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Amputazione di grossi segmenti in paziente diabetico

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Direttore Prof. Mario Petrini

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Direttore Prof. Paolo Miccoli

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Direttore Prof. Giulio Guido

________________________________________________________________________________

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA

“AMPUTAZIONI MAGGIORI NEL PAZIENTE

DIABETICO ”

RELATORE

CHIAR.MO PROF. MICHELE LISANTI

____________________

CANDIDATO

SIG. SIMONE MUSU

_________

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1

INTRODUZIONE

CAPITOLO 1 IL DIABETE E LE SUE COMPLICANZE CHE PORTANO AD AMPUTAZIONE

1.1 EPIDEMIOLOGIA E FISIOPATOLOGIA GENERALE 1.2 IL PIEDE DIABETICO

1.3 LA VASCULOPATIA PERIFERICA (AOP) 1.4 LA NEUROPATIA DIABETICA

1.5 IL PIEDE DI CHARCOT

1.6 LE INFEZIONI DEL PIEDE DIABETICO

CAPITOLO 2 LE AMPUTAZIONI

2.1 PRINCIPI GENERALI

2.2 SINDROME DELL’ARTO FANTASMA

CAPITOLO 3 L'INTERVENTO D’ AMPUTAZIONE MAGGIORE NEL PAZIENTE DIABETICO

3.1. AMPUTAZIONE TRANSTIBIALE 3.2. AMPUTAZIONE TRANSFEMORALE 3.3. PROGNOSI

3.4. COSTI

CAPITOLO 4. PROTESI DELL’ARTO INFERIORE

4.1 PROTESI TRANSFEMORALI 4.2 PROTESI TRANSTIBIALI

CAPITOLO 5. RIABILITAZIONE NEL PAZIENTE AMPUTATO CAPITOLO 6. MATERIALI E METODI

CAPITOLO 7. CASI CLINICI CAPITOLO 8. CONCLUSIONI CAPITOLO 9. BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

L’argomento trattato in questa tesi è l’amputazione maggiore dell’arto inferiore nel paziente diabetico ed in particolar modo la revisione dei dati su questo tipo di intervento presso la U.O. Ortopedia 1 Universitaria di Pisa dal gennaio 2011 ad oggi. Il diabete è la principale causa di amputazione non traumatica negli USA, il 15% dei pazienti diabetici sviluppa ulcera del piede e il 15-24% di questi va incontro ad amputazione. Le ragioni implicano l’interazione di vari fattori patogenetici del diabete, le sue complicanze croniche, quali la neuropatia, le alterazioni biomeccaniche dei piedi, l’arteriopatia periferica e la difficoltà nella cicatrizzazione delle ferite. Tali fattori intervengono in modo differente.

La neuropatia sensitiva periferica interferisce con i normali sistemi di protezione e il paziente va incontro a un trauma maggiore o un trauma minore ripetitivo al piede, senza avvertire dolore.

La propiocezione alterata causa carico anomalo durante la deambulazione, con conseguente formazione di callo e ulcere.

La neuropatia motoria e sensitiva determina alterata meccanica della muscolatura e cambiamenti strutturali del piede, quali piede di “Charcot”, dita a martello, dita ad artiglio, prominenza delle teste metatarsali.

La neuropatia autonomica si manifesta con anidrosi e alterazioni del circolo ematico superficiale del piede, che promuovono secchezza della cute e fissurazioni.

L’arteriopatia periferica e la difficoltà nella riparazione delle ferite impediscono la guarigione dai traumi minori della cute, permettendo loro di ingrandirsi e di infettarsi.

Tutte queste alterazioni alla fine convergono nella formazione di ulcere ai piedi e infezioni, che possono complicarsi a tal punto da richiedere l’amputazione d’arto. (6)

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CAPITOLO 1 IL DIABETE E LA SUE COMPLICANZE CHE PORTANO AD AMPUTAZIONE

1.1 EPIDEMIOLOGIA E FISIOPATOLOGIA GENERALE

Il diabete mellito (DM) è un'entità nosografica, caratterizzata da iperglicemia cronica, che comprende un gruppo di disordini metabolici a diversa eziologia.

I principali fattori che concorrono nel determinare l’iperglicemia cronica sono una ridotta secrezione di insulina, un ridotto utilizzo di glucosio da parte dei tessuti ed un conseguente incremento della sua produzione. Tali alterazioni metaboliche col tempo comportano danni irreversibili in molteplici sistemi ed organi, in particolare occhio, rene, sistema nervoso periferico, cuore e vasi sanguigni.

Il DM può essere classificato in base al meccanismo patogenetico attraverso il quale determina l’iperglicemia. Si distinguono pertanto due categorie: il diabete di tipo 1 o diabete insulino-dipendente (IDDM), causato da una distruzione autoimmunitaria delle cellule beta del pancreas che porta ad un deficit insulinico, ed il diabete di tipo 2 o diabete insulino-indipendente (NIDDM), che comprende un gruppo eterogeneo di alterazioni metaboliche, quali insulino-resistenza, alterata secrezione insulinica e/o aumentata produzione di glucosio determinate da numerosi difetti genetici e metabolici. (6)

Di particolare interesse per il nostro trattato sono state le complicanze vascolari che possono essere suddivise, in base al distretto vascolare colpito, in microvascolari o microangiopatiche, evidenziabili maggiormente a livello retinico, renale e del sistema nervoso periferico, e macrovascolari o macroangipatiche, che interessano soprattutto il distretto coronarico, epiaortico e periferico.

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Tali complicanze si sviluppano in relazione all’entità dell’iperglicemia e al suo tempo di persistenza nell’individuo. In particolare le complicanze macrovascolari portano ad un restringimento aterosclerotico del calibro dei vasi arteriosi dell’arto inferiore provocando così una condizione di ridotto afflusso sanguigno definito vasculopatia periferica. A questa si associa l’alterazione sensitivo-motoria dei nervi periferici, la neuropatia periferica, che provoca frequenti ulcerazioni e infezioni dell’arto inferiore, configurando infine la cosiddetta Sindrome del piede diabetico, la principale causa di amputazione nel paziente diabetico.

Da un punto di vista epidemiologico il DM di tipo 2 rappresenta il 90% dei casi di diabete e dipende, oltre che da una predisposizione genetica, anche da fattori ambientali e comportamentali quali l'obesità, la sedentarietà o un'alimentazione eccessiva e qualitativamente inappropriata. (18)

Nel 1997, da un’analisi dei dati elaborati dall’International Diabetes Federation, si identificavano almeno 124 milioni di soggetti affetti da diabete; tale valore risulta

notevolmente incrementato negli ultimi anni, come si evince dai dati del 2011 in cui i soggetti affetti erano circa 366 milioni, e si stima che salirà ulteriormente a 552 milioni nel 2030. Nel nostro Paese i dati ISTAT 2012 mostrano un’incidenza di malattia in circa il 5,5% della popolazione, pari ad oltre 3.000.000 di persone, di cui solo un 10% è affetto

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da diabete di tipo 1, mentre la restante parte è affetta da diabete di tipo 2. (Fig. 1 e Fig. 2) Nell'ultimo decennio si è poi assistito ad un incremento dell’incidenza di diabete di tipo 2 nei bambini e negli adolescenti e ciò risulta essere un dato allarmante in quanto la giovane età di esordio espone questi soggetti ad un elevato rischio di complicanze a lungo termine. L'incidenza della malattia sta tuttavia aumentando anche nei giovani adulti; sono infatti 200.000 i soggetti colpiti nella fascia di età tra 25 - 45 anni e ciò è probabilmente attribuibile ad un aumentata incidenza dell’obesità in questa fascia d’età.

I principali fattori di rischio per il diabete di tipo 2 sono: - età > 45 anni;

- obesità;

- storia familiare di diabete tipo 2;

- alterata tolleranza glucidica o alterata glicemia a digiuno; - ipertensione arteriosa (> 140/90) e/o dislipidemia;

- diabete gestazionale;

- condizioni di insulino-resistenza come la S.me dell'ovaio policistico; (18)

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Figura 3 diagramma sulla relazione tra l’aumento dell’obesità e il corrispettivo aumento del diabete negli USA.

La diagnosi di diabete, secondo i criteri dell’American Diabetes Association, si basa almeno una delle tre seguenti condizioni: sintomi del diabete associati a glicemia random ≥ 200mg/dl, glicemia a digiuno > 125mg/dl, glicemia ≥ 200mg/dl a 2 h dopo un test di tolleranza glucidica orale. (6)

Le complicanze del diabete vengono innanzitutto classificate in acute o croniche in base al meccanismo patogenetico che le determina.

Le complicanze acute sono dovute a carenza assoluta o relativa di insulina, a deplezione di volume e ad alterazioni dell’equilibrio acido-base ed comprendono la chetoacidosi diabetica e la sindrome iperglicemica iperosmolare.

Le croniche, per noi di maggior interesse, sono la principale causa di morbilità e mortalità nei pazienti diabetici. Poichè il rischio di complicanze croniche aumenta in

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funzione della durata dell’iperglicemia, solitamente queste divengono manifeste nella seconda decade di malattia. Tuttavia anche altri fattori, come dislipidemie ed ipertensione, possono rivestire un ruolo importante nello sviluppo di complicanze, soprattutto per quanto riguarda quelle vascolari. (6)

Sebbene l’iperglicemia sia un importante fattore eziologico per le complicanze nel DM, i meccanismi che le determinano non sono noti. Sono state però elaborate 4 ipotesi non mutuamente esclusive:

La prima ipotesi suggerisce che l’aumento dei livelli di glucosio intracellulare determini la formazione di prodotti terminali di glicosilazione avanzata (AGE) non enzimatica delle proteine intra- ed extracellulari, a causa dell’interazione del glucosio stesso con i gruppi amminici delle proteine. Gli AGE sono in grado di formare legami crociati tra proteine, accelerare il processo di aterosclerosi, promuovere la disfunzione glomerulare, ridurre la sintesi di ossido nitrico (NO), indurre una disfunzione endoteliale ed alterare la composizione e la struttura della matrice extracellulare. Il livello sierico degli AGE è correlato ai livelli di iperglicemia.

La seconda ipotesi si basa sul fatto che l’iperglicemia determina aumento del metabolismo glucidico attraverso la via del sorbitolo. Quando il glucosio intracellulare è in eccesso, una certa quota di questo viene convertita a sorbitolo ad opera dell’enzima aldoso-reduttasi. L’incremento delle concentrazioni di sorbitolo altera i potenziali redox aumentando l’osmolarità cellulare e generando composti reattivi dell’ossigeno, probabile causa di ulteriori disfunzioni cellulari.

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diacilglicerolo, inducendo l’attivazione della proteinchinasi C (PCK). Tra le molteplici azioni che svolge, la PCK è anche in grado di alterare la trascrizione dei geni codificanti per la fibronectina, il colleagene di tipo 4, le proteine contrattili e le proteine della matrice extracellulare sia nelle cellule endoteliali che nei neuroni.

La quarta ipotesi suggerisce che l’iperglicemia incrementi il flusso della via delle esosamine che genera il fruttosio-6-fosfato, un substrato utilizzato per la glicosilazione e la produzione dei proteoglicani. La via delle esosamine può alterare la funzione cellulare attraverso la glicosilazione di proteine come l’NO-sintasi endoteliale o attraverso le modificazioni dell’espressione genica del TGFβ (transforming growth factor β) o del fattore di inibizione dell’attivazione del plasminogeno PAI-1.

Sembrano comunque implicati anche alcuni fattori di crescita quali il VEGF, che risulta aumentato localmente nella retinopatia diabetica, oppure il TGFβ, che risulta aumentato nella nefropatia diabetica.

Una teoria unificante le quattro sopra riportate identifica nell’iperglicemia un importante fattore di stimolo nella produzione di specie reattive dell’ossigeno intracellulari responsabili dell’attivazione di tutte le vie sopra descritte. (6)

È stato dimostrato come nei pazienti diabetici uno stretto follow up, con valutazione della glicemia basale e dell’emoglobina glicata (Hb1Ac), garantisca una riduzione dell’incidenza di complicanze sia microvascolari che non.

Il beneficio appare meno significativo per le complicanze macrovascolari, la cui incidenza e gravità è maggiormente correlata ad un’alterazione del profilo lipidico, quali ipertrigliceridemia ed ipercolesterolemia. Il controllo dell’ipertensione invece provoca

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giovamento sia per le complicanze macrovascolari che per quelle microvascolari. (6) 1.2. IL PIEDE DIABETICO

Con il termine piede diabetico viene definita una sindrome, tipica del paziente diabetico, caratterizzata da molteplici presentazioni cliniche a gravità variabile, da alterazioni morfo-funzionali fino all’ulcerazione o alla necrosi, complicate o meno da infezioni e/o distruzione di tessuti profondi ed associate ad anomalie neurologiche e a vasculopatia periferica degli arti inferiori di vario grado. (Fig. 4) In tutti i casi l’evoluzione più infausta è rappresentata dall’amputazione dell’arto.

È ormai documentato in numerosi studi che circa il 15 % dei pazienti affetti da diabete presenta lesioni ulcerative a livello del piede, delle quali circa l’85% conducono il paziente ad intervento chirurgico di amputazione dell’arto inferiore; è stato inoltre osservato come circa il 70% delle ulcere guarite siano nel tempo soggette a recidiva. (18)

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1.3. LA VASCULOPATIA PERIFERICA

La vasculopatia periferica (AOP) nei pazienti diabetici, non diversamente rispetto alla popolazione generale, è prevalentemente determinata dalla presenza di placche ateromasiche, a sede subintimale nei vasi arteriosi del circolo periferico, che causano interruzione parziale (stenosi) o completa (occlusioni) del flusso ematico.

Sono principalmente colpiti i vasi di medio e grosso calibro, quali le arterie femorali e le poplitee, e meno frequentemente, le arterie tibiali e le peroniere; le lesioni aterosclerotiche si collocano in via preferenziale nei punti di biforcazione dell’albero arterioso oppure ove sussistono turbolenze di flusso, deformazioni da stiramento a livello della parete o lesioni dell’intima. Le placche aterosclerotiche possono talora essere associate a depositi calcifici oppure trombi costituiti da piastrine e fibrina. (6)

L’ AOP nel diabetico è tuttavia caratterizzata da una grande rapidità di progressione, da un interessamento prevalentemente distale e bilaterale dell’arto inferiore con maggior incidenza di fenomeni occlusivi rispetto quelli stenotici. L’AOP mostra infatti una prevalenza nel diabetico 3 volte superiore rispetto alla popolazione generale.

Secondo la misurazione dell’ankle-brachial pressure index (ABI) il 20% dei diabetici con più di 40 anni presenta tale patologia e tale percentuale è destinata a salire al 29% nei pazienti con più di 50 anni.

L’AOP nel diabetico risulta essere non la principale causa di lesioni ulcerative a livello del piede, bensì il principale fattore di rischio per l’amputazione sia minore che maggiore, in particolar modo, dell’arto inferiore. (18)

Meno del 50% dei pazienti con AOP è sintomatico, sebbene in molti di questi pazienti la deambulazione sia rallentata o compromessa.

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Da un punto di vista clinico il principale sintomo riferito è il dolore più o meno intenso, associato a crampi, perdita di sensibilità o affaticamento a livello della muscolatura dell’arto inferiore, che compare durante uno sforzo d’intensità variabile e regredisce col riposo. Segno caratteristico di tale quadro clinico è quindi la claudicatio intermittens la cui sede è generalmente distale rispetto alla sede di occlusione vascolare; nel paziente diabetico si osserva più frequentemente una claudicatio di gamba piuttosto che di coscia.

In presenza di quadri avanzati di AOP si evidenzia spesso dolore anche a riposo, nelle ore notturne, quando cioè l’arto si trova in una posizione orizzontale, per poi regredire con il passaggio alla stazione eretta.

I reperti obiettivi caratteristici di tale condizione sono la riduzione o scomparsa dei polsi arteriosi distali rispetto al livello di ostruzione, il riscontro di soffi nell’area di stenosi e la presenza di atrofia muscolare; nelle forme più gravi a questi si associano alopecia, ispessimento ungueale, aspetto lucente dell’epidermide, ipotermia cutanea, pallore e cianosi. In alcuni casi si possono osservare ulcere e gangrena. L’insorgenza di una neurite ischemica o della neuropatia diabetica determina persino una perdita di sensibilità. (7)

La diagnosi di AOP viene posta in base all’anamnesi, all’esame obiettivo ed a procedure strumentali invasive o meno. Essendo tale patologia molto frequente nei pazienti diabetici, questi necessitano di uno screening diagnostico una volta all’anno così da valutare obiettivamente il piede, attraverso anche la palpazione dei polsi periferici e l’ABI (ankle brachial pressure index) e ricercare un’eventuale claudicatio, che nel paziente diabetico può talvolta risultare attenuata o confusa dalla presenza di una concomitante neuropatia. Numerosi studi hanno evidenziato come il rischio di

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progressione dell’AOP in tali pazienti verso forme più gravi sia del 45% a sei anni e che l’evoluzione verso l’amputazione si abbia in circa il 2% dei casi.

L’ABI (ankle brachial pressure index) è una metodica diagnostica molto utilizzata durante la fase di screening; essa misura il rapporto tra la pressione sistolica rilevata a livello dell’arteria tibiale posteriore o della pedidia e quella rilevata a livello dell’arteria omerale o della radiale. Per queste misurazioni è necessario utilizzare una sonda Doppler ed un comune sfigmomanometro. Uno studio effettuato dalla American Diabetes Association (ADA) ha evidenziato come valori di ABI < 0,91 siano associati con alta probabilità alla presenza di AOP, mentre valori > 1,30 siano prevalentemente riconducibili alla presenza di calcificazioni della tonaca media. L’ADA consiglia uno screening in tutti i pazienti diabetici di età ≥ 50 anni ed in pazienti di età inferiore se presenti particolari fattori di rischio. In caso di reperto normale l’esame può essere ripetuto dopo 5 anni.

In caso di dolore cronico o persistente, dolore a riposo o presenza di ulcera del piede diventa fondamentale eseguire una diagnosi più accurata in modo da valutare con precisione se esiste o meno un’indicazione a procedure di rivascolarizzazione. In tal caso si ricorre generalmente alla classificazione di Leriche Fontaine, la quale identifica 4 stadi di AOP:

1° stadio: paziente asintomatico; 2° stadio: presenza di claudicatio; 3° stadio: presenza di dolore a riposo; 4° stadio: presenza di ulcera o gangrena;

Tale classificazione tuttavia mal si adatta al paziente diabetico in quanto una concomitante neuropatia può abolire in parte o totalmente la percezione del dolore sia

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durante il cammino che a riposo. (7)(18)

Nel paziente diabetico si dovrebbero quindi prediligere i criteri diagnostici della TransAtlantic InterSociety Consensus (TASC) del 2007 che identifica nel soggetto con ulcera o gangrena o dolore a riposo, con pressione alla caviglia < 50-70 mmHg o all’alluce < 30-50 mmHg o valori di ossimetria transcutanea < 30-50 mmHg, un’alta probabilità di amputazione a 6-12 mesi. Va tuttavia considerato che, nel 50% dei pazienti con ulcera del piede, la rilevazione della pressione a livello di caviglia o alluce non è spesso semplice data la irreperibilità o l’incompressibilità delle arterie (Fig. 5)

Tale procedura è stata quindi negli ultimi anni sostituita dall’utilizzo dell’ EcocolorDoppler arterioso degli arti inferiori, una metodica non invasiva considerata ad oggi il gold standard nella diagnosi di AOP nel paziente diabetico. Tale metodica permette di ottenere informazioni morfologiche sullo spessore della parete arteriosa, una localizzazione precisa sia della sede che delle dimensioni di stenosi ed occlusioni ed una valutazione della velocità di flusso sia a monte che a valle di queste. È tuttavia un esame operatore-dipendente.

L’ossimetria transcutanea esprime un dato funzionale complessivo sull’irrorazione dell’arto ed è pertanto indice della gravità dell’ipossia tissutale. Valori < 50 mmHg sono indicativi di uno stato d’ischemia critica; al ridursi di tali valori si osserva un aumento del rischio di amputazione dell’arto pertanto essi pongono l’indicazione

Figura 5 criteri diagnostici di “ischemia critica cronica” secondo la TransAtlantic interSociety Consensus (TASC)

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all’esecuzione di un’angiografia e di un eventuale procedura di rivascolarizzazione. (18) L’angiografia, sebbene sia una procedura invasiva, è spesso molto utilizzata poiché permette una precisa definizione dell’estensione, della localizzazione e della morfologia delle lesioni vascolari arteriose, definendo inoltre con precisione l’anatomia vascolare e le sue eventuali varianti. La tossicità renale del mezzo di contrasto può essere ridotta mediante l’utilizzo di adeguati protocolli di idratazione pre e post-procedura.

Infine è possibile utilizzare anche angio-TC ed angio-RM, indagini diagnostiche non invasive che forniscono ottime immagini per lo svolgimento di procedure di rivascolarizzazione. Tuttavia l’elevato costo ed una minor accessibilità alle strumentazioni ne limitano l’utilizzo. (18)

La diagnosi precoce di AOP è fondamentale al fine di migliorare l’evoluzione clinica della malattia vascolare e ridurre il più possibile il rischio per il paziente di incorrere in un intervento demolitivo e spesso invalidante come l’amputazione. È inoltre estremamente importante identificare e soprattutto correggere il più possibile tutti i fattori di rischio riscontrabili non solo nei pazienti diabetici ma anche nella popolazione generale, come il fumo, l’ipertensione arteriosa o l’obesità. (18)

È importante non dimenticare come l’AOP sia spesso un campanello d’allarme per una patologia molto estesa che non interessa esclusivamente l’arto inferiore ma si estende anche ad altri distretti vascolari, in particolare quello coronarico e/o cerebrale; il rischio di infarto e/o ictus è infatti più che raddoppiato nei pazienti con AOP sia diabetici che non. Data la sua alta prevalenza nella popolazione diabetica e il frequente ricorso all’amputazione, sarebbe necessario identificare tale complicanza precocemente in tutti i pazienti diabetici onde prediligere un trattamento conservativo che eviti così l’amputazione. (18)

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Il trattamento conservativo si basa di solito su misure generali di supporto, somministrazione di farmaci adeguati ed interventi di tipo non chirurgico. Le misure di supporto prevedono l’igiene scrupolosa dei piedi, che devono essere mantenuti puliti evitando la secchezza cutanea attraverso l’uso di creme emollienti. Si consigliano inoltre scarpe comode ed adeguatamente rinforzate per ridurre il rischio di traumi e chiaramente un attento controllo dei fattori di rischio.

La terapia farmacologica si avvale di vasodilatatori, quali calcio-antagonisti, α-bloccanti, papaverina ed altri. La pentossifillina, un derivato della xantina, ha dimostrato di aumentare la perfusione del microcircolo e l’ossigenazione tissutale, aumentando così la tolleranza allo sforzo fisico. Il cilostazolo, un inibitore delle fosfodiesterasi con attività vasodilatatoria ed antiaggregante piastrinica, ha mostrato di migliorare l’andatura nei pazienti con claudicatio. La somministrazione prolungata di prostaglandine per via parenterale, con effetto vasodilatatorio, permette di ridurre il dolore in pazienti con dolore cronico all’arto e di facilitare la cicatrizzazione delle ulcere. Gli antiaggreganti piastrinici hanno mostrato buoni risultati nel prevenire episodi cardiovascolari sfavorevoli in pazienti con AOP.

Le procedure di rivascolarizzazione vengono riservate a pazienti con ischemia critica al fine di ridurre il più possibile l’eventuale ricorso all’amputazione. Le tecniche di rivascolarizzazione non chirurgica sono rappresentate dall’angioplastica transluminale percutanea, dall’aterectomia e dal posizionamento di stent. L’angioplastica percutanea ha dimostrato efficacia completa nell’80% dei pazienti con pervietà conservata a 3 anni nel 60% dei casi.

Tecniche di rivascolarizzazione chirurgica consistono in by-pass o tromboendoarterectomia. I by-pass, maggiormente utilizzati nei casi di patologia del

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distretto femoro-popliteo, si basano generalmente sull’utilizzo di safena autologa, prelevata dall’arto controlaterale; tali procedure hanno mostrato conservazione della pervietà ad 1 anno nel 90% degli individui e a 5 anni nel 70-80%. (18)(7)(23)

È tuttavia importante tenere in considerazione come il paziente diabetico sia affetto da una patologia cronica, gravata nel tempo da numerose complicanze, spesso identificate e trattate in stadio già avanzato. L’insorgenza di nuove complicanze, soprattutto a carico del sistema vascolare, può esitare in un fallimento dei trattamenti conservativi rendendo mandatorio il ricorso all’intervento di amputazione.

1.4. LA NEUROPATIA DIABETICA

La neuropatia diabetica rientra tra le complicanze microvascolari e compare in circa il 50% degli inividui con DM di tipo 1 o di tipo 2 di lunga durata. Si può manifestare come polineuropatia sensitivo motoria oppure mononeuropatia e/o neuropatia autonomica. Lo sviluppo della neuropatia, correlato principalmente alla durata del diabete e ad un inadeguato controllo glicemico, colpisce sia le fibre mieliniche che amieliniche. (18)(6)

La forma più comune di neuropatia diabetica è la polineuropatia simmetrica distale; si manifesta solitamente con la perdita della sensibilità distale, sebbene possano comparire anche iperestesia, parestesie o disestesie. I sintomi comprendono sensazione di intorpidimento, formicolio o bruciore che iniziano ai piedi con successiva diffusione in senso disto-prossimale.

Nelle prime fasi alcuni soggetti possono sviluppare dolore neuropatico che coinvolge tipicamente le estremità inferiori, può presentarsi anche a riposo e peggiorare di notte.

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Con il progredire della neuropatia il dolore generalmente si attenua e alla fine scompare mentre persiste invece un deficit sensitivo alle estremità inferiori. Obiettivamente si può quindi osservare perdita della sensibilità, deficit parziale o completo dei riflessi osteotendinei ed un’alterata percezione della posizione.

La poliradicolopatia diabetica è una sindrome caratterizzata da grave dolore invalidante nel territorio di distribuzione di una o più radici nervose. Può essere accompagnata da ipostenia motoria ed in relazione al plesso nervoso coinvolto può determinare dolore toracico, addominale, alla coscia o all’anca ed essere accompagnata da debolezza muscolare (amiotrofia diabetica); di solito regredisce spontaneamente in 6-12 mesi.

La mononeuropatia, disfunzione di un nervo cranico o periferico isolato, è meno comune e si presenta con dolore e debolezza motoria nel territorio di distribuzione del singolo nervo. É stata evidenziata un’eziologia vascolare, tuttavia la patogenesi non è nota. Il coinvolgimento del terzo paio di nervi cranici è molto comune e si manifesta con diplopia, ptosi ed oftalmoplegia con normale costrizione pupillare alla luce. Possono anche verificarsi mononeuropatie periferiche o coinvolgenti contemporaneamente più di un nervo (mononeuropatie multiple). (18)(6)

Pazienti con DM di lunga durata possono sviluppare segni di disfunzione autonomica che coinvolge i sistemi colinergico, noradrenergico e peptidergico.

La neuropatia autonomica può coinvolgere diversi apparati, tra cui i sistemi cardiovascolare, sistema gastrointestinale, genitourinario, sudoriparo e metabolico, determinando tachicardia a riposo ed ipotensione ortostatica e in alcuni casi addirittura causare morte improvvisa, gastroparesi ed anomalie dello svuotamento vescicale, può inoltre ridurre la secrezione degli ormoni contro regolatori determinando incapacità

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nell’avvertire appropriatamente l’insorgenza di ipoglicemia.

Essa ha anche un ruolo importante nella patogenesi del piede diabetico poiché provoca una perdita del tono simpatico con ripercussioni sulla normale circolazione periferica del piede. La riduzione del tono vasocostrittore favorisce un aumento del flusso cutaneo, con conseguente incremento della temperatura, che associato all’aumento della permeabilità capillare può rendersi responsabile della comparsa di edema per l’elevazione della pressione idrostatica del microcircolo. A ciò si associa inoltre l’apertura degli shunt artero-venosi con conseguente ulteriore congestione vascolare. Si ha così una completa anidrosi con cute secca, anelastica e desquamata e comparsa di fissurazioni, specie in regione calcaneale. Tali modificazioni sono ad elevato rischio di ulcerazione ed infezione. Si verifica infine atrofia dei muscoli interossei e comparsa delle tipiche alterazioni strutturali quali dita ad artiglio, alluce valgo, dita a martello, dita sovrapposte, arco plantare accentuato, teste metatarsali prominenti e molte altre ancora.

La neuropatia autonomica, associata alle polineuropatia distale sensitivo-motoria, porta allo sviluppo del cosiddetto piede neuropatico che risulta essere il principale fattore di rischio per la comparsa di lesioni ulcerative. La neuropatia periferica si verifica a causa dell’iperglicemia cronica e dell’ipossia neurale dovuta alla riduzione del flusso ai vasi tributari dei nervi periferici. (18)(6)

Il piede neuropatico è quindi la manifestazione conclusiva di molteplici eventi patologici che coinvolgono tutte le strutture deputate alla deambulazione. L’evento finale conseguente a tali alterazioni anatomo-funzionali è lo sviluppo di aree di ipercarico circoscritte che vanno poi incontro ad ipercheratosi e fissurazioni con formazione infine di ulcere, poiché non sono aree fisiologicamente predisposte a

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sopportare elevati carichi deambulatori. (18)

La neuropatia diabetica rappresenta una complicanza molto insidiosa sia per le numerose complicanze a cui può dare vita sia perché i pazienti, spesso ancora oggi, ne vengono a conoscenza quando sono già comparse delle ulcere. Per tale motivo sono fondamentali strategie di prevenzione, mediante diagnosi precoce, e strategie terapeutiche.

Per la diagnosi vengono utilizzati il test al monofilamento, il Diabetic Neuropathy Index, il biotesiometro o il diapason, la misurazione delle pressioni plantari.

Il biotesiometro e il diapason sono strumenti in grado di valutare la perdita di sensibilità vibratoria che viene considerata tra i fattori più predittivi di ulcerazione.

La misurazione delle pressioni plantari permette di individuare aree di carico anomalo a rischio di ulcerazione. La misurazione può avvenire attraverso sistemi di misura fissi, come le pedane, oppure indossabili dal paziente, come le solette, durante il cammino in piano. I sistemi indossabili sono migliori per tale valutazione poiché lo stress meccanico plantare si verifica durante l’interazione piede-suolo e questo, associato alle caratteristiche della cute e ai cambiamenti morfo-funzionali dovuti alla neuropatia, è considerato una delle maggiori cause di ulcerazione. Tuttavia, a causa dell’elevato costo della strumentazione e della scarsa uniformità dei dati che definiscono la soglia di ulcerazione, tale metodica non risulta essere una delle più utilizzate. (18)

Qualora venga diagnosticato un piede diabetico sono necessarie azioni di prevenzione quali la rimozione delle elevate pressioni plantari e una riabilitazione che permetta di recuperare l’elasticità del piede, associata ad una educazione alla perdita della sensibilità. Lo scarico delle elevate pressioni plantari rappresenta uno dei punti

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cardine dal momento che il trattamento podologico gioca un ruolo cruciale nella prevenzione delle lesioni ulcerative; a tal fine vengono creati dei plantari per lo scarico delle aree del piede soggette a carico anomalo e per la protezione delle deformità assiali delle dita.

1.5. IL PIEDE DI CHARCOT

La neuroartropatia di Charcot è una severa complicanza che si manifesta in circa l’1-7% dei pazienti diabetici, accompagna il decorso della neuropatia diabetica e può anch’essa portare a complicanze che conducono poi all’amputazione dell’arto. Il suo decorso è caratterizzato dalla comparsa di quadri diversi di deformità e di instabilità articolari che possono colpire tutte le parti del piede. Si verifica un’alterazione dell’appoggio plantare che condiziona l’insorgenza di picchi pressori in punti ben definiti creando le condizioni per la comparsa di lesioni ulcerative. Queste sono spesso intrattabili e pongono il piede ad elevato rischio di amputazione per il sopraggiungere di estesi processi osteomielitici. (18)

La patogenesi è di origine neuro-traumatico-vascolare a causa dell’insensibilità del piede che ha perso ogni meccanismo di protezione. Si vengono quindi a creare dei traumi meccanici ripetuti, durante la stazione eretta e la deambulazione, che causano distruzione ossea. La distruzione ossea è anche secondaria alla componente autonomica della neuropatia diabetica, responsabile della perdita del controllo vasomotorio che si accompagna ad un aumentato flusso sanguigno all’osso, all’apertura di shunt artero-venosi ed alla vasodilatazione periferica. (18)

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Clinicamente il sintomo maggiormente riferito è una comparsa improvvisa di moderato dolore al piede, accompagnato da segni di infiammazione, come tumefazione calore ed arrossamento, che possono interessare molteplici regioni del piede. Nei casi più gravi si evidenzia fin da subito una tumefazione del piede che si accompagna ad una grave deformità e conseguente instabilità articolare, specialmente se il processo osteodistruttivo interessa il mesopiede, l’articolazione della caviglia ed il retro piede (Fig. 6).

La deformità ossea secondaria ai traumi da cammino ripetuti può inoltre provocare lesioni ulcerative in diverse zone della superficie plantare quali l’avampiede, il mesopiede, il retropiede ed i malleoli tibiale e/o peroneale. (18)

Nella fase di cronicità della neuroartropatia di Charcot si ha remissione dei segni di flogosi locale ma permangono le deformità osteoarticolari residue con conseguente instabilità più o meno severa del piede. Le gravi deformità del mesopiede e della caviglia sono dovute al ritardato riconoscimento del processo fratturativo e dello scorretto trattamento; un trattamento conservativo, con applicazione di uno stivaletto

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rigido in gesso, deve quindi essere instaurato il più precocemente possibile poiché potrebbe arrestare il processo osteodistruttivo conservando l’integrità anatomo-funzionale del piede.

Il processo patologico può essere analizzato da un punto di vista radiologico e suddiviso in tre fasi distinte: dissoluzione ossea, coalescenza e rimodellamento.

La fase di dissoluzione ossea, che dura all’incirca da 3 a 6 mesi, rappresenta la fase acuta della malattia in cui sono evidenti i segni di flogosi locale quale edema del piede con cute calda e arrossata e dolore. Possono essere evidenti fin dall’inizio anche severe deformità del piede con grave instabilità articolare quando il processo distruttivo va ad interessare il mesopiede, l’articolazione della caviglia ed il calcagno. Quando invece è interessato l’avampiede la stabilità è mantenuta. Radiograficamente si possono evidenziare riassorbimento osseo ed erosione della cartilagine e dell’osso subcondrale, eventuali microfratture e fratture più complesse, causa di deformità ed instabilità.

La fase di coalescenza, della durata dai 6 ai 12 mesi, si caratterizza per riduzione dei segni di flogosi. Alla radiografia si osserva riassorbimento dei detriti ossei più piccoli ed iniziale consolidamento della/e frattura/e. Clinicamente si apprezza una riduzione della mobilità articolare e presenza di deformità residua.

La fase di rimodellamento comporta il consolidamento finale e definitivo delle fratture nel tentativo di ripristinare la stabilità del piede indipendentemente dalla deformità alla quale il piede è giunto. Possono residuare deformità strutturali ed instabilità articolari di diversa severità; le gravi deformità, qualora si siano verificate, possono accompagnarsi a lesioni plantari in diverse zone della superficie plantare e si caratterizzano per la presenza di abbondante callosità perilesionale con scarsa tendenza alla guarigione.

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È possibile correlare il grado di instabilità articolare, e la sede di insorgenza di ulcerazione corrispondente, con la percentuale di rischio di incorrere in un intervento di amputazione maggiore: le deformità dell’avampiede e del calcagno hanno un basso rischio di instabilità articolare e di amputazione, le deformità del mesopiede hanno invece un alto rischio mentre le deformità della caviglia hanno un rischio altissimo. (18)

1.6. LE INFEZIONI DEL PIEDE DIABETICO

Le infezioni nel paziente diabetico si manifestano con frequenza e gravità maggiori rispetto al non diabetico.

La causa di questa maggior suscettibilità risiede nell’iperglicemia cronica che causa anomalie nell’immunità cellulo-mediata e della fagocitosi e favorisce la colonizzazione di alcuni microrganismi, in particolar modo le specie fungine; inoltre la vasculopatia periferica, frequente in tali pazienti, provoca una riduzione della vascolarizzazione tissutale rendendo ulteriormente meno efficiente il sistema immunitario.

Le infezioni più frequenti nel diabetico sono polmoniti, infezioni delle vie urinarie, infezioni cutanee e dei tessuti molli; è inoltre presente un aumentato rischio di infezione delle ferite chirurgiche con possibile deiscenza delle stesse.

Uno scarso controllo glicemico è denominatore comune in queste infezioni per cui un attento controllo della glicemia risulta particolarmente indicato al fine di prevenire tale complicanza. (6)(18)

Analizzando più attentamente i processi infettivi a carico del piede si è osservato come questi siano i principali responsabili della maggior parte degli interventi di amputazione maggiore con un rischio 30 volte maggiore rispetto ad un paziente non

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diabetico. Le infezioni del piede infatti precedono oltre i due terzi delle amputazioni maggiori e si manifestano principalmente come conseguenza di una lesione ulcerativa sia essa legata alla neuropatia periferica oppure alla vasculopatia degli arti inferiori. L’iperglicemia cronica e la non adeguata “cura del piede” aumentano enormemente il rischio di infezione.

La neuropatia periferica è fortemente correlata all’infezione poiché è quella maggiormente implicata nella formazione dell’ulcera e nelle alterazioni strutturali e funzionali del piede.

La persistenza di un carico anomalo determina il formarsi di una soluzione di continuo della cute con attivazione dei meccanismi di flogosi cronica che tendono a perpetuarsi; tutto ciò aumenta il rischio del sovrapporsi di eventi infettivi che rallentano i processi di guarigione e possono provocare un’infezione dei tessuti molli o un’osteomielite.

L’AOP, in presenza di un quadro infettivo, condiziona l’evoluzione del quadro clinico in modo sfavorevole poiché compromette le probabilità di guarigione.

Una diagnosi d’infezione si basa sostanzialmente sulla valutazione clinica (presenza di secrezione purulenta dal fondo della lesione, segni di infiammazione locale quali edema o indurimento, cellulite, calore, dolore e presenza di sintomi sistemici di tossicità) e, successivamente, attraverso un esame colturale.

Esiste inoltre una classificazione clinica, la Classificazione di Lipsky, basata sulla severità dell’infezione che ne identifica tre tipi: lievi, moderate e severe (Fig.7) .

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Figura 7 Classificazione clinica del piede diabetico infetto, Lipsky et all, 2004

Le infezioni lievi sono identificate dalla presenza di due o più manifestazioni locali di infiammazione, cellulite/eritema esteso per meno di 2 cm attorno alla lesione ulcerativa, assenza di segni o sintomi sistemici, infezione superficiale della cute e del tessuto sottocutaneo.

Le infezioni moderate si individuano per la presenza di una o più delle seguenti caratteristiche: cellulite con estensione maggiore di 2 cm dal contorno della lesione, linfangite, infezione profonda con interessamento di fascia, muscoli, tendini, articolazioni o osso. Possono presentare o meno sintomi sistemici, mantenendo un quadro metabolico stabile.

Le infezioni severe sono quelle che hanno associazione con una tossicità sistemica o instabilità metabolica quali febbre, vomito, leucocitosi, acidosi, severa iperglicemia o iperazotemia, tachicardia, confusione, ipotensione.

Un ulteriore classificazione, la Texas University Classification, definisce la lesione in base alla profondità dell’ulcera, alla presenza di infezione e/o ischemia (Fig. 8). Sulla

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base di ciò viene valutato il rischio per il paziente di incorrere in un intervento d’amputazione.

Figura 8 Classificazione delle lesioni del piede diabetico secondo l’University of Texas.

I patogeni vanno ricercati mediante esame colturale sui tessuti profondi, meglio se estratti durante una toilette chirurgica a livello della lesione ulcerativa. I tamponi superficiali risultano facilmente contaminati dalla flora residente. Le infezioni sono solitamente polimicrobiche e i batteri più frequentemente coinvolti nel processo infettivo sono Staphylococcus aureus, gli Streptococchi β-emolitici, Enterobacteriaceae. Sono tuttavia in aumento le infezioni da batteri che hanno sviluppato resistenza alle terapie antibiotiche come lo Staphylococcus aureus meticillino-resistente.

In base alla sede colpita tali infezioni possono essere distinte in infezioni dei tessuti molli ed infezioni dell’osso.

Le infezioni dei tessuti molli sono processi infettivi che complicano il decorso di una lesione ulcerativa e sono la cellulite semplice, infezione acuta della cute e del tessuto sottocutaneo che non si associa a manifestazioni sistemiche ed è trattata in regime ambulatoriale, l’ascesso plantare, raccola di materiale purulento a livello del derma e dei tessuti molli profondi, la fascite necrotizzante, infezione profonda molto aggressiva

che interessa rapidamente i tessuti sottocutanei attraverso i piani profondi della fascia senza tuttavia coinvolgere le sottostanti strutture muscolari, e la gangrena.

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27

Le infezioni dell’osso o osteomieliti sono processi infettivi che causano la distruzione della struttura ossea, coinvolgendo la corticale e il midollo.

L’osteomielite cronica è una delle principali cause di amputazione del piede diabetico; è sempre secondaria ad una lesione ulcerativa infetta e può interessare qualsiasi osso del piede. Nell’osteomielite è presente una persistente reazione infiammatoria il cui perpetuarsi determina il prevalere della fase di riassorbimento su quella di neoformazione ossea. (18)

Il trattamento conservativo di questa condizione è complesso poiché si viene ad instaurare un circolo vizioso in cui la vasculopatia, inizialmente una delle principali cause dell’infezione, diviene successivamente conseguenza dei processi flogistico-infettivi aggravandone il quadro ed ostacolando la buona riuscita delle terapie antibiotiche; in molti casi spesso è necessario ricorrere fin da subito alla rimozione chirurgica del segmento osseo infetto, con adeguata toilette chirurgica dei tessuti circostanti, seguita da antibioticoterapia. (18)

Se il riconoscimento di un’infezione lieve o moderata dei tessuti molli è precoce, attuando le cure più adeguate, si può ottenere una buona risposta clinica alla terapia con risoluzione del processo infettivo nell’80-90% dei casi. Le infezioni severe, con interessamento dei tessuti profondi e/o dell’osso, si associano invece ad alta percentuale di fallimento terapeutico, con elevato rischio di amputazioni minori (50-60% dei casi) e di amputazioni maggiori (24-40% dei casi).

È quindi importante sottolineare come una diagnosi precoce associata ad un’altrettanto precoce ed adeguata terapia consenta di ridurre il rischio di ricorso all’amputazione dell’arto e quindi di decesso per il paziente. (18)

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28

CAPITOLO 2 LE AMPUTAZIONI

2.1 PRINCIPI GENERALI

Con il termine amputazione si intende l’asportazione chirurgica di un segmento anatomico per trauma o patologia, sezionando uno o più segmenti ossei; essa viene distinta dalla disarticolazione con la quale si intende la rimozione di un segmento a livello di un’articolazione. (1)

Gli interventi d’amputazione vengono solitamente eseguiti per malattie vascolari periferiche, traumi, malformazioni congenite e, sebbene più raramente, anche per neoplasie. Il numero di amputazioni aumenta ogni anno a causa dell’aumento nella popolazione della prevalenza di diabete e malattie vascolari periferiche. Per quanto riguarda il distretto corporeo interessato l’85% degli interventi interessano gli arti inferiori e solo il 15% gli arti superiori; inoltre si è osservata una netta prevalenza, circa il 75% di tali interventi, nel sesso maschile rispetto al sesso femminile. (6)

L’indicazione assoluta all’amputazione è la perdita irreparabile della funzionalità e della vascolarizzazione di un arto, per patologie o traumi, poiché questo evento porta a necrosi tissutale e diffusione delle sostanze tossiche, prodotte in tal sede, in tutto l’organismo con danno tossico sistemico e rischio di morte per shock e setticemia.

Una delle principali indicazioni all’intervento di amputazione è il fallimento di tutte le terapie conservative precedentemente attuate, in particolar modo delle procedure di rivascolarizzazione.

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29

medica, e la presenza di tumori maligni. (1)

Anche per anomalie congenite degli arti si può ricorrere all’amputazione così da rimuovere tutto o parte del segmento interessato e migliorarne la funzionalità, con o senza l’impiego di protesi.

Nei pazienti diabetici, oggetto di studio di questa tesi, si può osservare come l’indicazione principale all’intervento sia la contestuale presenza di più fattori quali diastrofismo cutaneo ed infezioni, che determinano l’instaurarsi di un quadro non recuperabile neanche con tecniche di rivascolarizzazione, in cui i processi infettivo e gangrenoso possono mettere a rischio la sopravvivenza del paziente.

Va tenuto presente come l’84% delle amputazioni siano precedute da ulcerazioni del piede e che un precoce e adeguato trattamento delle ulcere può ridurre l’incidenza di amputazioni maggiori. Quando possibile, infatti, si cerca di ricorrere ad interventi di amputazione minore, e solo dopo un loro fallimento, si procede ad intervento più demolitivi, poiché è necessario ripristinare la migliore funzionalità possibile dell’arto e permettere al paziente di mantenere più a lungo autonomia di movimento ed indipendenza. (23)(21)

Tali interventi possono essere eseguiti sia in urgenza che in elezione; si ricorre al trattamento urgente in caso di piede diabetico acuto, nella gangrena gassosa e nella setticemia, poiché queste condizioni mettono ad alto rischio la vita del paziente.

Quando possibile, invece, è preferibile pianificare attentamente la procedura in modo da avere una adeguata preparazione del paziente per far si che giunga all’intervento col miglior performance status possibile.

La preparazione avviene generalmente nel reparto di diabetologia, dove vengono corretti l’eventuale malnutrizione proteico-calorica, le disprotidemie ed i livelli

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glicemici. Quando il paziente ha raggiunto un buon equilibrio nutrizionale e metabolico viene inviato al reparto di ortopedia dove si può procedere con l’intervento.

Terminato l’intervento, il paziente viene adeguatamente monitorato e successivamente reinviato presso il reparto di diabetologia dove trascorrerà il periodo post-operatorio.

Gli interventi d’amputazione possono essere eseguiti secondo due procedure: le amputazioni aperte ed amputazioni chiuse.

L’intervento di amputazione aperta prevede che la cute non venga suturata al di sopra dell’estremità del moncone pertanto l’intervento viene eseguito quando c’è elevata probabilità di sviluppare un’infezione a livello del moncone come in caso di ferite infette o ferite conseguenti a traumi importanti con necrosi estesa e notevole contaminazione da parte di sostanze estranee. La sezione trasversale è lasciata aperta a drenare liberamente per 10-14gg e verrà poi sottoposta a sutura in un secondo momento. Ciò è importante poiché la chiusura di un moncone infetto porta a un ritardo della guarigione della ferita chirurgica, o ad una deiscenza della stessa, a cui può seguire la necessità di un nuovo intervento chirurgico di revisione.

Esistono due tecniche chirurgiche distinte: amputazione con lembi cutanei introflessi ed amputazione circolare.

L’amputazione con lembi cutanei introflessi consiste nel suturare a punti staccati i margini dei lembi cutanei con sottocute e fascia alla base degli stessi a cui segue successivamente l’introflessione di tali margini. Ai lembi si applica poi una trazione di 1,4 kg per impedirne la retrazione.

Dopo 10-14 gg se l’estremità del moncone è ricoperta da un valido tessuto di granulazione e non sono presenti segni di un processo infettivo in atto si procede al

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secondo tempo di sutura del moncone.

L’amputazione circolare aperta prevede che ciascun strato di tessuto sotto la pelle venga lasciato riavvolgere prima di essere tagliato l’osso, di modo che dopo che è stata completata l’operazione e la trazione è stata applicata sulla cute, il moncone ha l’aspetto di un cono invertito

Le amputazioni chiuse prevedono l’utilizzo di uno o due ampi lembi di tessuto muscolo cutaneo per formare una copertura al di sopra dell’estremità dell’osso in un unico atto chirurgico. (1)(5)

Il trattamento post-operatorio prevede, per ciascuno di questi interventi, l’utilizzo di bendaggi o riduttori per ridurre il più possibile l’insorgenza dell’edema; è importante però evitare un’eccessiva pressione a livello della parte prossimale del moncone per non incorrere in un’ischemia della parte distale. Il bendaggio va sostituito regolarmente in modo da mantenere sempre un buon grado di compressione e controllare la guarigione della ferita. Il paziente dovrà poi seguire un lungo programma di riabilitazione che prevederà contrazioni muscolari del moncone ed esercizi di mobilizzazione dell’articolazione così da riprendere e mantenere un buon trofismo muscolare ed evitare atteggiamenti viziati dell’arto, in particolar modo la flessione di anca o ginocchio, determinati dalla prevalenza dei muscolo flessori sugli adduttori, tipica complicanza di tali interventi. Un adeguato condizionamento nell’immediato postoperatorio ed un ottimo percorso riabilitativo faciliteranno al paziente l’eventuale adattamento alla protesi ed un precoce ritorno al recupero delle normali attività quotidiane.

La deambulazione con stampelle viene generalmente iniziata quando il paziente dimostra di essere in grado di controllare l’arto protesizzato con sicurezza. La riabilitazione si considera conclusa quando il paziente ha ricevuto la protesi definitiva,

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elaborata su misura del moncone, ed è abituato al suo uso. (1)(23)

Come per tutte le procedure chirurgiche anche l’amputazione è spesso seguita dall’instaurarsi di complicanze postoperatorie, quali un ematoma a livello del moncone, che può ritardare la guarigione della ferita ed essere un buon substrato per l’insorgenza d’infezioni batteriche, la formazione di aree di necrosi cutanea a livello dei margini, che possono ritardare la cicatrizzazione della ferita o la comparsa di deiscenze.

L’instaurarsi di rigidità articolari va evitata mantenendo il moncone in posizione corretta, rinforzando i muscoli e mobilizzando le articolazioni.

I neurinomi sono delle proliferazioni non neoplastiche delle cellule di shwann, costituenti delle guaine nervose, che possono formarsi in corrispondenza delle strutture nervose recise come tentativo di ripristino delle precedenti connessioni. Essi sono spesso causa di sintomatologia dolorosa, specie se localizzati a livello della cicatrice chirurgica, poiché possono rimanervi inglobati all’interno.

Ultima complicanza, ma non per importanza, che può verificarsi è la sindrome dell’arto fantasma. (1)(5)

2.2 SINDROME DELL’ARTO FANTASMA

La sindrome dell'arto fantasma corrisponde alla sensazione anomala di persistenza di un arto dopo la sua amputazione o dopo che questo sia diventato insensibile: il soggetto affetto da questa patologia ne avverte la posizione, accusa sensazioni moleste e spesso dolorose, talora addirittura movimenti come se questo fosse ancora presente.

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in svariati modi diversi. Le sensazioni riferite possono essere di natura tattile, dolorifica e motoria, inoltre l'arto può apparire al soggetto mobile o immobilizzato in una posizione fissa, solitamente quella precedente all'amputazione. I casi di dolore all'arto fantasma sono particolarmente difficili da combattere e sono particolarmente opprimenti dal punto di vista psicologico. La natura dell'arto fantasma non è sempre fedele a quella di quello posseduto prima dell'amputazione, a volte ad esempio viene percepita solo la mano direttamente attaccata alla spalla o possono essere percepiti arti sdoppiati o multipli. Ancora oggi non è chiara quale sia la reale eziopatogenesi del processo pertanto sono state sviluppate numerose teorie.

A seguito di un intervento di amputazione tale fenomeno è riscontrabile nel 90-100% dei pazienti. Può presentarsi non appena termina l’effetto dell’anestetico, ma anche alcuni giorni o addirittura dopo settimane dall’intervento. La sintomatologia può perdurare per molti anni o persino tutta la vita. (27)(1)

Nei casi di dolore persistente la maggior parte dei trattamenti, nel corso degli ultimi due decenni, non ha mostrato un miglioramento considerevole dei sintomi. Questi includevano farmaci, come antidepressivi, anticonvulsivanti, neurolettici ed analgesici, e terapie, quali TENS ( Transcutaneous Electrical Nerve Stimulation) ed ultrasuonoterapia, la terapia di vibrazione, l'agopuntura, l'ipnosi o il biofeedback.

Sembra abbastanza promettente l’utilizzo della terapia del box specchio il cui primo utilizzo pratico nella riabilitazione di pazienti amputati lo si evidenzia da uno studio di Ramachandran et al. del 1995. L’arto mancante, in cui si localizza il dolore fantasma, viene “ricreato” attraverso l’uso di uno specchio: al paziente viene chiesto di muovere l’arto sano, che viene riflesso sullo specchio in modo da dare l’impressione che vi sia anche l’arto amputato, e di immaginare di fare contemporaneamente questo movimento

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anche con l’arto mancante. L’integrazione sensoriale, avvenuta per via visiva, più l’osservazione del movimento riflesso, attraverso l’attivazione dei neuroni mirror, hanno dato ai pazienti l’illusione di avere ancora un arto che rispondesse ai loro comandi. Il disturbo della rappresentazione di sé a livello corticale ha trovato una forma di compensazione, permettendo una riprogrammazione funzionale dello schema corporeo che ha avuto l’effetto pratico di far diminuire il dolore in modo statisticamente significativo nei pazienti. (27)

Per quanto riguarda i farmaci, secondo lo studio Pharmacological interventions for phantom limb pain, quelli che hanno ottenuto migliori risultati clinici nella sindrome dell’arto fantasma sono gli antidepressivi triciclici, il gabapentin, il tramadolo, gli oppioidi, gli anestetici locali e gli antagonisti del recettore N-metil-D-aspartato risultando le opzioni razionali migliori. (14) Per l’Istituto Superiore di Sanità i farmaci più efficaci sono antidepressivi triciclici (amitriptilina), neurolettici (aloperidolo, tioridazina) e antiepilettici (carbamazepina, clonazepam). (27)

In caso di dolore cronico intrattabile alcuni autori, in particolar modo in due studi di rilievo Postamputation pain: epidemiology, mechanisms, and treatment e Treatment of Phantom Limb Pain by Cryoneurolysis of the Amputated Nerve, consigliano di bloccare le terminazioni nervose a livello del moncone con iniezioni locali di lidocaina e/o corticosteroidei oppure mediante crioneurolisi. Il razionale di questi studi è che sia possibile che il dolore cronico da arto fantasma e le anomalie corticali associate possano essere mantenute dall’ingresso periferico di stimoli anomali. Ciò quindi aumenta la possibilità che un blocco nervoso periferico continuo di durata estesa possa riorganizzare definitivamente la mappatura corticale del dolore, fornendo così un sollievo duraturo. (11)

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Altro specifico approccio riguarda anche la crioneurolisi, sempre nel paziente con dolore permanente all’arto fantasma e sempre nella zona del moncone corrispondente al nervo amputato. Studi su tale procedura hanno identificato la possibilità di una risoluzione del dolore a lungo termine. (2)

Altro approccio terapeutico, evidenziabile in uno studio nell’Istituto Superiore di Sanità ( “Trattamento riabilitativo del paziente geriatrico vasculopatico amputato di coscia: sperimentazione di un protocollo”), individua due principali sintomatologie dolorose dell’arto fantasma cui associa una specifica fisiopatologia e uno specifico trattamento conseguente. Qualora il paziente riferisca un dolore dell’arto fantasma di tipo urente, legato a raffreddamento del moncone o a diminuzione della temperatura ambientale, è indicato un trattamento medico con vasodilatatori (un trattamento più complesso è costituito da blocchi multipli del simpatico). In caso di dolore di tipo crampiforme è invece ipotizzabile un meccanismo di tipo muscolare ed è indicato un trattamento con farmaci miorilassanti o con biofeedback muscolare. (27)

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CAPITOLO 3 L'INTERVENTO D’ AMPUTAZIONE MAGGIORE NEL PAZIENTE DIABETICO

Le amputazioni maggiori sono quelle che, a partire della caviglia, interessano in senso disto-prossimale l’arto inferiore. Questo intervento risulta indicato quando nessuna parte del piede rimane vitale e la sua esecuzione impedisce al paziente un’autonomia deambulatoria e la stazione eretta, se non con l’ausilio di protesi.

Differiscono dalle amputazioni minori che invece lasciano al paziente la capacità di camminare, mantenere la stazione eretta, avere appoggio bipodalico senza dover ricorrere all’ausilio di una protesi.

Sono interventi estremamente demolitivi pertanto vi si ricorre generalmente in caso di fallimento di un’amputazione minore o nel caso in cui i parametri clinici ed i risultati pre-operatori siano sfavorevoli all’esecuzione di una procedura di salvataggio del piede. È sempre necessario inoltre valutare e tentare un intervento di rivascolarizzazione dell’arto attraverso le tecniche di angioplastica, posizionamento di stent o arterectomia meccanica endovascolare. (29)(18)

Secondo lo studio “Risk factors for major limb amputations in diabetic foot gangrene patients” i fattori di rischio maggiori che predicono la probabilità che il diabetico subisca un intervento amputativo maggiore sono i livelli di HbA1c, la presenza di arteriopatia ostruttiva periferica degli arti inferiori (A.O.A.I.) con stenosi multiple e il ricorso all’emodialisi per insufficienza renale. Secondo questo studio l’A.O.A.I. è presente nel 98% dei diabetici sottoposti ad amputazione maggiore e nel 64% negli amputati minori o non amputati. I livelli di HbA1c allo stesso modo sono più elevati negli amputati maggiori. Non sono state invece individuate differenze tra gli amputati maggiori e quelli minori per i seguenti fattori di rischio: età di diagnosi del diabete,

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sesso, durata diabete, presenza o meno di retinopatia, neuropatia, nefropatia, tempo alla dialisi e cardiopatia ischemica. Uno studio di tali fattori nel diabetico può quindi predire il rischio per un intervento d’amputazione maggiore e consentire l’attuazione di interventi di prevenzione per evitarlo. (25)

Poiché l’amputazione influisce drammaticamente sulla funzionalità e sulla psiche del paziente, riducendone sensibilmente la qualità di vita, è sempre preferibile, ove possibile, conservare l’articolazione del ginocchio, aumentando così la probabilità di deambulazione come si evidenzia in alcuni studi secondo i quali fino al 52% degli amputati sotto il ginocchio possono utilizzare appieno una protesi mentre appena il 25% degli amputati di coscia è in grado di farlo a causa dell’enorme dispendio energetico richiesto.

Le tipologie di intervento più frequentemente utilizzate, soprattutto nel paziente diabetico, sono la disarticolazione di caviglia secondo Syme, l’amputazione transtibiale, la disarticolazione di ginocchio e l’amputazione transfemorale.

L’amputazione secondo la tecnica di Syme, così come la disarticolazione del ginocchio, non vengono utilizzate nel nostro reparto e pertanto non verranno trattate.

La scelta del livello a cui amputare richiede un’attenta valutazione di numerosi fattori tra cui l’handicap permanente che andrà ad interessare il paziente e la necessità di re intervenire chirurgicamente su di un paziente già amputato.

I pazienti candidati all’intervento possono essere suddivisi in tre categorie in base al rischio operatorio:

1) Pazienti ad elevato rischio con importanti comorbidità, tipo insufficienza respiratoria, insufficienza renale, cardiopatia o ipertensione arteriosa.

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evitare un reintervento che potrebbe risultare fatale.

2) Pazienti a basso rischio. In questi casi è necessario conservare al massimo le strutture quindi l’intervento verrà eseguito a livello quanto più distale possibile.

3) Pazienti senza rischio. Si può tentare una toilette chirurgica nella zona infetta e necrotica lasciando aperta la ferita, nella speranza che guarisca correttamente, evitando così di dover ricorrere ad un intervento di chirurgia maggiore. È inoltre importante cercare di valutare attentamente eventuali deformità residue poiché potrebbero rappresentare un rischio per possibili danni ulcerativi da protesi e portare così il paziente ad un reintervento.

3.1 Amputazione trans tibiale o di gamba

Questa tipologia di intervento è quella maggiormente utilizzata ove possibile per garantire un miglior recupero funzionale al paziente. (Fig. 9)

In seguito alle revisioni di Burgess e di altri autori che hanno ottenuto buoni risultati in oltre l’85% dei pazienti con vasculopatie periferiche operati di amputazione al di sotto del ginocchio, questa tecnica è divenuta l’amputazione più eseguita. Anche se molte sono le tecniche utilizzabili, per semplicità possono essere raggruppate in quelle eseguite in arti non ischemici e quelle in arti ischemici.

Nei pazienti con arti non ischemici vengono generalmente scolpiti lembi cutanei antero-posteriori di uguali dimensioni e i muscoli sezionati vengono poi collegati al moncone mediante miodesi in tensione, cioè una sutura dei muscoli sezionati al piano osseo, in tensione fisiologica, oppure mediante mioplastica, nella quale il muscolo viene suturato ai gruppi muscolari dell’altro lato o della fascia.

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Negli arti ischemici, come nel caso di pazienti diabetici, la miodesi in tensione è controindicata poiché compromette ulteriormente l’apporto ematico che già è scadente. È invece preferibile utilizzare esclusivamente un lembo miocutaneo posteriore oppure anche un lembo anteriore purché di limitate dimensioni, in quanto nella regione anteriore e antero-laterale della gamba l’apporto ematico è minore rispetto ai distretti circostanti. (1)(5)

Figura 9 Tecnica di Burgess

3.2 Amputazione trans femorale o di coscia

L’amputazione trans femorale o di coscia risulta essere un intervento abbastanza frequente. Il moncone dovrebbe essere il più lungo possibile per permettere una maggiore probabilità di utilizzo della protesi e un minor dispendio energetico nel suo utilizzo e comunque mai inferiore a 5 cm dal piccolo trocantere, poiché a tale livello è sovrapponibile per funzionalità e tipo di protesi alla disarticolazione dell’anca (Fig 10)

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quelle sopra descritte, a seconda che esso sia eseguito in pazienti con arto ischemico o meno. (5)(1)

3.3 Prognosi del paziente amputato

I pazienti diabetici candidati all’intervento di amputazione sono solitamente pazienti con grave patologia aterosclerotica, specie in distretti vitali come vasi coronarici e cerebrali, e con diabete scarsamente controllato.

La mortalità perioperatoria colpisce circa un 10% dei pazienti, principalmente a causa delle perdite ematiche. Altri decessi avvengono negli anni successivi a causa di altre patologie, quali cardiopatia ischemica o insufficienza cardiaca nel 37% dei casi circa, morte improvvisa nel 22%, sepsi nel 19%, polmonite nell’11% , tumori maligni nel 7% ed infarto cerebrale nel 4%, correlate prevalentemente alla patologia aterosclerotica. Attenti follow-up a tre anni rivelano una sopravvivenza in solo il 24%

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dei pazienti sottoposti ad amputazione maggiore contro il 93% di quelle minori. (13)

3.4 Costi

Uno studio completo condotto nel 1998 in Italia “the cost of type 2 diabetes mellitus in Italy”, ha valutato i costi diretti e indiretti associati al DM2. Il costo medio annuo per la cura di un paziente con DM2 era 2991 euro, mentre la spesa complessiva per la cura di tali pazienti era di 5170 milioni di euro l’anno, pari al 6,65% della spesa sanitaria totale (pubblica e privata). Di questa spesa il 28,9% veniva utilizzato per il trattamento del diabete, il 38,5% per il trattamento delle complicanze, il 32% per spese sanitarie non attinenti al diabete. Per quanto riguarda i costi delle complicanze il 39,9% derivava dall’ospedalizzazione di tali pazienti, il 35,4% dalle visite ambulatoriali e il 46% dall’utilizzo di farmaci.

Il costo di ogni amputazione, che va dai 16488 ai 66215 dollari circa, secondo alcuni studi, varia tuttavia in relazione ai parametri considerati, siano essi i percorsi di riabilitazione ed i dispositivi protesici oltre al percorso ospedaliero pre- e postchirurgico. I valori più bassi dell’intervallo si riferiscono solo ai costi dell’intervento e dell’ospedalizzazione, mentre i valori più alti includono anche i costi di riabilitazione, delle protesi e delle eventuali visite successive.

Un ulteriore studio sui costi è stato eseguito da Apelqvist et al. e condotto in Svezia nel 1990 secondo il quale i costi totali dalla comparsa dell’ulcera nel piede diabetico alla guarigione dopo l’amputazione, includendo anche la possibilità di ricomparsa dell’ulcera con le cure conseguenti, sono stati di 354894 corone svedesi per paziente. (26)(12)

Figura

Figura 1 andamento della prevalenza del diabete dal 2001 al 2012. Dati ISTAT elaborazione ISS
Figura 2 prevalenza del diabete nelle varie regioni. Dati ISTAT elaborazione ISS.
Figura 3 diagramma sulla relazione tra l’aumento dell’obesità e il corrispettivo aumento del diabete negli USA
Figura 4 immagine di un piede diabetico.
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