggetto passivo della procedura, non rice-veva particolari sconti, e il giudice restava sullo sfondo.

ditori (art. 631).

22 Il concordato non poteva cioè essere "per abbandono di

at-tivo", modalità che aveva avuto una vita travagliata in f:rancia, ve-nendo re introdotta dopo 1<;1 sua soppressione. Il codice francese, infatti, secondo la redazione del 1807, disciplinava la cessione dei beni come forma di concordato; tale forma fu però bandita dalla riforma dell'art. 541 operata del 1838; alcuni anni più tardi, tutta-via, tale articolo fu nuovamente oggetto di intervento, poiché la legge 17 luglio 1856 gli aggiunse due commi concernenti il concor-dato per abbandono totale o parziale dell'attivo. Sul punto v. N.

AUANELU, Istituzioni di diritto commerciale secondo il Codice ita-liano di commercio, I, Napoli, 1866,352, nota 2, e 368; L. BORSARI, Codice di commercio del Regno d'Italia annotato, Il, Torino-Na-poli, Società L'Unione tipografico-editrice, 1869, 869-870.

23 "Relazione del Ministro Guardasigilli fatta a Sua Maestà in

udienza del25 giugno 1865", sub Libro III.

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE f'ALLIMENTARE DEL 1942

6.

la legislazione d'ingresso nell'era fascista: il codice

del

1882

e la legge del

1903

sul concordato

preven-tivo

Alla predisposizione di un nuovo Codice di commer-cio si mise mano subito, all'indomani dell'entrata in vi-gore del primo codice, nel 1866. Già nel 1869 inizia-rono i lavori che, dopo un progetto preliminare del

1872, portarono, dopo un lungo e interessantissimo di-battito parlamentare, al codice del 188224.

A dire il vero, tale codice non apportò grandi innova-zioni nella materia del fallimento. Ai sindaci si sostituì la figura del curatore, ma molto del sistema previgente restò intatto. Il tribunale nominava, con la sentenza di fallimento, il "curatore provvisorio" (art. 691). Il nome del fallito era iscritto in un albo affisso nella sala del tri-bunale e nelle sale delle borse di commercio (art. 697)

I creditori dovevano essere convocati per nominare la loro delegazione e per "essere consultati intorno alla nomina definitiva del curatore" (art. 691 n. 4). ~ssi ave-vano

il

potere di sostituire il curatore se la proposta era sostenuta dalla maggioranza. Svolti questi adempi-menti procedurali, la procedura di fallimento proce-deva spedita verso la liquidazione del patrimonio.

Non era tuttavia chiaro quale fosse

il

regime degli accordi preventivi fra debitore e creditori: era possibile evitare il fallimento d'intesa con i creditori? ~, se sì, con

24 Si veda la raccolta completa di tutti i lavori preparatori di commissioni, delle relazioni ministeriali e delle commissioni, ordi-nata per articolo, curata da A. MARGHIERI, I motivi del nuovo Co-dice di commercio italiano, Napoli, Ricc. Marghieri !;:d., 1885-1886.

(14)

Lorenzo Stanghellini

il

consenso di tutti i creditori, o solo di una maggio-ranza degli stessi? ~ l'accordo quale oggetto doveva avere? A questo fine doveva in teoria servire !'istituto della moratoria anteriore alla dichiarazione di falli-mento, riservata al commerciante25 che, pur godendo

nella pratica di una qualche fortuna, era di configura-zione incerta e di efficacia controversa26.

A regolamentare la materia, abrogando la moratoria, provvide, come stralcio di un più ampio progetto di riforma della parte fallimentare del codice, la legge 21 maggio 1903, n. 197, sul concordato preventivo e sulla

25 Il Capo Il del Titolo VI del Libro III del nuovo codice preve-deva che il fallito, ove potesse "giustificare con valide prove che la cessazione dei pagamenti fu conseguenza di avvenimenti straordinari e impreveduti o altrimenti scusa bili", e dimostrare "con documenti o con prestazione d'idonee garantìe" che l'attivo del suo patrimonio era superiore al passivo, poteva chiedere al tribunale, nei tre giorni successivi alla pubblicazione della sen-tenza di fallimento, la sospensione dell'esecuzione della sensen-tenza medesima, cioè la sospeQsione del processo di fallimento (art.

819). L'art. 827 cod. comm. estendeva la possibilità di chiedere la moratoria anche al commerciante non ancora dichiarato fallito che si trovasse nelle stesse condizioni soggettive ed oggettive.

26 Si veda, a titolo di significativo documento sull'uso della mo-ratoria alla fine del secolo scorso, la Statistica dei fallimenti, in Di-ritto commerciale [rivista pubblicata a cavallo fra la fine del sec. XIX e l'inizio del XX], 1900, c. 179, che evidenzia come nel 1897 le moratorie anteriori furono 172 contro ben 2474 fallimenti, con una percentuale, quindi, inferiore al 7% del totale delle procedure concorsuali. Un giudizio critico sull'efficacia dell'istituto venne espresso da L. BOLAFFIO, /I concordato preventivo e la procedura dei piccoli fallimenti, in Qiv. dir. comm., 1903, I, 134 ss.

LA G~N~SI ~ LA LOGICA D~LLA L~GG~ FALLlM~NTAR~ D~L 1942

procedura dei piccoli fallimenti. Tale legge ebbe un iter

di approvazione alquanto lungo e travagliato: dopo un primo progetto ispirato da Leone Bolaffio, progetto nato nel 1894 come stralcio di una nuova, ulteriore riforma del codice di commercio, ne furono redatti altri otto, l'ultimo dei quali, nove anni dopo, divenne legge27

La legge del 1903 consentì al debitore "onesto ma sfortunato" di proporre un concordato preventivo, cioè una sistemazione della crisi che, quantunque appro-vata solo dalla maggioranza dei creditori era vincolante per tutti. Il tribunale era chiamato ad omologare il con-cordato, giudicando se il debitore fosse o meno "meri-tevole" del beneficio, potendo rifiutare l'omologazione anche dopo l'approvazione dei creditori se il debitore si rivelasse, appunto, non meritevole di evitare la di-chiarazione di fallimento.

Questa era, in sostanza la legislazione in vigore il 28 ottobre del 1922, inizio dell'era fascista, sospesa fra un fallimento quasi esclusivamente nelle mani dei credi-tori e un concordato preventivo concepito come bene-ficio per il debitore.

1.

l'ideologia fascista, l'impresa e il fallimento: un

ruolo ambiguo

~ccede i fini e le possibilità di questo lavoro una completa ricognizione dell'ideologia fascista in materia

27 Sui lavori preparatori della legge 21 maggio 1903, n. 197, si veda la dettagliatissima esposizione di G. BONELLI, Del fallimento,

(15)

Lorenzo Stanghellini

di impresa, al fine di rintracciare come questa ideologia possa aver concepito il fallimento e come possa aver prodotto quella netta svolta autoritaria che, come ve-dremo, avverrà in questa materia negli anni '30.

Come

è

noto, nell'architettura individualistica bor-ghese dell'Ottocento, lo Stato si collocava ai due estremi di un'ideale catena: da un lato, garantiva, dall'esterno, lo spazio privato come spazio di autono-mia finalizzato all'incontro delle libere determinazioni individuali, dall'altro lato esercitava il potere sanziona-torio. Se l'individuo usava scorrettamente la propria li-bertà, tenendo comportamenti difformi dallo scopo per cui essa era attribuita e rispettata, lo Stato interve-niva con le sanzioni.

Il ventennio fascista si inserì in un movimento ampio che in tutta ~uropa mise in crisi tale architettura28• Con

il

Novecento i canoni interpretativi individualistici an-darono in crisi. Il diritto entrò in una dimensione che andava "oltre lo stato e !'individuo", in cui la semplicità degli schemi che a questi due enti si riducevano era

28 Su questo rinvio alle bellissime pagine di P. GROSSI, Un profilo storico (1860-1950), Milano, Giuffrè, 2000, passim e specialm. 138

ss.: "un grandioso processo è in atto dalla fine dell'Ottocento, che

c. .. )

si sviluppa nei primi anni del Novecento e investe gli anni Venti del nostro secolo (. .. ). !;'d è un processo europeo che ha la sua più vistosa epifania nella cosiddetta democrazia collettiva di Weimar ( ... ). Di quel ventennio il fascismo fu se così si può dire -l'escrescenza più tangibile proprio perché ripugnante; ma c'è un filo che nasce prima, che percorre intatto il ventennio, che addirit-tura lo supera consegnando germi e lieviti alla nuova democrazia parlamentare del secondo dopoguerra italiano".

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE f'ALlIMENTARE DEL 1942

perduta per sempre29

• Uno dei (tanti) sintomi di ciò fu il

tentativo di superamento della centralità della pro-prietà in favore di un concetto di impresa quale comu-nità di produzione

il

cui interesse va oltre l'individuo che la gestisce, in quanto alla sua attività concorrono vari soggetti e dal suo successo moltissimi dipendono30

Una ricostruzione che valorizzasse il corporativismo fascista, la sua funzionalizzazione dell'attività econo-mica al superiore interesse della Nazione sancita dalla "Carta del lavoro" del 192731 e, quindi, il fallimento

29 P. GROSSI, op. cit., 119 ss.

30 Sulla visione di Lorenzo Mossa dell'impresa come comunità,

il quale la concepiva come "non più la proiezione di un soggetto e del suo dominio ma una comunità che veda coinvolte nel suo go-verno anche le forze del lavoro", e sul carattere di relativo isola-mento di tale visione nel panorama italiano, si veda P. GROSSI, Iti-nerarii dell'impresa, in Quaderni fiorentini, XXVIII, "Continuità e trasformazione: la scienza giuridica italiana tra fascismo e repub-blica", (1999), 999 sS., ivi 1005 ss.

31 La "Carta del Lavoro", approvata dal Gran Consiglio del

!=a-scismo il 21 aprile 1927, venne dotata di valore giuridico nel 1941

ma ebbe comunque influenza nel dibattito sulla produzione nor-mativa del periodo fascista. La sua VII dichiarazione, in partico-lare, recita:

"Lo Stato corporativo considera l'iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell'in-teresse della Nazione. - L'organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l'organizzatore dell'impresa è responsabile dell'indirizzo della produzione di fronte allo Stato. Dalla collaborazione delle forze produttive de-riva fra esse reciprocità di diritti e di doveri. Il prestatore d'opera,

(16)

Lorenzo Stanghellini

come tradimento di tale funzione, sarebbe suggestiva. Come venne efficacemente detto, la necessità di pre-venire distruttivi conflitti sociali, di dare ai rapporti economici un assetto più equo e dare risposta ordinata ai bisogni della classe operaia aveva richiesto la forma-zione di un "massiccio di norme inderogabili, di ordine pubblico, che regolano le reciproche prestazioni, e le pongono, con un minimo dell'esistenza operaia e dell'economia nazionale, al sicuro da contrasti indivi-duali.

Ogni impresa deve contare fra i suoi costi la

spesa irriducibile dei salari.

Se

non può fronteggiarla

con

i

guadagni non

è

degna di vivere; non deve

sor-gere, se

sorge, dev'essere liquidata"3

2

In realtà, la questione è molto più articolata. Non ci fu infatti una sola ideologia corporativa: il corporativi-smo restò un dibattito plurale, nel quale si udirono voci molto diverse, anche fra gli stessi giuristi di regime

tecnico, impiegato od operaio, è un collaboratore attivo dell'im-presa economica, la direzione della quale spetta al datore di la-voro che ne ha la responsabilità".

Si veda W. Ct:SARINI SFORZA, Voce Corporativismo, in fnc. dir., X, Milano, Giuffrè, 1962,664 ss.: "L'essenziale differenza tra cor-porativismo cattolico e corcor-porativismo fascista è consistita in ciò, che per il primo la solidarietà tra le classi era un dovere morale-religioso, fondato sulla fraternità degli uomini in Cristo, mentre per il corporativismo fascista significava subordinazione giuridica-mente obbligatoria degli interessi particolari a un superiore inte-resse unitario, del quale si faceva portatrice la Nazione e tutela-tore lo Stato".

32 C. VIVANTt:, La penetrazione dell'ordinamento corporativo

nel diritto privato, in Diritto del Lavoro, 1931, I, 437 ss. (corsivo ag-giunto).

LA G~N~SI E LA LOGICA DELLA LEGG~ f'ALLIMENTARE DEL 1942

quali Bottai, Panunzio, Rocco. Non

è

un caso che cor-porativismo abbia avuto un'attuazione parziale e im-perfetta, e ciò per tutto il ventenni033•

Quali potevano essere, in astratto, gli esiti dell'incon-tro fra corporativismo fascista e fallimento dell'impren-ditore? Due, alquanto distanti fra lor034:

l)

non lontano dalla logica individualistica tradizio-nale, lo Stato, che non interviene e non controlla l'im-prenditore finché egli adempie i propri debiti con rego-larità, avrebbe potuto recuperare un ruolo sanzionato-rio in caso di errori dell'imprenditore, assoggettandolo a procedure rigorose. Questo esito avrebbe costituito un aggiornamento in senso autoritario dell'individuali-smo borghese ottocentesco che, come abbiamo visto, aveva prodotto legislazioni in cui il controllo della pro-cedura di fallimento era di carattere privatistico in quanto affidato ai creditori;

2) in senso più originale, invece, stante la funzionaliz-zazione dell'impresa e le limitazioni alla libertà dell'im-prenditore che derivano dall'interesse pubblico, lo Stato avrebbe potuto essere meno spietato nei con-fronti dell'impresa in crisi, allo scopo di tutelare l'im-presa come fonte di lavoro.

Il primo esito, quello meno innovativo, fu quello che prevalse.

33 Per questa visione "plurale" del corporativismo si veda, con il

supporto di dati e ampie citazioni dirette, il bellissimo lavoro di I.

STOlZI, L'ordine corporativo, Milano, Giuffrè, 2007.

34 In questo senso M. ~IORAVANTI, La genesi e la logica della

(17)

Lorenzo Stanghellini

8.

la "tempesta perfetta": la riforma del

1930

e

l'af-fermazione del principio del governo del giudice

sulla crisi

In ogni caso, sulla "presa diretta" dei creditori nel fal-limento si addensava una "tempesta perfetta": pote-vano infatti esservi interpretazioni diverse del corpora-tivismo e del ruolo dell'impresa nel sistema economico nazionale, ma per tutte il ruolo secondario del giudice appariva intollerabile. A ciò si aggiunsero anche dati sul cattivo andamento delle gestioni fallimentari e su com-portamenti discutibili dei curatori.

Alla tutela degli interessi particolari dei creditori do-veva quindi provvedere lo Stato. Alfredo Rocco, nell'at-tesa della maturazione della riforma dell'ordinamento corporativo, che incentrava la sua visione sulla persona dell'imprenditore, ritenne urgente intervenire con due riforme parziali, ma incisive: una sulla responsabilità penale degli organi sociali, e l'altra nella materia del di-ritto fallimentare.

Questa seconda assunse le forme della legge lO lu-glio 1930, n. 995, presentata alla Camera da un giu-scommercialista insigrte, il cui ruolo, come vedremo, fu fondamentale nei successivi sviluppi del diritto com-merciale e, dunque, anche del diritto fallimentare: Al-berto Asquini.

Asquini era un personaggio di una statura altissima, sotto vari profili. Rigoroso e coltissimo, dal punto di vi-sta ideologico egli era una sorta di "guardia" del liberali-smo, per cui libertà e contratto costituiscono due capi-saldi, che lo Stato garantisce. In questo senso, come è stato efficacemente detto, Asquini, da giurista inten-zionato a tutelare l'assetto tradizionale dei poteri,

com-LA GENESI E com-LA LOGICA DELcom-LA LEGGE FALLIMENTARE DEL 1942

prendendo che non era possibile limitarsi a ignorare le novità corporative dell'ordinamento, si profuse in "uno sforzo ricostruttivo più complesso, chiamato a immu-nizzare dalla bufera corporativa i due pilastri - il con-tratto in senso stretto e la proprietà - dell'ordine giuri-dico ottocentesco" 35.

La legge n. 995/1930 partiva da una scelta politica nettissima: la procedura di fallimento doveva essere ri-condotta sotto uno stretto controllo pubblico. Da que-sta scelta, non nascoque-sta nelle pieghe dei tecnicismi ma manifestata a chiare lettere nella relazione di accom-pagnamento presentata alla Camera dei deputati dal Ministro Alfredo Rocco, che dichiarava di voler accen-tuare "sempre maggiormente" il "principio del carat-tere officioso e pubblicistico della procedura di falli-mento", discendevano conseguenze enunciate in ma-niera altrettanto netta.

La nuova legge attribuiva al curatore la qualifica di "pubblico ufficiale", dato che la procedura di fallimento

in verità, una procedura ex

officio,

che si inizia e si svolge per impulso della pubblica autorità". Da questa qualità essa faceva discendere l'esclusiva competenza giudiziaria sulla nomina e sulla revoca del curatore36

35 I. STOLZI, L'ordine corporativo, cit., 243.

36 ~Ioquente è il testo integrale del passaggio della relazione

del ministro Rocco, i cui brani sono citati nel testo: "So bene che taluni credono preferibile la nomina affidata ai creditori, come maggiori interessati. Ma il carattere pubblicistico della procedura di fallimento, che io credo debba essere accentuato sempre mag-giormente, conduce a respingere nettamente questa soluzione e, per logica conseguenza, non credo neppure che sia da accogliere

(18)

Lorenzo Stanghellini

L'interesse dei creditori veniva in astratto ritenuto importante, e trovava una formale rappresentanza nella loro "delegazione", organo corrispondente all'at-tuale comitato dei creditori, cui si tributava un omaggio verbale sperticato, ma al quale non si dava, in realtà, al-cun potere di decisione né di reazione. Le nuove norme, si dice infatti nella relazione di accompagna-mento, "affermano nettamente che il giudice delegato ha l'amministrazione del fallimento e che

il

curatore deve seguirne le istruzioni".

Conseguenza di questa impostazione era la previ-sione di regole che limitavano i poteri di impugnativa dei creditori o comunque ne rendevano difficoltoso l'esercizio, non solo per quanto riguarda gli atti di am-ministrazione del curatore (rispetto ai quali i creditori vantano, per così dire, un interesse riflesso), ma anche per quanto riguarda la verificazione del passivo e dun-que la quantificazione e il rango del loro credito ai fini della ripartizione dell'attivo, terreno oggi saldamente consegnato alla categoria del diritto soggettivo costitu-zionalmente protetto. ç::ome spiegava la relazione

mini-quella soluzione intermedia, per cui, pure affidando di fatto la no-mina del curatore al tribunale, si vuole lasciare, sia pure ipotetica-mente, la facoltà di provvedervi ai creditori, o sotto forma di con-sultazione di questi (articolo 691, n. 4, e 717 del Codice di com-mercio vigente) ovvero esigendo per la nomina del curatore da parte dei creditori una maggioranza tale, che poi in pratica si rende difficile ottenere (articolo 719 del Codice di commercio). Assai preferibile è la recisa soluzione che il progetto adotta, in connessione logica col principio del carattere officioso e pubblici-stico della procedura di fallimento".

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE f'ALLIMENTARE DEL 1942

steriale di accompagnamento, "il presente disegno di legge non intende arrecare alcun attentato agli inte-ressi individuali dei creditori e sarebbe assurdo che fosse diversamente, perché la liquidazione fallimentare

è

fatta per i creditori. Ma rafforzando i poteri dell'auto-rità giudiziaria, riorganizzando radicalmente la curatela fallimentare e attuando una più rigorosa e celere pro-cedura, mentre da un lato elimina ogni assurda indul-genza nei confronti del debitore, dissestato, dall'altro impone ai diritti dei creditori concorrenti quella mag-giore disciplina che si rende necessaria per la tutela dell'interesse comune, che coincide con la tutela del credito pubblico. In ciò sta l'impronta fascista del dise-gno di legge".

Nemmeno

il

concordato preventivo restava immune dal vento gelido della riforma: venivano infatti resi an-cor più rigorosi i requisiti soggettivi di cui

il

commer-ciante doveva essere in possesso per accedervi37 , e ve-niva previsto che il debitore dovesse pagare quanto promesso ai creditori entro il brevissimo termine di sei mesi dall'omologazione, o fornire garanzie per

il

paga-mento degli interessi maturati dopo tale data: un obiet-tivo difficile da raggiungere per un commerciante insol-vente.

37 La possibilità di accedere al beneficio del concordato ventivo, infatti, venne ristretta a coloro che nel quinquennio pre-cedente non avessero ottenuto un altro concordato preventivo e non fossero stati dichiarati falliti (art. 23" legge lO luglio 1930, n.

995); per le società commerciali, inoltre, si richiese che esse fos-sero "legalmente costituite dall'origine o da almeno due anni" (art.

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Lorenzo Stanghellini

Il quadro era chiaro. La crisi delle imprese doveva essere affrontata con procedure che rapidissima-mente, senza intralci da parte di chicchessia (nem-meno i creditori), dovevano portare alla liquidazione del patrimonio. Il giudice aveva poteri decisori esclu-sivi, e i creditori erano sullo sfondo, destinatari passivi di un'attività di tutela dei propri interessi sulla quale però non avevano indirizzo né, sostanzialmente, con-trollo (se, come pare innegabile, il concon-trollo non è mera informazione, ma possibilità di incidere). Si può anche immaginare che, nel disegno del legislatore degli anni

'30, i giudici fossero percepiti, se non proprio come or-ganici al potere esecutivo, certo in sintonia con questo. La crisi delle grandi imprese, nel frattempo, seguiva altri canali: quelli della nazionalizzazione e quelli della liquidazione coatta, che vedeva il giudice sullo sfondo e la gestione, invece, in mano alla pubblica amministra-zione: l'esperienza della liquidazione coatta poteva "rappresentare una vittoria, sia pur parziale, di chi af-ferma, forse a ragione, che il buon giudice non

è

sem-pre un buon amministratore, perché mancano ai magi-strati - e necessariamente - le cognizioni indispensabili per dirigere e liquidare un'azienda"38.

Senza alcun seguito restavano alcuni spunti, pur pro-venienti da autorevoli giuristi, secondo cui anche in Ita-lia, per motivi economici e al fine di incentivare !'im-prenditorialità, si sarebbe dovuta introdurre l'esdebita-zione, concedendola al debitore meritevole del

benefi-38 Così V. ANDRIOLl, nelle note a G. BONELLI, Del fallimento, 3a

ed., cit., 705.

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE FALLIMENTARE DEL 1942

ci039•

In sintesi, negli anni '30 il diritto commerciale, sia pure in modo confuso, aveva visto affermarsi una di-mensione non solo proprietaria dell'impresa. La riforma attuata con la legge n. 995/1930, che pure po-teva essere la conseguenza dell'acquisita consapevo-lezza di un rilevante interesse pubblico connesso all'at-tività d'impresa, colse invece dell'impresa solo l'aspetto proprietario. Essa, lungi dall'essere una mera anticipazione e sperimentazione di una riforma della materia del fallimento in corso di più compiuta elabo-razione, corrispondeva "ad un saldo concetto fonda-mentale, ad un orientamento nuovo, o efficacemente rinnovato, il quale rimane e non può non rimanere fermo, di fronte alle possibili successive riforme"4o.

39 ~. CARNELUTTI, fspropriazione del debitore, in Riv. dir. comm., 1931, I, 676, affermò: "vi è un interesse superiore che va oltre a quello dei creditori e che deve essere tutelato ed è l'interesse alla produzione e all'economia o, più in generale, l'interesse pubblico", per assicurare il quale è necessario che "di fronte all'insolvenza del debitore meritevole si pervenga alla sua esdebitazione mediante il sacrificio almeno parziale dei creditori". In questo senso si era mosso il progetto di legge fallimentare Orlando del 1909, il quale prevedeva la possibilità per il Tribunale di concedere al debitore la liberazione dalle obbligazioni non soddisfatte, "tenendo conto della qualità ed importanza di esse, delle cause del dissesto e di ogni al-tra circostanza".

40 U. NAVARRINI, Le nuove disposizioni in materia fallimentare

illu-strate coi lavori preparatori colla dottrina, Roma, Il ~oro Italiano,

1931,2-3, che proseguiva: "Questo nuovo orientamento, efficace-mente affermato dalla nuova legge, non può più mutarsi o venir meno, perché troppo collegato a quelle che sono non le esigenze ed i bisogni momentanei di un determinato periodo di

(20)

assesta-Lorenzo Stanghellini

Così accadde allorché si trattò di procedere alla grandiosa opera di codificazione cui

il

regime fascista attendeva da tem po.

9.

la codificazione e la nascita della legge

fallimen-tare del

1942

Nel 1939 riprese forza la spinta verso la codifica-zione. La parte relativa al codice di commercio venne affidata a una commissione presieduta da Alberto Asquini. La parte fallimentare del codice di commercio passò - con minime modifiche - il vaglio di una sotto-commissione ancora presieduta da Asquini. La norma-tiva in gestazione portava nel codice la normanorma-tiva sul concordato preventivo prevista dalla legge del 1903,

creava una strana procedura di amministrazione con-trollata e chiudeva ulteriori spazi ai creditori.

Si giunse così al progetto del Codice di Commercio del 1940. ~sso, nonostante alcune voci contrarie, lasciò intatta la soggezione al fallimento dei soli "commer-cianti" (nel progetto si chiamavano infatti ancora così)41. Il progetto non dava alcuna voce alle

corpora-mento economico, ma immanente per tutto il nostro sistema giuri-dico ed economico, indirizzato alla tutela del credito pubblico".

41 La questione venne ricordata dal Presidente della sotto com-missione, Alberto Asquini, nel corso della riunione del 16 luglio

1940 (nella quale si discusse, fra l'altro, se le società con forma commerciale e oggetto non commerciale dovessero o meno fal-lire: Atti della Sottocommissione delle Assemblee legislative chia-mata a dare il proprio parere sul progetto del Codice di commer-cio, Roma, 1940, 65). Criticò vivacemente tale scelta V. ANDRIOLl, Le disposizioni del progetto ministeriale del codice di commercio sul fallimento, in Dir. fa//., 1940,3 sS., ivi 4-6.

LA GENESI E LA LOGICA DELLA LEGGE FALLIMENTARE DEL 1942

zioni, e attribuiva invece un ruolo preminente al giu-dice. Come fu efficacemente detto, tale scelta dava per "risolto in senso affermativo

il

problema della ido-neità del tribunale ad amministrare complessi organi-smi economici, sulla quale si erano espressi dubbi non lievi, di cui la conseguenza pratica era stata, prima della legge del 1930, la tendenza ad elevare sempre più il curatore a tutto scapito del giudice delegato. La legge del 1930, con l'art. 4, segnò un deciso revirement, che

è

ora corroborato e rafforzato nel progetto ministe-riale"42.

Alla fine del 1940 maturò improvvisamente, pare su impulso diretto di Mussolini43, la spinta verso

l'unifica-42 V. ANDRIOLl, op. ult. cit., 6. Andrioli raccomandava una mag-giore ingerenza dell'azione corporativa nella procedura fallimen-tare: "se alcune dichiarazioni della Carta del Lavoro ben cono-sciute non debbono restare lettera morta nel periodo critico delle aziende commerciali, conviene che almeno su due momenti del concorso (apertura, omologazione del concordato), gli organi cor-porativi intervengano per rendere un parere obbligatorio, se non vincolante, su la conformità della apertura del fallimento e, più an-cora, del concordato all'interesse superiore della produzione", come accade per le banche con il parere dell'Ispettorato (ora Banca d'Italia), felice esempio di "collaborazione fra tribunale ed autorità extragiudiziarie".

43 L'iniziativa diretta di Mussolini pare emergere indiretta-mente dal resoconto di un incontro che Asquini ebbe con lui, fatto da Giorgio Oppo (G. OPPo, I cinquant'anni del Codice Civile, Milano, Giuffrè, 1993, I, 268). Le ragioni dell'unificazione riman-gono tuttavia ancor oggi un mistero, se nel 1944, quando i fatti erano ancora recenti, f=ranceschelli scriveva: "Come ( ... ) si sia ino-pinatamente buttato a mare il lavoro fatto, per rinverdire quell'idea di codice unico che il suo stesso più autorevole difen-sore aveva, alla prova dei fatti, dimostrato di abbandonare, è, per

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