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Relazioni sociali, senso di sé e benessere psicologico nei giovani adulti

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica

Corso di Laurea in Psicologia Clinica e della Salute

TESI DI LAUREA

RELAZIONI SOCIALI, SENSO DI SÉ E BENESSERE PSICOLOGICO

NEI GIOVANI ADULTI

RELATRICE

Prof.ssa Martina Smorti

CANDIDATA

Arianna Benedetto

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Alle volte -scrive Italo Calvino- uno si crede incompleto ed è soltanto giovane.

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Sommario

Riassunto………...5

Capitolo 1………...7

1.1 Dall’adolescenza all’età adulta………7

1.2 La transizione all’età adulta come una nuova fase: la teoria di Arnett………...8

1.3 Emerging adulthood: gli sviluppi della teoria di Arnett………..……….12

1.4 I modelli di transizione all’età adulta e il modello mediterraneo………...13

Capitolo 2……….17

2.1 Dalla relazione familiare alla relazione sentimentale di coppia: l’importanza del legame di attaccamento ……….18

2.2 I bisogni fondamentali del giovane adulto e la Self-Determination Theory………20

2.3. La ricerca d’identità e la soddisfazione dei bisogni all’interno della relazione familiare…..………21

2.4 Gli emerging adults e la coppia: dai legami transitori alla formazione di una relazione sentimentale stabile………...25

2.5 L’amore ai tempi del web 3.0 e il benessere all’interno della coppia……….28

Capitolo 3……….30

3.1 I compiti evolutivi e lo sviluppo del senso di Sé………..30

3.2 La sensibilità interpersonale e la relazione parentale………...33

La ricerca Obiettivi e ipotesi di ricerca………..36

Metodo utilizzato 1.1 Disegno e procedura………....39

1.2 I partecipanti………...39

1.3 Variabili e strumenti………42

1.4 Analisi dei dati………46

Risultati………...47

Conclusioni………...53

Limiti metodologici……….57

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Riassunto

Il periodo di vita che va dai 20 ai 30 anni è stata denominata emerging adulthood, una fase di incertezza dove l’individuo non è più adolescente ma non è neanche pienamente adulto. In questo arco di vita l’individuo si trova a dover completare il processo di formazione dell’identità personale e a raggiungere una indipendenza sia dal punto di vista fisico logistico ed economico, come l’andare a vivere per conto proprio; sia dal punto di vista psicologico, dunque l’indipendenza emotiva dai genitori, la capacità di avere opinioni e valori di riferimento personali, l’assumersi la responsabilità della proprie azioni e lo stabilire relazioni paritarie con i genitori. Inoltre, uno dei principali compiti evolutivi che caratterizza l’età adulta è quello di impegnarsi nel costruire una relazione intima, sentimentale con un partner e il dare origine a una propria famiglia.

Questa tesi sperimentale ha analizzato, in uno studio trasversale, 438 giovani adulti italiani di età compresa tra i 18 e i 30 anni attraverso dei questionari self-report volti a indagare le variabili personali (fragilità dell’Io interiore, nei termini di sensibilità interpersonale) e relazionali (relazione con la propria madre e con il partner) e il benessere psicologico (soddisfazione di vita e dei bisogni di connessione e autonomia) in un modello mediazionale. Le Analisi di Regressione mostrano che solo i bisogni di autonomia e connessione mediano l’effetto della relazione genitoriale materna sul Sé fragile. Al contrario, invece, il senso di Sé e la qualità della relazione di coppia non sono sufficienti a mediare, rispettivamente, la relazione materna e la soddisfazione di vita, e il Sé fragile e la soddisfazione di vita. Tali risultati suggeriscono:

1) che una buona relazione materna, affettuosa e supportiva dell’autonomia e della connessione, influenza lo sviluppo di un Sé forte e coeso;

2) che la qualità della relazione materna, pur influenzando la soddisfazione di vita attraverso il Sé, va a generare un effetto direttamente su di essa;

3) che la percezione di vivere una vita appagante non può essere influenzata dalla sola qualità della relazione di coppia, ma che dipende anche dal senso di Sé.

Tali risultati si mostrano coerenti con alcuni studi presenti in letteratura e delineati successivamente in questo elaborato.

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6 Parole chiave: “Emerging adults” – “Relazione genitoriale materna” – “Relazione sentimentale” – “Soddisfazione di vita” – “Bisogni di autonomia” – “Bisogni di connessione” – “Senso di Sé”.

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Capitolo 1

Dall’adolescenza all’età adulta

La fase di passaggio all’età adulta ha acquisito un interesse e una centralità crescente per gli psicologi soprattutto rispetto al passato.

Infatti, mentre l’adolescenza è stata ripetutamente esplorata a cominciare dalla teoria biogenetica di Stanley Hall del 1904, il mondo dei giovani adulti che si prolunga dai 20 fino ai 30 anni rimane “una scatola nera” nelle parole del giornale New York Times (Ammaniti, 2018).

In questa fase il giovane è ancora alla ricerca dell’identità, mostra una instabilità tipica dell’adolescenza, un’autoreferenzialità ed è come se si sentisse in mezzo ai due fuochi della pubertà e dell’età adulta.

Ma come definire questa fase? Sono state date diverse definizioni, tra queste risalta quella di Erikson (1950; 1968), il quale è stato il massimo esponente della teoria della formazione dell’identità: nel 1950 formula la teoria dello sviluppo psicosociale in cui afferma che l’individuo deve affrontare otto stadi della vita per poter accrescere il proprio senso di sé e adattarsi ai cambiamenti contestuali-ambientali. Tra questi otto stadi della vita, Erikson individua l’adolescenza e la prima età adulta, attraverso i quali egli affronta la questione dell’identità, definita come il fenomeno più significativo dell’esistenza. Erikson parla di “acquisizione d’identità” riferendosi a un esito positivo del conflitto che governa l’adolescenza, e di “diffusione dell’identità” per indicare l’esito negativo. Egli riconosce che è soprattutto nella tarda adolescenza, quando i giovani sono più vicini a dover assumere ruoli adulti, che essi sono maggiormente impegnati alla risoluzione del conflitto identità vs diffusione dell’identità, e che per tutto l’arco della vita sono chiamati a mettere in discussione il senso della loro identità in seguito a nuove esperienze e a nuovi conflitti. Pertanto, al termine dell’adolescenza si dovrebbe possedere una maggiore e più articolata consapevolezza della propria identità per entrare poi nella prima età adulta. Durante questo stadio, il giovane adulto, che ha appena superato la ricerca dell’identità, è pronto per imbarcarsi nella nuova fase evolutiva data dall’intimità. È pronto, cioè, a impegnarsi, anche a costo di sacrifici e compromessi, a stabilire relazioni intime. E, il costruire queste relazioni è considerato come uno dei compiti evolutivi fondamentali dell’età adulta. Superare questo stadio significa aver acquisito la capacità di intrattenere relazioni affettive di diverso tipo in opposizione ad un isolamento sociale.

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8 Anche il giovane adulto, così come l’adolescente, deve superare determinati compiti di sviluppo, e gli elementi caratteristici per la formazione e il mantenimento del processo di crescita sono essenzialmente tre, riconducibili sia all’individuazione e separazione dai genitori, quindi all’autonomia; sia al vivere una relazione di coppia in cui poter sperimentare un’appartenenza nuova, dunque la relazione intima sentimentale; sia impegnarsi per raggiungere una stabilità professionale ed economica.

Dunque, il passaggio all’età adulta sembra, nella concettualizzazione di Erikson, molto netto, definito, mentre nel corso del tempo si è sempre più sfumato, prolungato. Siamo nella cosiddetta prospettiva della developmental life span psychology (Kaplan, 1983), approfondita solo negli ultimi decenni, la quale afferma che lo sviluppo ontogenetico è un processo che dura tutta la vita. Con questa prospettiva il concetto di “sviluppo” ha subito una riformulazione, e se dapprima era inteso come un semplice processo di crescita lineare, oggi è invece considerato come un processo complesso contraddistinto da multidimensionalità e multidisciplinarità (prendendo in esame anche l’antropologia, la biologia e la sociologia, oltre la psicologia) e influenzato da una serie di fattori sociali, storici e culturali determinati dall’interazione reciproca con l’ambiente, dovuti anche a un’estrema variabilità inter e intraindividuale (Bruner, 1990; Thelen, Smith, 1994; Lerner, 1986; Lerner, Lerner, Tubman, 1989; Lerner, Kauffman, 1985).

La transizione all’età adulta come una nuova fase: la teoria di Arnett

La necessità di istituire una nuova categoria per definire il passaggio all’adultità affiora intorno agli anni ‘70 quando, in molti paesi industrializzati, si nota un’estensione temporale del periodo dedicato alla formazione e un sempre più tardivo allontanamento dalla famiglia d’origine da parte dei giovani, dal matrimonio, dal costruire una famiglia e dal conseguire tutti quei traguardi tipici dell’età adulta (Arnett, 2000).

Rispetto al passato, con il trascorrere del tempo e con le varie modificazioni sociali, economiche e politiche che continuano a succedersi, anche il percorso tipico che i giovani erano soliti compiere per approdare nella nuova fase di vita denominata adultità è soggetto a continue modificazioni e transizioni.

È così che Arnett (2000) introduce il concetto di emerging adulthood o transizione all’età adulta come di una fase di vita compresa tra i 20 e i 30 anni situata a metà tra adolescenza e età adulta.

Arnett individua alcune caratteristiche peculiari di questo periodo di vita quali: l’esplorazione dell’identità, l’instabilità in termini di continui ostacoli e mutamenti di

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9 percorso, l’orientamento su di sé per acquisire comprensione sulla propria persona e sulle proprie risorse e competenze, la sensazione di trovarsi in mezzo a due fasi della vita importanti: l’adolescenza con le sue restrizioni e regole e l’adultità con le sue libertà e responsabilità; e le possibilità che contornano la vita del giovane adulto in quanto ancora nulla è cristallizzato e stabile, ma continuamente soggetto a trasformazioni. Alla base di questi cambiamenti vi è sostanzialmente un ritardo nell’acquisizione dei ruoli adulti. Al di là di queste caratteristiche di base, come sottolinea lo stesso Arnett, si tratta di un periodo estremamente eterogeneo soprattutto per quanto riguarda il vissuto personale di ciascun individuo. Per alcuni soggetti è un periodo di relativo benessere, essi apprezzano l’aumento della loro libertà e della loro indipendenza e riescono abbastanza facilmente a conseguire gli obiettivi caratteristici di questo periodo. Altri invece si sentono schiacciati dalla responsabilità e dall’impellente bisogno di trovare il proprio posto nel mondo. A differenza delle fasi di crescita (infanzia, adolescenza, età adulta), il periodo di adultità emergente è decisamente meno strutturato e non ci sono binari socialmente precostituiti in grado di indirizzare e dare sicurezza ai soggetti. In questo caso possono insorgere forme di malessere psicologico (disturbi psicosomatici, dell’umore, d’ansia, dipendenze, difficoltà relazionali, poca autostima) che rappresentano i segnali di un disagio interiore, riconducibile a una crisi esistenziale nella quale i giovani non vivono con serenità i cambiamenti che normalmente si verificano in questa fase evolutiva e quindi con limitatezza esprimono le proprie potenzialità (R. Jessor e S. Jessor, 1977; M. Laufer e colleghi, 1986; C. Buzzi e colleghi, 1997).

Come abbiamo visto, secondo la teoria dello sviluppo psico-sociale di Erikson (1950), lo sviluppo umano è articolato in tappe in cui è presente una crisi evolutiva, un punto di svolta, e se l’individuo riesce a superarla positivamente, allora può passare alla tappa successiva. Seppur molto innovativa, la teoria di Erikson situa lo sviluppo individuale in tempi storici ben precisi e, per questo motivo, col passare del tempo, si è consolidata la teoria di Baltes (1980), secondo cui l’individuo affronta costantemente dei cambiamenti nella sua vita i quali precedono una serie di adattamenti.

Nello specifico contesto dell’età adulta numerose evidenze empiriche (J. Arnett, 1997, 2000; L. Hendry e M. Kloep, 2003) ci mostrano infatti come questa non sia più da considerarsi come un’età caratterizzata da stabilità e certezze, ma, al contrario, può spingere l’individuo a dover affrontare nuove sfide e nuovi compiti i quali portano indubbiamente a delle trasformazioni interiori e nel suo modo di rapportarsi agli altri e al mondo esterno. Da queste

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10 riflessioni emerge il concetto di turning point, cioè punto di svolta. Questi turning point implicano un cambio di direzione nella vita con conseguenti trasformazioni nell’identità personale (Elder, 1974; Rumbaut, 2005).

Tra i vari punti di svolta distribuiti nell’arco della vita, è stata individuata la fine della scuola secondaria, che rappresenta il punto critico di passaggio dall’adolescenza all’acquisizione di responsabilità e ruoli appartenenti più propriamente all’adultità (Sestito, Parrello, 2004). Il periodo della transizione all’età adulta, in generale, sembra essere caratterizzato da:

- Eterogeneità (nuove sfide, opportunità e proposte);

- Dilatarsi nel tempo (prolungamento degli studi, coabitazione con i genitori e disoccupazione);

- Cambiamento dei marcatori (dalle transizioni di ruolo alle acquisizioni di capacità).

Data l’estesa eterogeneità cui ci troviamo di fronte, risulta essere cruciale la comprensione del significato che ciascuno di noi attribuisce all’essere adulto. Per arrivare a tale raggiungimento possiamo basarci su alcuni criteri per l’adultità (criteria for adulthood), o marcatori della transizione, i quali racchiudono un insieme di rappresentazioni dell’adultità tenendo conto del contesto storico e socioculturale dell’individuo.

Jeffrey Jensen Arnett (2001, 2003) elenca i marcatori per la prima volta raggruppandoli in sette diverse categorie:

1) Indipendenza; 2) Interdipendenza; 3) Role transitions;

4) Obbedienza alle norme; 5) Transizioni biologiche; 6) Transizioni cronologiche; 7) Capacità familiari.

Per il criterio “indipendenza” Arnett intende l’acquisizione di indipendenza sia dal punto di vista fisico logistico ed economico, come l’andare a vivere per conto proprio; sia dal punto di vista psicologico, dunque l’indipendenza emotiva dai genitori, la capacità di avere opinioni e valori di riferimento personali, l’assumersi la responsabilità delle proprie azioni e lo stabilire relazioni paritarie con i genitori.

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11 Con l’“interdipendenza” Arnett si focalizza sull’instaurazione di relazioni sentimentali a lungo termine, sull’assunzione di impegni duraturi e sullo sviluppo di competenze metacognitive che richiedono sempre meno un orientamento solo su se stessi.

Per “role transitions” si intendono tutte le transizioni di ruolo come il completamento degli studi, il matrimonio, l’avere figli, un’attività lavorativa duratura, avere un’indipendenza economica, stabilire un’indipendenza residenziale dalla famiglia di origine ecc.

La categoria dell’“obbedienza alle norme” si riferisce alla capacità di conformarsi alle regole e alle norme di comportamento, quindi evitare l’uso e l’abuso di sostanze stupefacenti e alcoliche, guidare in maniera sicura e rispettando i limiti di velocità, usare metodi contraccettivi ed avere rapporti sessuali sicuri, evitare reati, ecc.

Le transizioni “biologiche” e “cronologiche” si riferiscono, le prime, al raggiungimento delle caratteristiche biologiche quali la capacità di procreare, e, le seconde, ai criteri cronologici come il compiere diciotto anni, prendere la patente di guida, ecc.

Infine, Arnett parla delle “capacità familiari” come la capacità di creare e sostenere economicamente una famiglia.

L’introduzione di questi marcatori, tuttavia, non è riuscita a fare chiarezza e a dare un significato preciso e universale al termine “adulto”, poiché è stata sottolineata una grande variabilità socioculturale. Abbiamo già detto che in passato erano i marcatori di passaggio a definire e delineare il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, si parla in questo caso quindi di transizioni di ruolo. Oggigiorno però queste role transitions non sono più così nette e precise nel definire l’identità adulta di un giovane, così come ha affermato anche Arnett successivamente (1997; 2000). Infatti, in seguito a varie ricerche condotte in tutto il mondo (Arnett, 2004; Reitzle, 2006; Billari e Liefbroer, 2010), possiamo osservare che i giovani attribuiscono il fatto di sentirsi e di essere considerati adulti ai fattori di indipendenza. Percepiscono il passaggio nel mondo adulto quando diventano capaci di prendere decisioni da soli, quando sentono di essere diventati autonomi e indipendenti economicamente e di sapersi assumere le proprie responsabilità. In particolare, portando avanti studi sui giovani italiani (Crocetti, Rabaglietti, Sica, 2012) possiamo notare come molti di questi osservano un cambiamento quando riescono a realizzare alcuni obiettivi che definiscono fondamentali per la crescita interiore e per l’integrità dell’Io: il costruire una famiglia e l’essere in grado di sostenerla finanziariamente, per esempio; che richiamano le cosiddette capacità familiari di Arnett.

I marcatori interni e le caratteristiche individuali determinano un grosso peso per la percezione di adultità, tuttavia, come anche molti altri studiosi sottolineano, non dobbiamo

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12 dimenticare il valore che assumono le transizioni di ruolo, che, seppur non più così primarie come in passato, continuano a rivestire una notevole importanza.

Emerging Adulthood: gli sviluppi della teoria di Arnett

Sebbene di grande rilievo per la psicologia dello sviluppo attuale, le teorie di Arnett sono state oggetto di numerose critiche (Côté, 2006; Hendry e Kloep, 2003; Bynner, 2004). Ad esempio, James E. Côté si rivela contrario alla definizione data da Arnett che si riferisce all’emerging adulthood come stadio, soprattutto perché tale formulazione esclude i cambiamenti economico-sociali occorsi negli ultimi anni. In conseguenza della diminuzione delle opportunità economiche, il ritardo dell’assunzione di responsabilità adulte diviene sempre più involontario e sempre più giovani sono costretti a restare fuori dalla forza/lavoro e/o spinti verso l’istruzione superiore con l’obiettivo di poter agevolare in qualche modo la loro occupabilità (Côté 2006).

Anche John Bynner solleva delle critiche riguardanti la sottovalutazione della classe di appartenenza, poiché vi è sempre più una differenza marcata tra avvantaggiati e svantaggiati. Egli colloca la teoria dell’emerging adulthood di Arnett come più appropriata per i primi che per i secondi, in quanto ritiene fondamentale riconoscere che la diversità delle esperienze individuali è strettamente legata alla collocazione nella struttura sociale (Bynner 2004). Con ciò egli non vuole negare il ruolo dell’agency (la capacità di agire attivamente e trasformativamente nel contesto in cui si è inseriti; Bandura, 1986), piuttosto riconoscere che le diverse modalità di risposta, più o meno attive, alle varie circostanze della vita dipendono dal sistema di relazioni in cui si è inseriti (famiglia, scuola, gruppo dei pari) e dal contesto lavorativo in cui si vive.

Non trovando una risposta risolutiva, il dibattito continua negli anni successivi. A sostegno della critica fatta da Bynner e Côté, i quali continuano a sostenere che il prolungamento della transizione alla vita adulta sia il prodotto di condizioni sociali che rendono sempre più difficile trovare una stabilità economica, quindi un lavoro stabile e duraturo, e raggiungere le cosiddette transizioni di ruolo di Arnett, attribuendo a lui la errata idea che i giovani possano scegliere e scelgano liberamente di ritardare il loro ingresso nella vita adulta (Bynner e Côté, 2008), emergono le figure di altri due studiosi: Leo B. Hendry e Marion Kloep (2003), i quali affermano che l’emerging adulthood non ha un valore universale, nonostante Arnett, con i suoi sostenitori, continui a rimarcare il fatto che la classe sociale di appartenenza abbia ripercussioni solo sul percorso educativo e sull’età del matrimonio

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13 (2011) portando così a differenze tra individui più svantaggiati economicamente e individui più avvantaggiati, ma di fatto il concetto di età adulta non riporta variazioni.

Hendry e Kloep continuano la critica contestando l’interpretazione stadiale del cambiamento evolutivo, sottolineando che più che stadio si dovrebbe parlare di processo, in quanto questo periodo della vita, così come lo definisce Arnett, non sembra essere qualitativamente diverso dagli altri. Per questi due ricercatori dunque, la transizione all’età adulta “non può essere rappresentata come un percorso lineare ma piuttosto come un processo dominio-specifico, caratterizzato da variabilità e reversibilità. […]. Per tanto, si configura come uno stato di fluttuazione dinamica” (2007, pp. 74-79). In riferimento a ciò, è stata coniata la cosiddetta generation boomerang, ovvero quei giovani adulti che, in seguito a svariate motivazioni, decidono di ritornare a vivere con i genitori, invertendo quindi la traiettoria di acquisizione dell’autonomia. Alcuni studiosi hanno indagato questo aspetto e hanno evidenziato che questa turbolenza, definita tale da Cees H. Elzinga e Aart C. Liefbroer (2007), può essere in grado di arrecare conseguenze negative per il benessere della persona in quanto i giovani non sperimentano più la stabilità e le responsabilità associate ai ruoli normativi degli adulti. E la stabilità e la responsabilità sono due elementi fondamentali per il raggiungimento della vita adulta.

In seguito a questo lungo e corposo dibattito, sembra essersi affermata, dopo numerosi studi cross-culturali, l’ipotesi di Côté circa il “capitale” di risorse che i giovani investono per avanzare nel “mondo adulto”, mentre l’emerging adulthood di Arnett sarebbe da intendersi solo come un sinonimo di tarda adolescenza o prima età adulta. Cioè, Côté suggerisce che il passaggio all’età adulta possa essere più attivamente affrontato se i giovani investono un “capitale” di risorse, tangibili e intangibili, per accedere ai nuovi ruoli e stati sociali. Per risorse intangibili si intendono le componenti dell’identità, «costituite da un insieme di competenze specifiche, credenze e atteggiamenti che i giovani possono utilizzare per negoziare con successo la partecipazione a ruoli e attività sociali» (Côté, 1996, 1997). Dunque, il capitale d’identità sembra essere particolarmente importante per fronteggiare le specifiche difficoltà della transizione all’età adulta (Côté, 2016).

I modelli di transizione all’età adulta e il modello mediterraneo

Malgrado dati comuni sull’avanzamento dei marcatori dell’età adulta, sono state rilevate differenze culturali molto importanti e degne di nota.

Alcuni fattori strutturali legati alla politica e all’economia del paese possono influenzare in vari modi il vissuto e le tappe di questa fase di vita, per esempio il livello di occupazione di

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14 un paese può influire sull’esplorazione e sulla possibilità di conseguire un’autonomia economica rispetto alla famiglia di origine, così come la quantità e la tipologia di fondi e di aiuti che uno stato mette a disposizione degli adulti emergenti (Arnett, 2006).

In base a questi e ad altre differenze culturali è possibile distinguere quattro differenti modelli che si delineano all’interno del panorama europeo: il modello nordico, il modello britannico, quello francese e quello mediterraneo.

Il modello nordico, caratteristico soprattutto della Svezia, Finlandia, Norvegia e Danimarca, delinea la figura del giovane come in grado di abbandonare il nido familiare piuttosto precocemente per andare a convivere generalmente con colleghi, amici o partner. Tuttavia è stato evidenziato un ritardo nell’unirsi in matrimonio e nella genitorialità (Buhl & Lanz 2007; Pace, Cacioppo, Cascio, Guzzo & Passanisi, 2016).

Il modello britannico sembra essere contraddistinto da una precoce entrata nel mondo del lavoro con un raggiungimento di un’indipendenza economica e la conseguente precoce separazione dalla famiglia di origine, fissando una residenza autonoma con il partner e da un precoce matrimonio. La genitorialità è comunque ritardata e le coppie preferiscono vivere un periodo di solitudine e autonomia (Pace et al., 2016).

Il terzo modello è quello francese, che evidenzia un prolungamento degli studi e un posticipo del matrimonio (Pace et al., 2016).

Infine, vi è il modello mediterraneo, che coinvolge i paesi del sud Europa come la Grecia, il Portogallo, la Francia meridionale, l’Italia e la Spagna. Tale modello è caratterizzato da un prolungamento della scolarità e da un periodo relativamente lungo di incertezza lavorativa. Ne consegue un ritardo nell’acquisizione dell’autonomia economica e, anche quando essa viene raggiunta, non è infrequente che i ragazzi continuino a vivere con la famiglia d’origine per diversi anni e, quando poi la lasciano, intorno ai trent’anni, lo fanno per costituire un nuovo nucleo iniziando una convivenza col partner (Pace et al., 2016)

Tuttavia, il modello mediterraneo non è del tutto unitario e si possono riscontrare delle importanti differenze fra i paesi, come ad esempio la Spagna e l’Italia. Nello studio di Pace e colleghi del 2016, i ricercatori sono andati ad esaminare e analizzare le differenze e le similitudini nei costrutti dell’autonomia, dell’attaccamento, dell’identità e del benessere tra adolescenti omogenei per età, genere, livello e tipo di educazione dei due paesi. I risultati mostrano delle enormi differenze. Sembra che i giovani adulti italiani, rispetto agli spagnoli, percepiscano un livello inferiore di soddisfazione di vita in vari ambiti, come la famiglia, il lavoro, l’ambiente, gli amici e il sé. Inoltre, i ragazzi italiani erano in uno stadio del processo di acquisizione d’identità più arretrato e manifestavano un attaccamento di tipo insicuro. Al

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15 contrario, il profilo dell’adolescente spagnolo è caratterizzato da un alto livello di soddisfazione in diversi settori della vita, che riguardano il processo di individuazione, di benessere e di interiorizzazione di modelli di attaccamento sicuro.

In conclusione, i giovani spagnoli sembrano progredire secondo un modello che, fin dall’infanzia, incoraggia all’autonomia, conseguendo maggiori livelli di benessere e soddisfazione. Al contrario, in Italia, sembra essere presente un modello fortemente ambivalente che rende lo sviluppo un fenomeno più complesso e incide negativamente sulla soddisfazione e sul benessere degli adolescenti (Pace et al., 2016).

In accordo con la definizione del sociologo statunitense Charles H. Cooley (1909), la famiglia è un gruppo primario che gioca un importante ruolo nella formazione dell’identità individuale e della società. Da questa possiamo trarre alcune considerazioni circa il modello mediterraneo appena presentato: la prima si collega alla teoria dell’attaccamento di Bowlby, dalla quale si evince la difficoltà da parte dei genitori di separarsi dai figli, quindi una incapacità nell’aiutare i figli a trovare una propria autonomia; un’altra considerazione che possiamo fare è che vi è, in associazione a questo, il prolungamento degli studi e/o i livelli elevati di disoccupazione e quindi di non indipendenza economica. Questo, a sua volta, gioca un ruolo anche nel posticipo del matrimonio e della genitorialità. Sempre più ragazzi infatti, in particolare gli italiani e gli spagnoli, tendono ad abbandonare il nido familiare dopo i 30 anni e solo perché si devono sposare (Lanz, Tagliabue, 2007). Inoltre, possiamo anche trarre da questa dilatazione nei tempi una mancanza di assunzione di determinate responsabilità da parte dei giovani. Essi, in alcuni casi, preferiscono così vivere a spese dei genitori e allo stesso tempo avere una propria libertà e “indipendenza” in casa senza però raggiungere la piena identità adulta.

Indubbiamente si tratta di un argomento molto vasto ed eterogeneo e con dinamiche diverse e complesse, il dato certo che abbiamo ad oggi è che l’acquisizione di specifiche caratteristiche d’indipendenza stanno subendo, e hanno subito, un crescente ritardo.

Questi aspetti descritti finora rientrano nella delay syndrome italiana postulata da Livi Bacci (2008), la quale sembra essere “giustificata” dalle limitazioni dello Stato Sociale Italiano e dalla modernizzazione e globalizzazione moderna a cui la nostra società è andata incontro, dando luogo a processi di individualizzazione lasciando ai giovani più margini di libertà nel costruire e caratterizzare in modo personale, sulla base delle proprie caratteristiche di intraprendenza, autostima, autoefficacia e locus of control interno, i percorsi di sviluppo e i progetti di autorealizzazione implicati nella transizione verso e attraverso l’età adulta (Coté, 2002; Sestito, 2016, pp. 28). D’altra parte molte ricerche (Hurrelmann, 1989; Scabini, Marta

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16 e Lanz, 2006) hanno messo in luce la questione che molti giovani, pur disponendo di una propria autonomia economica in grado di garantire loro indipendenza, preferiscono vivere e vivono con i propri familiari sotto lo stesso tetto. In questo senso, la delay syndrome può essere intesa come il fenomeno secondo il quale per la prima volta nella storia assistiamo a due generazioni di adulti che vivono a lungo sotto lo stesso tetto.

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Capitolo 2

Abbiamo visto nel capitolo precedente come uno dei compiti principali del giovane adulto sia quello di separarsi progressivamente dalla famiglia di origine (sia da un punto di vista fisico, raggiungendo un’autonomia abitativa, sia da un punto di vista psicologico, raggiungendo un’autonomia psicologica e un senso di sé stabile e positivo) e allo stesso tempo di trovare un partner sentimentale con cui formare una relazione sentimentale positiva che possa col tempo divenire stabile e duratura. Questi due processi di separazione, dalla famiglia di origine da un lato e ricerca di un partner romantico, instaurarsi della relazione di coppia, e consolidamento della stessa dall’altro, fanno riferimento al processo di definizione delle relazioni intime di attaccamento. Nell’ambito della prospettiva evolutiva dell’attaccamento (ad es., Berlin & Cassidy, 1999; Crittenden, 1994; Hazan & Shaver, 1987), è stato evidenziato come nell’arco di vita i legami di attaccamento infantili, di natura asimmetrica, progressivamente si riorganizzino verso forme progressivamente più simmetriche, sia nel rapporto con i pari (ad esempio con il partner sentimentale), sia con i propri genitori nel passaggio all’età adulta (Ainsworth, 1989; Hazan & Zeifman, 2008). La teoria dell’attaccamento è quindi quella più conosciuta per spiegare come si instaurano e si modificano le relazioni con i rapporti relazionali genitoriali e con i partner. Inizialmente, la ricerca sulla relazione di attaccamento, descritta nei termini della ricerca di vicinanza, della protesta da separazione, del ricorso alla figura come rifugio sicuro per cercare conforto nei momenti di difficoltà, dell’affidamento sulla figura come base sicura che sostiene l’esplorazione (Ainsworth, 1989; Weiss, 1991), si era focalizzata sulle differenze individuali nei diversi pattern di attaccamento. Così, un individuo sarebbe stato classificato come sicuro, evitante o ansioso-ambivalente, sulla base dell’approccio di Hazan e Shaver (1987) o come sicuro, preoccupato, distanziante e impaurito secondo il prototipo di Bartholomew e Horowitz (1991). Attualmente, però, i ricercatori preferiscono utilizzare valutazioni di variabili continue dei diversi stili di attaccamento o diverse dimensioni di attaccamento come modello di sé e modello dell’altro (Bartholomew, 1990).

Nonostante gli ottimi risultati degli studi sulle differenze tra le persone negli stili di attaccamento, c'è un crescente interesse per le variazioni di attaccamento all'interno della persona (Lewis, 1994; Shaver, Collins, & Clark, 1996).Questo porta alle ipotesi che gli attaccamenti delle persone con l’altra figura di riferimento possano variare nel tempo, e,

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18 anche, che le persone possano avere diversi stili di attaccamento con diversi partner relazionali.

Classicamente i teorici dell’attaccamento hanno proposto che la sicurezza del legame di attaccamento derivi dalla sensitività e dalla responsività del caregiver (e.g., Bowlby, 1969/1982; Bretherton, 1985; Sroufe, 1990). In questo senso un caregiver o un partner relazionale sensibile mostra una appropriata e contingente responsività alle intenzioni, segnali e bisogni degli individui. Questo concetto di sensitività e di responsività è stato recentemente differenziato nell’ambito della self-determination theory (e.g., Deci & Ryan, 1991; Grolnick, Deei, & Ryan, 1997; Ryan & Deci, 2000) sulla base di tre bisogni psicologici fondamentali e innati: quello di autonomia, connessione e competenza.

In questa prospettiva i partner relazionali sensibili sono quelli che rispondono in modo da promuovere la soddisfazione dei bisogni psicologici della persona. Ciò implica che l’individuo attraverserà relazioni e sperimenterà benessere nella misura in cui questi rapporti offriranno l’opportunità per soddisfare i tre bisogni fondamentali (La Guardia et al. 2000). In altre parole, pur partendo da presupposti diversi, la teoria dell’attaccamento e la self-determination theory possono costituire un utile quadro teorico per comprendere i cambiamenti che vi succedono all’interno della sfera familiare e sentimentale nel corso della transizione all’età adulta.

Vediamole più nel dettaglio.

Dalla relazione familiare alla relazione sentimentale di coppia: l’importanza del legame di attaccamento

In riferimento alla teoria dell’attaccamento del noto psichiatra inglese John Bowlby del 1969 che ha dimostrato che le relazioni di coppia si formano in base ad alcuni elementi quali l’adattamento della persona al suo ambiente sociale e fisico, possiamo asserire come il futuro successo di un rapporto sentimentale possa agevolare l’organizzazione della stessa vita affettiva in funzione dei passati legami di attaccamento determinati dall’importanza relazionale vissuti nella prima infanzia (Attili, 2004). Bowlby (1972) parla dunque di modelli operativi interni (MOI), cioè di rappresentazioni di sé, degli altri e del mondo che ciascuno di noi si costruisce nel corso della propria vita con la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione degli eventi e delle relazioni, consentendoci di fare previsioni e creare aspettative sugli accadimenti della propria vita relazionale (Bowlby, 1972).

Ricapitolando, l’attaccamento è quel continuum che, determinato dai legami che sono stati costruiti da piccoli con i caregivers, permette la formazione caratterizzante di un rapporto

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19 con un altro significativo attraverso elementi quali: ricerca di stabilità, protezione, accoglienza, sicurezza e benessere.

Attraverso un esperimento osservativo che prese il nome di Strange Situation, Mary Ainsworth (1969) definì quattro stili di attaccamento: sicuro, ambivalente, insicuro-evitante e disorganizzato-disorientato. In base alle risposte della figura di attaccamento il bambino struttura uno specifico “stile di attaccamento” che potrà essere funzionale o meno nel creare e mantenere relazioni intime con le persone importanti in età adulta (Ainsworth, 1978; Crittenden, 1994).

Un bambino con un attaccamento sicuro impara le basi della fiducia e della reciprocità, acquisisce sicurezza nella fase esplorativa e conoscitiva dell’ambiente, apprende a sviluppare le capacità di autoregolazione emotiva e di gestione dell’arousal in caso di stress. Potrà sviluppare e migliorare la sensazione di competenza, di autostima e di equilibrio tra autonomia e dipendenza, acquisire empatia ma soprattutto sviluppare una cognizione interna positiva di sé, dell’altro e della relazione (Werner & Smith, 1992); ciò garantirà una maggiore protezione all’individuo nelle situazioni critiche e un miglior adattamento sociale e conseguente formazione di rapporti adulti equilibrati e gratificanti (Berlin e Cassidy, 1999).

I bambini con attaccamento insicuro avranno, invece, una percezione negativa di se stessi o degli altri o, nei casi più disorganizzati, di entrambi. Coloro che sviluppano un attaccamento insicuro-ambivalente non hanno l’opportunità di esplorare perché i caregiver sono imprevedibili ed incostanti verso i bisogni di accudimento, protezione, rassicurazione e contatto del piccolo. A volte hanno atteggiamenti contrastanti, possono avere comportamenti aggressivi ed essere poco coinvolti emotivamente, deludendo le aspettative e i bisogni dei propri figli. A volte la figura di riferimento viene vissuta come pericolosa, e sempre come imprevedibile. Invece, i bambini con attaccamento insicuro-evitante prediligono l’esplorazione a discapito della vicinanza emotiva perché i caregiver in questo caso non prestano attenzione e non sono quasi o per nulla affettuosi e capaci di contatto fisico con il piccolo, tendono ad ignorare e a rifiutare le richieste di contatto, rassicurazione e vicinanza del figlio (Berlin e Cassidy, 1999). Ne consegue da ciò che gli individui con queste esperienze di accudimento alle spalle sviluppano una percezione di sé come non amabile, indegno di amore e attenzione, come una persona incapace di suscitare nell’altro risposte positive di affetto e premura, e con un’idea che dell’altro non ci si possa fidare e aprire del tutto (Berlin e Cassidy, 1999).

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20 Come già anticipato precedentemente, i modelli di attaccamento disfunzionali non elaborati o corretti, possono portare a relazioni disfunzionali e instabili o caratterizzate da violenza, sopraffazione o sottomissione. Nel caso della dipendenza affettiva, ad esempio, lo stile di attaccamento frequentemente riscontrato è quello insicuro-ambivalente, in cui prevale un senso di sé come immeritevole di amore, una visione dell’altro come inaffidabile e la relazione si connota per la costante presenza della paura dell’abbandono, associata a comportamenti di controllo, ricerca continua di rassicurazione, ipervigilanza emotiva. La persona diventa diffidente, impaurita, debole e reagisce alternando comportamenti di sottomissione e accondiscendenza a comportamenti aggressivi, manipolativi e controllanti dell’altro fino a giungere a volte al ricatto emotivo e alla violenza (Barbier, 2019).

I bisogni fondamentali del giovane adulto e la Self-Determination Theory

La Self Determination Theory racchiude quattro teorie: quella dell’integrazione organismica, quella della valutazione cognitiva, quella degli orientamenti casuali e infine la teoria dei bisogni basilari (Deci e Ryan, 1975; 2000).

Partendo dalla teoria dell’integrazione organismica, Deci e Ryan iniziano con l’assunto che gli esseri umani sono visti come organismi attivi che tendono a definire le proprie capacità e a elaborare con armonia i vari aspetti della loro personalità con l’obiettivo di soddisfare i propri bisogni. Tale tendenza si sviluppa in interazione con l’ambiente, che può ostacolarla o favorirla. Quindi, la crescita è vista come una ricerca di esperienze nuove e stimolanti, esplorando attivamente l’ambiente, unite alle esperienze passate tendendo ad un Sé coerente e unificato (Deci e Ryan, 1985; Ryan e Connell 1989).

La teoria della valutazione cognitiva analizza gli eventi interni ed esterni che condizionano gli atteggiamenti e i comportamenti della persona. I due psicologi distinguono la motivazione intrinseca da quella estrinseca, che determinano la nostra identità e i nostri modi comportamentali. La prima ci spinge a svolgere delle attività per noi stessi, senza ricercare una ricompensa esterna; mentre la seconda dipende da questi incentivi. La questione delle ricompense e degli incentivi è molto importante, in quanto i due psicologi hanno osservato che possono dare dei buoni risultati attivando la motivazione estrinseca quando dobbiamo svolgere dei compiti che non ci aggradano più di tanto, ma questa motivazione non è duratura e occorre quindi spostare l’attenzione su una motivazione più intrinseca. Inoltre, il tipo di motivazione influenza la qualità del comportamento e il tipo di regolazione interna, che permette l’attuazione di comportamenti autodeterminati (Deci 1975; Deci e Ryan, 1980).

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21 La teoria degli orientamenti casuali invece fa una distinzione tra i tipi di comportamenti motivati, differenziando i comportamenti autodeterminati a orientamento autonomo, i comportamenti controllati con orientamento verso il controllo (le azioni sono regolate da controlli esterni presenti nell’ambiente o nella persona stessa, determinate non da scelte personali), e i comportamenti a-motivati orientati verso l’impersonalità (le azioni sono regolate da fonti esterne perché la persona si percepisce come inadeguata e incompetente) (Deci e Ryan, 1985).

Infine, arriviamo alla teoria dei bisogni basilari nella quale Deci e Ryan propongono un modello motivazionale che integra gli aspetti cognitivi con quelli legati ai bisogni innati (Ryan e Deci, 2000). Questi bisogni da loro individuati sono tre: competenza, connessione e autonomia; e le persone necessitano di questi per ottenere una crescita psicologica.

Il bisogno di competenza riguarda la possibilità di esercitare ed esprimere le proprie capacità in relazione all’ambiente con cui interagiamo, gratificandoci nelle nostre azioni (Deci, 1975; Harter, 1983; White, 1959).

Il bisogno di autonomia riguarda la possibilità di scegliere in modo autonomo e con la propria testa, senza subire imposizioni esterne. Ciò accresce la nostra identità, il nostro Sé, che diviene più coerente e unificato. È una forma di affermazione di Sé (deCharms, 1968; Deci e Ryan, 1985; Ryan e Connell, 1989, Deci e Ryan, 2008).

Il bisogno di connessione, invece, riguarda il bisogno di far parte di un contesto sociale, di sentire di appartenere a un gruppo, a una comunità dove poter condividere e trovarsi a proprio agio. È in questo contesto che nascono le emozioni sociali, quali l’amore e l’amicizia (Baumeister e Leary, 1995; Bowlby, 1979; Harlow, 1958; Ryan, 1995).

Deci e Ryan sostengono che, una volta ottenuti questi tre elementi, le persone diventano autodeterminate, cioè, agendo in maniera autonoma e soddisfacente diventano maggiormente motivate a perseguire i loro bisogni. Questa motivazione che sentono è una motivazione intrinseca che li esorta ad agire liberamente secondo scelte personali e in accordo con la propria persona.

Secondo i due ricercatori, è molto importante il bisogno delle relazioni perché è attraverso queste e le interazioni con gli altri che possiamo promuovere o contrastare il benessere e la crescita personale.

La ricerca d’identità e la soddisfazione dei bisogni all’interno della relazione familiare Coerentemente con quanto detto finora, il percorso che conduce all’autonomia contiene elementi di esplorazione del mondo extra-familiare che è strettamente connesso al compito

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22 di costruzione dell’identità. Come è giusto e normativo che sia, durante l’adolescenza la relazione genitoriale diviene più conflittuale e i ragazzi tendono a cercare un gruppo di pari a cui appartenere, altri “significativi”. Tuttavia, non bisogna sottovalutare il rapporto con i genitori che resta una costante nella vita quotidiana degli adolescenti e, spesso, anche dei giovani adulti.

Numerose ricerche, muovendosi nella cornice teorica della Self-Determination Theory, hanno cercato di indagare come la relazione con i genitori nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta potesse incidere sulla soddisfazione dei bisogni psicologici di autonomia, connessione e competenza e come questi, a loro volta, fossero legati al benessere o malessere individuale.

Uno studio di Inguglia e colleghi (2014) ha analizzato due bisogni fondamentali sia nell’adolescenza che nell’età adulta: quelli di autonomia e di connessione. I ricercatori hanno indagato i due bisogni in soggetti italiani di età compresa fra i 17 e i 26 anni che vivono in Sicilia. Lo scopo dello studio è stato di quello di analizzare l’autonomia e la connessione tenendo presenti i legami con il sostegno parentale percepito e alcune forme di disagio psicologico, e il ruolo dell’età su queste relazioni. A livello globale, i risultati hanno mostrato che: sia l’autonomia che la connessione sono state predette positivamente dal supporto dei genitori a questi bisogni; il supporto percepito per l’autonomia è stato associato positivamente al supporto percepito per la relazionalità; l’autonomia e la connessione sono state positivamente correlate tra loro per i giovani adulti, ma non per gli adolescenti; l’autonomia ha predetto negativamente la depressione e la solitudine, mentre la connessione ha predetto negativamente i problemi di esternalizzazione (solo per gli adolescenti), lo stress, la depressione e la solitudine.

Dunque, i risultati sembrano confermare che l’autonomia e la connessione sono bisogni fondamentali per entrambe le fasi di sviluppo e sono intimamente legate al sostegno dei genitori e alla salute psicologica. Nonostante ciò, l’età ha moderato alcune delle relazioni indagate, suggerendo che l’autonomia e la connessione hanno significati diversi, oltre a svolgere ruoli diversi, durante l’adolescenza e l’emerging adulthood (Inguglia, Ingoglia, Liga, Lo Coco & Lo Cricchio, 2014).

I rapporti famigliari, infatti, come si osserva dallo studio precedente e da altri (Kaniušonytė & Žukauskienė, 2017), legandosi a una consistente serie di variabili individuali, influenzano il benessere o lo sviluppo psicologico del soggetto. Il clima relazionale durante l’adolescenza risulta dunque predittivo della qualità della transizione all’età adulta e del benessere dell’individuo più in generale (Inguglia et al., 2015; Fosco, Caruthers, & Dishion, 2012). I

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23 genitori sono implicati nella formazione della sensibilità interpersonale dei figli e nello sviluppo di un senso di sé più o meno autonomo che porterà alla costruzione dell’identità. Ma cosa intendiamo con il termine “autonomia”?

Beyers et al, nel 2003, elaborano un costrutto di autonomia identificando quattro fattori che si sono rivelati in grado di spiegare il processo di raggiungimento dell’autonomia in adolescenza e nei giovani adulti: connectedness, separation, agency e detachment.

La connectedness è un tipo di relazione basato su empatia, fiducia e disponibilità a comunicare reciprocamente tra genitori e figli (Beyers et al., 2003). La separation è l’esperienza di allontanamento dai genitori, implica una visione realistica ed equilibrata dei genitori, accompagnata parallelamente dall’assunzione di responsabilità per se stessi da parte dei figli (Lamborn, Steinberg, 1993). L’agency è il costrutto che indica l’abilità di prendere decisioni in termini di auto-determinazione, implica la capacità di delineare un personale progetto di vita e di indirizzare le proprie azioni verso obiettivi rilevanti per sé. Infine, il detachment è il distanziamento negativo dai genitori, accompagnato da sentimenti di sfiducia e da alti livelli di conflitto.

Paleari, Rosnati, e Lanz (2002) hanno analizzato la qualità delle relazioni nelle famiglie con i giovani adulti focalizzandosi sul sostegno familiare. L’obiettivo era confrontare le percezioni dei diversi membri della famiglia in merito alla quantità di sostegno esistente nelle relazioni coniugali, parentali e tra fratelli e sorelle ed esaminare la misura in cui queste diverse relazioni sono legate al benessere dei giovani adulti. Il campione era composto da 92 famiglie comprendenti padre, madre e due figli. Ai partecipanti è stata somministrata una scala che misurava la quantità di sostegno scambiato tra i membri della famiglia. I figli compilavano anche la scala di autostima di Rosenberg e il questionario sull’immagine di sé di Offer, Ostrov e Howard (1982). I risultati hanno rilevato la posizione centrale della madre nella rete relazionale familiare. Tuttavia, il benessere dei giovani adulti era più legato al sostegno percepito nel rapporto padre-figlio che alla relazione materna. Inoltre, il benessere del figlio minore era in parte associato alla quantità di sostegno che percepiva nel rapporto con il fratello/sorella maggiore.

Anche le analisi condotte da E. Marta e D. Marzana (2014) per valutare la relazione tra benessere, qualità di vita e relazioni familiari mostrano come i giovani con miglior qualità della relazione con i genitori tendano a presentare valori elevati di fiducia negli altri e nel futuro. Inoltre, la qualità della vita in famiglia, il senso di autonomia e di sicurezza trasmessa dai genitori sembrano essere indicatori della felicità dichiarata dai giovani adulti.

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24 Andando ad osservare più da vicino il contesto italiano però, possiamo notare una focalizzazione da parte delle varie ricerche sulle differenti modalità di co-abitazione o convivenza tra genitori e figli quasi adulti, identificandone due tipologie: la co-residenza adattiva e confortevole e la co-abitazione conflittuale (Sestito & Sica, 2014). Lo studio di Sestito e Sica, del 2014 ha preso in esame 20 giovani adulti italiani di Napoli che frequentano il secondo e ultimo anno di università. Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a un’intervista aperta sulla storia di vita di ciascuno.

I risultati hanno identificato due profili di coabitazione con i genitori. La co-residenza adattiva indica un modello di relazione tra genitori e figli basato su una paritaria e positiva co-abitazione; in questa relazione i giovani adulti hanno raggiunto la propria identità, percepiscono la relazione con i genitori come supportiva e sono in grado di immaginare la separazione e l’allontanamento dal nido familiare come una tappa successiva e normativa del proprio percorso di transizione verso l’età adulta.

La co-abitazione conflittuale, invece, come annunciato dal nome della tipologia, descrive una relazione con i genitori ostile; i giovani adulti non percepiscono un supporto all’autonomia da parte dei genitori e non hanno ancora completato il loro processo identitario. Molto spesso questo profilo è caratteristico di famiglie dove l’educazione è basata su una iper-protezione e un iper-controllo da parte dei genitori. In questo caso i genitori tendono ad essere molto intrusivi e ad interferire con l’autonomia dei figli. Tale comportamento è finalizzato a prevenire qualsiasi possibile conseguenza negativa piuttosto che a soddisfare i reali bisogni dei figli (Scharf et al., 2017), e, conseguenza di questo, vi è una violazione di alcuni fra i principali bisogni umani, fondamentali per un funzionamento sano: quelli di competenza, autonomia e relazionalità. Dunque, questo tipo di genitori non lasciano ai figli la possibilità di sentirsi sicuri e fiduciosi delle proprie capacità, di prendere decisioni autonome e di sentirsi coinvolti in una relazione calda e genuina (Scharf et al., 2017).

Dunque, possiamo concludere dicendo che il percorso identitario intrapreso nell’adolescenza non per tutti i giovani adulti è giunto al termine e questo sembra essere strettamente connesso alle differenti modalità di relazione con i genitori, di conseguenza vi sono altrettante differenti modalità di conseguimento dell’autonomia. Pertanto, costruzione di sé e comprensione dell’altro sembrano procedere nella medesima direzione di riconoscimento e accettazione della complessità e unicità individuali (Sestito et al., 2016).

Inoltre, durante le prime fasi dell’adultità l’acquisizione di un’identità stabile e di un ruolo sociale riconosciuto si intrecciano con la progettualità (Chandler, 2000) e la costruzione del

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25 futuro (McGuire, Padawe-Singer, 1976). Definendo degli obiettivi per il futuro i giovani adulti pongono le basi per proseguire nella transizione alla piena adultità (Nurmi, Poole, Seginer, 1995).

Il lavoro costituisce una parte importante del senso di noi stessi. Nella prima età adulta il giovane definisce la propria identità occupazionale, ovvero la consapevolezza di se stessi come lavoratori (Skorikov, Vondraceck, 2011).

È stato evidenziato come il giovane adulto deve compiere un continuo processo di ricerca di significato da attribuire alle proprie esperienze lavorative, ai propri progetti messi in relazione con le possibilità del contesto socioculturale ed economico, nonché con le influenze/supporto degli altri significativi (Sestito et al., 2016). Quindi, l’identità occupazionale sembra essere particolarmente sensibile a fattori esterni, e un ruolo importante è rivestito dalle esperienze che il giovane compie, le quali vanno comprese e inserite all’interno dell’intero percorso/progetto di vita (Sestito et al., 2016).

Con la crisi economica e finanziaria che dal 2008 sta governando il nostro Paese, sono proprio i giovani ad esserne colpiti maggiormente. Le trasformazioni del mondo del lavoro sembrano aver prodotto due fondamentali conseguenze: una maggiore diffusione del rischio di rimanere esclusi o ai margini del mercato del lavoro (Sennet, 2006) e una forte riduzione della possibilità di fare previsioni rispetto al proprio futuro personale e lavorativo, a scapito del benessere personale. Anche per questo motivo infatti, come descritto precedentemente, è stata identificata una delayed syndrome italiana.

La possibilità di progettare un’attività lavorativa congruente con aspirazioni e motivazioni personali rappresenta uno dei principali traguardi dei percorsi formativi e, al contempo, la premessa per il soddisfacimento di bisogni fondamentali, primo fra tutti quello di autorealizzazione (Sheldon, Elliot, 1999).

Gli emerging adults e la coppia: dai legami transitori alla formazione di una relazione sentimentale stabile

La letteratura dimostra che è durante l’adolescenza che le relazioni amicali e sentimentali si stabilizzano (Bouchey, Furman, 2003), e, dunque, è nell’età adulta che i giovani affrontano, si suppone in maniera efficiente, l’impegnativo compito di formare delle relazioni di coppia profonde e stabili con l’obiettivo di creare un nuovo nucleo familiare. Eppure, le prove attuali non sono del tutto concordanti con questa aspettativa. È probabile che molti adulti emergenti fluttuino tra una relazione e l'altra o siano coinvolti in brevi incontri sessuali e romantici (Arnett, 2004; Cohen et al., 2003).

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26 Come già spiegato nei capitoli precedenti, i giovani adulti contemporanei sembrano rinviare a un successivo momento il matrimonio e la genitorialità. Attualmente gli sposi al primo matrimonio hanno in media 33,7 anni e le spose 31,5 (rispettivamente 1,6 e 2,1 anni in più rispetto al 2008. Istat, 2018).

La letteratura concorda nel ritenere che vi è un sostanziale mutamento nella gestione delle relazioni sentimentali negli ultimi decenni e, soprattutto, nelle società occidentali (Settersten, Ray, 2010). Vediamo come sono caratterizzate oggigiorno.

Accanto alla scelta delle libere unioni e in alternativa al matrimonio si verifica un incremento delle convivenze prematrimoniali le quali determinano una posticipazione del primo matrimonio. Ma a determinare il rinvio delle prime nozze è in particolar modo la protratta permanenza dei giovani nella famiglia di origine (Istat, 2018).

Spesso infatti, a conferma dei dati Istat del 2018, si viene a conoscenza di alcune relazioni che assumono una forma “ibrida”, definita da Jamison e Ganong (2011) stay over relationship, in cui i partner vivono la loro storia d’amore a metà fra il fidanzamento e la convivenza: essi, cioè, non vivono stabilmente nella stessa casa, ma trascorrono insieme da tre a sette notti la settimana. Questa modalità permette di testare la relazione senza assumere un impegno formale e senza andare incontro al rischio associato all’effettiva coabitazione (Shulman, Connolly, 2013).

Inoltre, una gran parte dei giovani adulti dichiara di non essere coinvolta in una relazione unica e stabile, ma in varie tipologie di relazioni, per lo più transitorie e senza impegno (Istat, 2014). Tali relazioni sembrano poter apportare sensazioni di gioia, desiderabilità, piacevolezza ed eccitazione e complessivamente produrre un aumento di autostima. Allo stesso tempo però la ricerca evidenzia come conseguenze sentimenti di vergogna, colpa, sensazione di essere usati, ansia, che possono costituire dei fattori di rischio per il sopraggiungere di stati depressivi (Grello et al., 2006).

Come possiamo spiegare però il cambiamento che si è verificato nelle relazioni?

Innanzitutto possiamo partire dal fatto che i giovani d’oggi si realizzano in un contesto orientato ai processi di individualizzazione, dove sono impegnati a costruire da soli i propri percorsi di sviluppo e i propri progetti di vita, basati su stili, preferenze e scelte personali. I giovani adulti quindi si preparano individualmente per il proprio futuro.

Ciò che è sempre stato importante e certo è che i due domini della vita fondamentali in questa fase sono Work e Love (Shulman, Nurmi, 2010) e che sono strettamente in armonia fra loro. Citando Shulman e Connolly (2013), osserviamo e ribadiamo che il mondo in cui viviamo sembra essere caratterizzato da fluidità, instabilità e incertezza economica e lavorativa, e di

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27 conseguenza gli adulti emergenti si trovano a dover affrontare un compito di sviluppo alla volta; work e love risultano compiti separati, non affrontabili congiuntamente e spesso opponentisi l’uno all’altro (Sestito e Sica, 2016). Ci si focalizza su istanze di autorealizzazione e di definizione professionale, si aspetta di aver raggiunto questi obiettivi prima di avanzare verso la stabilizzazione dei rapporti sentimentali (Shulman et al., 2015). L'interazione tra il lavoro e la formazione di una relazione sentimentale è stata ampiamente studiata nelle coppie sposate. Secondo Edwards e Rothbard (2000), il successo o il fallimento in un ambito migliora o indebolisce le esperienze positive o negative, influenzando a sua volta il funzionamento in un altro ambito. Allo stesso modo, le difficoltà nel lavoro o negli studi possono indebolire la capacità e l'entusiasmo di un individuo di soddisfare le richieste all'interno del dominio familiare, in quanto le risorse utilizzate per far fronte alle richieste di un dominio vengono prosciugate, e meno energia viene lasciata per affrontare i problemi in un altro dominio (Frone, Russell, & Cooper, 1997). Da questi dati, Shulman e Connolly ipotizzano che “l’impatto lavoro-famiglia" possa operare anche tra i giovani adulti non sposati e che possa influire sulla loro capacità di impegnarsi romanticamente (2013). Ricapitolando, gli adulti emergenti hanno probabilmente acquisito la competenza per gestire le relazioni diadiche intime e per affrontare le inevitabili difficoltà che emergono periodicamente in ogni relazione. Tuttavia, in questa fase, i giovani devono anche affrontare e sentire di aver ottenuto abbastanza risultati nel campo del lavoro, dello studio o dell'occupazione. Affinché possa formarsi una relazione sentimentale stabile, tutte queste componenti devono essere valutate, e i due componenti della coppia devono negoziare reciprocamente le proprie priorità e far coincidere i propri piani di vita. Shulman e Connolly (2013) hanno proposto addirittura la creazione di una nuova tipologia di relazione denominata coordinating romantic commitment and life plans, ovvero un impegno romantico associato alla negoziazione e alla coordinazione dei propri piani di vita con il partner.

Dunque, sulla base di queste peculiarità, gli autori hanno proposto un ulteriore stadio di sviluppo romantico che copre il divario tra il coinvolgimento romantico stabile degli adolescenti e l'impegno degli adulti in una partnership a lungo termine. Così, i 20 anni non sono percepiti come un periodo di confusione e di esplorazione infruttuosa, ma come una fase in cui ci si aspetta che i giovani si coordinino tra le diverse sfaccettature della loro vita per stabilirsi in una partnership a lungo termine (Shulman & Connolly, 2013, p. 35).

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28 L’amore ai tempi del web 3.0 e il benessere all’interno della coppia

Un altro aspetto delle relazioni interpersonali che caratterizzano il mondo di oggi è dato dal sempre più frequente utilizzo di Internet come mezzo di comunicazione.

Siamo nel cosiddetto web 3.0, il nostro mondo è iperconnesso, costituito da social network e app di instant messaging. Grazie ai sistemi di intelligenza artificiale siamo in grado di interagire con il digitale quasi come se avessimo davanti una persona e, oggigiorno, si parla infatti di relazione virtuale e innamoramento virtuale.

I social network permettono di instaurare relazioni sia di tipo amicali che di tipo amorose, ma per quale motivo tendiamo a ricorrere sempre più frequentemente a questi mezzi per conoscere persone nuove? Attraverso app come instagram, facebook o tinder le persone si sentono soprattutto più al sicuro, più protette, sentono di rischiare meno in questo modo perché non sperimentano direttamente gli aspetti emotivi del rifiuto che proverebbero se invece l’altro dicesse di no guardandoli negli occhi (Travini, 2019). Non solo, le persone comunicando online diventano anche più dirette, senza filtri, proprio perché non potendo mostrarsi fisicamente si sentono più sicure e coraggiose. Di conseguenza, a volte, ci si dimentica che il tono, nelle comunicazioni offline, è veicolato con i segnali non verbali, le espressioni facciali, la postura del corpo, il contatto visivo, la voce, e online, in assenza di questi segnali, è più difficile esprimersi in maniera sottile, quindi le comunicazioni appaiono più brusche e aggressive (Wallace, 2017). Inoltre, attraverso la creazione di profili online le persone possono scegliere quale lato del loro carattere e della loro personalità esprimere maggiormente e mostrare. In questo modo risulta anche più facile farsi accettare dall’altro, se mostriamo quasi unicamente i lati positivi e migliori di noi stessi.

Molto spesso le persone che preferiscono iniziare una relazione, di amicizia o sentimentale che sia, via social sono persone che hanno paura di affrontare e di confrontarsi con il mondo reale, persone che hanno paura dell’intimità e dell’assumersi responsabilità e impegnarsi seriamente con qualcuno. Sono persone che possono provare solitudine e, nel mondo online, è più facile cadere nella trappola delle illusioni facendosi trasportare dalle aspettative che non fanno altro che, quando disilluse, provocare sofferenza e amarezza (Chiaia, 2010). Ovviamente non dobbiamo guardare solo il lato negativo di Internet perché, con l’utilizzo di questi mezzi di comunicazione, possiamo entrare in contatto con tutti e mantenere relazioni a distanza che altrimenti sarebbero difficili da gestire, le barriere del tempo e dello spazio vengono totalmente annullate: con Internet la distanza fisica scompare, basta un messaggio ed ecco che siamo di nuovo con l’altro, a discapito dei km che ci separano.

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29 Le relazioni interpersonali sono cruciali nella vita degli individui, soprattutto per i giovani adulti che vorrebbero fare un passo ulteriore e costruire un nuovo nucleo familiare; ed ecco che arriviamo dunque al benessere individuale della persona.

Il benessere relazionale è quello stato e percezione di appagamento, costruttività, fiducia, gioia, intimità, impegno, lealtà, sostegno, condivisione, che è possibile trarre dalle relazioni che accompagnano la nostra vita (Paroni, 2016). Bassi livelli di soddisfazione nelle relazioni sono stati associati con lo sviluppo di sintomi depressivi. Questo, soprattutto, quando gli individui investono molto nella loro relazione sentimentale e quando si sentono molto legati al partner. Viceversa, nei casi in cui le relazioni amicali, con la famiglia e con l’eventuale partner funzionano adeguatamente, esse diventano un’importante fonte di benessere e soddisfazione per l’individuo (Whitton, & Kuryluk, 2012).

Gli aspetti emotivi e sessuali dell'intimità nelle relazioni romantiche sono importanti elementi per la soddisfazione della coppia.

In particolare, è stato dimostrato come la condivisione di attività piacevoli concordate col partner, rinforzi il senso di unione, amicizia e alleanza all'interno della coppia. Così come assumersi le proprie responsabilità, senza incolpare gli altri, favorisce la stabilità di coppia poiché entrambi i partner cercano il dialogo per affrontare conflitti e incomprensioni (Nayama e James, 2017; Gordon, 2011; O’Leary, 2012).

Inoltre, è stato documentato come l'attività sessuale possa rappresentare un importante indice di soddisfazione nella coppia, influenzando la visione del rapporto nel suo insieme, inducendo una sensazione generale di benessere di coppia che avvicina emotivamente i partner (O’Leary, 2012).

Infine, altre ricerche hanno dimostrato come manifestare quotidianamente gratitudine al partner, ringraziandolo di ciò che ha fatto in favore della coppia e/o dell'altro partner, aumenta la durata dell'unione poiché promuove la soddisfazione di coppia derivante proprio dalla consapevolezza che l'altro sia importante e che venga riconosciuto il suo valore reciprocamente (Nayama e James, 2017; Gordon, 2011; O’Leary, 2012).

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Capitolo 3

I compiti evolutivi e lo sviluppo del senso di Sé

Come anticipato, durante l’intero arco della vita vi sono diversi compiti evolutivi, o di sviluppo, che si presentano e che necessitano di essere superati. La nozione di “compiti di sviluppo” è riferibile a problematiche riscontrate dalle persone nei vari momenti della loro vita. Secondo Havighurst (1952), che per primo ha utilizzato questo concetto, l’esistenza dell’individuo è costellata da una serie di compiti che devono essere affrontati al momento opportuno. Se questo non avviene nel tempo stabilito, lo sviluppo dell’individuo potrebbe avere delle conseguenze negative. Al contrario, quando i compiti evolutivi che caratterizzano una determinata fase vengono affrontati adeguatamente, si arriva ad una “struttura soddisfacente” cioè adatta all’individuo e al suo contesto sociale.

Daniel S. Levinson (1995) sostiene con fervore che i compiti di sviluppo consistono essenzialmente nel fare e nel concretizzare delle scelte e nell’accettarne le conseguenze, tenendo conto della storia di vita dell’individuo, senza dimenticarsi del mondo circostante. Inoltre, ritiene che il compito fondamentale dell’età adulta sia rappresentato dalla progressiva emancipazione dalla famiglia d’origine e dall’ingresso nella società.

I compiti centrali della prima fase dell’età adulta individuati da Levinson e collaboratori (1995) sono i seguenti:

1. Costruire il sogno della propria vita;

2. Creare relazioni importanti con figure di riferimento; 3. Intraprendere un’attività lavorativa;

4. Instaurare relazioni intime fino al matrimonio e alla formazione di una famiglia; 5. Costruire relazioni di reciproca amicizia.

A questi dobbiamo aggiungere un altro compito, strettamente legato ai precedenti, che riguarda l’acquisizione di un’identità adulta stabile e positiva (Erikson, 1068; Marcia, 1966; Waterman, 1993).

Secondo alcuni autori, infatti, il ritardo nell’acquisizione di ruoli sociali adulti a cui si assiste ha un notevole impatto sulla formazione e sul consolidamento dell’identità (Pace et al., 2016; Crocetti, Rabaglietti & Sica, 2012). Numerosi studi (Pace et al., 2016; Crocetti, Rabaglietti & Sica, 2012) hanno dimostrato che, nel contesto italiano, i giovani adulti mostrano delle configurazioni identitarie caratterizzate, oltre al ritardo nell’assunzione di ruoli adulti, da

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