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Studio spettroscopico "in vitro" del processo di aggregazione dei peptidi beta-amiloidi implicati nel morbo di Alzheimer

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Tesi di laurea in Scienze Biologiche

Studio spettroscopico in vitro del processo di aggregazione

dei peptidi

β-amiloidi implicati nel morbo di Alzheimer

Candidato Relatore

Dario Buselli Dott.ssa Antonella Sgarbossa

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Ai miei genitori

Come i giorni dopo i giorni

come un’ombra io ti seguirò

Come un grido nel silenzio

sarò grande in un attimo

(Fuoricampo)

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INDICE

Riassunto ... 1 Abstract ... 3 INTRODUZIONE ... 5 LA PROBLEMATICA BIOLOGICA 1. La neurodegenerazione ... 7 2. Il morbo di Alzheimer ... 10 3. I peptidi β-amiloidi ... 12 4. Le fibrille amiloidi ... 13

4.1 Una tappa fondamentale: il misfolding ... 16

4.2 La cinetica di aggregazione e l’organizzazione strutturale ... 17

5. Gli chaperon molecolari ... 22

5.1 Chaperon molecolari e neurodegenerazione ... 23

5.2 Le “small heat shock proteins” (sHSP) e l’α-cristallina ... 26

6. Gli inibitori ... 28

6.1 Struttura e proprietà dell’ipericina ... 32

BASI CONCETTUALI DI SPETTROSCOPIA 1. Introduzione ... 35 2. Spettroscopia di assorbimento ... 37 3. Spettroscopia di fluorescenza ... 38 4. Dicroismo circolare ... 40 MATERIALI E METODI ... 41 1. Materiali ... 42

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3. Strumentazione ... 44

3.1 Misure di assorbimento ... 44

3.2 Misure di fluorescenza ... 46

3.3 Misure di dicroismo circolare ... 48

RISULTATI E DISCUSSIONE ... 50

1. Cinetica di aggregazione del peptide β-amiloide (1-40) ... 51

2. Effetto dell’α-cristallina ... 54

3. L’ipericina come sonda fluorescente ... 58

4. Effetto dell’ipericina ... 63

CONCLUSIONI ... 67

RINGRAZIAMENTI ... 69

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RIASSUNTO

Molte malattie neurodegenerative come il Morbo di Alzheimer, il Morbo di Parkinson, la Corea di Huntington e l’Encefalopatia Spongiforme sono caratterizzate dalla presenza nel tessuto cerebrale di particolari aggregati proteici filamentosi detti amiloidi. Anche se i polipeptidi costituenti sono diversi a secondo della patologia, i loro aggregati condividono una serie di caratteristiche chimico-fisiche: morfologia fibrillare, alta percentuale di struttura secondaria β-sheet, resistenza alle proteasi, insolubilità nei comuni solventi. La comprensione del processo di polimerizzazione di questi polipeptidi/proteine è cruciale per chiarire l’origine di queste patologie e, auspicabilmente, sviluppare approcci e strategie terapeutiche e preventive. Recentemente, è stata messa in discussione l’idea che la tossicità degli aggregati risieda esclusivamente nelle fibrille insolubili. E’stato, anzi, suggerito che queste rappresentino una via di fuga per limitare l’effetto ben più tossico degli intermedi oligomerici solubili pre-fibrillari. In questo lavoro di tesi, con il quale si sta aprendo una nuova linea di ricerca nell’Istituto di Biofisica, è stata focalizzata l’attenzione sul peptide β-amiloide, responsabile del Morbo di Alzheimer. Per tentare di contribuire a chiarire il possibile ruolo degli stati molecolari pre-fibrillari e di capire se e come il processo di fibrillogenesi possa essere perturbato, è stato condotto uno studio spettroscopico in vitro, monitorando la cinetica di aggregazione dei peptidi β-amiloidi, anche in presenza di molecole potenzialmente in grado di influenzarla. Per questo scopo è stata utilizzata l’α-cristallina, una proteina endogena con attività di chaperon molecolare, presente nelle placche senili macroscopiche formate dagli aggregati di β-amiloide. Come tutte le heat-shock proteins, anche l’α-cristallina riconosce e lega specificatamente gli stadi primari di denaturazione di molte proteine, ostacolando e arrestando la loro aggregazione aspecifica. Un ulteriore approccio di potenziale interesse terapeutico consiste nella ricerca di composti

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aromatici in grado di interagire con i residui aromatici di fenilalanina e tirosina del peptide β-amiloide, destabilizzando le ordinate strutture fibrillari. L’ipericina è una molecola aromatica policiclica, estratta dall’Hypericum perforatum con proprietà di blando antidepressivo, potenzialmente capace di interferire con il processo di fibrillogenesi ed aggregazione, intercalandosi attraverso interazioni di stacking tra i residui aromatici dei peptidi β-amiloidi. In entrambi i casi sono stati valutati gli effetti sulle diverse fasi della cinetica di aggregazione, rivolgendo un’attenzione particolare al procedimento di preparazione dei campioni a causa dei ben noti problemi di riproducibilità incontrati in esperimenti di questo tipo. Inoltre, grazie alle peculiari caratteristiche spettroscopiche dell’ipericina, è stato effettuato uno studio sulla efficienza di tale molecola come sonda fluorescente per il monitoraggio delle diverse fasi della cinetica di aggregazione del peptide β−amiloide.

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ABSTRACT

Many neurodegenerative disorders including Alzheimer’s, Parkinson’s, Huntington’s and spongiform encephalopathy diseases are characterized by the presence of particular filamentous proteinaceous aggregates termed amyloids. Although the constituent polypeptides are different depending on the specific pathology, their aggregates share physicochemical features: fibrillar morphology, predominantly β-sheet secondary structure, protease-resistance, insolubility in common solvents. Of crucial importance is to understand the molecular mechanisms of polymerization of these peptides/proteins in order to clarify the origin of the related pathologies and, hopefully, to develop therapeutic or preventive approaches and strategies. The idea that neurotoxicity of aggregates is due exclusively to the insoluble fibrils is recently under discussion. Indeed they may represent an escape route to limit the much more toxic effect of soluble pre-fibrillar oligomeric intermediates. In this thesis, which opens a new research line at the Biophysics Institute, we have focused our attention on β-amyloid peptide involved in Alzheimer disease. In order to try to clarify the possible role of pre-fibrillar molecular states, we have carried out an “in vitro” spectroscopic study, monitoring the peptides β-amyloid aggregation kinetic, in presence of molecules that may affect it. For this purpose, we have used α-crystallin, an endogenous protein with chaperone activity, present in macroscopic senile plaques constituted by β-amyloid aggregates. Like all heat shock-proteins, α-crystallin recognizes and binds to primary denaturation stages of many proteins, hindering and stopping their aspecific aggregation. Further approach, potentially of therapeutic relevance, is to search for aromatic compounds able to interfere with fibrillogenesis and aggregation processes. These molecules, in fact, can destabilize the ordered fibrillar structures through

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the interaction with aromatic residues of β-amyloid such as phenylalanine and tyrosine. Hypericin is a polycyclic aromatic molecule, extracted from Hypericum perforatum, with mild anti-depressant properties, which is potentially able to affect fibrillogenesis and aggregation processes by stacking interaction with aromatic amino acids. The effects on different phases of aggregation kinetic are evaluated in both cases. Because of the well known problems in getting reproducible and reliable results, particular attention has been devoted to the preparation procedures of the samples. Furthermore, due to the peculiar spectroscopic properties of hypericin, a study of the efficiency of this molecule as fluorescent probe to monitor the various phases of βA peptide aggregation has been performed.

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Scopo di questa Tesi di Laurea è tentare di dare un contributo alla comprensione degli eventi molecolari che sono alla base dei processi di aggregazione di peptidi amiloidi neurotossici ed alla individuazione di possibili molecole in grado di perturbatore o inibire detti fenomeni di aggregazione. Per questo motivo sono stati valutati gli effetti dell’α-cristallina e dell’ipericina sul processo di fibrillogenesi del peptide beta amiloide implicato nel morbo di Alzheimer.

L’α-cristallina è uno chaperon molecolare e, quindi, una proteina fisiologicamente deputata ad inibire l’aggregazione aspecifica di proteine e peptidi. L’ipericina è una molecola aromatica policiclica naturale, estratta dall'Hypericum perforatum, potenzialmente capace di perturbare, tramite interazioni di “stacking”, le architetture molecolari che portano alla fibrillogenesi. Le sue peculiari proprietà spettroscopiche, inoltre, la rendono particolarmente adatta per un suo utilizzo come sonda fluorescente. Quindi, ne è stata valutata anche l’efficienza come sonda fluorescente per il monitoraggio delle diverse fasi della cinetica di aggregazione di questi peptidi.

Tutto il lavoro sperimentale è stato eseguito su sistemi in vitro composti da proteine e/o molecole in soluzione, utilizzando primariamente tecniche di spettroscopia ottica.

L’introduzione è pertanto divisa in due parti: la prima è dedicata a riassumere e discutere criticamente la problematica biologica, la seconda a richiamare i concetti fondamentali delle spettroscopie di assorbimento, emissione e dicroismo circolare.

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LA PROBLEMATICA BIOLOGICA

1 La neurodegenerazione

Negli ultimi anni lo studio del “misfolding” e dell’aggregazione delle proteine sta suscitando un sempre maggior interesse non solo nel campo della chimica delle proteine, ma anche in quello della medicina molecolare. Molti disordini sistemici e neurodegenerativi, infatti, sono associati ad aberrazioni conformazionali proteiche e caratterizzati dall’accumulo di aggregati intra- ed extra-cellulari di proteine. Soprattutto le cellule post-mitotiche, come i neuroni, sono particolarmente vulnerabili agli effetti nocivi delle proteine aggregate perché queste specie potenzialmente tossiche non possono essere diluite attraverso la divisione cellulare (Muchowsky e Wacker, 2005).

Il morbo di Alzheimer, il morbo di Parkinson, la sclerosi amiotrofica laterale, le encefalopatie spongiformi e le malattie da catene estese di poliQ (es. corea di Huntington), sono tutti esempi di patologie neurodegenerative caratterizzate dall’accumulo di proteine diverse sottoforma di fibrille amiloidi (Stefani, 2004).

In generale, nel decorso di queste malattie, avviene un decisivo processo di modifica strutturale in una proteina specifica che può acquisire proprietà tossiche e/o promuovere la formazione di aggregati tossici. Le specie tossiche, sia monomeriche sia di ordine superiore, possono successivamente dare inizio a una cascata di interazioni proteina-proteina che culminano nella disfunzione neuronale (Muchowsky e Wacker, 2005).

Le proteine citoplasmatiche, nella loro forma fisiologica funzionale, hanno generalmente una conformazione che permette alle regioni idrofobiche di rimanere sepolte all’interno della struttura tridimensionale. Quando le proteine si denaturano, queste regioni

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vengono esposte all’ambiente acquoso del citosol e tendono ad interagire con le membrane cellulari, a loro volta idrofobiche, danneggiandole (Kourie e Henry, 2002).

Le attività collettive degli chaperon molecolari, il sistema ubiquitina-proteasoma e l’autofagia mediata dai lisosomi sono di solito sufficienti a prevenire l’accumulo di proteine denaturate. Tuttavia, in determinate condizioni (mutazioni, varianti genetiche, modifiche delle condizioni intracellulari, età), la capacità di questo macchinario di controllo della qualità delle proteine viene saturata e le proteine non ripiegate si accumulano, determinando disfunzioni di vario genere (fig 1) (Muchowsky et Wacker, 2005).

Fino a tempi recenti le fibrille amiloidi, che rappresentano il risultato finale del processo di aggregazione proteica, erano considerate direttamente responsabili della patologia neurodegenerativa, tuttavia, indicazioni sempre più numerose sembrano suggerire che esse siano inerti, piuttosto che patologiche. E’ stato ipotizzato per le fibrille un possibile ruolo protettivo nei confronti dei neuroni in quanto sequestrano nella loro stabile struttura e, quindi, inattivano forme proteiche più instabili e potenzialmente tossiche. Le placche amiloidi, infatti, sono state trovate anche in individui totalmente privi di sintomi clinici dell’Alzheimer (Katzman et al., 1988) e, negli individui affetti, la gravità della demenza non sembra direttamente correlabile con la densità delle placche (Terry et al., 1981).

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Fig 1. In determinate condizioni la capacità del macchinario di controllo della qualità delle proteine viene saturata e le proteine non ripiegate si accumulano, determinando disfunzioni di vario genere (Muchowsky et Wacker, 2005).

La tossicità sembra, infatti, imputabile a forme prefibrillari metastabili (protofibrille, oligomeri anulari e strutture sferiche) che potrebbero far parte delle via fibrillogenica (fig 2) (Caughey e Lansbury, 2003).

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Fig. 2. Modello generale di aggregazione di proteine denaturate. Le diverse strutture degli aggregati sono state osservate al microscopio a forza atomica (Muchowsky et Wacker, 2005).

La validità dell’ipotesi dell’“oligomero tossico” è supportata dal fatto che un singolo anticorpo monoclonale è in grado di riconoscere un epitopo conformazionale comune che compare in strutture pre-fibrillari di proteine amiloidi diverse associate a differenti patologie (Kayed et al., 2003).

2 Il morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer prende il nome da Alois Alzheimer (1864-1915), neurologo attivo a Heidelberg e poi a Monaco, che ne descrisse tra il 1907 ed il 1911 le principali caratteristiche microscopiche cerebrali. Il morbo di Alzheimer è la causa più comune di demenza (60%), affligge circa il 2% della popolazione nei paesi industrializzati e si prevede che la sua incidenza triplicherà nei prossimi cinquant’anni (Mattson, 2004).

Intorno alla metà degli anni ’70 alcuni studi permisero di attribuire l’insorgenza della demenza alla degenerazione dei neuroni che sintetizzano e rilasciano acetilcolina.

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Tuttavia, sta sempre più prendendo piede l’ipotesi che il morbo di Alzheimer non provochi la degenerazione di un’unica classe di neuroni. Ciò, infatti, potrebbe spiegare gli insufficienti benefici clinici nella maggior parte dei pazienti trattati con farmaci colinergici, gli unici disponibili oggi sul mercato.

Come conseguenza della degenerazione delle sinapsi e della morte neuronale, gli individui affetti presentano una riduzione nelle dimensioni delle regioni dell’encefalo coinvolte nei processi implicati nella memorizzazione, nell’apprendimento e nei comportamenti emotivi. Queste zone, che comprendono, in particolare, la corteccia entorinale, l’ippocampo, il prosencefalo e l’amigdala, sono caratterizzate dall’accumulo nello spazio extracellulare di aggregati fibrillari di peptidi β-amiloidi (placche amiloidi o senili) e dalla presenza di neuroni contenenti depositi fibrillari intracellulari della proteina tau (tangles) (Selkoe, 2001) (fig 3).

Fig 3. Rappresentazione schematica di un confronto fra neuroni sani e neuroni con le caratteristiche patologiche del morbo di Alzheimer (http://w3.uokhsc.edu).

Tau è una proteina neuronale accessoria della tubulina che si lega ai microtubuli e normalmente aumenta la loro stabilità ma, in condizioni patologiche, a seguito di una iperfosforilazione, è rilasciata nel citosol dove può andare incontro ad aggregazione.

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I settori che contengono le placche mostrano tipicamente un numero di sinapsi ridotto e i neuriti ad esse associati sono spesso danneggiati (Mattson, 2004).

3 I peptidi β-amiloidi

Le placche amiloidi sono costituite principalmente da peptidi lunghi 40 aminoacidi, i peptidi β-amiloidi 1-40 (βA1-40), Una frazione minore è costituita da peptidi β-amiloidi più lunghi di due aminoacidi (Iso e Ala), i peptidi β-amiloidi 1-42 (βA1-42) (Naslund et al., 1994). Questi peptidi più “lunghi” sono più idrofobici e particolarmente propensi all’aggregazione (Jarret, 1993).

I peptidi β-amiloidi derivano dal taglio sequenziale di una proteina transmembrana, proteina precursore amiloide (APP), da parte di due enzimi: la β- e la γ-secretasi (fig 4) (Koo, 2002).

Fig 4. I peptidi β-amiloidi derivano dal taglio sequenziale della proteina precursore amiloide (APP) da parte di due enzimi: la β- e la γ-secretasi (www.alzheimer.org).

Numerosi studi hanno, tuttavia, dimostrato che i β-amiloidi, in forma solubile, sono rilasciati costitutivamente dalle cellule in condizioni normali (Haass et al., 1992); essi sono stati, infatti, ritrovati nel fluido cerebrospinale e nel plasma di soggetti sani (Seubert et al., 1992). Sebbene le funzioni dell’APP, intesa come oloproteina, e dei suoi

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derivati siano ancora da chiarire, studi su colture cellulari hanno reso possibile l’attribuzione a questi polipeptidi di molteplici ruoli potenziali. Indicazioni sempre più numerose suggeriscono che APP abbia una funzione neuroprottettiva e giochi un ruolo nella crescita dei neuriti, nella plasticità sinaptica e nell’adesione cellulare (Mattson, 1997). Per quanto riguarda i peptidi βA, nonostante la loro attività citotossica a concentrazioni micromolari sia ormai appurata, per concentrazioni più basse, dell’ordine del picomolare e del nanomolare, diversi studi hanno rivelato un potenziale ruolo fisiologico correlato alla plasticità e alla sopravvivenza neuronale (Whitson et al., 1989; Wolozin et al.,1995; Etcheberrigaray et al., 1994; Luo et al., 1995).

L’incapacità dei neuroni di mantenere l’equilibrio omeostatico del Ca2+, rappresenta un aspetto della malattia che sembra strettamente collegato alla disfunzione e alla morte dei neuroni stessi (Mattson, 1997). Secondo alcuni autori, i peptidi βA potrebbero contribuire a questo malfunzionamento formando dei canali permeabili al Ca2+ sulle membrane dei neuroni (Kawahara et Kuroda, 2000; Lin et al., 2002).

L’eccesso intracellulare di Ca2+ potrebbe spiegare anche l’attivazione di certe chinasi che possono contribuire all’iperfosorilazione e quindi all’aggregazione della proteina tau (Selkoe, 2001).

4 Le fibrille amiloidi

Il termine “amiloide” fu introdotto per la prima volta dal fisico tedesco Rudolph Virchow nel 1855 per indicare dei depositi presenti in diversi tessuti che, come l’amido, si coloravano di blu con lo iodio. Studi successivi rivelarono poi che le proprietà di colorazione di questi depositi non erano dovute alla presenza di carboidrati, bensì alla loro componente proteica. Osservazioni al microscopio elettronico, in seguito, dimostrarono

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che tutti i depositi amiloidi, nonostante la diversa origine, erano molto simili dal punto di vista ultrastrutturale. Questi, infatti, sono costituiti da fasci di fibrille rettilinee larghe dai 6 ai 13 nm, e lunghe dai 100 nm fino a 1,5 µm. Con la tecnica della diffrazione a raggi X, infine, è stato visto che le proteine, all’interno delle fibrille, assumono una struttura secondaria β-sheet, in cui lo scheletro principale di ciascun polipeptide è disposto perpendicolarmente all’asse maggiore della fibrilla stessa (struttura β-cross) (Sipe e Cohen, 2000).

Le tecniche più comuni per identificare le fibrille amiloidi prevedono l’utilizzo di due coloranti: la Tioflavina T (ThT) e il Congo Red. Anche se entrambi sono noti come coloranti istologici, il loro utilizzo è stato adattato pure agli studi in vitro su depositi amiloidi isolati e fibrille in soluzione. In presenza di fibrille amiloidi questi composti subiscono delle variazioni specifiche delle loro caratteristiche spettroscopiche (LeVine, 1999).

Le fibrille amiloidi colorate con il Congo Red esibiscono un birifrangenza verde mela alla luce polarizzata. Nonostante questa tecnica sia stata la prima ad essere utilizzata per discriminare sistemi di questo tipo, essa non è considerata da alcuni autori sufficientemente sensibile, infatti, non è in grado di riconoscere tutti i possibili aggregati amiloidi (Nilsson, 2004) e di rivelare basse concentrazioni di fibrille (LeVine, 1997). Il meccanismo di interazione fra il Congo Red e le fibrille amiloidi non è ancora stato chiarito. (Nilsson, 2004).

La Tioflavina T è un composto che si comporta da sonda fluorescente, il cui utilizzo è particolarmente diffuso nei saggi in vitro. La sua struttura molecolare è rappresentata in figura 5.

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Fig 5. Struttura molecolare della sonda fluorescente Tioflavina T (LeVine, 1997).

In soluzione acquosa questo pigmento ha un picco di emissione di fluorescenza a 430 nm, quando eccitato a 342nm. In presenza di fibrille lo spettro di emissione si sposta verso il rosso con un picco a 482 nm se eccitato a 442 (fig 6) (LeVine, 1999).

0 2 4 6 8 10 455 470 485 500 515 530 545 560 575 590 Lunghezza d'onda IF

Fig 6. Spettro di fluorescenza della tioflavina T in presenza di fibrille amiloidi (λexc = 442 nm).

Una possibile causa del basso rendimento quantico di fluorescenza della ThT in soluzione acquosa è la rottura del sistema di legami coniugati dovuta al riorientamento dei due anelli, benzotiazolico e benzaminico,l’ uno rispetto all’altro. Infatti, la molecola di ThT, quando non è eccitata, ha una configurazione più o meno planare. Quando viene eccitata, si ha un trasferimento intramolecolare di cariche tra gli anelli aromatici. Questo stato di non

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equilibrio, in cui le cariche sono separate, può essere stabilizzato se il sistema di legami π coniugati viene rotto e uno degli anelli ruota di 90° rispetto all’altro. In questa situazione le cariche non possono tornare alla loro distribuzione originaria e la transizione radiativa con emissione di fluorescenza ha una bassa efficienza. Il principale fattore che determina l’alto rendimento quantico di fluorescenza della ThT incorporata nelle fibrille è la restrizione sterica della rotazione dei due anelli dovuta alla rigidità del microambiente (Voropai et al., 2003).

4.1 Una tappa fondamentale: il misfolding

L’ accumulo di proteine sottoforma di aggregati amiloidi è una caratteristica di diverse patologie, non solo di tipo neurodegenerativo. Nonostante questi aggregati condividano numerose caratteristiche chimico-morfologiche come la morfologia fibrillare, la struttura secondaria β-sheet, la resistenza alle proteasi, le proteine che li compongono non hanno nessun elemento comune in termini di sequenza aminoacidica e di struttura (Uversky e Fink, 2004). Alcuni autori sostengono che la capacità di formare fibrille sia, in opportune condizione destabilizzanti, una caratteristica della maggior parte delle proteine (probabilmente tutte), non solo di quelle ritrovate negli aggregati amiloidi. E’ stato ipotizzato che l’aggregazione proteica sia una via alternativa al ripiegamento fisiologico delle proteine, in cui sono favorite le interazioni intermolecolari tra gli scheletri principali, piuttosto che quelle intramolecolari (Stefani, 2004).

Le basi molecolari e termodinamiche alla base del processo di fibrillogenesi sono ancora in gran parte molto dibattute. Una tappa fondamentale del processo sembra essere rappresentata dalla destabilizzazione della struttura nativa della proteina in questione, con conseguente raggiungimento di una conformazione parzialmente denaturata

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(intermedio amiloidogenico). Una conformazione di questo tipo è più flessibile e, probabilmente, rende possibili specifiche interazioni intermolecolari, come le interazioni idrofobiche ed elettrostatiche o i legami idrogeno, che sono necessari per l’oligomerizzazione e la fibrillogenesi (fig 7).

Fig 7. Una tappa fondamentale del processo di aggregazione è rappresentata dalla destabilizzazione della rigida struttura nativa della proteina, con conseguente raggiungimento di una conformazione parzialmente denaturata (intermedio amiloidogenico).

I peptidi βA non possiedono una conformazione nativa strutturata e, quindi, presentano un’alta percentuale di random coil. Il primo passo verso la fibrillogenesi, in questo caso, è rappresentato da un parziale folding (Uversky e Fink, 2004).

4.2 La cinetica di aggregazione e l’organizzazione strutturale

La fibrillogenesi è un processo di polimerizzazione il cui andamento nel tempo descrive una curva sigmoidale caratteristica delle cinetiche nucleazione-dipendenti. Nella fase iniziale (fase di latenza o di nucleazione), in cui non si osserva aggregazione,

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i monomeri iniziano ad associarsi fino alla formazione dei cosiddetti “nuclei” (Nillson, 2004). I “nuclei” sono delle forme oligomeriche pre-fibrillari che, una volta formati, favoriscono il processo di aggregazione (Walsh et al., 1997). A questo punto la cinetica procede rapidamente (fase di polimerizzazione) fino alla formazione delle fibrille mature (saturazione) (fig 8) (Nillson, 2004).

Fig 8. La cinetica di aggregazione del processo fibrillogenico ha un andamento sigmoidale tipico delle polimerizzazioni nucleazione-dipendenti caratterizzate da una fase di latenza, una fase di polimerizzazione e una saturazione. La presenza di impurità o aggregati pre-esistenti può inficiare l’andamento della curva dando luogo a delle cinetiche non riproducibili da punto di vista sperimentale, in cui la fase di latenza potrebbe essere notevolmente ridotta od addirittura assente (linea tratteggiata) (Nillson, 2004).

Nel caso del peptide βA, studi cinetici e strutturali hanno dimostrato l’esistenza di un intermedio relativamente stabile che si origina dai nuclei: la protofibrilla (Walsh et al., 1997). Questo termine è generalmente utilizzato per indicare le primissime particelle di forma fibrillare che è possibile individuare (Goldsbury et al., 2000). Le protofibrille appaiono leggermente ricurve quando vengono osservate al microscopio

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elettronico, hanno un diametro di 4-10 nm e una lunghezza che raggiunge i 200 nm circa (Walsh et al., 1999).

Saggi immunologici e radiochimici particolarmente sensibili hanno permesso di rivelare anche oligomeri metastabili di dimensioni intermedie fra le protofibrille e i monomeri, tuttavia, nessuno di essi si accumula in quantità significative. Questi dati sono in accordo con l’ipotesi che il processo di aggregazione del βA avvenga attraverso la formazione di una serie di intermedi oligomerici a breve tempo di vita che si formano nel periodo in cui il livello dei monomeri decresce parallelamente alla comparsa delle protofibrille. Queste agiscono poi da fulcro per la formazione delle fibrille mature caratteristiche delle placche senili (fig 9 A).

La transizione protofibrille → fibrille può essere spiegata attraverso diverse ipotesi. La più semplice, ma anche la meno probabile, prevede l’allineamento e l’associazione delle protofibrille attraverso le estremità. Una seconda possibilità è che le protofibrille possano associarsi lateralmente formando degli “stampi” sui quali i monomeri/dimeri si accumulano. In alternativa, l’associazione laterale delle protofibrille potrebbe facilitarne l’allineamento e quindi le interazioni fra le estremità (fig 9 B). E’ possibile, infine, che le protofibrille siano un prodotto finale non compreso nella via fibrillogenica. In questo caso sarebbe necessario la loro dissociazione con conseguente rilascio dei monomeri/dimeri per la costituzione delle fibre (fig 9 C). Alcune indicazioni, tuttavia, suggeriscono che l’ipotesi più probabile sia quella che le protofibrille si uniscano a formare le fibre in assenza di precursori a basso peso molecolare (Walsh et al., 1997).

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Fig 9. A) La fibrillogenesi del βA è un processo di polimerizzazione nucleazione-dipendente in cui i monomeri, inizialmente, si aggregano a formare dei nuclei (step 1). Dai nuclei si originano poi le protofibrille (step 2), la cui estensione dà luogo infine alle fibre mature (step 3). B) Le protofibrille danno origine alle fibre mature. Ciò può avvenire attraverso meccanismi diversi. Le protofibrille per esempio potrebbero allinearsi l’una con l’altra ed associarsi attraverso le estremità. Una seconda possibilità è che le protofibrille possano associarsi lateralmente formando degli “stampi” sui quali i monomeri/dimeri potrebbero accumularsi. In alternativa, l’associazione laterale delle protofibrille potrebbe facilitarne l’allineamento e quindi le interazioni fra le estremità C) E’ possibile infine che le protofibrille siano incapaci di dar luogo alle fibrille, ma rappresentino una riserva di precursori delle fibrille (Walsh et al., 1997).

Le fibrille mature ottenute in vitro possono essere osservate al microscopio elettronico. Esse appaiono più rigide rispetto alle protofibrille e morfologicamente eterogenee. Le fibre propriamente dette si presentano come duplici o triplici filamenti avvolti gli uni sugli altri a formare delle eliche. A seconda delle dimensioni queste fibre vengono classificate in ordine di ampiezza come fibrille di “tipo 1”, di “tipo 2” e di “tipo 3”. E’probabile che queste tre specie di fibrille rappresentino delle forme stabili in cui l’avvolgimento ha raggiunto il massimo grado. Oltre ad esse si ritrovano, infatti,

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frequentemente anche fibrille avvolte in maniera più lassa che probabilmente rappresentano degli intermedi che non hanno ancora raggiunto una struttura finale stabile. Oltre alle fibrille avvolte, in soluzione si ritrovano anche delle strutture simili a dei nastri con uno spessore di soli 5.5 nm costituite da due, tre, quattro o più filamenti (fig 10).Questi ultimi potrebbero rappresentare gli elementi fibrillari elementari e, quindi, le “reali” protofibrille (Goldsbury et al., 2000).

Fig 10. Interpretazione schematica dello sviluppo morfologico e dei polimorfismi strutturali delle fibrille di βA (Goldsbury et al., 2000).

Per quanto riguarda la struttura secondaria, il sistema passa da una struttura prevalentemente random coil ad una prevalentemente β-sheet. Analisi di dicroismo

circolare indicano, però, che un evento chiave durante la fibrillogenesi è rappresentato dalla formazione di un intermedio oligomerico a struttura prevalentemente α-elica.

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Studi di filtrazione rivelano che tali aggregati hanno massa maggiore di 100kDa e, quindi, dovrebbero contenere un minimo di 23 monomeri (Kirkitadze et al., 2001).

Le protofibrille isolate hanno un contenuto di β-sheet (50%), random coil (40%) e α-elica (10%) molto vicino a quello delle fibrille mature. Ciò è dimostrato anche dal fatto che esse legano sia il Congo red che la tioflavina T, mentre gli oligomeri a basso peso molecolare LMW (low molecular weight) non lo fanno. Questo permette di concludere che le protofibrille rappresentano uno stadio relativamente maturo del processo di fibrillogenesi e che l’intermedio ad α-elica potrebbe realizzarsi prima della loro formazione (Walsh et al., 1999).

5 Gli chaperon molecolari

Sebbene la sequenza aminoacidica di una proteina contenga tutte le informazioni richieste per dettare correttamente il ripiegamento dei polipeptidi in una struttura tridimensionale funzionale, l’affollamento presente nell’ambiente intracellulare crea intralcio al ripiegamento, promuovendo, quindi, il misfolding e l’aggregazione. Come conseguenza, il ripiegamento delle proteine non è, in vivo, un processo tipicamente spontaneo. Gli organismi, dagli archea agli eucarioti, hanno evoluto una classe di proteine altamente conservate chiamate chaperon molecolari in grado di prevenire interazioni intra- ed inter-molecolari inappropriate in polipeptidi denaturati. Queste, inoltre, aumentano l’efficienza del ripiegamento di proteine neosintetizzate e promuovono il corretto ripiegamento di proteine che hanno perso la loro struttura nativa fisiologica in seguito a stress cellulare. Gli chaperon molecolari hanno ruoli essenziali anche in molti altri processi cellulari quali la trasduzione dei segnali, l’apoptosi, la fusione di vescicole, il trasporto molecolare, la degradazione proteasomale e l’autofagia (Muchowski e Wacker, 2005) (fig 11).

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Fig 11. AIF, fattore di induzione dell’apoptosi; ER, reticolo endoplasmatico; ERAD, degradazione associata al reticolo endoplasmatico; HSF1, fattore di trascrizione dello shock da calore; HSP, proteina dello shock da calore; LAMP, proteina di membrana associata ai lisosomi; ROS, specie reattive dell’ossigeno (Muchowski e Wacker, 2005).

Gran parte degli chaperon molecolari sono delle “heat shock proteins” (HSPs) ovvero proteine che vengono sovraespresse in risposta ad un aumento di temperatura. L’espressione delle HSP può, tuttavia, essere indotta, oltre che dal calore, da un’ampia varietà di stress ambientali e metabolici tra cui l’esposizione a composti chimici tossici e ad agenti ossidanti (Whitley et al., 1999).

5.1 Chaperon molecolari e neurodegenerazione

Nelle placche e nei corpi di inclusione caratteristici dell’Alzheimer, del Parkinson, della sclerosi amiotrofica laterale familiare e delle malattie associate a catene estese di poliQ, sono presenti, oltre alle proteine specifiche implicate nelle diverse patologie, vari

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chaperon molecolari (tab 1) e componenti del sistema di degradazione ubiquitina-proteasoma.

Tab 1.. (Muchowski e Wacker, 2005).

La presenza di queste macromolecole nei depositi fibrillari potrebbe rappresentare il risultato di un tentativo mancato da parte della cellula di ripiegare o degradare le proteine aggregate. Una conseguenza è che gli chaperon molecolari sono definitivamente sequestrati all’interno di questi aggregati e perdono la propria funzionalità.

Sebbene molti studi abbiano dimostrato che in sistemi modello gli chaperon svolgono una funzione protettiva contro le malattie neurodegenerative, le basi molecolari di questo processo sono ancora sconosciute. Molte ricerche sono state indirizzate all’indagine degli effetti degli chaperon molecolari sul processo di aggregazione delle proteine amiloidogeniche.

E’ anche possibile che gli chaperon molecolari svolgano un ruolo neuroprotettivo intervenendo su processi cellulari diversi da quello di aggregazione proteica e

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fibrillogenesi. Per esempio, gli chaperon potrebbero mediare l’autofagia o la degradazione proteasomale degli aggregati proteici riducendo o prevenendo loro possibili interazioni anomale con altre proteine cellulari chiave come fattori di trascrizione e molecole segnale. Inoltre, potrebbero anche aiutare a prevenire la disfunzione neuronale assistendo il “trafficking” intra-cellulare e quindi la trasmissione sinaptica. Non è escluso, infine, che gli chaperon molecolari interferiscano con lo stress ossidativo e blocchino la via dei segnali che portano all’apoptosi (fig 12).

Fig 12. ER, reticolo endoplasmatico; ERAD, degradazione associata al reticolo endoplasmatico; HSP, proteina dello shock da calore; LAMP, proteina di membrana associata ai lisosomi; ROS, specie reattive dell’ossigeno; TF, fattore di trascrizione (Muchowski e Wacker, 2005).

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5.2 Le “small heat shock proteins” (sHSP) e l’α-cristallina

La famiglia delle sHSP comprende proteine con peso molecolare tra i 12 ed i 43 kDa che si assemblano in grandi strutture multimeriche e contengono una regione carbossi-terminale conservata di 90 aminoacidi circa, il dominio α-cristallina. Molte delle piccole HSP sono prodotte solamente in condizioni di stress. Esperimenti in vitro hanno dimostrato che esse prevengono l’aggregazione proteica con un’attività chaperon ATP-indipendente, legandosi saldamente alle proteine denaturate in seguito a uno stress. E’ stato suggerito che, dopo la rimozione dello stress, questi complessi possano fornire una riserva di proteine “unfolded” per il macchinario HSP70 che è in grado di rinaturarle. Le sHSP non mostrano alcuna apparente specificità per i substrati e sono funzionali solo nella forma oligomerica. Sul meccanismo di azione di questi chaperon non abbiamo molte informazioni. E’ stato ipotizzato che la proteina substrato possa ricoprire l’esterno del grande chaperon multimerico e che le interazioni idrofobiche siano fondamentali nel legame col substrato (Fink, 1999).

L’ α-cristallina appartiene alla famiglia delle sHSP. E’ la proteina principale delle lenti di mammifero dove, oltre a costituire un elemento strutturale fondamentale, aiuta a mantenere il normale di grado di trasparenza del cristallino, impedendo l’aggregazione delle altre proteine.

Si trova sottoforma di multimeri polidispersi costituiti da due tipi di polipeptidi, l’αA e l’αB, il cui peso molecolare si aggira intorno ai 20 kDa. I multimeri sono costituito da circa 15 - 50 unità e hanno un peso molecolare che oscilla tra 300 ed i 1000 kDa. La proporzione fra le due catene varia in base a diversi elementi come l’età, la specie e le condizioni ambientali, ma il significato di questa variabilità non è ancora chiaro. Nelle lenti di mammifero il rapporto molare è generalmente 3 a 1. L’αA si trova

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principalmente nelle lenti e, in tracce, anche in altri tessuti; l’αB è considerata una proteina ubiquitaria (Horwitz, 2003).

A causa della natura polidispersa di questa proteina al momento non è disponibile una struttura cristallina. Per quanto riguarda la struttura quaternaria, tra i vari modelli ipotizzati negli ultimi anni, quello micellare sembra il più attendibile; ciò dipende da una serie di osservazioni sulle proprietà e il comportamento delle subunità. Queste sono, infatti, anfifiliche, con un domino N-terminale idrofobico e un dominio C-terminale idrofilico, si assemblano attraverso i domini N-terminali, sono mobili e si interscambiano facilmente fra aggregati (fig 13) (Augusteyn, 2004).

Fig 13. Una possibile struttura micellare per l’α-cristallina. Le subunità si associano attraverso interazioni che coinvolgono i domini idrofobici N-terminali (grigio scuro), i quali sono localizzati al centro dell’aggregato I domini idrofilici C-terminali (grigio chiaro) sono disposti sulla superficie del multimero (Augusteyn, 2004).

L’αB cristallina è uno chaperon molecolare che si ritrova nelle placche senili dei soggetti affetti dal morbo di Alzheimer. Per questo motivo gli studi in vitro dell’effetto dell’α-cristallina sulla fibrillogenesi e sulla neurotossicità del βA sono numerosi. Tuttavia, i risultati sono discordanti. Alcuni di questi suggeriscono che l’αB prevenga la formazione di fibrille, ma aumenti la neurotossicità del βA (Stege et al., 1999), altri indicano invece che questo chaperon promuova l’aggregazione e la formazione delle fibrille (Liang, 2000). In altri studi si riporta che l’αA cristallina arresti la formazione delle fibrille e sopprima la tossicità del βA (Santhoshkumar et al. 2004). Quindi, nonostante

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l’argomento sia ampiamente trattato, i dati fino ad oggi disponibili rendono difficoltosa qualsiasi ipotesi a riguardo del ruolo dell’α-cristallina sulla fibrillogenesi del βA. Studi

in vivo su animali suggeriscono che la sovraespressione degli chaperon molecolari svolga

un ruolo positivo nel trattamento delle malattie neurodegenerative (Muchowski e Wacker, 2005). Questi interessanti risultati se da un lato aprono nuovi scenari nella progettazione di strategie terapeutiche, dall'altro impongono una maggiore conoscenza del ruolo e del meccanismo di funzionamento di queste proteine nei processi di aggregazione.

6 Gli inibitori

Negli ultimi anni numerosi studi sono stati indirizzati alla ricerca di molecole naturali o di nuova sintesi in grado di inibire l’aggregazione del βA e ridurne gli effetti citotossici. Ricerche di questo tipo potrebbero rappresentare il punto di partenza per la progettazione di terapie farmacologiche di prevenzione e/o cura e, inoltre, contribuire alla comprensione dei dettagli molecolari che regolano il processo di fibrillogenesi.

Una molecola inibitrice può influenzare l’andamento della cinetica di aggregazione in tre modi. Essa può interferire con il processo di nucleazione determinando un incremento della durata della fase di latenza. In alternativa, l’effetto può interessare la fase di polimerizzazione. Ciò si può tradurre in una diminuzione della velocità di allungamento delle fibrille e, quindi, in una minore pendenza della curva. Infine, può provocare un abbassamento del livello di saturazione, riflettendo la formazione di un minor numero di fibrille mature. Non può essere, naturalmente, esclusa una combinazione di tutti questi effetti (Findeis et al., 1999) (fig 14).

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Fig 14. Schematizzazione dei potenziali effetti di una molecola inibitrice sulla cinetica di aggregazione dei peptidi βA. L’inibizione può essere osservata attraverso un prolungamento della fase di nucleazione (delayed time), una riduzione nella velocità di crescita delle fibrille, un abbassamento del numero di fibrille mature in grado di formarsi (maximum polymerization) o una combinazione di questi effetti (Findeis et al., 1999).

Molti studi dimostrano che piccole molecole con anelli aromatici sono in grado di influenzare significativamente la cinetica di aggregazione dei peptidi βA. Queste includono la curcumina, l’acido rosmarinico (Ono et al., 2004), il fullerene (Kim e Lee, 2003), le tetracicline (Forloni et al., 2001), la melatonina (Pappolla et al., 1998), i polifenoli del vino (Ono et al., 2003) ecc.

Le interazione aromatiche, dette anche interazioni π-π o di stacking, rivestono un ruolo di primaria importanza nella biochimica, in particolar modo nei processi di riconoscimento fra molecole e nell’auto-aggregazione (Gazit, 2002). Queste interazioni dipendono dalla particolare distribuzione elettronica delle cariche presenti nella molecola aromatica. Per esempio, sebbene il benzene non abbia una carica netta, è presente una maggiore densità di carica elettronica sulla superficie dell’anello ed una minore nelle regioni laterali.

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Studi teorici approfonditi e calcoli empirici dimostrano che gli anelli aromatici tendono, infatti, ad associarsi formando tre strutture principali, proposte sulla base della componente elettrostatica dell’interazione. In figura 15a è rappresentata la struttura a T, in cui l’estremità di un anello interagisce con la faccia di un altro. Nella struttura sfalsata, rappresentata in figura 15b, gli anelli si dispongono parallelamente l’uno sull’altro, ma senza allinearsi (Waters, 2002). Questa si ritrova principalmente in sistemi biologici quali la doppia elica del DNA, a livello delle basi dei nucleotidi, e le proteine, dove ne stabilizza la struttura terziaria (Gazit, 2002). Anche in figura 15c gli anelli sono sovrapposti l’uno sull’altro, ma in questo caso essi risultano perfettamente allineati (Waters, 2002).

Fig 15. Interazioni tra anelli aromatici planari: a) Struttura a T b) Struttura parallela sfalsata c) Struttura parallela (Waters, 2002).

In generale, le proteine hanno una frequenza relativa di aminoacidi aromatici molto bassa. Tuttavia, la maggior parte dei peptidi/proteine amiloidogenici, pur non mostrando una chiara omologia di sequenza, possiede brevissime sequenze con residui aromatici. Queste ultime, anche sottoforma di frammenti singoli, sono in grado di promuovere interazioni intermolecolari ed aggregare, formando fibrille del tutto simili a quelle di peptidi/proteine

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interi (Gazit, 2002) come nel caso del frammento KLVFFAE (Lys-Leu-Val-Phe-Phe-Ala-Glu) del βA (Balbach et al., 2000).

Infatti, la coppia di residui di Phe sembra rappresentare un elemento strutturale fondamentale nel processo di riconoscimento molecolare e nell’auto-aggregazione del βΑ. Più in generale possiamo affermare che, a differenza di quanto accade nella formazione degli aggregati amorfi, le interazioni di stacking possano guidare la fibrillogenesi, sia dal punto di vista termodinamico, fornendo un contributo energetico proveniente dalle interazioni stesse, sia da quello strutturale, orientando le molecole secondo una schema ben preciso.

In questa ottica, molecole aromatiche capaci di riconoscere ed interagire con gli aminoacidi presenti nei peptidi/proteine amiloidi, rappresentano quindi dei potenziali inibitori della fibrillogenesi. Esse, infatti, potrebbero impedire l’aggregazione dei peptidi creando un ingombro sterico o, se cariche, attraverso una repulsione elettrostatica (fig 16) (Gazit, 2002).

Fig 16. Modello per l’inibizione della formazione delle fibrille amiloidi. In assenza di un inibitore le interazioni di stacking tra gli anelli dei peptidi aromatici guidano l’aggregazione e la transizione strutturale che porta alla formazione delle fibrille amiloidi. Un inibitore costituito da un elemento di riconoscimento aromatico e da uno capace di inibire l’aggregazione (fibril breaker) potrebbe legare il monomero ed impedire la formazione di aggregati (Gazit, 2002).

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Oltre ai composti citati a inizio paragrafo, una molecola aromatica che potrebbe agire con questo meccanismo è l’ipericina, estratta dall’Hypericum perforatum. Alcuni studi, infatti, suggeriscono che gli estratti di tale pianta abbiano proprietà neuroprotettive (Silva et al., 2004) e possano essere impiegati per scopi terapeutici nel trattamento del morbo di Alzheimer e altre amiloidosi (Castillo e Snow, 2002).

6.1 Struttura e proprietà dell’ipericina

L’ ipericina, è una molecola policiclica aromatica anfifilica (fig 17) estratta dall’Hypericum perforatum, meglio nota come Erba di San Giovanni (St. Johns Wort).

Fig 17. Struttura molecolare dell’ipericina (Lavie et al., 1989).

L’ estratto di questa pianta viene utilizzato da molto tempo come rimedio naturale per il trattamento delle depressioni di modesta entità. Per le sue numerose caratteristiche che la rendono particolarmente interessante dal punto di vista medico, negli ultimi trent’anni l’ipericina è stata oggetto di studi intensi. Essa, infatti, possiede una minima

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tossicità se non irraggiata, non viene metabolizzata dall’organismo ed è un composto fotochimicamente attivo. In seguito ad irraggiamento, produce significative quantità di ossigeno singoletto e altre specie reattive dell’ossigeno in grado di provocare un danno cellulare (Schey et al., 2000). Alcuni studi ne suggeriscono, infatti, l’ utilizzo come farmaco fotodinamico contro le infezioni virali gravi (Lavie et al., 1989) e i tumori (Colasanti et al., 2000; Kamuhabwa et al., 2001). Le sue particolari caratteristiche spettroscopiche, descritte più avanti, e la sua fotostabilità fanno guardare anche a un suo possibile impiego come strumento diagnostico, in particolare nella rivelazione delle neoplasie degli organi cavi come lo stomaco (Melnik et al., 1996) e la vescica (D’Hallewin et al., 2000).

L’ipericina assorbe la luce sia nell’ultra-violetto che nel visibile fino a lunghezze d’onda di 600nm circa. In soluzioni acquose si trova sottoforma di aggregati polidispersi e, nella regione del visibile, presenta due picchi di assorbimento massimo, uno maggiore intorno ai 550 nm e uno leggermente inferiore a 600 nm circa (fig 18, spettro blu). Quando si trova in forma monomerica, come quando è disciolta in solventi organici come l’etanolo e il DMSO (dimetilsulfossido), oppure quando è legata a substrati anfifilici come le membrane e alcune proteine, lo spettro d’assorbimento subisce notevoli modifiche. I picchi si spostano leggermente verso il blu, aumentano di intensità e si invertono: quello a 600 nm diventa decisamente maggiore rispetto a quello a 550 nm (fig 18, spettro rosso).

Anche le proprietà di fluorescenza sono di rilevante interesse. Infatti, se eccitata a lunghezze d’onda intorno ai 550 nm, quando è in forma aggregata, l’ipericina non fluoresce. Se eccitata alla stessa lunghezza d’onda quando è in forma monomerica, essa emette un intenso segnale di fluorescenza con un massimo assoluto a 600 nm e un massimo relativo a 650 nm (fig 19).

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0 0.1 0.2 0.3 300 350 400 450 500 550 600 650 700 Lunghezza d'onda (nm ) A sso rb an z a

Fig 18. Spettro d’assorbimento dell’ipericina sotto forma di aggregati polidispersi (spettro blu) e in forma monomerica (spettro rosso).

0 50 100 150 550 600 650 700 750 Lunghezza d'onda (nm) IF

Fig 19. Spettro di fluorescenza dell’ipericina in forma monomerica (λexc = 550 nm).

Queste peculiari caratteristiche spettroscopiche rendono l’ipericina particolarmente adatta per un suo utilizzo come sonda fluorescente.

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BASI CONCETTUALI DI SPETTROSCOPIA OTTICA

1. Introduzione

Le tecniche spettroscopiche rappresentano un mezzo d’indagine di grande interesse nello studio delle macromolecole biologiche quali DNA, proteine e pigmenti .

Quando una radiazione elettromagnetica monocromatica incide su di un campione i fotoni della radiazione possono interagire (assorbimento o scattering) o non interagire con la materia di cui è costituito il campione. I fotoni assorbiti possono essere riemessi come radiazione di frequenza più bassa di quella incidente (fluorescenza o fosforescenza) o dare origine a reazioni chimiche che modificano la struttura del campione. La quantità di radiazione assorbita dal campione viene normalmente misurata in funzione della frequenza della radiazione incidente ottenendo così lo spettro di assorbimento del campione.

Le molecole, così come gli atomi, presentano una serie caratteristica di livelli energetici in corrispondenza delle possibili distribuzioni elettroniche (orbitali molecolari) e le transizioni di un elettrone da un livello elettronico all’altro forniscono i così detti spettri elettronici; poiché ogni stato elettronico è caratterizzato da più livelli di energia vibrazionale, ne segue che una transizione elettronica si presenta come una serie di bande in corrispondenza dei vari livelli vibrazionali che possono essere raggiunti dalla molecola.

Le transizioni elettroniche sono caratterizzate da lunghezze d’onda fra i 100-400 nm (lontano e vicino ultravioletto), 400-750 nm (visibile) e 750-1500 nm (vicino infrarosso). Comunemente si parla in generale di spettri UV-visibile per quelli registrati nell’intervallo 200-800 nm, e poiché in tale ragione assorbono energia moltissime molecole di interesse biologico (aminoacidi, nucleotidi, pigmenti ecc.), la spettroscopia UV-visibile rappresenta una delle tecniche standard più utilizzate per lo studio di problematiche di interesse biologico.

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Le transizioni elettroniche sono regolate dal principio di Frank-Condon. Questo principio stabilisce che le transizioni elettroniche avvengano in un tempo, dell’ordine dei 10-15 secondi, tale per cui le distanze internucleari in una molecola si possono ritenere immutate mentre l’elettrone passa da un orbitale all’altro. Ciò è dovuto al fatto che il moto degli elettroni è di circa 1000 volte più veloce di quello degli atomi e quindi, durante la transizione elettronica, i nuclei mantengono praticamente la stessa velocità e posizione relativa per cui i riarrangiamenti nucleari avvengono dopo e non durante la transizione. La molecola eccitata perde energia vibrazionale (rilassamenti vibrazionali, in tempi dell’ordine di 10-14-10-12 s) cedendola all’ambiente sotto forma di calore, fino ad assumere in genere l’energia corrispondente al livello vibrazionale più basso dello stato eccitato. A questo punto, per tornare allo stato elettronico fondamentale esistono meccanismi diversi che dipendono dalla struttura della molecola stessa:

1) Fluorescenza che generalmente avviene in un tempo dell’ordine di 10-9-10-8 secondi. In questo caso la molecola torna allo stato fondamentale attraverso l’emissione di un fotone.

2) Rilascio nell’ambiente dell’energia sotto forma di calore. Questo avviene quando, in una molecola poliatomica, le superfici di energia potenziale corrispondenti ai vari legami della molecola si sovrappongono e presentano una serie di stati aventi energia vibrazionale senza soluzione di continuità, fra lo stato elettronico eccitato e quello fondamentale, per cui la molecola si diseccita completamente senza l’emissione di un fotone. Questi processi di diseccitazione non radiativi sono solitamente definiti processi di conversione interna.

3) Fosforescenza che generalmente avviene in tempi dell’ordine di 10-6-10-2 secondi. In questo caso, il ritorno allo stato fondamentale richiede l’emissione di un fotone

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con inversione di spin e ciò ha una probabilità molto bassa di avvenire (transizione di dipolo elettrico proibita per le regole di selezione per lo spin).

Oltre a queste transizioni è da tenere presente la possibilità di deattivazione dello stato eccitato mediante reazione chimica della specie eccitata, trasferimento di energia alla Föster o per eccitoni, trasformazioni fotoindotte come trasferimento di carica o fotoisomerizzazioni.

Il diagramma di Perrin-Jablonski (fig 20) schematizza le principali vie di diseccitazione per la molecola.

Fig 20. Diagramma di Perrin-Jablonski. A assorbimento; VR rilassamenti vibrazionali; IC conversione interna; ISC “intersystem crossing”; F fluorescenza; P fosforescenza. Le frecce al lato indicano lo stato di spin della molecola (Lenci et al., 2005).

2 Spettroscopia di assorbimento

Lo stato fondamentale delle molecole poliatomiche è uno stato di singoletto (S0) con spin totale uguale a zero tranne rare eccezioni (ad esempio la molecola di ossigeno, 3

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L’assorbimento avviene tipicamente a partire dal più basso livello vibrazionale dello stato elettronico fondamentale (S00). Dopo l’assorbimento di un fotone, la molecola è promossa ad uno stato eccitato di singoletto (Sij dove i rappresenta il livello elettronico e j il livello vibrazionale), con una probabilità che dipende dalla natura della distribuzione elettronica delle cariche di entrambi gli stati, cioè dalla natura degli orbitali coinvolti, e dalla struttura molecolare, in particolare dalla sua simmetria. La possibilità di eccitare la molecola direttamente ad uno stato di tripletto, quindi con un cambiamento di spin, è estremamente bassa e in generale non è osservata.

Nella misura sperimentale dell’assorbimento si paragonano normalmente l’intensità I0 della radiazione incidente con l’intensità I della radiazione trasmessa. Il rapporto

0

I

I dipende dallo spessore, dalla natura e dalla concentrazione del mezzo assorbente; per un campione di cammino ottico l (misurato in cm) e concentrazione uniforme c (moli/litro), la relazione fra I e I0 è data dalla legge di Lambert-Beer:

l

010

c

I I = −ε

dove ε rappresenta il coefficiente di estinzione molare (litro/moli× cm).

3 Spettroscopia di fluorescenza

La spettroscopia di fluorescenza si basa sul fatto che un certo numero di atomi, molecole e cristalli emettono luce con uno spettro caratteristico, immediatamente dopo essere stati eccitati da una radiazione luminosa.

La fluorescenza proviene generalmente da transizioni radiative tra S10 ed i vari livelli vibrazionali di S0, questo indipendentemente da quale livello sia stato eccitato dato che, come è gia stato detto, la conversione interna ed il rilassamento vibrazionale sono

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processi molto più veloci della fluorescenza. Si possono così comprendere alcune caratteristiche generali della luce emessa da molecole eccitate:

i) Come appare chiaramente dal diagramma di Perrin-Jablonski, l’energia dell’emissione è tipicamente più bassa dell’energia di assorbimento (shift di Stokes), cioè lo spettro di emissione della fluorescenza è pressoché completamente localizzato a lunghezze d’onda maggiori rispetto allo spettro di assorbimento. In aggiunta i fluorofori possono esibire un incremento dello Stoke’s shift dovuto per esempio alla riorganizzazione del solvente e/o a reazioni dello stato eccitato come per esempio fotocomplessazioni o trasferimenti energetici.

ii) La distribuzione spettrale dell’emissione (misurata dopo l’eccitazione ad una singola lunghezza d’onda costante) è usualmente indipendente dalla lunghezza d’onda d’eccitazione selezionata. Questo è generalmente comprensibile osservando che dopo l’eccitazione ad un più alto livello elettronico e vibrazionale, l’eccesso di energia è rapidamente dissipato nel solvente, mandando così il fluoroforo nel più basso S10, dal quale avviene la fluorescenza. In questo modo lo spettro di fluorescenza è sempre il set di transizioni S10→S0n permesse, indipendenti dalla lunghezza d’onda di eccitazione.

iii) Lo spettro di emissione è solitamente l’immagine speculare delle bande di assorbimento S0→S1, non dell’intero spettro di assorbimento. Infatti la probabilità che avvenga una particolare transizione di assorbimento vibrazionale tra il livello zero di S0 e l’ennesimo livello vibrazionale di S1 (S00→S1n) è più o meno uguale alla probabilità di una “corrispondente” transizione di emissione (S10→S0n con sovrapposizione quasi identica delle funzioni d’onda vibrazionali iniziali e finali).

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4 Dicroismo circolare

La maggior parte delle molecole sintetizzate dagli organismi viventi sono otticamente attive, sono cioè capaci di ruotare il piano di polarizzazione di un fascio di luce polarizzata linearmente. La luce polarizzata linearmente può essere considerata come composta da luce polarizzata circolarmente destra sovrapposta a luce polarizzata circolarmente sinistra, entrambe con uguale intensità (fig 21a). Il dicroismo circolare (CD) misura la differenza tra l’assorbimento della luce polarizzata circolarmente a sinistra e quella polarizzata circolarmente a destra. Quando la luce polarizzata linearmente incontra un campione otticamente attivo, con un diverso assorbimento per le due componenti di luce polarizzata circolarmente (εD≠ εS), i due raggi che emergeranno dal campione non

avranno più la medesima intensità. In seguito alla ricombinazione dei due raggi otterremo quindi non più luce polarizzata linearmente, bensì luce polarizzata ellitticamente (fig 21b).

Dagli spettri di dicroismo circolare si possono ottenere informazioni riguardanti la struttura secondaria di proteine e polipeptidi in soluzione e sugli effetti che temperatura, tipo di solvente, interazioni con altre macromolecole, possono avere sulla conformazione di dette molecole.

Fig 21. a) Luce polarizzata linearmente, pari alla somma di due componenti uguali polarizzate circolarmente destra e sinistra. I due vettori elettrici (ED e ES), ruotanti in senso opposto, danno luogo ad un vettore

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1 Materiali

I peptidi sintetici β-amiloidi 1-40 ed 1-42 (purezza >95%) sono stati forniti dalla Biopeptide Co. (San Diego, CA), l’ipericina dalla Carl Roth GmbH & Co (Karlsruhe, Germany), l’etanolo dalla Baker, l’acido trifluoroacetico (TFA) dalla Fluka. L’α-cristallina, i sali per la preparazione del PBS(Phosphate Buffer Saline), la tioflavina T (ThT), e il sodio azide sono stati acquistati presso la Sigma Chemical Co. (St. Louis, MO). Tutti i prodotti sono stati utilizzati senza ulteriore purificazione.

2 Preparazione dei campioni

Uno degli inconvenienti di maggior rilievo durante lo studio dei peptidi amiloidogenici è costituito dalla possibile presenza, nel prodotto iniziale liofilizzato, di aggregati in grado di accelerare la cinetica di aggregazione. Questi possono, infatti, costituire dei centri di nucleazione ai quali si aggregano altri monomeri (o probabilmente anche oligomeri) imponendo forte variabilità e accelerazione al processo di fibrillogenesi. Se i peptidi liofilizzati vengono solubilizzati in una soluzione tampone a pH fisiologico, questi aggregati non si sciolgono e si distribuiscono in maniera disomogenea nelle provette, determinando per ciascun campione una variabilità nelle condizioni iniziali che, come accennato sopra, si traduce in una bassa riproducibilità sperimentale (Nilsson, 2004). Tenendo conto di questi fatti, le prime misure sono state eseguite su campioni di peptidi β-amiloidi sottoposti al seguente pretrattamento. I peptidi venivano disciolti in acido trifluoro acetico (TFA) 100% alla concentrazione di 1mg/0.4ml. Dopo aver agitato la soluzione per circa 3 ore a una temperatura di 5°C, veniva aggiunta acqua millipore in modo da ottenere una diluizione 1:10. Il campione veniva poi suddiviso in aliquote di volume noto, introdotto in provette eppendorf, centrifugato per 12 ore sotto vuoto e

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mantenuto a -20°C fino al momento della misura. Anche se il trattamento con acidi forti come il TFA è un metodo usato molto spesso per ovviare al problema accennato in precedenza, dopo l’aggiunta di soluzioni tampone fisiologiche, il pH del microambiente dei peptidi passa da fortemente acido (pH = ~2) a neutro. Il pH della preparazione passa dunque attraverso il punto isoelettrico del β-amiloide (pI = 5.5), dove la tendenza alla precipitazione ed all’aggregazione del peptide è massima (Fezoui et al., 2000). Tenendo conto di questo problema e del fatto che la completa dissociazione di aggregati peptidici può avvenire anche a valori di pH basici, le misure successive sono state effettuate seguendo una procedura di preparazione diversa. I peptidi venivano disciolti in una soluzione acquosa di NaOH a pH = 10.5 e sonicati per 10 minuti a 35 kHz in un bagno ad ultrasuoni (Elma, D). Il campione, come nel metodo precedente, era poi suddiviso in aliquote di volume noto, centrifugato per 12 ore sotto vuoto e mantenuto a -20°C.

Al momento della misura, a ciascuna provetta eppendorf contenente il βA veniva aggiunta una quantità di PBS (pH = 7.4, NaCl 120mM, K2HPO4 10mM, KH2PO4 10mM, KCl 2,7mM, sodio azide 0,02%) opportuna, a seconda della concentrazione che si voleva ottenere. La presenza del sodio azide permette di limitare sensibilmente le contaminazioni batteriche e quindi di evitare falsi positivi nei test con la tioflavina T causati dal legame del colorante con la parete batterica (Nilsson, 2004). Per ridurre al minimo la presenza di impurità e aggregati di grandi dimensioni prima di ciascuna misura veniva, inoltre, effettuata un’ultrafiltrazione centrifugando per 10 minuti a 5000g con filtri Nanosep con porosità di 0.2 µm (Pall).

Per quanto riguarda le misure su campioni in presenza di ipericina, poiché questa è una molecola anfifilica con una bassa solubilità in soluzione acquosa dove forma aggregati polidispersi, veniva preparata una soluzione madre in cui l’ipericina era disciolta in

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etanolo, a una concentrazione di 2 X 10-4 M. Piccole aliquote venivano aggiunte al campione in modo da ottenere una concentrazione finale di 2 X 10-6 M in cui il rapporto tra etanolo e PBS era 1% (vol/vol). Misure di controllo hanno permesso di escludere un effetto dell’etanolo, a queste concentrazioni, sulla cinetica di aggregazione dei peptidi β-amiloidi.

L'α-cristallina è una proteina idrosolubile e, quindi, veniva direttamente disciolta in PBS e aggiunta ai campioni ottenendo concentrazioni finali che variavanotra 0,5 mg/ml e 0.01 mg/ml.

3 Strumentazione

3.1 Misure di assorbimento

Per le misure di assorbimento è stato utilizzato uno spettrofotometro JASCO modello V550, collegato ad un PC per l'impostazione delle misure e per l'acquisizione e l'elaborazione dei dati. Questo strumento permette di effettuare misure di assorbimento per lunghezze d'onda che vanno dalla regione dell'ultravioletto a quella del vicino infra-rosso (190 nm - 900 nm): la sorgente di luce per la regione dell'ultravioletto (190 nm - 350 nm) è una lampada al deuterio e per la regione spettrale dal visibile al vicino infra-rosso (330 nm - 900 nm) è una lampada alogena. Il cammino ottico del fascio di luce proveniente dalla sorgente è illustrato in figura 22. La luce viene indirizzata ad un monocromatore, dove viene dispersa da un reticolo, passa attraverso una fenditura raggiunge uno specchio semiriflettente che la suddivide in due fasci, uno che raggiunge il campione (Sam) e l’altro che incontra il riferimento (Ref). I due fasci, alternativamente, vanno a incidere su di un fotomoltiplicatore. Ciò permette di ottenere con una sola misura l'assorbanza del soluto eliminando quella del solvente

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Fig 22. Schema dello spettrofotometro Jasco V-550.

Le eventuali differenze nei cammini ottici dei due fasci e altre diversità nella parte ottica (diversa riflettività degli specchi, diversa geometria delle cuvette) vengono eliminate misurando e memorizzando lo spettro del solvente rispetto al solvente (linea di base).

La luce incidente sul fotomoltiplicatore viene convertita in un segnale elettrico e questo, a sua volta, viene convertito in un valore digitale successivamente fornito al computer. I dati digitalizzati che arrivano all'unità principale vengono trasformati in valori di trasmittanza (T%) o assorbanza tramite le seguenti operazioni aritmetiche:

T

%

=

(

D

c

D

D

b

D

)

r b

100

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dove Dc è il segnale digitale proveniente dal campione, Db è quello del buio e Dr è quello proveniente dal riferimento.

I dati forniti dal costruttore riportano un errore sulla lunghezza d'onda di ±0.3 nm, uno sull'assorbanza compreso tra lo 0.002% e lo 0.004% e uno sulla trasmittanza dello 0.3%.

3.2 Misure di fluorescenza

Per le misure di fluorescenza è stato utilizzato uno spettrofluorimetro PERKIN-ELMER modello LS 50B, che, come lo spettrofotometro, è collegato ad un PC. Esso è dotato di una lampada allo Xenon a scarica di 7.5 W di potenza media, in grado di produrre impulsi intensi (fino a 15 kW di picco) e di breve durata (larghezza temporale a metà altezza minore di 10 µs) in un intervallo di lunghezze d'onda che va da 270 nm a 700 nm.

Il cammino percorso dal fascio di eccitazione e da quello di fluorescenza è mostrato in figura 23. La geometria di illuminazione del campione usata è quella di osservazione ad angolo retto dal centro per illuminazione centrale della cuvetta (contenitore di quarzo per le soluzioni da analizzare, a forma di parallelepipedo).

Gli intervalli di lavoro dei due monocromatori sono: da 200 nm a 800 nm per quello di eccitazione, da 200 nm a 900 nm per quello di emissione. Le bande passanti delle fenditure dei monocromatori possono essere variate da 2.5 a 15 nm per quello posto sul fascio di eccitazione e da 2.5 a 20 nm per quello posto sul fascio di emissione; ambedue possono essere selezionate con incrementi di 0.1 nm.

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Fig 23. Schema del fluorimetro LS 50B.

Regolando opportunamente la larghezza delle fenditure possiamo cercare di ottenere il miglior compromesso tra un rapporto segnale rumore alto e la migliore risoluzione spettrale. Ad esempio, misurando uno spettro di emissione, mantenendo fissa la fenditura di eccitazione, un'ampiezza maggiore della banda passante della fenditura di emissione comporta un rapporto segnale/rumore maggiore ma peggiore risoluzione spettrale, mentre stringendo la fenditura, si peggiora il rapporto segnale/rumore, ma si ottiene una migliore risoluzione spettrale.

Questo strumento è dotato di due dispositivi a disco che, ruotando, possono porre lungo il cammino ottico filtri o polarizzatori: uno è posto dopo l'uscita del monocromatore di eccitazione, l'altro prima del monocromatore di emissione.

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Per tener conto delle variazioni di sensibilità dello strumento ed eventualmente correggerle è stato utilizzato uno standard di rodamina in polimetilmetacrilato fornito dalla Perkin-Elmer stessa.

Lo stesso spettrofluorimetro è stato utilizzato per determinare la cinetica di aggregazione dei peptidi tramite misure di luce diffusa (scattering). La fibrillogenesi è, infatti, un processo di polimerizzazione la cui cinetica può essere seguita in vitro misurando l’andamento nel tempo dell’intensità della luce diffusa da parte degli aggregati molecolari che si vanno formando. La quantità di luce diffusa è proporzionale al raggio idrodinamico (raggio di un’ipotetica particella sferica con lo stesso coefficiente di diffusione) e quindi alle dimensioni delle particelle in soluzione (Walsh et al., 1997). Il monocromatore di eccitazione e quello di emissione devono essere posizionati alla stessa lunghezza d’onda in una regione spettrale in cui il sistema che deve essere analizzato non assorbe. Nel caso dei nostri campioni, le misure sono state effettuate a 405 nm (Stege et al., 1999).

Sia durante le misure di fluorescenza che di scattering i campioni sono stati tenuti alla temperatura costante di 60°C mediante un termostato a liquido (Pharmacia Biotech) collegato allo strumento per mezzo di tubicini di silicone. A differenza di quanto avviene a temperatura ambiente, alla quale la cinetica di aggregazione, alle concentrazioni utilizzate, impiega giorni per avvenire completamente, a 60°C essa ha luogo in poche ore.

3.3 Misure di dicroismo circolare

Gli spettri di dicroismo circolare (CD) sono stati registrati con uno spettropolarimetro JASCO J-500, il cui schema semplificato è riportato in figura 24.

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Fig 24. Schema semplificato di uno spettropolarimetro: S1, S2 ed S3, fenditure; P1 e P2, prismi; LS, sorgente di luce; M, specchi concavi; L, lente; CDM, modulatore di dicroismo circolare; PO, polarizzatore; PM, fotomoltiplicatore; TL, sistema fra lenti.

Le intensità sono espresse in termini di ellitticità molare, Θ, che è proporzionale alla differenza di assorbanza della soluzione per la luce polarizzata circolarmente a destra e per quella polarizzata circolarmente a sinistra (∆A), all’ellitticità osservata sperimentalmente e registrata direttamente dallo strumento, Θobs, ed inversamente proporzionale al cammino ottico della cella porta-campione ed alla concentrazione della soluzione in esame.

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Figura

Fig 1. In determinate condizioni la capacità del macchinario di controllo della qualità delle proteine viene  saturata e le proteine non ripiegate si accumulano, determinando disfunzioni di vario genere  ( Muchowsky et  Wacker, 2005)
Fig. 2. Modello generale di aggregazione di proteine denaturate. Le diverse strutture degli aggregati sono  state osservate al microscopio a forza atomica  ( Muchowsky et Wacker, 2005)
Fig 3. Rappresentazione schematica di un confronto fra neuroni sani e neuroni con le caratteristiche  patologiche del morbo di Alzheimer  ( http://w3.uokhsc.edu)
Fig 4. I peptidi  β-amiloidi derivano dal taglio sequenziale della proteina precursore amiloide (APP) da parte  di due enzimi: la β- e la γ-secretasi (www.alzheimer.org)
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