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Carcere e famiglia Tra rieducazione, umanizzazione della pena e tutela della famiglia

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INDICE

INTRODUZIONE………....5

CAPITOLO I

IL VALORE DELLA FAMIGLIA NELLA DETENZIONE 1. Introduzione al tema………..………..7 2. La cura delle relazioni familiari durante la detenzione nella legislazione interna e sovranazionale………..…9 3.1. La rilevanza in una prospettiva rieducativa (…)………..…..15 3.2. (…) in quella della “umanizzazione della pena”………..…..18 3.3. (…) ed in quella della tutela della famiglia………....23

CAPITOLO II

GLI ISTITUTI CHE FAVORISCONO LA VICINANZA MATERIALE E MORALE DI RISTRETTI E FAMILIARI 1. La scelta del carcere………..………....28 2. La disciplina dei colloqui………..……....31

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3. I permessi

3.1. I permessi di necessità……….…………...…….44

3.2. I permessi premio………..…………..………...52

4. La prossimità alla famiglia nel lavoro all’esterno…………....60

5. La corrispondenza 5.1. La corrispondenza epistolare………..…...……….…61

5.2. La corrispondenza telefonica………..………...…...70

6. L’uso di oggetti di valore affettivo………..……..75

7. La ricezione di beni dall’esterno………..…...76

8. I diritti di informazione 8.1. La comunicazione ai familiari dell’ingresso in istituto e dei trasferimenti ………...……….….79

8.2. La comunicazione reciproca di decessi e gravi infermità ………...…83

8.3. L’informazione relativa a nascite, matrimoni e decessi ………...……….………...85

9. L’assistenza alle famiglie e l’assistenza post-penitenziaria. Organi coinvolti………..…...…87

CAPITOLO III LA QUESTIONE DELL’AFFETTIVITÀ-SESSUALITÀ IN CARCERE 1. I limiti derivanti dalla legislazione penitenziaria…...………..98

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3

2. Considerazioni di varia natura a sostegno di un intervento…100 3. Il diritto all’affettività-sessualità nelle fonti nazionali e

sovranazionali………...105

4. Proposte di modifica………....115

CAPITOLO IV LA TUTELA DELLA GENITORIALITA’ IN CARCERE 1. Considerazioni preliminari e modifiche legislative…………121

2. Il differimento dell’esecuzione della pena 2.1. Considerazioni generali………...125

2.2. Il differimento obbligatorio……….126

2.3. Il differimento facoltativo………133

2.4. Aspetti procedimentali……….137

3. La detenzione domiciliare 3.1. La detenzione domiciliare per donna incita o madre di prole fino a dieci anni.……….………139

3.2. La detenzione domiciliare speciale………...………..….150

3.3. Contenuto, procedimento di concessione e revoca della misura………..………....156

4. L’assistenza all’esterno dei figli minori………...160

5. Le visite al figlio minore infermo o al figlio affetto da handicap……… ………….………166

(4)

4

6. Altre misure a sostegno della genitorialità………172

CONCLUSIONI………..176

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Introduzione

L’oggetto del presente elaborato è lo studio della relazione tra detenuti e familiari nel corso dell’esecuzione penale.

La centralità del rapporto con i familiari durante la detenzione è sancita all’art. 15 della legge sull’ordinamento penitenziario, l. n. 354 del 1975, che inserisce tale rapporto tra gli elementi del trattamento penitenziario. Inoltre, chiave di lettura dell’intera disciplina dei rapporti tra detenuto e familiari contenuta nell’ordinamento penitenziario, è l’art. 28 della stessa legge, contenente un obiettivo programmatico, secondo cui “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”.

L’indagine si concentrerà inizialmente sul ruolo dei rapporti familiari nella detenzione e sui profili normativi e giurisprudenziali, interni e sovranazionali, da cui emerge la necessità di valorizzare tali legami. In particolare, la cura di tali rapporti sembra trovare fondamento da un lato, nella finalità rieducativa della pena, e dall’altro, nel principio di “umanizzazione” della stessa, ai sensi dell’art. 27 c. 3 della Costituzione, ma altresì nella tutela della famiglia, della maternità e dell’infanzia, sancite agli artt. 29, 30, 31 Cost. Tali principi trovano conferma in norme internazionali, in particolare nella Convezione Europea dei Diritti Umani, che vieta pene e trattamenti inumani e degradanti (art. 3) e tutela la vita privata e familiare (art. 8).

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Si passerà poi ad esaminare gli istituti più significativi della legge sull’ordinamento penitenziario in tema di tutela delle relazioni familiari. Saranno analizzate le misure presenti sin dalla versione originaria della legge e quelle introdotte successivamente, oltre che le sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale che hanno apportato innovazioni significative negli istituti in esame.

Nel terzo capitolo l’indagine si soffermerà su una questione problematica quanto attuale, e cioè la possibilità, oggi non garantita nel nostro ordinamento, di esercitare intramoenia quella particolare declinazione dell’affettività rappresentata dalla sessualità. Si esaminerà la posizione della giurisprudenza costituzionale e si guarderà al diritto comparato, in particolare alle indicazioni della Convenzione Europea dei Diritti Umani e alla giurisprudenza della relativa Corte, oltre che agli apporti della medicina penitenziaria e di studi statistici.

Nell’ultimo capitolo l’attenzione sarà riservata ai più significativi istituti predisposti dal legislatore italiano a tutela di un importante componente delle relazioni familiari, la genitorialità, e con essa, in parallelo, la tutela dell’infanzia.

Al termine dell’analisi sarà possibile dedurre lo stato di adeguatezza della legislazione nazionale in relazione al tema della cura dei rapporti familiari durante la detenzione, e gli eventuali profili che meriterebbero un intervento.

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CAPITOLO I

IL VALORE DELLA FAMIGLIA NELLA

DETENZIONE

1. Introduzione al tema

La detenzione rappresenta un’esperienza drammatica nella vita degli individui che la sperimentano1. L’allontanamento dai propri cari del soggetto che fa il suo ingresso in carcere per scontare una pena detentiva comporta, nel lungo periodo, un deterioramento del rapporto affettivo. La “rivoluzione” che avviene nella vita dell’individuo, sotto tutti i punti di vista, comporta una vera e propria messa in discussione della sua identità, a cui collabora l’influenza della cultura carceraria a cui lentamente egli tende ad adattarsi2. Questo “processo di prigionizzazione”3 porta il detenuto ad allontanarsi ulteriormente dai valori accolti dalla società da cui proviene, il cui processo di distacco era già iniziato con la commissione del reato. In carcere, infatti, è alto il rischio di emarginazione sociale e di deriva antisociale.

In questo quadro, si comprende l’importanza di contrastare la tendenza descritta ed intervenire allo scopo di risocializzare il reo. A tal fine, in carcere occorre mettere in atto strategie finalizzate a mantenere i contatti col mondo esterno, ed in tal senso, la cura dei

1

BRUNETTI C.,ZICCONE M., Manuale di diritto penitenziario, Piacenza, 2005, p. 332.

2

BRUNETTI C.,ZICCONE M., op. cit., pp. 332-333.

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8

rapporti tra il ristretto ed i propri familiari si rivela uno strumento essenziale4. Le relazioni con i familiari, infatti, sono un tassello centrale della risocializzazione e ciò sia durante il periodo trascorso in carcere, come fonte di assistenza morale ed affettiva, che in seguito, al ritorno nella società, come primo punto di raccordo con essa.

La rieducazione, infatti, è uno degli elementi cardine della riforma penitenziaria del 1975, che accoglie la direttiva costituzionale in questo senso (art. 27 c. 3) e si pone come linea guida di politica legislativa in ambito penitenziario.

A tal fine la l. n. 354 del 1975 (di seguito indicata “ord. pen.”) prevede all’art. 15 che il detenuto e l’internato siano protagonisti di un trattamento rieducativo, i cui elementi sono l'istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive nonché, appunto, i contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Non a caso, già nel primo colloquio all’ingresso in carcere, la direzione penitenziaria tende ad assumere indicazioni sul vissuto familiare dell’individuo e questi viene invitato a comunicare eventuali problemi personali e familiari che necessitano intervento urgente, di cui sarà informato l’ufficio locale di esecuzione penale esterna. Ai sensi dell’art. 13, il trattamento rieducativo sarà poi individualizzato sulla base delle esigenze relative alla personalità del reo, individuate grazie all’osservazione scientifica, che inizia all’ingresso in carcere e prosegue per tutto il corso della detenzione. Tutti gli elementi

4

SIRACUSANO F., sub art. 28, in DELLA CASA F., GIOSTRA G.(a cura di), Ordinamento Penitenziario Commentato,2015,p.331.

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rilevanti, biografici, psicologici e trattamentali, sono annotati nella cartella personale, a cui potranno accedere i soggetti a cui la legge affida il ruolo di ausilio nel mantenere, potenziare e ripristinare le relazioni familiari.

Prima di iniziare ad approfondire l’analisi, occorre sottolineare la problematicità di fondo della questione della tutela della vita familiare del detenuto, che rimanda a una serie di problematiche relative al difficile equilibrio tra esigenza punitiva statale e rispetto dei diritti fondamentali del singolo. Quando si affrontano questioni relative al potenziale conflitto fra esigenze individuali e collettive, non è semplice trovare soluzioni esatte ed estremamente condivise, e il criterio guida sembra essere l’individuazione della misura che realizzi il migliore bilanciamento fra gli interessi in gioco.

2. La cura delle relazioni familiari durante la detenzione nella legislazione interna e sovranazionale

L’articolo 28 della l. n. 354 del 1975 è una disposizione fondamentale in relazione al tema dei rapporti fra detenuti ed internati e le loro famiglie. Si tratta di una norma che permette di comprendere l’atteggiamento del legislatore del 1975 in relazione a tale questione, fornendo la chiave di lettura delle disposizioni che fanno riferimento alla relazione fra ristretti e familiari distribuite nel testo di Legge nonché nel Regolamento Penitenziario (d.p.r. 2000 n. 230). Affermando che “Particolare

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dei detenuti e degli internati con le famiglie”, l’articolo 28 investe

tale rapporto di grande legittimazione e rilevanza nel percorso rieducativo dei condannati, giustificando ed anzi imponendo azioni dirette in questo senso, e facendo emergere la considerazione di tale rapporto quale elemento del trattamento. La formulazione della norma è idonea a coprire tutto il ventaglio di ipotesi, che va dalla tutela dei rapporti familiari qualora essi sussistano e siano di buona qualità, onde evitare che l’esperienza della detenzione possa provocarne il deterioramento, al miglioramento nei casi in cui siano instabili ed incerti, sino al ripristino qualora siano del tutto assenti5.

La norma in questione è dunque il trait d’union di tutte le disposizioni che disciplinano le relazioni fra ristretti e familiari, la cui valorizzazione fu un punto essenziale della riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975.

Tale riforma costituì una svolta nel modo di concepire la figura del detenuto rispetto al passato e soprattutto al Regolamento Penitenziario del 19316, ponendo l’attenzione sulla persona del ristretto come soggetto di diritti, protagonista e soggetto - non più oggetto - del suo percorso detentivo, necessariamente improntato alla rieducazione7. In questa logica, centrale diviene il trattamento a cui il detenuto viene sottoposto nella sua permanenza in carcere,

5

SIRACUSANO F., sub art. 28, in op. cit.,pp.330-331.

6

Il Regolamento Penitenziario del 1931, in stretta connessione col Codice Penale Rocco del 1930, entrambi emanati in epoca fascista e scarsamente garantisti, era improntato ad una logica depersonalizzante e concepiva il detenuto come un individuo assoggettato all’organizzazione penitenziaria, sottoposto al suo potere discrezionale, e privato del godimento pieno dei diritti soggettivi. Per una ricostruzione completa della ratio ispiratrice del Regolamento del 1931 v. STORTONI L., “Libertà” e “diritti” del detenuto nel nuovo

ordinamento carcerario, in BRICOLA F. (a cura di), Il carcere riformato, Bologna, 1977.

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che si compone di vari elementi, individuati dal legislatore come efficaci strumenti di risocializzazione, fra i quali emergono i contatti col mondo esterno ed in primis con la famiglia8 (art.15). Non solo nell’ordinamento interno, ma anche in ambito europeo, emerge l’attenzione al mantenimento delle relazioni familiari, come è possibile dedurre, fra le tante norme in questo senso, da più punti dell’articolo 24 delle nuove Regole Penitenziarie Europee, che nel regolare i contatti del detenuto con l’esterno chiarisce che egli deve essere messo in condizione di comunicare il più possibile, con varie modalità, con soggetti esterni tra cui i familiari. La norma esprime l’idea per cui le limitazioni a questo diritto sono sì legittime, in quanto giustificate da altre esigenze (di sicurezza, ordine, prevenzione) ma devono cumunque permettere un contatto minimo del ristretto con l’esterno. La norma si spinge anche a sostenere che le modalità con cui tali contatti – nel dettaglio le visite- avvengono, devono essere idonee a mantenere quanto più possibile tale relazione familiare in una condizione di “normalità”.

Altra norma in ambito sovranazionale in cui è possibile ravvisare

lato sensu un’attenzione al rapporto fra l’individuo ed il contesto

familiare è l’articolo 8 della Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo, che impone il rispetto della vita privata e familiare di ogni individuo, e dunque anche di detenuti ed internati. La norma (2° c.) prevede che compressioni a tale diritto da parte di un’autorità pubblica possano essere giustificate solo se previste da una legge e se rispondano alla necessità di un bilanciamento con

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interessi ritenuti di pari livello (come la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui). Significative sono in questo senso le affermazioni della giurisprudenza della Corte Europea sull’art. 8 (spesso in connessione con l’art. 3 che vieta pene e trattamenti inumani o degradanti)9. La Corte non sembra essersi per il momento espressa sul valore della famiglia nella detenzione in prospettiva di rieducazione del condannato, né esplicitamente sulla rilevanza del rapporto ristretti-famiglie in funzione di una pena non contraria al senso di umanità, anche se forse è più in questa seconda direzione che è possibile individuare un’attenzione della Corte alla necessità che il detenuto mantenga contatti con la famiglia. Ciò per mezzo del principio del rispetto della vita familiare dettato dall’art. 8, che trova attuazione anche nell’esperienza carceraria. Infatti numerose sono le pronunce della Corte in occasione di ricorsi presentati da detenuti che lamentavano una lesione della loro vita familiare a causa di elementi legati allo status di detenzione. In queste occasioni, la Corte sostiene spesso che dalla norma derivino in capo agli Stati degli obblighi negativi e positivi. Nel primo senso, essa conferma il dettato normativo che prevede la possibilità di ingerenze da parte di autorità pubbliche nella vita familiare, ma solo se previste dalla legge e necessarie alla protezione di diritti e libertà altrui10. I giudici sono infatti consapevoli che la detenzione comporti necessariamente delle limitazioni alla libertà della

9

Cfr. C. eur. 04-02-2003, Van der Ven c. Paesi Bassi.

10

Cfr. C. eur. 28-10-2010 Aune c. Norvegia; 31-07-2000, A.D.T. c. Regno Unito; 20-01-2009, Zara c. Italia; 21-12-2010, Nurzyński c. Polonia.

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persona, ma affermano che resta fermo il diritto dei ristretti al rispetto della vita privata e familiare e ad avere contatti con i propri familiari11. Se l’ingerenza pubblica travalica i limiti individuati dalla norma, è arbitraria ed ingiustificata ed in questo senso si comprende la portata dell’obbligo negativo, cioè un dovere statale di non eccedere nella limitazione di tale diritto. Nella seconda direzione, sugli Stati graverebbe anche l’obbligo (positivo) di porre in essere azioni per garantire l’effettivo rispetto della vita privata e familiare. La Corte ha affermato infatti che la detenzione, come qualsiasi misura che priva un soggetto della propria libertà, comporta delle limitazioni alla vita privata e familiare, e per questo motivo è essenziale, per la tutela di tale diritto, che le autorità nazionali consentano, e se necessario agevolino, i contatti tra il detenuto ed i propri familiari12. La Corte afferma poi il margine di apprezzamento più o meno ampio che hanno gli Stati in entrambi i casi di obblighi positivi e negativi nell’individuazione del concreto bilanciamento di interessi.

In un’altra prospettiva inoltre i giudici hanno manifestato sensibilità per la vita familiare, e cioè in relazione alla necessità che la detenzione non comporti per il figlio minore una limitazione del diritto alla figura genitoriale.

Possiamo ritenere dunque che la Corte in senso lato manifesti già la consapevolezza che la sfera affettiva e familiare sia un elemento essenziale della persona umana, sia dal lato del detenuto che di quello dei prossimi congiunti, rivolgendo moniti agli Stati sulla

11

C. eur. 26-02-1993, Messina c. Italia.

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14

necessità di fare attenzione a che la compressione di questo diritto sia attuata nell’ambito di una precisa regolamentazione e che non sia arbitraria.

La previsione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo trova il suo precedente storico nell’articolo 12 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948, che impone il divieto di “interferenze arbitrarie” nella vita privata e nella famiglia. Già alla luce di tale precedente disposizione si poteva ritenere che la condizione di privazione della libertà personale conseguente alla commissione di un illecito, implicasse necessariamente una limitazione alla vita familiare, ma che questa non potesse essere totale, riscontrandosi in una compressione delle relazioni familiari eccessiva e non giustificata da reali esigenze di prevenzione e sicurezza.

In verità sono molte le norme (anche) di carattere sovranazionale che nell’ultimo sessantennio hanno espresso la necessità di concepire la detenzione come condizione in cui siano comunque garantiti standard minimi di tutela dei diritti umani, in ciò tutelando anche le relazioni familiari13. A ben vedere, infatti, la

13

MASTROPASQUA G., Esecuzione della pena detentiva e tutela dei rapporti familiari e di convivenza. I legami affettivi alla prova del carcere, Bari, 2007, pp. 24-27. La già citata

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo oltre a vietare tortura, maltrattamenti, punizioni crudeli, inumani e degradanti (art.5), individua la famiglia come nucleo fondamentale della società e impone allo Stato un dovere di salvaguardia (art.16), oltre a tutelare la maternità e l’infanzia (art.25). Stesso divieto di trattamenti inumani e degradanti è imposto dalla Convezione Europea dei Diritti dell’Uomo (art.3), e ribadito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 (art.4). Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, esecutivo in Italia dal 1977, impone il rispetto e l’umanità verso le persone private della libertà ed enuncia la finalità rieducativa del trattamento penitenziario (art.10), oltre a tutelare la famiglia all’art.23. Anche le Regole Penitenziarie Europee, i cui principi dovrebbero ispirare la legislazione nazionale, secondo la Raccomandazione R (87)3 approvata dal Consiglio d’Europa nel 1987, prevedono il rispetto della dignità umana nelle modalità di

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necessità di porre l’attenzione sulla cura dei rapporti familiari in ambito carcerario è ispirata a un duplice profilo di tutela: da una parte, l’attenzione alla persona del detenuto, in quanto soggetto di diritti, e dall’altra la tutela di quegli individui prossimi ad esso, che pur rimanendo fuori dal carcere, indirettamente subiscono le conseguenze, di vario genere, della detenzione14.

3.1. La rilevanza in una prospettiva rieducativa…

L’importanza di curare i rapporti fra chi è privato della libertà personale ed il nucleo familiare, va individuata sotto due profili, entrambi connessi ai caratteri che alla pena sono generalmente attribuiti nel nostro ordinamento15, nonché affermati da una delle più importanti previsioni costituzionali in materia penitenziaria, l’articolo 27 c. 3: da un lato la finalità rieducativa della pena e dall’altro la sua necessaria ispirazione umanitaria16

.

esecuzione della detenzione (art.1), nonché tutta una serie di previsioni per la detenuta in stato di gravidanza e per il periodo precedente e successivo al parto (art.28); si ribadisce anche in questa sede la necessità che il ristretto abbia contatti con le famiglie ed il mondo esterno (art.28), una serie di diritti di informazione in capo al detenuto rispetto ai familiari e viceversa (art.49-92), sostegno economico e morale alle famiglie durante e dopo la detenzione (art.76-87-89). La Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 prevede che questo non dovrebbe essere separato dai genitori a meno che ciò sia necessario per il suo stesso interesse e se ciò avviene dovrebbe poter mantenere contatti con essi. Con la Raccomandazione R (2006)2, il Consiglio d’Europa invita gli Stati membri a fare proprie varie disposizioni delle Regole Penitenziarie Europee tra cui: il tentativo di rendere la vita del ristretto quanto più simile a quella esterna al carcere (art.5), la comunicazione frequente fra ristretti e familiari e limitazioni solo per motivi di ordine e sicurezza che garantiscano un livello di contatto minino, nonché i già citati diritti di informazione (art.24), tutela della detenuta in stato di gravidanza (art.34 3°c.) e possibilità di tenere il bambino in carcere con previsione di strutture al tal fine (art.36).

14

MASTROPASQUA G., op. cit., pp. 21-21.

15

Per un’ampia disamina sulla natura ed evoluzione della sanzione penale nel nostro ordinamento, nonché una completa ricostruzione sulle teorie assolute e relative della pena, v. ad es. TRONCONE P., Manuale di diritto penitenziario, Torino, 2006, pp. 7-50, e CANEPA M.,

MERLO S., Manuale di diritti penitenziario, Milano, 2006, pp. 23-37.

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Sotto il primo profilo, dopo l’emanazione della citata norma, è ormai nozione consolidata in dottrina e in giurisprudenza17 che il fine ultimo (anche se non esclusivo) dell’espiazione della pena consista nella rieducazione e risocializzazione del condannato, con l’abbandono delle tradizionali concezioni retributive, repressive e difensive della pena e l’evoluzione del significato stesso di carcere, che in passato era stato soprattutto luogo di afflizione ed espiazione della pena18. Ora la logica sottesa alla pena implica l’idea di un processo pedagogico che agisca sulla condotta del condannato, modificandola in senso socialmente accettabile, di modo che al termine del periodo di detenzione questi possa tornare in società come membro integrato di essa.

Nella giurisprudenza costituzionale si è arrivati fino ad affermare un vero e proprio diritto alla rieducazione, speculare all’obbligo

17

Numerose sono le sentenze in cui la Corte Costituzionale afferma tale principio in relazione all’articolo 27 Cost. V. ad es.: Corte Cost. 1995 n° 504, Corte Cost. 1997 n° 445, Corte Cost. 1999 n° 137, Corte Cost. 1995 n° 227, Corte Cost. 1989 n° 386, Corte Cost. 1997 n° 173, Corte Cost. 1995 n° 186, Corte Cost. 1983 n° 274; afferma la polifunzionalità della pena, tra cui la finalità rieducativa, nelle sent. 1966 n° 12, 1974 n° 264, 1994 n° 168. Afferma la necessità che si tenga conto della finalità rieducativa anche in fase di individuazione della pena nel processo di cognizione, nella sentenza in tema di patteggiamento, del 1990 n° 313.

18

Per un’analisi completa sull’origine e l’evoluzione del carcere v. TRONCONE P., op.cit., pp. 51-56, BRUNETTI C.,ZICCONE M., op. cit., pp. 33-39.

L’idea della correzione e dell’emenda del reo in realtà non era sconosciuta nell’antichità, nella matrice laica delle “case di correzione” inglesi del 1500-1600, in cui si aspirava a risocializzare i vagabondi, ed in quella cattolica della segregazione cellulare monastica, in cui l’isolamento era la via per l’espiazione del peccato. In epoca moderna ritroviamo esperienze che esprimono l’idea del carcere come luogo non di mero castigo e afflizione ma di possibile rieducazione, in versione religiosa nel “sistema filadelfiano” di fine 1700 ad opera dei Quacqueri, che individuavano come strumenti la preghiera, il lavoro, l’isolamento e il silenzio, ed in versione laica il modello auburniano di inizio 1800, in cui si praticava il lavoro in comune in silenzio diurno e l’isolamento notturno. BRUNETTI C.,ZICCONE M.,op. cit., pp.

36-37.

In senso critico sulla possibilità che il carcere possa redimere e risocializzare, Altiero Spinelli, intellettuale e detenuto politico in epoca fascista, convinto che “per quanto si voglia

trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in senso sostanziale” e che

“(…) non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”.Egli sosteneva la pena detentiva solo a scopo intimidatorio, per periodi brevi con trasformazione poi nella sanzione del confino per un tempo definito, con possibilità di condurre “una vita

normale, controllata da regolari magistrati, con possibilità di guadagnare, di sposarsi, di aver casa, di vivere civilmente”.

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assoluto per il legislatore di tenere presente la finalità rieducativa della pena e di predisporre gli strumenti necessari a raggiungerla19. In tal senso è anche l’articolo 17 ord. pen., che legittima il coinvolgimento della “comunità esterna” (privati e associazioni) nel percorso rieducativo. Non secondariamente, la risocializzazione è stata anche individuata come lo strumento più efficace di deterrenza e di difesa sociale20.

In questo senso, fondamentale è il trattamento rieducativo di cui il detenuto è protagonista nel suo percorso carcerario, previsto all’articolo 15 ord. pen., il quale sebbene individuato in modo generalizzato dalla legge nei suoi elementi costitutivi, dovrà poi essere individualizzato in relazione ai particolari bisogni della personalità del singolo (articolo 13). Tra gli aspetti che secondo l’articolo 15 hanno un’influenza positiva nella riabilitazione, troviamo i contatti col mondo esterno e i rapporti con la famiglia. Non è arduo comprendere il collegamento tra la cura della dimensione affettiva e familiare e la possibilità di recupero del reo. La famiglia costituisce un nucleo affettivo e solidale che unisce i suoi componenti da legami emotivi, ideali, e dalla condivisione degli accadimenti, capace di offrire sostegno morale e materiale anche nelle situazioni più estreme. La detenzione, con la necessaria compressione delle libertà che comporta, costituisce certamente una di quelle situazioni in cui il singolo ha maggiormente bisogno di un supporto affettivo esterno. Ecco la necessità di favorire il recupero delle relazioni familiari qualora

19

V. Corte Cost. 1974 n° 204, in Giur. cost., 1974, p. 1707.

20

SERRA C., Psicologia penitenziaria. Sviluppo storico e contesti psicologico - sociali e

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18

queste si siano interrotte prima o a causa dell’ingresso in carcere, o permetterne il mantenimento, utilizzando tutti quegli istituti che il legislatore ha previsto a tal fine21.

3.2. … in quella della “umanizzazione della pena”

L’altro profilo da cui emerge l’importanza della valorizzazione del rapporto detenuto-famiglia si riconnette al carattere di umanità che la pena deve avere22.

Il principio di “umanizzazione della pena” è ricavabile in primis dall’ordinamento interno, all’articolo 27 c. 3 Cost. che afferma: “le

pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, prima di enunciare la funzione rieducativa della pena.

La disposizione costituzionale trova poi applicazione nella Legge sull’Ordinamento Penitenziario che ne accoglie il principio nel primo comma del primo articolo: “Il trattamento penitenziario

deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona.” Com’è stato rilevato e come vedremo,

i principi di funzione rieducativa e di “umanizzazione” della pena dell’art. 27 Cost. sono gli sviluppi di altri principi costituzionali e cioè il primato della personalità umana (art. 2 Cost.) e la pari

21

PATETE D., Manuale di diritto penitenziario, Roma, 2001, pp. 231 ss. L’Autore acutamente rileva come non sempre tale legame familiare sia positivo per la risocializzazione del reo, infatti qualora la sub-cultura familiare sia essa stessa di stampo criminale, il mantenimento dei contatti è al contrario elemento di contrasto all’interiorizzazione dei valori sociali da parte del condannato. In tali casi, un allontanamento dall’ambiente familiare è opportuno per l’uscita dal circuito criminale.

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dignità di tutti (art. 3 Cost.), che trovano applicazione alla particolare condizione del condannato23.

Anche la giurisprudenza costituzionale afferma il principio di umanizzazione della pena24, talvolta definendolo in connessione col principio rieducativo: “…da un lato un trattamento penale

ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato; dall’altro è appunto in un’azione rieducativa che deve risolversi un trattamento umano e civile, se non si riduca a una inerte e passiva indulgenza…”25.

La normativa interna si accorda poi perfettamente con quella europea ed il riferimento è all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, rubricato “Proibizione della

tortura”, che recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.”

Copiosa è la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 3 Cedu, che facendo leva sul divieto di trattamenti inumani e degradanti, condanna gli Stati, tra cui spesso il nostro, per le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri, dimostrando così come tale norma non contenga solo un’affermazione di principio ma abbia una rilevanza concreta nell’indirizzare gli Stati verso standard qualitativi minimi di tutela26.

23

RUOTOLO M., Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, pp. 6-7.

24

V. Corte Cost. 1979 n° 114; 1993 n° 349; 1999 n° 26; 1982 n° 104.

25

Corte Cost., 1966 n° 12, in Giur. cost., 1966, pp. 143-156.

26

Emblematica in questo senso è la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, Causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013, che condanna il nostro paese per la violazione dell’art. 3 Cedu. Il caso riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti per la mancanza di spazio sufficiente in cella unitamente ad altre condizioni lamentate dai ricorrenti. Si tratta inoltre di una sentenza pilota dato che il sovraffollamento carcerario in Italia è una condizione generale. In tale occasione la Corte afferma principi importanti peraltro simili a quanto affermato dalla giurisprudenza costituzionale: “La

(20)

20

Il mantenimento della relazione fra ristretti e familiari si inserisce pienamente nella concezione di “pena umana”, accolto nell’art. 27 c. 3. Nei regolamenti penitenziari precedenti alla riforma del 1975, la spersonalizzazione del condannato coinvolgeva anche la sfera affettiva, privandolo di ogni contatto col mondo esterno e con la famiglia27, e prevedendolo solo in termini di premio per buona condotta e comunque entro termini rigorosi28. Una sorta di concezione graziosa dunque, e non un diritto soggettivo di ciascun detenuto, come oggi emerge dall’attuale ordinamento penitenziario. Infatti, il mantenimento delle relazioni familiari nell’esecuzione della pena è espressione di un trattamento detentivo conforme al senso di umanità, perché tipico della persona umana è l’ambito affettivo, e tenerne conto significa valorizzare un aspetto fondamentale dell’individuo. E’ ormai consolidato anche nella giurisprudenza costituzionale “il primato

della persona umana e dei suoi diritti” nella fase esecutiva della

pena29, che trova ispirazione nell’articolo 2 della Costituzione. La norma afferma il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, e la Corte ne chiarisce il significato nel

carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”.

V. https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?contentId=SDU810042

27

Erano vietati i colloqui, la corrispondenza epistolare, e persino la possibilità di esporre fotografie di congiunti in cella.

28

PENNISI A., op. cit., pp. 169-170.

29

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21

senso di “quei diritti che formano il patrimonio irretrattabile della

personalità umana: diritti che appartengono all’uomo inteso come essere libero”30 31, e fra questi non possiamo non individuare il diritto di ogni individuo di costituire e mantenere relazioni affettive, dando così espressione ad uno dei tratti caratterizzanti dell’essere umano, la socialità32

. Il riferimento poi alle formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’uomo, non può certo non includere la famiglia, quel nucleo primordiale della società, precedente all’istituzione statale stessa, in cui l’uomo nasce e si forma, e che tende naturalmente a riprodurre. In applicazione del principio costituzionale si pone l’art. 1 c. 1 della legge sull’ordinamento penitenziario, prevedendo anch’esso il rispetto della dignità del detenuto, a cui fa da corollario la tutela dei diritti fondamentali, tra cui quelli attinenti alla sfera affettiva.

Altro profilo di connessione costituzionale al principio di umanizzazione della pena può essere l’inviolabilità della libertà personale prevista all’art. 13, da cui deriva l’idea per cui tale libertà, come tutti i diritti costituzionalmente previsti, debbano

30

V. sent. Corte Cost. 1956 n° 11, cit.

31

Uno dei diritti inviolabili riconosciuti esplicitamente dalla Corte Cost. è quello alla tutela giurisdizionale, e nella sent. 1999 n° 26 si dichiarò l’illegittimità degli artt. 35 e 69 della l. 354/1975 nella parte in cui non prevedevano un procedimento giurisdizionale attivabile dal detenuto contro gli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei loro diritti.

32

Scrive già nel IV sec. a.C. il filosofo greco Aristotele: “L’uomo è per natura un essere

sociale, e chi vive escluso dalla comunità è malvagio o è superiore all’uomo, come anche quello che viene biasimato da Omero: “empio senza vincoli sociali”; infatti, un uomo di tal fatta desidera anche la guerra. Perciò, dunque, è evidente che l’uomo sia un essere sociale più di ogni ape e più di ogni animale da gregge. Infatti, la natura non fa nulla, come diciamo, senza uno scopo: l’uomo è l’unico degli esseri viventi a possedere la parola; la voce, infatti, è il segno del dolore e del piacere, perché appartiene anche agli altri esseri viventi: la loro natura ha fatto progressi fino ad avere la sensazione del dolore e del piacere ed a manifestare agli altri tali sensazioni; la parola, invece, è in grado di mostrare l’utile ed il dannoso, come anche il giusto e l’ingiusto: questo, infatti, al contrario di tutti gli altri animali, è proprio degli uomini, avere la percezione del bene, del male, del giusto e dell’ingiusto e delle altre cose. E la comunanza di queste cose crea la casa e la città.” Politica, 1252a, L'uomo, essere sociale, in http://www.antiqvitas.it/doc/doc.arist.tanti.2.htm

(22)

22

considerarsi massimamente espansi, salvo le limitazioni previste dalla norma stessa o da altre norme costituzionali che devono operare un bilanciamento con altri diritti di pari livello33. Di conseguenza la pena detentiva può legittimamente privare l’individuo della libertà personale nel suo aspetto materiale, cioè il disporre liberamente del proprio “essere fisico”, ma senza spingersi fino a negarne altri diritti soggettivi estranei e non funzionali ad esso34. La riforma penitenziaria del 1975 ha accolto questa concezione di limitazione dei diritti rigorosamente tassativa e non discrezionale da parte dell’amministrazione penitenziaria: il nostro sistema penitenziario non prevede la negazione generale dei diritti dei detenuti tranne quelli esplicitamente concessi da legge e regolamento, ma al contrario ne prevede il godimento totale tranne le limitazioni rese necessarie dalla condizione di detenzione35. Un ribaltamento di prospettiva rispetto al passato che trova accoglimento in varie sentenze della Corte Costituzionale36, tra cui nell’importante sentenza n. 26 del 199937

. In questo senso anche il

33

BARILE P., GRASSI S. (con la collaborazione di), Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1991, p. 580.

34

PENNISI A., op. cit., pp. 5-6.

35

GREVI V. (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981, p. 8.

36

Al detenuto è “riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive e garantita quella

parte di personalità umana che la pena non intacca”, Corte Cost. 1979 n° 114, in Giur. cost.,

p. 803; “la sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della

libertà della persona” dal momento in cui “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”, sent. 1993 n° 349.

37 Afferma la Corte: “L'idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all'organizzazione penitenziaria é estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti. I diritti inviolabili dell'uomo, il riconoscimento e la garanzia dei quali l'art. 2 della Costituzione pone tra i principi fondamentali dell'ordine giuridico, trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti a una restrizione della libertà personale i limiti a essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione. La restrizione della libertà personale secondo la Costituzione

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23

diritto all’affettività sembra allora trovare spazio e legittimazione e una sua compressione totale non sarebbe giustificata. Se non è possibile privare il detenuto dei suoi diritti tranne che per quegli aspetti strettamente necessari in relazione alla condizione di detenzione, possiamo ritenere che egli sia pienamente titolare del diritto di mantenere una relazione con i propri familiari e congiunti, nonché in senso ampio con quelle persone con cui abbia un legame affettivo. Se la pena dev’essere conforme al senso di umanità, e dunque rispettare i diritti fondamentali del detenuto, anche la sfera affettiva va coltivata, perché anche – e forse soprattutto - in questa si esprime la personalità umana.

3.3. …ed in quella della tutela della famiglia

Un altro aspetto del tema che occorre mettere in luce riguarda il fatto che la detenzione non comporta conseguenze solo per il recluso, ma produce i suoi effetti indirettamente anche nei

vigente non comporta dunque affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell'autorità preposta alla sua esecuzione (sentenza n. 114 del 1979).

L'art. 27, terzo comma, della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Tali statuizioni di principio, nel concreto operare dell'ordinamento, si traducono non soltanto in norme e direttive obbligatorie rivolte all'organizzazione e all'azione delle istituzioni penitenziarie ma anche in diritti di quanti si trovino in esse ristretti. Cosicché l'esecuzione della pena e la rieducazione che ne é finalità - nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina - non possono mai consistere in "trattamenti penitenziari" che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà. La dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo caso - anzi: soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo é la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile - é dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell'uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell'esecuzione penale, conformemente, del resto, all'impronta generale che l'art. 1, primo comma, della legge n. 354 del 1975 ha inteso dare all'intera disciplina dell'ordinamento penitenziario.” V. http://www.giurcost.org/decisioni/1999/0026s-99.html

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24

confronti delle persone care a lui prossime, familiari (intesi come soggetti con lui conviventi) e congiunti (parenti ed affini)38.

La consapevolezza di questa ambivalenza è espressa infatti anche a livello normativo nelle regole penitenziarie, quando l’art. 65 afferma la necessità che i regimi penitenziari siano strutturati in maniera tale da permettere il mantenimento dei rapporti fra detenuti e familiari e comunità esterna, allo scopo di tutelare gli interessi dei detenuti e delle loro famiglie. Se infatti si vuole indagare su quali siano gli effetti del distacco dai legami affettivi che la carcerazione comporta, non si può non condurre l’analisi da entrambi i punti di vista, di chi viene condotto in carcere e di chi ne resta fuori ma è altresì privato di una figura affettiva fondamentale (si pensi all’improvvisa perdita del coniuge o del partner, di un fratello o sorella, di un figlio/a, o di un genitore39). Anche la sfera affettiva dei familiari subisce dunque una compressione, quasi a far emergere una “portata bilaterale della pena”40

. Giustamente i familiari sono stati definiti “vittime dimenticate”41

.

Questa situazione non appare totalmente in linea con un altro principio fondamentale del nostro ordinamento, per cui la responsabilità penale deve necessariamente essere personale, come dispone l’art. 27 c. 1. Cost.42

Nessuno può essere costretto a subire

38

BRUNETTI C.,ZICCONE M.,op. cit.,p.332.

39

Soprattutto nei confronti dei figli, a maggior ragione se in tenera età, si riverbera l’effetto privativo, in quanto viene meno una figura genitoriale, essenziale nell’età dello sviluppo. Ciò può comportare traumi e problematiche nella crescita e nella formazione della personalità dei figli. Cfr. sul tema BOUREGBA A., I legami familiari alla prova del carcere, Milano, 2005.

40

TALINI S., Famiglia e carcere, 2013.

41

Cfr.. MATTHEWS J., Forgotten Victims. How prison affects the family, London, 1983.

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25

delle conseguenze penali per un fatto che non abbia commesso, e benché certamente i congiunti non scontino una sanzione penale, c’è pur sempre una “sanzione” indiretta che li colpisce, consistente nella menomazione della loro vita affettiva, pur non avendo commesso alcun illecito43.

Di fronte a tale situazione emerge dunque la necessità di concepire il rapporto detenuto-famiglia in una prospettiva in grado di contemperare l’esigenza di contenere la pericolosità sociale del reo e prevenirne la recidiva, con quella dei congiunti e del ristretto di poter mantenere la relazione affettiva e non limitarla oltre quanto sia strettamente necessario a causa della detenzione.

L’ispirazione costituzionale della tematica relativa al rapporto detenuti-famiglia è forte anche da un altro punto di vista. L’art. 28 ord. pen. e le disposizioni che ne rappresentano l’attuazione in chiave operativa, rappresentano l’adempimento da parte del legislatore ordinario di quegli obblighi relativi al favor familiae che la Costituzione esprime soprattutto negli artt. 29 - 30 - 3144. In particolare viene in riferimento l’art. 30 c. 2 che prevede che nei casi in cui i genitori non siano in grado di prendersi cura autonomamente dei figli (come ad. es. nella detenzione), sia la legge (e dunque il legislatore ordinario con la predisposizione di

In questo senso cfr. Corte Cost., 1988 n° 364, sentenza storica in cui viene enunciato il principio di responsabilità per fatto proprio colpevole (per aversi illecito penale è necessaria la presenza del coefficiente soggettivo in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica) e si esplicita il necessario collegamento fra 1° e 3° c. dell’art. 27 Cost. (responsabilità penale personale e funzione rieducativa): la rieducazione ha senso solo se il soggetto versa in colpa e dunque ha bisogno di essere rieducato. V. TRONCONE P., op. cit., pp. 42-48.

43

In questo senso ANZANI G., L’isola dei reclusi, Milano, 2006 : “La pena del carcere non è

un laser che seleziona il suo obiettivo e lascia indenne il resto; è una specie di proiettile a frammentazione, che ferisce l’intera ‘prossimità’ de reo. Per esempio i suoi familiari che non hanno commesso alcun male. Anche per loro c’è dolore e vergogna…”

44

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26

misure a tal fine) ad occuparsene. Inoltre l’art. 31 tutela la famiglia e lo svolgimento dei compiti ad essa relativi dal punto di vista economico, nonché esprime la protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, sempre con la predisposizione degli istituti necessari. La Costituzione afferma dunque l’impegno della Repubblica ad assistere la famiglia nell’adempimento dei compiti ad essa relativi, qualora per vari motivi questa non sia in grado di provvedervi da sola. Ciò trova evidentemente applicazione nel tema che stiamo trattando.

Curare le relazioni detenuto-familiari non è solo imposto in prospettiva del singolo, dalle norme a tutela del detenuto e della persona umana, ma anche in prospettiva della famiglia, dalle norme costituzionali programmatiche a tutela di quest’ultima e pongono un dovere in questo senso al legislatore ordinario. In altre parole, la protezione della famiglia e dell’infanzia prevista in generale dalla Costituzione deve trovare attuazione anche nell’ambito di quell’esperienza particolare e drammatica che è la detenzione.

Occorre sottolineare poi un altro aspetto di attenzione alle relazioni affettive degli individui ristretti che rappresenta un aspetto di orgoglio della normativa penitenziaria, e cioè il fatto che più di quanto avvenga in altri settori dell’ordinamento, essa accoglie una nozione ampia di famiglia. Infatti, come emergerà nel proseguo dall’esame dei singoli istituti giuridici (ad. es. i colloqui), la nozione di famiglia a cui le norme si riferiscono non comprende solo quella legittima, basata sul matrimonio, ma anche quella

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27

naturale45 e di fatto, nascente dalla semplice convivenza more

uxorio46; oltre che in questo senso, l’estensione si rivela anche nel non considerare solo i legami con i parenti ma coinvolgendo anche gli affini, in una nozione non nucleare ma allargata di famiglia. Inoltre, nel solco della considerazione della convivenza come fonte di validi legami affettivi meritevoli di tutela, c’è forse lo spazio per immaginare un’apertura anche nei confronti delle relazioni omosessuali. Infatti lo stesso Dap in un circolare del 199847 sottolinea come il concetto di famiglia si sia ormai tanto evoluto in senso sociologico da sfuggire ad una definizione giuridica che riesca ad individuarne in modo coerente con la realtà anche i componenti48. Il concetto di famiglia in senso sociologico si riferisce a un nucleo di soggetti legati da vincoli affettivi, coabitazione e cooperazione economica, e pertanto può ben coinvolgere oltre ai coniugi, soggetti conviventi (etero/omo-sessuali), fidanzati non conviventi, soggetti di riferimento culturale o morale49 e addirittura animali domestici50.

45

In questo senso C. 27-1-95, Lafleur, Giust. pen. 95, II, 457: l’art. 18 ord.pen. autorizzerebbe un’interpretazione non restrittiva dei termini “congiunti” e “familiari” in materia di colloqui.

46

BONETTI M., Tutela della riservatezza e ambito penitenziario, in R. it. d. proc. pen, 2004, p. 856.

47

Circ. 8 luglio 1998, n° 3478/5928.

48

Sul tema dell’evoluzione del concetto di famiglia in senso sociologico e sull’arretratezza del diritto a rappresentare adeguatamente tale realtà v. RODOTÀ S., Diritto d’amore, Bari, 2015.

49

Ad es. il parroco, il confessore, il professore, l’allenatore, secondo FIORENTIN F.,

Esecuzione penale e misure alternative alla detenzione, Milano, 2013, p. 350.

50

Purché ciò non confligga con diritti costituzionali come salute, sicurezza, igiene, tutela ambientale. Così in Mag. Sorv. Vercelli 24-10-06, G. mer 06, 2462.

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28

CAPITOLO II

GLI ISTITUTI CHE FAVORISCONO LA

VICINANZA MATERIALE E MORALE DI

RISTRETTI E FAMILIARI

1. La scelta del carcere

L’attenzione dell’ordinamento penitenziario ai rapporti fra ristretti e familiari si riscontra fin dal primo ingresso dell’individuo in carcere. Infatti, nell’individuazione dell’istituto in cui il reo sconterà la pena detentiva si tiene conto, fra gli altri criteri, della vicinanza alla residenza della famiglia, e lo stesso avviene nel caso in cui egli debba essere spostato in altra sede nel corso dell’esecuzione penale, in caso cioè di “trasferimento” (art. 14 ord. pen), e persino nel caso di trasferimento legato all’applicazione del regime di sorveglianza particolare (ex art. 14 bis ord. pen). Si nota dunque che in tali previsioni si rispetta un certo “principio di territorializzazione” dell’esecuzione penale51

, volto a favorire il più possibile il mantenimento di contatti diretti fra ristretto e familiari. E’ ovvio, infatti, che quanto più si riducono le difficoltà materiali legate al raggiungimento dell’istituto, tanto più la relazione familiare potrà mantenersi viva e di buona qualità, ad esempio consentendo il ricorso effettivo all’istituto dei colloqui52

.

51

SIRACUSANO F., sub art. 28, in op. cit., pp. 332-333.

52

La “Territorializzazione della pena” è stato uno dei temi oggetto di un Tavolo di lavoro, il n. 6, promosso nell’ambito di un più ampio progetto promosso dal Ministero della Giustizia;

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29

L’ingresso del condannato in istituto è regolato dall’art. 14 ord. pen. e dal capo 3° del Regolamento Penitenziario n. 230/2000, nonché dall’art. 115 di quest’ultimo. La scelta di destinare un detenuto o internato a un determinato istituto, e al suo interno ad una determinata sezione, non è casuale. L’art. 14 2° c. esprime due criteri guida dell’assegnazione, la possibilità di procedere a un trattamento rieducativo comune e l’esigenza di evitare influenze negative fra i detenuti, in realtà perseguendo una stessa finalità: quella rieducativa, attuabile attraverso la creazione, all’interno degli istituti penitenziari, di gruppi di soggetti con caratteristiche simili, allo scopo di attuare metodologie comuni, pur nell’individualizzazione del trattamento. Altra prova della funzionalità rispetto all’esigenza rieducativa, è la posizione dell’art. 14 subito successiva all’art. 13, il quale contiene la previsione del trattamento rieducativo per i condannati e gli internati.

In principio è prevista un’assegnazione provvisoria del condannato, in un istituto della regione di provenienza del soggetto o in mancanza in località prossima, in cui eseguire le prime attività di osservazione (art. 30 c. 1-2 reg. esec.); in seguito si avrà l’assegnazione definitiva (3°c.). E’ questa in particolare che deve basarsi sui criteri dell’art. 14 ord. pen., e cioè in prima

il Tavolo, che ha da poco pubblicato la relazione definitiva sul lavoro svolto, si è occupato dei problemi legati al riconoscimento e all’esercizio del diritto all’affettività del detenuto e di effettuare proposte di intervento. Per il tema qui in esame si sottolinea che il Tavolo ha proposto modifiche normative compensative per i detenuti assegnati in istituti lontani dal luogo ove vivono i propri familiari, nel dettaglio, l’assegnazione periodica della durata di un mese in un istituto della Regione in cui vivono i familiari e l’accesso facilitato ai colloqui audio/video.

Cfr. la versione integrale della relazione definitiva:

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30

battuta, la differenziazione degli istituti53 e le esigenze del singolo risultanti dell’osservazione.

Accanto a questi primi criteri riconducibili alla rieducazione, l’art. 14 2° c. richiama i criteri previsti dall’art. 42, 1° e 2° c. ord. pen., in funzione suppletiva, ed è in questa sede che si fa riferimento alla famiglia. Questo secondo gruppo di criteri sono comuni sia al primo ingresso in carcere, che alla disciplina dei trasferimenti54 e sono: gravi e comprovati motivi di sicurezza, esigenze dell’istituto, motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari ed inoltre (in un comma a sé) la “prossimità alla residenza delle famiglie”. Quest’ultimo criterio andrebbe preferito rispetto a quelli precedenti, secondo un’interpretazione coerente con gli art. 28 e 45 ord. pen., che impongono all’Amministrazione penitenziaria di preservare e potenziare i rapporti con le famiglie, e appare opportuno scegliere quell’istituto che fra quelli parimenti idonei a realizzare il trattamento educativo previsto per il soggetto, sia più vicino alla sua residenza familiare55.

Come accennato, nemmeno l’applicazione nei confronti del detenuto del regime di sorveglianza particolare previsto all’art. 14 bis ord. pen.56, può legittimare totalmente il venir meno del principio della vicinanza alla famiglia. Il regime in questione

53

Per l’individuazione delle categorie di soggetti privati della libertà e la distribuzione dei soggetti negli istituti penitenziari v. CANEPA M.,MERLO S., op. cit., pp. 168-169.

54

La disciplina sui trasferimenti ha anche lo scopo di chiarire attraverso l’enunciazione tassativa dei motivi che possono giustificarlo, che questi non possono avere una finalità punitiva come accadeva invece in passato. La ratio è soltanto quella di assegnare il detenuto all’istituto più consono a realizzare il trattamento rieducativo previsto per lui o secondariamente per le altre ragioni indicate dai c.1-2 dell’art. 42.

55

BRUNETTI C.,ZICCONE M.,op. cit., p.423-425

56

Per un esame approfondito del regime di sorveglianza particolare, dei suoi profili di problematicità e delle vicende che portarono alla sua introduzione, v. CANEPA M.,MERLO S.,

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31

infatti, sebbene per motivi legati al mantenimento dell’ordine e della sicurezza negli istituti consenta di porre in essere restrizioni nei confronti di un detenuto o internato, non lo priva totalmente della titolarità suoi diritti e tanto meno di quelli relativi alla sfera familiare. L’art. 14 quater ord. pen., regolando il contenuto del regime di sorveglianza particolare, prevede al 5° c. che se tale regime non è applicabile nell’istituto in cui il soggetto si trova, l’Amministrazione penitenziaria ne può disporre il trasferimento in un altro dove ciò sia possibile con provvedimento motivato, dandone immediato avviso al magistrato di sorveglianza e “con il minimo pregiudizio per (…) i familiari”.

Il principio della vicinanza alla residenza familiare non può ovviamente trovare applicazione nei confronti dei detenuti stranieri, nei casi in cui i loro familiari risiedano all’estero, e lo stesso vale per gli istituti dei colloqui e dei permessi. Questo testimonia come sia problematico attuare il principio dell’attenzione ai rapporti familiari in questi casi, con la quasi totale rinuncia a tale contributo nel percorso rieducativo57.

2. La disciplina dei colloqui

Tra i vari istituti che permettono il mantenimento dei contatti fra ristretti e familiari, probabilmente il principale è quello dei colloqui, previsto all’art. 18 ord. pen. E’soprattutto attraverso il

57

Per l’esame di tale problematica e la proposta di un maggiore coinvolgimento delle autorità consolari v. MAROTTA, Detenuti stranieri in Italia: dimensioni e problematiche del

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32

contatto visivo ed il dialogo, infatti, che gli il soggetto ristretto ed i suoi cari riescono ad interfacciarsi in modo diretto e significativo. L’art. 18 al 1° c. afferma che i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, precisando poi al 3° c. che particolare favore è riservato ai colloqui con i familiari. E’ evidente la portata applicativa di questa previsione rispetto al principio guida del mantenimento dei rapporti con la famiglia, sancito all’art. 28 ord.pen., mentre l’apertura anche a persone estranee al nucleo familiare ma legate al reo da un vicolo affettivo, ne denota la natura di strumenti di raccordo con l’esterno e di partecipazione della comunità all’azione rieducativa del detenuto58. E’ soprattutto in relazione all’istituto dei colloqui, nel senso di garantirne un’effettiva fruizione, inoltre, che assume significato la scelta del carcere a cui destinare il reo in prossimità della residenza della famiglia.

La consapevolezza dell’importanza di tale strumento ha portato il legislatore a chiarire, attraverso il regolamento di esecuzione attuale, che in ciò segna una svolta rispetto a quelli precedenti del 1891 e 1931, che l’ammissione ai colloqui non è subordinata alla condotta del reo o alla partecipazione al programma di trattamento né alla gravità del reato, rinnegandone la precedente natura premiale e qualificandoli pienamente come elementi trattamentali59. A questo proposito si aggiunge il contributo interpretativo della giurisprudenza, che afferma il diritto soggettivo

58

AA.VV.,CORSO P. (a cura di), Manuale della esecuzione penitenziaria, Bologna, 2002, p. 102.

59

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dei ristretti ai colloqui con i congiunti o conviventi, soprattutto se si tratta di figli minori, anche affidatari60.

Un’altra disposizione da cui emerge il favore riservato a questo istituto è il c. 1 dell’art. 37 reg. esec. che intende favorire lo svolgimento dei colloqui nei giorni festivi, per quei detenuti che svolgano un’attività lavorativa durante i giorni feriali, evitando così che questi debbano rinunciare a tale strumento.

E’ singolare la scelta del legislatore ordinario di delegare, nonostante la rilevanza dell’istituto, la disciplina dei colloqui, per aspetti essenziali (frequenza, durata, limitazioni per alcune categorie di detenuti) non nella fonte legislativa ma in quella regolamentare, all’art. 37.

Ponendo l’attenzione sulle persone ammesse ai colloqui, legge e regolamento si riferiscono sia ai “congiunti” che ai “familiari”, con lo stesso significato, estendendo la portata dei soggetti ammessi rispetto al reg. del 1931 e valorizzando tutti i legami affettivi significativi del reo. Questa lettura estensiva è supportata da numerosa dottrina e da giurisprudenza di merito e di legittimità, nonché dalla Circolare del Dap 8-7-98 n. 3478/5928 in materia di colloqui (che parla di vincoli di coniugio, parentela o affinità entro il quarto grado). L’estensione coinvolgerebbe oltre alla famiglia legittima e nucleare (basata sul matrimonio), quella naturale (figli nati fuori dal matrimonio), allargata (affini) e di fatto, (cioè basata sulla mera convivenza)61. Soprattutto in relazione al rapporto fra i detenuti e la prole, la Cassazione non ammette limitazioni alle

60

Trib. Min. Trieste, 23-08-2013, N. giur. civ. comm., 14, I, 41.

61

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34

visite62. Il regolamento all’art. 37 pone sempre accanto al riferimento ai congiunti quello ai conviventi, e nella prassi si riscontra come l’amministrazione penitenziaria, sulla base delle indicazioni della citata circolare del Dap, ammetta l’ingresso come tali ai titolari di quei rapporti che in precedenza all’ingresso in carcere erano basati sulla coabitazione, al di là della natura dello stesso (rapporto di amore, amicizia, collaborazione domestica, lavoro alla pari) o del sesso degli individui63.

Il favor accordato alla famiglia si rivela dalla differente regolamentazione dell’accesso ai colloqui fra questa e i soggetti che ne sono estranei. Tutti coloro che vogliono far visita al detenuto devono presentare una richiesta a tal fine, che sarà valutata dall’autorità competente a seconda della categoria di ristretto. Tuttavia, per quanto riguarda i congiunti e conviventi, la concessione del permesso è quasi automatica, dovendosi solo verificare la sussistenza del rapporto di parentela (tanto che ad es. Fiorentin parla di “discrezionalità vincolata” dell’autorità competente) e non essendo richiesta la specificazione dei motivi della visita. Al contrario, l’art. 37 c. 1 richiede per le altre persone la presenza di “ragionevoli motivi”, da indicare nella richiesta. Si profila peraltro il rischio di un’eccessiva discrezionalità dell’autorità nella scelta sulla concessione dell’autorizzazione64

e per limitarlo, la citata circ. del Dap sottolinea come tali motivi

62

Cass. 25-9-13, n. 42597.

63

AA.VV.,CORSO P. (a cura di), op. cit., p. 103.

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Per l’interessante questione sulla posizione giuridica (interesse legittimo o diritto soggettivo) del detenuto rispetto ai colloqui, su cui c’è diversità di opinioni all’interno della dottrina e tra questa e la giurisprudenza, v. SANTINELLI C., sub art. 18, in DELLA CASA F., GIOSTRA G., op. cit., p. 207. La Cassazione a sezioni unite propende tuttavia per la natura di diritto soggettivo.

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debbano essere individuati in senso ampio, in un’accezione di favore al detenuto ed in relazione ai suoi interessi affettivi, di studio, di lavoro.

In ogni caso, emerge la preferenza accordata ai familiari rispetto a terzi estranei ad essa anche in varie altre disposizioni65. Innanzi tutto il 10° c. dell’art. 37 concede la possibilità di prolungare la durata del colloquio (di norma un’ora) fino a due, ma solo rispetto a congiunti e conviventi, se risiedono in comuni diversi da quello in cui ha sede l’istituto e se il ristretto non abbia usufruito della visita nella settimana precedente e ciò non contrasti con le esigenze e l’organizzazione dell’istituto, o quando ricorrano eccezionali circostanze. Lo stesso comma inoltre, solo per congiunti e conviventi, prevede che non valga il limite massimo di tre persone ammesse ai colloqui simultaneamente. Altra disposizione di favore è il c. 11 che dispone che qualora i familiari non mantengano i contatti con il ristretto, la direzione carceraria ha l’obbligo di comunicarlo all’ufficio di esecuzione penale esterna. Per quanto riguarda l’organo incaricato di concedere i permessi, l’art. 18 c. 7 ord. pen. dispone che per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado la competenza sia dell'autorità giudiziaria, ai sensi dell’art. 11 c. 2 (quindi varierà in base al tipo e alla fase del giudizio); dopo la pronuncia della sentenza di primo grado (quindi per appellanti, ricorrenti in cassazione, detenuti e internati) la competenza spetta al direttore dell'istituto. L’attribuzione della competenza ad un autorità amministrativa quale il direttore, e la sottrazione al magistrato di

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