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Sull'imputazione delle condotte dei peacekeepers e il caso Srebrenica

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Sull’imputazione delle condotte dei peacekeepers e

il caso Srebrenica

Relatore

Candidato

Prof. A. M. Calamia Claudia Capecchi

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Una malattia: Effetto Bosnia. Quella terra, quella guerra non ti lasciano più. Nomi, documenti, date, immagini. Voci. Una guerra piena di storie. Voci, nomi, documenti, date, immagini. Città...in mezzo a tante una: esemplare. Una piccola città della Bosnia orientale: Srebrenica.

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1 Indice

PREMESSA ... 6

CAPITOLO I IL RUOLO SVOLTO DALLE PEACEKEEPING E IL CONFLITTO DELLA EX-JUGOSLAVIA ... 8

1. Inquadramento giuridico delle operazioni di peacekeeping nella Carta delle Nazioni Unite ... 8

1.1. I presupposti: consenso, imparzialità e legittima difesa ... 13

1.2. I soggetti: il Consiglio di sicurezza, il Segretario Generale e il Dipartimento delle Nazioni Unite per le Operazioni di Mantenimento della Pace ... 16

1.3. Il finanziamento delle missioni ... 19

1.4. Il diritto applicabile ... 20

1.5. L’evoluzione delle funzioni delle operazioni di peacekeeping ... 23

1.6. La pianificazione delle missioni e la sicurezza del personale delle peacekeeping operations ... 27

2. Il caso della Jugoslavia ... 28

2.1. L’azione diplomatica ... 29

2.1.1. La Carrington Conference ... 29

2.1.2. La Conferenza di Londra ... 31

2.1.3. La Conferenza Internazionale per l’Ex Jugoslavia ... 31

2.2. Segue: due gruppi di lavoro della Conferenza Internazionale per la Ex Jugoslavia ... 36

2.2.1. The ICFY Working Group on Ethnic and National Communities and Minorities ... 36

(5)

2

2.2.2. The ICFY Working Group on Humanitarian Issues ... 38

2.3. Le operazioni di peacekeeping: l’UNPROFOR ... 40

2.4. Segue: le UNPas in Croazia ... 42

2.5. Segue: le safe areas in Bosnia ... 44

2.6. Proroghe e fallimento dell’UNPROFOR ... 46

3. La strage di Srebrenica ... 49

3.1. I fatti ... 50

3.2. I lavori di ricerca della verità di Srebrenica ... 53

3.2.1. I rapporti della Republika Srpska ... 53

3.2.2. Il rapporto francese ... 55

3.2.3. Il rapporto delle Nazioni Unite ... 55

3.2.4. Il rapporto del Niod ... 57

CAPITOLO II L’ATTRIBUIBILITÀ DELLE CONDOTTE DELLE FORZE DI PEACEKEEPING ... 59

1. Natura ambigua delle forze di peacekeeping ... 59

2. La prassi ... 60

2.1. La missione ONUC in Congo ... 61

2.2. Il caso Nissan e la missione UNFICYP a Cipro ... 61

2.3. Il caso N.K. v. Austria ... 63

2.4. La vicenda dell’UNOSOM in Somalia ... 64

3. Dal criterio dello status a quello del controllo effettivo ... 65

3.1. Il criterio del controllo effettivo: le condizioni dell’articolo 7 ... 69

(6)

3

3.2. “Controllo effettivo” come controllo di ogni singola condotta dell’organo? ... 71 3.3. I caratteri del “controllo effettivo” ... 73 3.4. La situazione patologica: il controllo effettivo e gli atti ultra

vires ... 74

4. La “dual attribution” alla luce dei lavori della Commissione di diritto internazionale ... 77 5. L’applicazione residuale della “lex specialis” ... 80 6. Il ruolo dello Stato ospite ... 82 7. I rapporti tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Carta di San Francisco ... 85 7.1. La teoria della “protezione equivalente”: il caso Bosphorus 87 7.2. L’evoluzione giurisprudenziale nei casi Behrami e Saramati: la teoria del “controllo effettivo” ... 90 7.3. L’ “effetto barriera” della sentenza Behrami e Saramati e il suo successivo superamento ... 95 7.4. Un ritorno alla teoria della “protezione equivalente”: il caso

Al-Dulimi ... 99

CAPITOLO III

IL CASO SREBRENICA: LA GIURISPRUDENZA INTERNA E INTERNAZIONALE ... 103 SEZIONE I: L’IMMUNITÀ DELL’ONU ... 104 1. Il ricorso dell’Associazione “Madri di Srebrenica” contro ONU e Stato olandese ... 104 1.1. Le diverse interpretazioni dell’articolo 105 della Carta delle Nazioni Unite ... 105

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4

1.2. La necessità di “rimedi alternativi” e la presunta violazione dell’articolo 6 CEDU ... 108 1.3. La tesi della deroga all’immunità sulla base del carattere di

ius cogens del divieto di genocidio ... 111

2. Il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo ... 113 2.1. L’immunità dell’ONU e la presunta violazione dell’articolo 6 ... 113 2.2. Il criterio di equivalenza e la previsione dei rimedi alternativi ... 115 2.3. La prevalenza dell’immunità sulla norma di ius cogens ... 117

SEZIONE II: LA RESPONSABILITÀ DELLO STATO OLANDESE ... 119 1. I giudizi sulla responsabilità dello Stato: i casi Nuhanović e Mustafić e il ricorso contro lo Stato olandese dell’Associazione “Madri di Srebrenica” ... 119 2. La questione della attribuibilità ... 120 2.1. La dual attribution e il criterio del controllo effettivo nei casi Nuhanović e Mustafić ... 122 2.2. Il cambiamento di opinione della Corte distrettuale nel caso Associazione “Madri di Srebrenica”. ... 126 3. La violazione di un obbligo internazionale ... 129

SEZIONE III: LA RESPONSABILITÀ PENALE DI TRE COMANDANTI DEL DUTCHBAT ... 131 1. Il ricorso alla Corte di appello ... 131 2. Il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo ... 134

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5

CONCLUSIONI ... 136 BIBLIOGRAFIA ... 138 GIURISPRUDENZA ... 145

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6 PREMESSA

Il presente elaborato affronta il problema dell’attribuzione delle condotte dei peacekeepers, con specifico riguardo a quanto accadde in Ex Jugoslavia nell’enclave di Srebrenica.

Nel primo Capitolo viene fatto un inquadramento generale sulla natura giuridica dei caschi blu e sui soggetti che ruotano attorno a questa organizzazione. Si introduce inoltre, fin da subito, la vicenda della guerra avvenuta negli anni ’90 nella Ex Jugoslavia, esponendo prima quelli che furono i lavori delle conferenze che cercarono invano di trovare una soluzione diplomatica al conflitto; poi ci soffermiamo sui fatti del “genocidio” di Srebrenica.

Nel secondo Capitolo, invece, poniamo l’attenzione sul problema derivante dalla natura ambigua dei peacekeepers e cerchiamo di risolvere la questione della attribuibilità delle condotte dei caschi blu nelle operazioni di mantenimento della pace poste in essere dalle Nazioni Unite. È interessante valutare le diverse teorie elaborate dalla giurisprudenza nel corso del tempo, che, basandosi sulle norme fornite dalla Commissione di diritto internazionale nel progetto di articoli sulla responsabilità delle organizzazioni internazionali e in quello sulla responsabilità dello Stato, ha in vario modo cercato di individuare un soggetto responsabile di tali condotte per far sì che non rimanessero impunite.

Infine il terzo Capitolo riguarda la questione della attribuibilità delle condotte dei peacekeepers con riferimento specifico al caso di Srebrenica. In particolare la scelta è stata quella di analizzare le sentenze emesse dai tribunali olandesi e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in modo trasversale, cioè senza analizzare ciascuna decisione punto per punto, ma raggruppandole in due sezioni: una dedicata a quelle sentenze che hanno riconosciuto l’immunità dell’ONU, l’altra dedicata a quelle che hanno invece ritenuto

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7

responsabile lo Stato olandese. Le sentenze riguardano tre casi differenti: Nuhanović, Mustafić e quello della Associazione “Madri di Srebrenica” e il nostro lavoro analizza i vari elementi di contatto dei tre casi. L’ultima sentenza in merito è quella della Corte d’appello olandese del 27 giugno 2017, che ha riconosciuto (come già prima aveva fatto la Corte distrettuale olandese) la responsabilità civile dello Stato olandese, ma in una percentuale del 30%. Il problema resta quindi aperto, in quanto è possibile un ricorso alla Suprema Corte olandese.

Infine un cenno nella sezione terza viene fatto alla responsabilità penale dei singoli comandanti olandesi nell’ambito della strage di Srebrenica.

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8 CAPITOLO I

IL RUOLO SVOLTO DALLE PEACEKEEPING E IL CONFLITTO DELLA EX-JUGOSLAVIA

SOMMARIO: 1. Inquadramento giuridico delle operazioni di peacekeeping nella Carta delle Nazioni Unite. 1.1 I presupposti: consenso, imparzialità, legittima difesa. 1.2. I soggetti: il Consiglio di Sicurezza, il Segretario Generale e il Dipartimento delle Nazioni Unite per le Operazioni di Mantenimento della Pace. 1.3. Il finanziamento delle missioni. 1.4. Il diritto applicabile. 1.5. L’evoluzione delle funzioni delle operazioni di peacekeeping. 1.6. La pianificazione delle missioni e la sicurezza del personale delle peacekeeping operations. 2. Il caso della Jugoslavia. 2.1. L’azione diplomatica. 2.1.1. La Carrington Conference. 2.1.2. La Conferenza di Londra. 2.1.3. La Conferenza Internazionale per l’Ex Jugoslavia. 2.2. Segue: due gruppi di lavoro della Conferenza Internazionale per la Ex Jugoslavia. 2.2.1. The ICFY Working Group on Ethnic and National Communitie and Minorities. 2.2.2. The ICFY Working Group on Humanitarian Issues. 2.3. Le operazioni di

peacekeeping: l’UNPROFOR. 2.4. Segue: le UNPas in Croazia. 2.5. Segue: le safe areas in Bosnia. 2.6. Proroghe e fallimento dell’UNPROFOR. 3. La strage di

Srebrenica. 3.1. I fatti. 3.2. I lavori di ricerca della verità di Srebrenica. 3.2.1. I rapporti della Republika Srpska. 3.2.2. Il rapporto francese. 3.2.3. Il rapporto delle Nazioni Unite. 3.2.4. Il rapporto del Niod.

1. Inquadramento giuridico delle operazioni di peacekeeping nella Carta delle Nazioni Unite

Una delle funzioni primarie delle Nazioni Unite è il mantenimento della pace, così come recita il primo paragrafo dell’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite, detta anche Carta di San Francisco, dal luogo in cui fu firmata da 50 Stati 1 il 26 giugno 1945.

1

Gli Stati membri dell’ONU erano 51, ma la Polonia firmò nell’ottobre dello stesso anno.

(12)

9

La Seconda Guerra Mondiale era ormai giunta al termine e c’era una necessità impellente di ricostruire una situazione di pace tra i vari Stati. Per questo motivo venne creata il 24 ottobre 1945 l’Organizzazione delle Nazioni Unite con lo specifico compito di dare attuazione allo ius

contra bellum. Tuttavia più che un ruolo preventivo, l’Onu ha da

sempre esercitato un ruolo attivo nel favorire lo sviluppo del diritto internazionale umanitario, limitando l’utilizzo della forza nelle guerre e proteggendo i civili.

Durante la guerra fredda però l’Onu non riusciva a svolgere tali funzioni servendosi unicamente del sistema di sicurezza collettivo previsto dalla Carta, cioè degli artt. 42 e seguenti del capitolo VII, che prevedono un sistema di coercizione militare nei confronti degli Stati responsabili di minaccia alla pace, violazioni della pace e atti di aggressione.

Si rese quindi necessaria un’evoluzione nel diritto internazionale e dei compiti dell’Onu, al di là di quanto era previsto dalla Carta di San Francisco: vennero creati nuovi meccanismi operativi “ibridi” c.d. “peacekeeping operations”.

Innanzitutto dobbiamo precisare che l’art. 43 2

della Carta delle Nazioni Unite prevede che tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite debbano mettere a disposizione le forze armate, su richiesta del Consiglio di sicurezza e in conformità ad accordi speciali. Il comma 1 prevede che i Membri delle Nazioni Unite concludano accordi, determinando “il numero ed i tipi di forze armate, il loro grado di

2 Art. 43, Carta delle Nazioni Unite: “1. Allo scopo di contribuire al mantenimento

della pace e della sicurezza internazionale, tutti i Membri delle Nazioni Unite si impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza, a sua richiesta ed in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze armate, l'assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessario per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. 2. L'accordo o gli accordi suindicati determineranno il numero ed i tipi di forze armate, il loro grado di preparazione e la loro dislocazione generale, e la natura delle facilitazioni e dell'assistenza da fornirsi. 3. L'accordo o gli accordi saranno negoziati al più presto possibile su iniziativa del Consiglio di Sicurezza. Essi saranno conclusi tra il Consiglio di Sicurezza ed i singoli Membri, oppure tra il Consiglio di Sicurezza e i gruppi di Membri, e saranno soggetti a ratifica da parte degli Stati firmatari in conformità alle rispettive norme costituzionali.”

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10

preparazione e la loro dislocazione Generale, e la natura delle facilitazioni e dell’assistenza da fornirsi”.

L’art. 47 poi prevede l’istituzione di un Comitato di Stato Maggiore composto dai Capi di Stato maggiore dei cinque Membri permanenti, con il compito di gestire le forze armate messe a disposizione dagli Stati membri. Tuttavia l’art. 43 non è mai stato attuato a causa del disaccordo tra gli Stati Membri, che mai porrebbero i loro contingenti sotto l’autorità del Comitato, che praticamente è guidato solo da cinque membri. La conseguenza è quindi che ad oggi le Nazioni Unite non hanno un loro proprio esercito.

Per ovviare al problema le Nazioni Unite hanno istituito le operazioni di peacekeeping: operazioni militari per il mantenimento della pace. Tali corpi armati sono chiamati “caschi blu” e hanno tendenzialmente funzioni non coercitive, benché col passare degli anni abbiano iniziato anche ad utilizzare la forza. Infatti la natura delle operazioni di

peacekeeping si è evoluta e possiamo individuare due fasi; lo

spartiacque di queste due fasi è rappresentato dalla caduta del muro di Berlino.

Nella prima fase (dal 1948 al 1989) l’utilizzo delle operazioni di

peacekeeping è stato limitato (un terzo delle operazioni totali fino ad

oggi) ed è iniziato con l’UNEF I 3 creata il 5 novembre 1956. Soprattutto dopo la guerra fredda tali operazioni venivano dispiegate nei casi più difficili, dove erano presenti tre o più fazioni (non quindi nel semplice conflitto tra due parti).

La seconda fase (a partire dagli anni Novanta) invece è stata caratterizzata da operazioni soprattutto a carattere umanitario e anche di peace-building, cioè dirette ad assistere i paesi dilaniati da guerre civili. La particolarità di queste missioni fu che l’Onu preferiva inviare

3 L’UNEF I (United Nations Emergency Force) è la prima operazione di

peacekeeping stabilita con la risoluzione 1001 del 7 novembre 1956 dall’Assemblea

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11

i propri peacekeepers in Stati non provvisti di un grande quantitativo di armi 4 (l’unica eccezione è stata la missione inviata in Iraq).

L’art. 54, infine, prevede che le organizzazioni regionali competenti per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale 5 abbiano l’obbligo di informare il Consiglio di Sicurezza riguardo ogni attività da loro intrapresa in tale ambito. Infatti anche se le Nazioni Unite hanno una sorta di “monopolio” 6

dell’uso della forza, tuttavia ci può essere una collaborazione tra queste e le organizzazioni regionali, che possono 7 fornire un contributo al mantenimento della pace in un quadro più ampio di quello previsto dal capitolo VIII della Carta di San Francisco. Del resto è la stessa Carta a prevedere all’art. 52 8 la nascita di organizzazioni regionali con competenza in materia di risoluzione delle controversie locali attraverso mezzi pacifici, che in tale caso possono agire di loro iniziativa, secondo le norme applicabili, e non hanno bisogno dell’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. A tale ultimo proposito invece l’art. 53 prevede la possibilità dell’utilizzo di misure coercitive, però solo su autorizzazione del Consiglio di sicurezza, poiché le misure implicanti l’uso della forza sono in via prioritaria (non esclusiva) di tale organo.

4 V. PAGE FORTNA, Does peacekeeping keep peace? International intervention

and the duration of peace after civil war in International Studies Quarterly, 2004, p.

280-281.

5 In primis l’Unione europea, ma anche l’Associazione delle Nazioni dell’Asia

sud-orientale (ASEAN), l’Unione africana e molte altre ancora.

6 L. PALADINI, Alcune considerazioni sulla prassi delle missioni di pace

dell’Unione europea nel quadro del sistema di sicurezza collettivo delle Nazioni Unite, in Il Diritto dell’Unione Europea, fasc. 2, 2008, pag. 319.

7 La Carta di San Francisco pone l’obbligo di intervenire al mantenimento della pace

solo a carico del Consiglio di sicurezza, ma non delle organizzazioni regionali. Vedi L. PASQUALI, Il contributo delle organizzazioni regionali al mantenimento della

pace e della sicurezza internazionale con mezzi non implicanti l’uso della forza,

Giappichelli, 2012.

8

Art, 52, comma 1: “Nessuna disposizione del presente Statuto preclude l’esistenza di accordi od organizzazioni regionali per la trattazione di quelle questioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, che si prestino ad un’azione regionale, purché tali accordi od organizzazioni e le loro attività siano conformi ai fini e ai principi delle Nazioni Unite”.

(15)

12

Il coordinamento tra le operazioni di peacekeeping dell’Onu e quelle stabilite a livello regionale avviene in base alle esigenze del caso concreto, che in ogni caso sono le stesse di quelle dell’Onu dalle quali prendono ispirazione.

Per quanto attiene al fondamento giuridico di tali operazioni, nessun documento ufficiale si è mai espressamente dichiarato in proposito e ciò ha inevitabilmente provocato opinioni discordanti in dottrina 9. Alcuni riconducono le operazioni di peacekeeping all’art. 36 (capitolo VI della Carta) 10, che autorizza il Consiglio a raccomandare “procedimenti o metodi di sistemazione adeguati” in caso di controversie che potrebbero porre in pericolo il mantenimento della pace.

Altri 11 fanno invece riferimento all’art. 39, secondo cui il Consiglio di Sicurezza può intervenire in presenza di una minaccia alla pace, violazione della pace o atto di aggressione; all’art. 40 12

riguardante le misure provvisorie; all’art. 42 13

sulle misure implicanti l’uso della forza.

Altri 14 ancora ritengono che non ci si possa rifare né al capitolo VI né al VII e che le operazioni di peacekeeping siano un tertium genus tra attività coercitive e attività conciliative.

9

Rapporto collettivo. Le missioni internazionali in Osservatorio di politica internazionale, 2010.

10 SPATAFORA, L’intervento militare delle Nazioni Unite nel Congo, in Rivista di

Diritto internazionale, 1968, p. 517.

11 J.W. HALDERMAN, Legal Basis for United Nations Armed Forces, in American

Journal of International Law, 1962, p. 987; N.D. WHITE, U.N. Peacekeeping-Development or Destruction?, in International Relations, 1994, p. 129 ss.

12 F.FABBRI, Le misure provvisorie nel sistema di Sicurezza delle Nazioni Unite, in

Rivista di diritto internazionale, 1964, p. 186 ss.

13

B. CONFORTI – C. FOCARELLI, Le Nazioni Unite, Cedam, 2012, p. 98.

14 Il Segretario Generale, Hammarskjold, ha infatti elaborato la tesi del capitolo Six

and half, che consiste nel considerare le operazioni di peacekeeping come una nuova

consuetudine sostenuta del resto da un prassi nata soprattutto dal 1989 e grazie anche al consenso degli Stati membri.

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1.1. I presupposti: consenso, imparzialità e legittima difesa

È con l’operazione UNEF I (United Nations Emergency Force) che si sono delineati gli elementi delle peacekeeping, poi confermati nelle successive operazioni e infine inseriti nel Rapporto di Panel sulle operazioni di pace delle Nazioni Unite (Rapporto Brahimi) del 2000: a) il consenso dello Stato sul cui territorio le operazioni di mantenimento della pace vengono effettuate. Infatti la libertà di azione presuppone proprio il consenso delle parti partecipanti al conflitto, ma in particolare dello Stato suddetto. Nel post-conflitto la mancanza di fiducia tra le parti rende il consenso, dato prima, incerto. Inoltre, quando il consenso è stato dato sotto pressione delle Nazioni Unite, spesso capita che lo Stato lo ritiri nei modi più svariati.

b) l’imparzialità delle operazioni per non pregiudicare diritti o posizioni delle parti in causa. Serve a mantenere la cooperazione tra le parti, senza privilegiare né recare pregiudizio ad alcuna di esse.

Tuttavia imparzialità non significa neutralità: di fronte alla violazione di norme e principi internazionali, le forze di peacekeeping devono condannare e non condonare tali condotte.

c) l’uso della forza solo per legittima difesa. Questo è uno dei requisiti fondamentali, inserito in tutti i documenti degli organi delle Nazioni Unite che se ne sono occupate, ma confermato pure dalla dottrina 15. Certo è che l’utilizzo della formula “legittima difesa” è inadeguato e inizialmente è stato spiegato come segue: le forze di peacekeeping possono ricorrere alla forza per rispondere ad un uso illecito della forza contro di loro al fine di poter svolgere la loro funzione principale, cioè quella di assicurare il mantenimento della pace.

Tuttavia tale opinione non è condivisa dai più e studi recenti hanno preferito fare una distinzione tra operazioni di peacekeeping che ricorrono sistematicamente all’uso della forza e quelle che invece vi

15

M. FRULLI, Le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e l’uso della forza in Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 2, 2001, pag. 347.

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14

ricorrono solo eccezionalmente. Tra le prime sono state fatte rientrare l’UNOSOM II 16

e l’UNPROFOR 17, che appartengono ad una nuova tipologia di operazioni di peacekeeping, in quanto sono state autorizzate ad utilizzare la forza in situazioni che vanno ben oltre la legittima difesa.

Concludendo possiamo affermare senz’altro che l’espressione “legittima difesa” ha acquisito con il tempo una qualificazione politica piuttosto che giuridica.

Nemmeno gli organi delle Nazioni Unite riescono a fare chiarezza in merito: sia il Comitato speciale per le operazioni di mantenimento della pace sia il Segretario Generale nei loro documenti si riferiscono alla “legittima difesa” come presupposto per l’utilizzo della forza, ma non si soffermano poi a specificarne il significato.

È invece nei documenti delle singole operazioni che troviamo un tentativo di spiegazione di tale principio 18. Iniziamo la nostra analisi con l’UNEF I, che non era autorizzata a usare la forza ai sensi del capitolo VII della Carta, ma doveva limitarsi a garantire il cessate-il-fuoco e il ritiro delle truppe dall’Egitto. Il rapporto-studio del 1958 relativo all’UNEF I è un documento modello e il punto di riferimento per le successive operazioni; qui si prevedeva la possibilità di ricorrere alle armi per difendersi da attacchi diretti contro la persona o contro il personale affidato alla loro protezione: quindi “legittima difesa” come diritto di autotutela personale o individuale.

Subito dopo nel 1960 venne istituito l’ONUC 19, che formalmente venne autorizzato all’utilizzo della forza con i limiti stabiliti nel suddetto documento, ma che concretamente, trovandosi ad operare in

16

Second United Nations Operations in Somalia istituita con la Risoluzione 814 del 26 marzo 1993 con il fine di disarmare le fazioni somale e autorizzando i caschi blu all’utilizzo della forza.

17 United Nations Protection Force in Bosnia istituita con la Risoluzione 743 del 21

febbraio 1992.

18 M. FRULLI, Le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e l’uso della

forza in Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 2, 2001, pag. 347.

19

L’ONUC è l’Opération des Nations Unies au Congo istituita con la Risoluzione 143 del 14 luglio 1960.

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15

un contesto molto complesso, finì per ricorrere alle armi in casi che andavano ben oltre la legittima difesa. Da questa esperienza si è capito che spesso l’utilizzo della forza assume uno scopo di polizia interna, su richiesta o con il consenso del governo sul cui territorio si svolge l’operazione.

Un’ulteriore precisazione si ebbe con l’istituzione nel 1964 dell’UNFICYP 20

, relativamente alla quale si specifica che il ricorso alla forza in legittima difesa include la difesa delle postazioni e dei veicoli delle Nazioni Unite contro cui si rivolga un attacco armato e l’appoggio ad ogni membro del personale della forza sottoposto ad un attacco armato. Si prevede tuttavia anche e soprattutto la possibilità di ricorrere alla forza per difendere lo svolgimento del mandato. Proprio questo ultimo aspetto è stato ribadito con l’istituzione dell’UNEF II 21

, che recita “The Force would be provided with weapons of a defensive

character only. It would not use force except in self-defence. Self-defence would include resistance to attemps by forceful means to prevent it from discharging its duties under the mandate of the Security Council”.

Solo negli anni Novanta poi si torna nuovamente sul concetto di “legittima difesa” forse spinti dall’esigenza di plasmarlo in base ai nuovi connotati che le operazioni di peacekeeping avevano assunto, caratterizzandosi sempre più come operazioni di peace – enforcement. Introduciamo la vicenda dell’UNPROFOR istituita dal Consiglio di sicurezza con la risoluzione 743 del 21 febbraio 1992 per intervenire in Bosnia-Erzegovina, limitandoci per il momento all’aspetto dell’utilizzo della forza. Inizialmente era prevista la possibilità di ricorrere alla forza per difendere il mandato, ma in seguito, con la risoluzione 836,

20 L’UNFICYP è l’ United Nations Force in Cyprus istituita con la Risoluzione 186

del 4 marzo 1964.

21

Second United Nations Emergency Force, che è stata istituita come forza di intermediazione tra Israele ed Egitto con la Risoluzione 340 del 25 ottobre 1973.

(19)

16

che istituì le zone di sicurezza 22, il mandato dell’UNPROFOR si estese per fronteggiare gli attacchi a queste zone perpetrati da parte dei serbo-bosniaci e così tale risoluzione, nonostante parlasse di “acting in

self-defence”, superava inevitabilmente tale concetto.

Tuttavia altri 23 ritengono che si tratti ancora di un uso della forza a scopo difensivo, cioè disposto al fine di proteggere le safe areas da attacchi. Secondo quest’ultima opinione quindi a cambiare non è il concetto dell’uso della forza per legittima difesa, quanto invece il ricorso sempre più frequente alla forza per attuare il mandato, a causa della difficile situazione caratterizzata da un grave conflitto interno, come era quella della Bosnia-Erzegovina al tempo.

1.2. I soggetti: il Consiglio di sicurezza, il Segretario Generale e il Dipartimento delle Nazioni Unite per le Operazioni di Mantenimento della Pace

La complessità delle operazioni di peacekeeping deriva anche dal numero di soggetti coinvolti. Infatti vengono stipulati accordi che vedono come protagonisti da una parte l’Onu insieme agli Stati fornitori di truppe e dall’altra ancora una volta l’Onu e gli Stati sui cui territori i caschi blu sono destinati ad operare. L’ONU dunque è il collegamento tra i due Stati.

Dal 1994 poi le Nazioni Unite hanno favorito la stipulazione dei c.d.

Stand-by Arrangements (accordi di stand-by)24, che sono un tentativo mal riuscito e soprattutto incompleto di porre in essere gli accordi speciali previsti dall’art. 43 della Carta delle Nazioni Unite. Infatti tali accordi prevedono che gli Stati membri mettano in “stand-by” dei

22

Le zone di sicurezza (safe areas) vennero create dal Consiglio su richiesta del governo bosniaco per proteggere la popolazione civile.

23 M. FRULLI, Le operazioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e l’uso della

forza, cit., pag. 347.

24

(20)

17

contingenti, cioè li tengano a disposizione per l’eventualità in cui si renda necessario intervenire con un’operazione di peacekeeping. Questi contingenti sono controllati dallo Stato fino al momento in cui vengono assegnati alle Nazioni Unite tramite un accordo ad hoc. Tuttavia tali accordi hanno due punti di debolezza: in primo luogo, gli Stati membri possono anche decidere di non stipulare tale ultimo accordo e quindi non inviare le truppe; in secondo luogo, non consentono il dispiegamento delle truppe nei casi di emergenza.

Per ovviare a questo ultimo problema nel 1995 la Danimarca (poi hanno aderito anche altri Paesi 25 dal 15 dicembre 1996) ha dato origine alla Stand-by Forces High Readiness Brigade (Shirbrig)26, che doveva intervenire in via rapida.

Entriamo ora più nel merito dei soggetti “protagonisti” di queste operazioni.

Le operazioni di peacekeeping hanno una natura ibrida e per questo motivo sono “divise” tra le Nazioni Unite e gli Stati di invio dei contingenti come illustrato anche nell’accordo-modello del 1991 sui rapporti tra l’ONU e lo Stato fornitore, dal quale si deduce il ruolo centrale delle Nazioni Unite.

Sul piano politico la gestione operativa è affidata alle Nazioni Unite, in particolare è il Consiglio di Sicurezza che assume le decisioni in merito alla creazione di una forza di mantenimento della pace. Questo valuta:

- se siamo di fronte ad una situazione in cui è possibile stilare un trattato internazionale di pace e sicurezza;

- se le organizzazioni regionali sono capaci di risolvere la situazione;

- se c’è un “cessate il fuoco”;

- se sussiste uno scopo prettamente politico;

25

Austria, Canada, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia e Svezia.

26

(21)

18

- se può essere formulato un mandato preciso per l’operazione; - se può essere garantita la sicurezza del personale delle Nazioni

Unite 27.

Prima di avviare l’operazione si ha una consultazione generale tra Stati membri, Segretario Generale, paesi potenzialmente fornitori di truppe. Durante tale consultazione il Segretario Generale può decidere se provvedere ad un assestamento strategico della situazione, coinvolgendo tutti i protagonisti e richiedendo tutte le possibili opzioni da poter adottare prima di procedere ad una operazione di

peacekeeping; egli è colui che sostanzialmente decide se l’operazione è

davvero la misura più appropriata o sono possibili altre soluzioni. La consultazione è una conditio sine qua non, in quanto gli Stati non sono obbligati a fornire le truppe.

Inoltre il Segretario Generale può anche dispiegare un Technical

Assessment Mission (TAM) sul territorio dove prevede la missione

delle Nazioni Unite, con lo scopo di analizzare la politica umanitaria, la situazione militare e le possibili ripercussioni che potrebbe avere una missione di pace.

Nel 1992 è stato poi creato il Dipartimento delle Nazioni Unite per le Operazioni di Mantenimento della Pace 28, che assiste sia gli Stati membri sia il Segretario Generale. Infatti da una parte, mantiene i rapporti con gli Stati di invio della missione, dall’altra dirige e gestisce le missioni per conto del Segretario Generale. Si occupa inoltre di limitare i pericoli che potrebbero presentarsi ai peacekeepers e intrattiene rapporti con organizzazioni non governative e gruppi sociali, che svolgono attività dirette alla tutela dei diritti umani 29.

27

Department of Peacekeeping Operations, United Nations. Peacekeeping

operations. Principles and Guidelines, 2008.

28 Department of peacekeeping operations (DPKO).

29 Department of peacekeeping operations’ official website:

(22)

19

Sul piano militare invece il comando è del comandante operativo, che esercita sul campo “full command authority of the Force” ed è

“operationally responsible for the performance of all functions assigned to the Force by the United Nations” 30; quindi esercita un pieno comando della forza di peacekeeping e ne è responsabile, anche se il Segretario Generale rimane il comandante supremo della forza, continuando a coordinarla politicamente dal suo quartier generale di New York. Il comandante crea poi, a sua volta, la c.d. catena di comando, costituita dai comandanti dei vari contingenti dei diversi Stati, ai quali egli detta comandi operativi.

La presenza di più soggetti comporta il problema della attribuibilità delle condotte illecite eventualmente poste in essere nel corso di un’operazione di peacekeeping. Tale aspetto verrà ampiamente trattato nel capitolo II.

1.3. Il finanziamento delle missioni

Anche nell’ambito più prettamente concreto, come quello del finanziamento delle missioni, sorgono problemi derivanti dalla moltitudine di soggetti protagonisti del peacekeeping.

Ancora una volta la mancanza di disciplina ci porta a ricercare nella prassi una regolamentazione. Di solito l’Assemblea attribuisce agli Stati membri le spese per le truppe e gli equipaggiamenti 31 , mentre le altre restano a carico dell’Onu (tra cui anche il rimborso per i trasporti, anche se a tale proposito non c’è univocità di comportamento 32).

30 Ciò si evince dalle “regulations” delle diverse operazioni di mantenimento della

pace.

31 Gli Stati potrebbero dare inoltre contributi volontari, ma questa rimane una forma

di finanziamento marginale e soprattutto solo eventuale.

32

Ad esempio nel caso dell’UNEF I nel 1956 l’Onu non rimborsò niente, ma con il tempo si è stabilita una quota forfettaria di rimborso da parte delle Nazioni Unite.

(23)

20

Ovviamente su questo aspetto serve la massima chiarezza. L’Onu inserisce tali spese nel bilancio, che viene approvato dall’Assemblea generale ex art. 17, Carta delle Nazioni Unite. In realtà nelle missioni UNEF I e ONUC l’Assemblea creò un apposito bilancio e le due missioni risultarono finanziate dagli Stati, che però ovviamente si ribellarono a tale meccanismo.

Dopo prassi contrastanti, alla fine il 23 dicembre 1993 l’Assemblea Generale adottò la risoluzione 47/217 con cui istituì un fondo di riserva per le operazioni di peacekeeping, dal quale oggi il Segretario Generale, su autorizzazione dell’Assemblea generale, può prelevare cinquanta milioni di dollari americani 33 per ogni operazione.

1.4. Il diritto applicabile

Innanzitutto dobbiamo considerare l’applicazione del diritto umanitario e del rispetto dei diritti umani all’interno delle missioni di pace.

Numerosi dibattiti sono sorti a tale proposito, ma senz’altro tali norme si applicano alle missioni disciplinate dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 34 e dai due Protocolli aggiuntivi del 1977. Negli altri casi di missioni sotto il comando e il controllo delle Nazioni Unite il problema deriva dalla soggettività dell’Organizzazione e dalla difficoltà nel vincolarla al rispetto di tale normativa.

Laddove le missioni sono invece sotto il comando e il controllo degli Stati, spesso questi hanno aggirato l’applicazione del diritto umanitario

33 Rapporto collettivo. Le missioni internazionali in Osservatorio di politica

internazionale, 2010. Dal rapporto Brahimi del 2000 il prelievo può essere anche più cospicuo.

34

Sono quattro convenzioni che costituiscono un corpo di diritto internazionale: per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze armate in campagna; per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze armate sul mare; sul trattamento dei prigionieri di guerra; sulla protezione dei prigionieri civili in tempo di guerra.

(24)

21

sostenendo la non presenza di un conflitto armato. Infatti le norme di diritto umanitario si applicano in presenza di un conflitto armato, da intendere però in modo informale (può essere anche una semplice occupazione bellica, non necessariamente anticipata da dichiarazioni formali).

Il primo dibattito al riguardo si ebbe nel 1950 nella missione in Corea e fu sollevato dal Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr), che nel 1961 pubblicò un memorandum per gli Stati parti delle Convenzioni di Ginevra e membri dell’Organizzazione intitolato “Application and dissemination of the Geneva conventions”, che, tra le altre cose, prescriveva anche l’osservanza delle norme di diritto umanitario da parte del Segretario Generale. Infatti secondo il Cicr i principi di diritto umanitario sono riconosciuti come principi di diritto consuetudinario e perciò vincolanti per tutti gli Stati coinvolti in un conflitto armato. Il Segretario Generale confermò quanto sostenuto dal Cicr.

Il dibattito poi si riaccese in occasione delle violazioni e degli abusi perpetrati da parte dei contingenti Onu durante le operazioni di pace in Somalia negli anni ’90. Il rapporto del 24 aprile 1995 dell’allora Segretario Generale, Kofi Annan, dà per implicito il rispetto delle norme di diritto umanitario nelle missioni di pace e specifica che innanzitutto sono gli Stati a doverne controllare il rispetto, anche se ciò non esenta le Nazioni Unite da un’ulteriore supervisione al riguardo. Le Nazioni Unite risposero a tale rapporto con un altro documento: il

Bollettino sull’osservanza da parte delle Nazioni Unite del diritto internazionale umanitario, composto da dieci articoli che riproducono

le norme di diritto umanitario, specificando che si applicano anche a prescindere dalla ratifica delle Convenzioni di Ginevra. Quest’ultima precisazione rappresenta un passo decisivo, per cui, anche se ormai il

Bollettino potrebbe essere migliorato o addirittura superato da un

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22

per il riconoscimento del rispetto del diritto umanitario nell’ambito delle missioni di pace.

Infatti non possiamo ritenere che, poiché i caschi blu vanno in questi territori per placare i conflitti, abbiano libertà di azione e possano indiscriminatamente violare i diritti umani. È necessario mantenere una rigidità nel rispetto di tali diritti, per evitare il degenero di situazioni che, già di loro conto, non sono regolate né disciplinate.

Oltre al diritto umanitario, nelle missioni internazionali di pace si applicano anche i Sofa (Status of Forces Agreements) e le regole di ingaggio.

I Sofa stabiliscono quale regime giuridico si debba applicare ai caschi blu in missione e a quale giurisdizione debbano essere sottoposti se commettono illeciti. Sono conclusi dal Segretario Generale (ancora una volta spicca il suo ruolo centrale) con il governo dello Stato ospite sulla base di un modello elaborato dallo stesso Segretario Generale e poi approvato dall’Assemblea generale nel 1990: il Model Sofa (UN doc. A/45/594), il cui art. 47 stabilisce la giurisdizione esclusiva degli Stati di invio sui militari impiegati in missioni dell’Onu. Questo è un modello da cui gli Stati possono comunque discostarsi se la natura della missione lo richiede, perché in realtà non fonda una norma consuetudinaria 35.

L’altra tipologia di norme applicabile è data dalle regole di ingaggio, che derivano invece dalle competenti autorità militari e, in particolare, regolano le modalità e i mezzi per esercitare la forza (possibile solo in caso di legittima difesa). Ovviamente devono essere ancorate a principi di diritto internazionale umanitario.

35

Ciò viene affermato nonostante la Corte di assise di Roma nel 2007 nel caso Lozano (il soldato americano che causò la morte dell’agente italiano Nicola Calipari in Iraq) abbia affermato la giurisdizione esclusiva dello Stato di invio, basandosi sull’esistenza di una norma di diritto internazionale consuetudinario che prevedeva ciò.

(26)

23

Le regole di ingaggio si applicano in casi diversi tra loro. In tempo di guerra coincidono sostanzialmente con il diritto internazionale umanitario; in tempo di pace regolano la possibilità di ricorrere alla forza solo per legittima difesa. Però c’è anche un terzo caso: regole di ingaggio che si utilizzano nelle Military operations other than War (Mootw) 36, che sono come dei casi di guerra a bassa intensità, in cui tali regole sono più restrittive rispetto ai casi di guerra veri e propri; in particolare qui emerge il concetto di autodifesa personale e per capire bene dobbiamo fare riferimento a casi pratici. Nella missione UNEF I nel 1956 in Medio Oriente c’era la possibilità di aprire il fuoco solo per auto-protezione. Nell’ONUC (missione in Congo) e UNFICYP (a Cipro) le regole di ingaggio erano meno restrittive e permettevano di aprire il fuoco nel caso in cui le truppe fossero obbligate a ritirarsi dalle loro posizioni: si tratta di un caso di difesa del mandato. Nell’UNPROFOR l’uso della forza armata era consentito per salvaguardare le enclaves protette dalla missione, cioè per intervenire contro coloro che tentavano di ostacolare la protezione di quelle zone. Nel caso invece dell’UNOSOM (missione in Somalia) l’evolversi del conflitto ha comportato la necessità di un’apertura per quanto concerne l’utilizzo della forza, prevendendo anche la possibilità di scegliere tra arme letali e non.

1.5. L’evoluzione delle funzioni delle operazioni di

peacekeeping

È necessario inquadrare le peacekeeping operations all’interno di un quadro più ampio di attività svolte dalle Nazioni Unite 37 che di solito

36 Con tale termine si fa riferimento a missioni classiche di peacekeeping, missioni di

supporto alla pace, missioni umanitarie in senso stretto.

37

Department of Peacekeeping Operations, United Nations. Peacekeeping

(27)

24

si susseguono nel seguente ordine: prevenzione del conflitto,

peacekeeping, peacemaking e infine peacebuilding.

Innanzitutto le Nazioni Unite devono porre in essere misure idonee a prevenire l’insorgere di un conflitto. Se ciò non è possibile si passa al

peacemaking, che consiste nel creare negoziazioni tra le parti ostili.

Sullo stesso piano c’è anche il peace enforcement, che comporta l’applicazione di misure coercitive (previa autorizzazione del Consiglio di sicurezza), incluso l’uso della forza.

Una volta che il conflitto è stato bloccato, troviamo la peacekeeping, una tecnica che serve per preservare la pace 38.

Diversa ancora è la peacebuilding, attività di lunga durata atta a creare una situazione stabile di pace e di sviluppo per evitare ulteriori futuri conflitti.

Ovviamente la distinzione tra queste tipologie di attività non è netta, per cui le operazioni di peacekeeping spesso consistono nell’ordinare il cessate-il-fuoco o nel favorire accordi di pace; altre volte hanno invece un ruolo più costruttivo, svolgendo vere e proprie attività di

peacebuilding. L’abilità e la forza delle Nazioni Unite consiste proprio

nel sapere coordinare tali strumenti nei limiti delle rispettive attività e allo scopo di riuscire a risolvere al meglio il problema della realtà dove vanno ad operare.

È inopportuno infatti fissare degli schemi predefiniti da seguire ciecamente. Inevitabilmente le realtà in cui i caschi blu si trovano ad intervenire sono sempre diverse le une dalle altre, perciò è necessaria una malleabilità e una capacità di adeguare le caratteristiche di tale “esercito” alla situazione che deve essere di volta in volta fronteggiata. Nel tempo le operazioni di peacekeeping hanno subito una grande evoluzione. Inizialmente fin dal 1948, nonostante la Carta di San Francisco non le prevedesse, esse furono utilizzate ampiamente.

38

“Peacekeeping” significa infatti “mantenimento della pace” da peace (pace) e

(28)

25

Durante la guerra fredda poi esse non ebbero un ruolo attivo, ma erano incaricate dal Consiglio di Sicurezza di occuparsi di osservare e monitorare; della supervisione del cessate-il-fuoco; di adottare misure di mediazione e negoziazione.

Finita la guerra fredda però lo scenario è notevolmente mutato. Infatti il Consiglio di Sicurezza ha rafforzato la propria attività di risoluzione pacifica dei conflitti e ha dato avvio ad operazioni di peacekeeping dette “multi-dimensionali” su richiesta delle autorità nazionali, che chiedono supporto in caso di transizione al governo legittimo o addirittura ci sono stati casi in cui i peacekeepers si sono trovati a svolgere funzioni legislative o amministrative. In questa loro nuova veste svolgevano funzioni differenti rispetto ai primi tempi: creare nuove condizioni ambientali, nel rispetto della legge e dei diritti umani; facilitare il passaggio al governo legittimo; formare una struttura in cui poter operare.

Laddove l’operazione di peacekeeping diventa una vera e propria operazione di peacebuilding, allora assume ulteriori compiti come mantenere l’ordine pubblico; far rispettare la legge e i diritti umani; supportare le istituzioni politiche anche attraverso un’assistenza riguardante le elezioni; promuovere lo sviluppo economico e sociale. In questo caso si è posto tuttavia un problema che ha a che vedere con l’esistenza di un “diritto alla democrazia” 39

, cioè del diritto di tutti i popoli di essere consultati e di poter partecipare alla formazione delle decisioni politiche. Il problema però è se tale diritto possa essere imposto dall’esterno ricorrendo all’uso della forza. Favorevole è Reisman 40, dicendo che la sovranità appartiene al popolo, per cui questa è violata dal dittatore e non dalle forze di invasione che vogliono abbatterlo per instaurare un governo voluto dal popolo. Tuttavia la Carta delle Nazioni Unite riconosce la possibilità di

39 P. FORADORI, Caschi blu e processi di democratizzazione, Vita e Pensiero, 2007. 40 W.M. REISMAN, Sovereignty and Human Rights in Contemporary International

Law, in Yale Law School Legal Scholarship Repository, 1990.

(29)

26

ricorrere alla forza solo in caso di autodifesa, collettiva e individuale (art. 51), perciò l’intervento militare in un paese al solo fine di instaurare un governo democratico comporterebbe una violazione del divieto all’uso della forza come previsto dall’art. 2, comma 4 della Carta.

Essenzialmente quindi le forze di peacekeeping sono mutate in modo massiccio e, a questo mutamento, si è accompagnata l’esigenza di altri fattori da tenere in considerazione oltre al consenso, imparzialità e uso della forza solo in caso di legittima difesa (cfr par. 1.1.).

Dobbiamo infatti prendere inevitabilmente in considerazione nuovi principi da seguire:

- la legittimità internazionale: dipende da fattori come il modo in cui viene utilizzata la forza; il rispetto dei costumi locali, delle leggi e delle istituzioni da parte dei caschi blu; in generale conta la condotta del personale militare, che deve essere idonea alla responsabilità che le operazioni di peacekeeping hanno. - La credibilità è il riflesso di quanto la popolazione locale crede

nelle capacità e abilità della missione. Per essere credibile, la missione dovrebbe concludersi rapidamente e avere un mandato chiaro con risorse e capacità da spendere. Mantenere la credibilità è fondamentale per il successo della missione, altrimenti anche la legittimità e il consenso iniziano ad erodersi.

- La promozione della proprietà (ownership) nazionale e locale inizia con la comprensione del contesto nazionale e consiste nell’aiutare lo Stato a superare il conflitto velocemente e poter progredire con le proprie istituzioni. Le Nazioni Unite devono aiutare lo Stato a far fruttare le proprie capacità interne una volta che la loro missione sarà conclusa. Devono incentivare un dialogo tra i soggetti protagonisti. Lo scopo è quello di creare

(30)

27

una struttura in cui ognuno si assuma la propria responsabilità e in cui ci possa essere uno sviluppo economico e politico.

1.6. La pianificazione delle missioni e la sicurezza del personale delle peacekeeping operations

Vista la mancanza di disciplina nella Carta di San Francisco, le Nazioni Unite hanno deciso di adottare l’Integrated Mission Planning

Process per pianificare le missioni e creare un comune sistema di

strategici obiettivi.

Ovviamente tale sistema va coordinato con le capacità di ogni Stato per assicurare che vengano sfruttate al massimo le risorse limitate delle Nazioni Unite. Quindi è un sistema “dinamico” 41

, che deve essere anche integrato con ulteriori pianificazioni, come ad esempio il

Common Country Assessment (CCA), il UN Development Assistance Framework (UNDAF), il Poverty Reduction Strategy Papers (PRSP).

Per quanto attiene invece alla sicurezza del personale, dobbiamo precisare che è lo Stato ospite ad avere la responsabilità della sicurezza e protezione del personale delle operazioni di peacekeeping.

L’ufficiale designato 42

dalle Nazioni Unite è responsabile per lo staff delle Nazioni Unite. Egli è coadiuvato dal Chief Security Adviser (CSA), dal Department of Safety and Security (DSS) e dal Security

Management Team (SMT).

Per tale aspetto è stato elaborato il Minimum Operating Security

Standards (MOSS), un insieme di regole che monitorano lo staff sia

nazionale sia internazionale. 41

Department of Peacekeeping Operations, United Nations. Peacekeeping

operations. Principles and Guidelines, 2008

42 Department of Peacekeeping Operations, United Nations. Peacekeeping

operations. Principles and Guidelines, 2008. Si fa riferimento al Designated Official

(31)

28 2. Il caso della Jugoslavia

Dopo aver esaminato in generale i caratteri delle operazioni di

peacekeeping, facciamo riferimento al caso della Bosnia – Erzegovina,

facendo prima un quadro generale sulla situazione del conflitto che afflisse la Bosnia dal 1992 al 1995 ed andando poi ad esaminare più da vicino le caratteristiche dell’UNPROFOR, la missione di peacekeeping che venne inviata in quei luoghi da parte del Consiglio di sicurezza. Ripercorriamo brevemente i fatti della guerra nei Balcani. Tutto iniziò nell’agosto 1990 quando undici distretti della Krajina, a maggioranza etnica serba, si dichiararono autonomi dalla Croazia e chiesero poi nel 1991 l’annessione alla Serbia. Sempre nel 1991 anche in Bosnia 43

diverse circoscrizioni a maggioranza serba dichiararono la propria indipendenza; lo stesso fecero in quell’anno Croazia e Slovenia. Ciò condusse a scontri armati tra croati e serbi e in un secondo momento anche tra serbi e bosniaci.

L’ONU intervenne con diversi strumenti, tra cui l’azione diplomatica, l’azione militare-umanitaria, gli embarghi civili e militari, l’istituzione di un Tribunale internazionale per i crimini commessi.

43

Attualmente in Bosnia: il 40% della popolazione è musulmana, il 32% serba, il 18% croata e l’8% continua a dichiararsi “jugoslava”.

(32)

29 2.1. L’azione diplomatica

2.1.1. La Carrington Conference

Nel settembre 1991 il Consiglio dei Ministri della Comunità europea indisse una Conferenza di pace sulla Jugoslavia, chiamata “Carrington Conference” 44

con lo scopo di tenere unita la Repubblica socialista federale di Jugoslavia. Nel novembre dello stesso anno Carrington propose le Treaty Provisions for the Convention, che vennero accettate da cinque dei sei capi delle repubbliche jugoslave (non firmò il Presidente della Serbia Milošević). Fu un tentativo del mediatore europeo Lord Carrington di tenere unita la Bosnia a ciò che rimaneva della Jugoslavia, in un piano da lui elaborato tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992. Tuttavia tale piano fu sconfessato dalla stessa Unione europea, che riconobbe prima l’indipendenza della Croazia e della Slovenia e poi anche della Macedonia e della Bosnia – Erzegovina, chiedendo solo come condizione per legittimare l’indipendenza un

referendum: due terzi della popolazione votò a favore dell’indipendenza in Bosnia, i serbi costituenti l’altro terzo si opposero.

La disgregazione della Jugoslavia iniziò proprio con la secessione di Croazia e Slovenia nel 1991 e poi continuò nel 1992 con quella della Bosnia voluta dal presidente islamico Izetbegović 45, che compì una sorta di colpo di Stato in quanto, in base alla Costituzione bosniaca, la carica di presidente sarebbe dovuta spettare a Karadzic, serbo. In realtà tutto era ampiamente appoggiato dalla “Comunità internazionale”, da intendersi come NATO, USA e UE.

L’idea europea era quella di riconoscere in un primo momento l’indipendenza dei vari Stati e in seguito creare però una situazione

44 Prese il nome dal suo presidente; fu anche chiamata “Brussels Conference” o

“Hague Conference”.

45

Presidente della Bosnia-Erzegovina dal 1990 al 1996. Di fede musulmana, fu lui ad indire il referendum per ottenere l’indipendenza da Belgrado (Serbia).

(33)

30

simile a quella elvetica: una “cantonalizzazione” 46. In realtà l’Europea

si illuse di poter giostrare a suo piacimento questi territori, non tenendo conto dei conflitti interni lì presenti. Infatti, dopo il riconoscimento europeo della Bosnia avvenuto il 6 aprile, iniziarono gli attacchi da parte dei serbi, che avevano espresso il loro parere negativo nel

referendum. Il malessere dei serbi derivava dal fatto che Izetbegović si

sarebbe sicuramente alleato a Zagabria (Croazia) e avrebbe in tal modo messo in minoranza i serbi.

Oltre a questo però furono particolarmente significativi i “Cutileiro

Principles”. Infatti prima che l’indipendenza diventasse irrevocabile, la

Conferenza iniziò il c.d. “Round of Talks on Bosnian Constitutional

Arrangements” 47, presieduto dall’ambasciatore portoghese Cutileiro48. Egli faceva da mediatore tra le tre parti in causa: il musulmano Alija Izetbegović, il serbo Radovan Karadžic e il croato Mate Boban.

Queste trattative culminarono poi nella redazione del 18 marzo 1992 a Lisbona del c.d. Accordo di Lisbona (altrimenti chiamato “Piano Carrington – Cutileiro), che prevedeva una suddivisione della Bosnia in tre entità etnicamente definite, anche se i confini erano ancora da determinare; si sarebbe creata una “cantonalizzazione” e queste entità sarebbero state tenute insieme da un debole governo centrale. Inizialmente tutte e tre le parti sottoscrissero l’accordo, ma il 28 marzo Izetbegović ritirò la sua firma, dopo aver incontrato a Sarajevo l’ambasciatore statunitense in Jugoslavia, Warren Zimmermann.

46

E. PFӦSTL, La creazione di una zona di pace e stabilità attorno all’Unione

europea. Istituto di studi politici San Pio VI di Roma, 2006

47 Da febbraio ad agosto 1992 si svolsero queste trattative (talks) in varie città

europee: Sarajevo, Lisbona, Bruxelles e Londra.

48

(34)

31 2.1.2. La Conferenza di Londra

Dopo il chiaro fallimento di questa conferenza, venne indetta la Conferenza di Londra, che si svolse nei giorni 26 e 27 agosto 1992 e adottò una Dichiarazione sulla Bosnia, che prevedeva “the respect for

the integrity of the present frontiers”: a differenza dei precedenti

tentativi, qui si prevedeva il rispetto dei confini esistenti e anche un rafforzamento del rispetto dei diritti umani e la prevenzione di una pulizia etnica, della quale c’era forte timore.

Altro elemento importante di questa conferenza fu l’istituzione della Conferenza Internazionale per l’Ex Jugoslavia (ICFY 49

), chiamata anche “Conferenza di Ginevra”.

2.1.3. La Conferenza Internazionale per l’Ex Jugoslavia

Vediamo ora da vicino la Conferenza Internazionale per l’Ex Jugoslavia, che era composta da sei gruppi di lavoro, tra cui un gruppo addetto alla Bosnia – Erzegovina.

Fu formata alla fine dell’agosto del 1992 e si basò sulla Conferenza dell’Unione europea sulla Jugoslavia e in particolare sui principali accordi presi a Londra 50, tra cui:

- principi sul cessate-il-fuoco e sull’uso della forza; - il tentativo di negoziazioni;

- il rispetto per i più elevati standard dei diritti umani e delle libertà fondamentali previste in una società democratica; in particolare la garanzia di tali diritti a persone appartenenti a minoranze etniche e religiose;

49 The International Conference on the Former Yugoslavia. 50

B. DE ROSSANET, Peacemaking and Peacekeeping in Yugoslavia. Kluwer Law International, 1996.

(35)

32

- la condanna delle detenzioni illegali e la chiusura dei campi di detenzione;

- l’osservanza da parte di tutte le persone dei loro obblighi in base al diritto internazionale umanitario;

- il rispetto per l’integrità territoriale di tutti gli stati e l’inviolabilità delle frontiere;

- attuare quanto sarà previsto dalla Conferenza Internazionale. Basandosi su questi principi, la Conferenza adottò alcune decisioni, che come punti cardini avevano da una parte la cessazione delle violenze, dall’altra questioni umanitarie.

Quanto al primo aspetto diciamo che lo scopo complessivo della Conferenza era proprio quello di giungere ad una completa cessazione delle ostilità in territorio bosniaco. Per fare questo era necessario: togliere gli assedi dalle città; attuare una supervisione sulle armi pesanti; ricondurre tutte le forze sotto un comando centrale.

Quanto al secondo aspetto, venne proprio confezionato un programma di azione con le parti in conflitto, consistente in: aiuti umanitari come il progressivo sviluppo di missioni di soccorso dalla Croazia, Serbia e Montenegro in tutte le aree della Bosnia, l’accettazione di un monitoraggio a livello internazionale in quelle zone, la riparazione di strade e viabilità tra Ploce, Mostar e Sarajevo; il progressivo ritorno dei rifugiati nelle loro case e la necessità che essi venissero identificati dagli operatori delle Nazioni Unite; lo smantellamento dei campi detentivi e la conseguente liberazione sotto la supervisione internazionale; creare delle “safe areas” 51; collaborazione a livello internazionale tra gli Stati e il Segretario Generale delle Nazioni Unite; un insieme di sanzioni efficaci; l’idea da parte del co-presidente della creazione di una corte criminale internazionale per la repressione delle violazioni del diritto internazionale umanitario.

51

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33

Dopo aver visto i principi e gli scopi della Conferenza, andiamo ora a vedere concretamente le attività poste in essere.

Innanzitutto il co-presidente del Comitato di Coordinamento e il presidente del Gruppo di lavoro sulla Bosnia – Erzegovina lavorarono fin dall’inizio per elaborare un piano di pace. Tuttavia quello inizialmente elaborato non venne accettato dai serbi bosniaci, per cui successivamente vennero fatti altri accordi.

In particolare Cyrus Vance (co-Presidente del Comitato direttivo della ICFY) e Lord Owen svilupparono ben cinque approcci per risolvere la situazione bosniaca:

1) uno Stato centralizzato; tuttavia dato che i musulmani rappresentavano il 45 % della popolazione, tale soluzione non sarebbe stata accettata da serbi e croati;

2) uno Stato formato da un certo numero di province (da sette a quattordici), ognuna connotata etnicamente, ma contenente anche gruppi di minoranza;

3) la soluzione di Cutileiro era quella di prevedere tre repubbliche caratterizzate etnicamente e confederate in una unione; 4) tre Stati indipendenti caratterizzati etnicamente; tale soluzione fu apprezzata da serbi e croati;

5) assorbimento della area serba della Bosnia da parte della Serbia e di quella croata da parte della Repubblica di Croazia, lasciando il territorio rimanente della Bosnia ai musulmani.

Di queste il co-presidente considerò le ultime due al di fuori del suo mandato, poiché non mantenevano l’integrità del territorio bosniaco, come invece la Dichiarazione di Londra aveva previsto. La terza fu considerata instabile perché era la base della quarta. La prima soluzione fu considerata inaccettabile dai rappresentanti di circa metà della popolazione bosniaca.

Quindi fu accettata la seconda soluzione da parte del co-presidente, dopo una serie di consultazioni con le tre parti della Bosnia, e

(37)

34

nell’ottobre del 1992 fu presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il “Proposed Constitutional Structure for Bosnia and

Herzegovina”.

Il 2 gennaio 1993 la Conferenza Internazionale riuscì a riunire allo stesso tavolo le tre parti della Bosnia e il co-presidente fece tre proposte:

1) “Agreement Relating to Bosnia and Herzogovina” contenente principi costituzionali;

2) una mappa dove la Bosnia Erzegovina è suddivisa in dieci province; 3) “Agreement for Peace in Bosnia and Herzegovina” elaborato dalle tre parti militari incontratesi sotto la presidenza dell’UNPROFOR; 4) “Agreement of Interim Measures” per colmare il vuoto che c’era tra la situazione di guerra e la necessità di creare una costituzione.

E su queste basi nell’aprile del 1993 venne redatto il Vance-Owen 52

Peace Plan (“VOPP”), che dunque includeva accordi costituzionali e la cessazione delle ostilità e anche una mappa. Si prevedeva uno Stato decentralizzato, formato da tre popolazioni a cui venivano attribuite delle province. Sia le province sia il governo centrale avrebbero dovuto costituire democraticamente una legislatura, un potere esecutivo e un indipendente potere giudiziario. La Presidenza sarebbe dovuta essere composta da tre rappresentanti eletti, ognuno rappresentativo di ciascun popolo. Si prevedeva una supervisione sulle prime elezioni da parte delle Nazioni unite, della Unione europea, della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa.

Tale piano fu accettato subito dai bosniaci croati, a marzo dai musulmani e solo a maggio dai serbi.

Nell’attesa di una risposta da parte dei serbi, i bosniaci musulmani e i croati si incontrarono, sotto la supervisione di un consulente legale della ICFY, il 31 maggio e il 1 giugno 1993 e si accordarono sulla presenza di una Corte dei diritti umani, una missione di monitoraggio

52

Vance era un politico e avvocato statunitense (Segretario di Stato dal 1977 al 1980). Owen era un politico britannico.

(38)

35

del rispetto dei diritti umani internazionali, la previsione di un comitato militare. Nonostante poi questa idea venne abbandonata, questi principi furono comunque ripresi successivamente.

Nell’agosto 1993 venne fatto l’“Invincible Plan” 53

a Ginevra. Riprendeva i “Cutileiro principles” e la terza opinione della ICFY, prevedendo tre repubbliche tenute insieme da un debole governo centrale.

Tale piano affidava ai musulmani il 30 % del territorio bosniaco, per cui essi lo rifiutarono, in quanto il VOPP invece attribuiva loro una percentuale più elevata: il 36 %.

Subito dopo l’entrata in vigore nel 1993 del Trattato di Maastricht, i ministri degli esteri europei cercarono di far rivivere l’Invicible Plan. Essi avrebbero previsto un ammorbidimento delle sanzioni per la FRY (Federal Republic of Yugoslavia) se i bosniaci serbi fossero stati d’accordo a dare ai musulmani un terzo del territorio bosniaco. Dopo molti tentativi, svoltisi a Ginevra e Bruxelles, i serbi, che detenevano il 70 %, erano d’accordo a dare ai musulmani soltanto il 33, 3 % del territorio e ai croati il 17, 5%. Tuttavia non c’era pieno accordo su questa soluzione, che nel gennaio 1994 fu abbandonata.

53

(39)

36

2.2. Segue: due gruppi di lavoro della Conferenza Internazionale per la Ex Jugoslavia

2.2.1. The ICFY Working Group on Ethnic and National Communities and Minorities

Il gruppo sulle comunità e minoranze etniche e nazionali (the ICFY

Working Group on Ethnic and National Communities and Minorities)

è stato incaricato nello stesso agosto 1992 di risolvere le questioni etniche. Iniziò i suoi lavori il 15 settembre 1992 con un incontro con i delegati di Slovenia, Croazia, Bosnia e Erzegovina, Macedonia.

Confermò i principi stabiliti nella Conferenza di Londra il 26 agosto 1992 54, tra cui il rispetto per alti standard dei diritti umani e libertà fondamentali riconosciuti in una società democratica come previsto dai Patti internazionali delle Nazioni Unite sui diritti umani, dalla Convenzione europea sui diritti umani e dai suoi protocolli e da altri strumenti delle Nazioni Unite, dalla Conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europea e il Consiglio di Europa.

Riprese poi anche parti rilevanti delle Treaty Provisions for the

Convention 55 realizzate insieme all’Unione europea e garanti di un insieme di diritti contenuti in vari documenti, tra cui la Dichiarazione Universale dei diritti umani, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Carta di Parigi per una nuova Europa, la Convenzione sull’eliminazione della discriminazione razziale, la Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.

In più però questo stabilì altri diritti come: il diritto alla non discriminazione; il diritto all’identità, alla religione, all’uso del linguaggio e dell’alfabeto sia in pubblico sia nel privato, all’educazione; l’esercizio delle libertà politiche ed economiche; il

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Statement of Principles approvato dalla Conferenza il 26 agosto 1992.

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