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Analisi e comparazione dei trattamenti chirurgici definitivi nelle fratture di pilone tibiale

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Academic year: 2021

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Sommario

Introduzione ... 3

Capitolo 1: Descrizione anatomica e funzionale della caviglia ... 4

1.1 Anatomia del pilone tibiale ... 4

1.2 Anatomia funzionale della caviglia ... 8

Capitolo 2: Clinica delle fratture di pilone tibiale ... 11

2.1 Patogenesi ed epidemiologia delle fratture di pilone tibiale ... 11

2.2 Classificazione delle fratture di pilone tibiale ... 12

2.3 Presentazione clinica e imaging ... 14

Capitolo 3: Approccio terapeutico alle fratture di pilone tibiale ... 22

3.1 Il problema della scelta della tecnica chirurgica ... 22

3.2 Management terapeutico ... 24

3.3 Accessi chirurgici per le fratture di pilone tibiale ... 25

3.3.1 Approcci anteriore e anteromediale alla caviglia ... 26

3.3.2 Approccio anterolaterale alla caviglia ... 28

3.3.3 Approccio mediale alla caviglia ... 29

3.3.4 Approccio laterale alla caviglia ... 31

3.3.5 Approccio posterolaterale alla caviglia... 32

3.3.6 Approccio “estendibile” alla caviglia ... 34

3.4 Interventi chirurgici ... 35

3.4.1 La fissazione esterna come intervento provvisorio nel pilone tibiale ... 35

3.4.2 La fissazione esterna come intervento definitivo nel pilone tibiale ... 37

3.4.3 La tecnica MIPO ... 40

3.4.4 La tecnica ORIF nelle fratture di pilone tibiale ... 42

Capitolo 4: Protocollo di studio ... 46

4.1 Scopo dello studio ... 46

4.2 Materiali e metodi ... 46

4.2.1 Raccolta pazienti ... 46

4.2.2 Modalità d’accesso dei pazienti in reparto ... 47

4.2.3 Trattamenti e controlli nel post-operatorio ... 48

4.2.3 Raccolta dati ... 48

4.2.4 Analisi dati ... 52

4.3 Risultati ... 52

4.4 Discussione ... 59

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2 Indice dei grafici... 66 Indice delle tabelle ... 66 Bibliografia ... 67

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Introduzione

Le fratture del pilone tibiale sono fratture estremamente gravi, tanto che alcuni autori per descriverne la complessità usano il termine di explosion fracture1. Guariscono

molto lentamente e la ripresa di uno stesso livello di attività motorie e lavorative pre-malattia può richiedere molti anni e non sempre avviene. Uno studio inoltre ha evidenziato come pazienti che hanno subito questo tipo di frattura siano andati incontro nel 65% a problemi finanziari e solo il 28% dei pazienti che precedentemente alla frattura lavoravano sono ritornati alla propria mansione lavorativa entro i tempi dell’osservazione nello studio2. Si tratta pertanto di fratture che ancora oggi incidono

notevolmente sulla vita dei pazienti e nonostante siano state descritte nel tempo numerose tecniche per il loro trattamento i risultati ottenuti in termini di guarigione e complicanze post-operatorie non sono ancora considerati del tutto soddisfacenti. Col nostro studio ci proponiamo di raccogliere i dati e confrontare i risultati raggiunti e l’incidenza di complicanze post-operatorie usando rispettivamente la tecnica ORIF e la fissazione esterna con fissazione interna limitata nel trattamento delle fratture del pilone tibiale all’interno dell’Unità Operativa di Ortopedia e Traumatologia I dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana.

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Capitolo 1: Descrizione anatomica e funzionale della caviglia

1.1 Anatomia del pilone tibiale

Il termine “pilone tibiale” venne coniato da Destot nel 1911, riferendosi non tanto al significato italiano di pilone quanto a quello del termine francese pilon che significa pestello3. Il pilone tibiale comprende anatomicamente l’estremità distale della tibia, inclusa la superficie articolare (Figura 1).Il limite prossimale del pilone tibiale si indica in modo approssimativo a 8-10 cm dalla superficie articolare tibiale della caviglia, laddove la sezione triangolare della diafisi tibiale con la sua cresta anteriore cambia direzione formando la metafisi 4.

FIGURA 1:PILONE TIBIALE (HTTP://WWW.PEDIATRIC

-ORTHOPEDICS.COM/TOPICS/BONES/ANKLE_FOOT/ANKLE_FOOT.HTML)

La metafisi distale della tibia, rispetto alla diafisi, presenta una corteccia più sottile e una maggior componente di osso trabecolare. La superficie anteromediale della metafisi distale è concava con un raggio di curvatura di circa 20 cm ed è ruotata internamente di 25° rispetto alla tibia posteriore; in particolare questa rotazione è più

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pronunciata a livello prossimale e a livello anteriore5. La porzione laterale della tibia

distale forma invece un incavo delimitato dai tubercoli anteriore e posteriore tibiali che si articola con il perone. L’articolazione tibio-fibulare distale è rinforzata da una serie di legamenti che si inseriscono sulle relative prominenze ossee e sulla membrana interossea6. L’articolazione non mette le due ossa a diretto contatto ma esse restano

divise per l’interposizione di un tessuto adiposo (spazio ben visibile su una radiografia in antero-posteriore della caviglia ben centrata). Normalmente l’ombra del perone sconfina maggiormente (8 mm) dal tubercolo anteriore rispetto al tubercolo posteriore (2 mm); se osserviamo invece che la distanza del perone dal tubercolo posteriore è maggiore di quella dal tubercolo anteriore si può parlare di diastasi inter-tibio-peroneale7.

La superficie articolare della tibia distale, detta plafond (termine francese che significa soffitto), è di forma quadrangolare e si articola con la troclea astragalica6. Questa

superficie è più ampia anteriormente, è concava sui piani coronale e sagittale e presenta una cresta smussa sagittale contornata da due docce che s’incastra nella gola astragalica; essa continua medialmente con la superficie articolare del malleolo mediale per 1,5 cm formando all’incirca un angolo retto. A completamento del mortaio tibio-fibulare, il perone si articola con la porzione laterale della troclea astragalica continuandosi col malleolo esterno, più voluminoso di quello interno e rispetto a questi si porta più in basso e posteriormente facendo sì che l’asse principale trasversale del complesso articolare del piede, che passa appunto per i due malleoli e che corrisponde all’asse dell’articolazione tibio-tarsica, sia leggermente obliquo (20°) verso l’esterno e posteriormente6.

La troclea astragalica presenta una faccia superiore, che si articola con il plafond tibiale, una faccia interna, che si articola con la faccia articolare del malleolo mediale, e una faccia laterale che si articola con il malleolo laterale. La faccia superiore è convessa dall’avanti all’indietro e solcata da una depressione sagittale (in realtà leggermente proiettata in avanti ed in fuori) detta gola verso la quale convergono i versanti interno ed esterno della troclea. La faccia interna è sagittale e praticamente

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piana ad eccezione di una piccola piegatura verso l’interno della porzione anteriore. La faccia esterna è fortemente inclinata in fuori, concava dall’alto in basso e dall’avanti in dietro7.

I legamenti dell’articolazione tibio-tarsica consistono in due sistemi legamentosi principali: i legamenti collaterali interno ed esterno e due sistemi accessori, i legamenti anteriore e posteriore (Figura 2).

FIGURA 2:LEGAMENTI DELLA CAVIGLIA (KAPANDJI IA.FISIOLOGIA ARTICOLARE: SCHEMI COMMENTATI DI BIOMECCANICA UMANA.3 ED;2002)

Il legamento collaterale esterno è costituito da tre fasci: il fascio anteriore, che dal margine anteriore del malleolo peroneale si dirige obliquamente infero-anteriormente fissandosi sull’astragalo tra la faccia esterna e l’apertura del seno del tarso; il fascio medio, che dall’apice del malleolo si dirige in basso e posteriormente fissandosi sulla

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faccia esterna del calcagno e il cui bordo inferiore è prolungato dal legamento astragalo-calcaneale esterno; il fascio posteriore, che dalla faccia interna del malleolo esterno si porta orizzontalmente indietro per fissarsi sul tubercolo postero-esterno dell’astragalo prolungandosi poi col legamento astragalo-calcaneale posteriore.

Il legamento collaterale interno si divide in un piano profondo e in un piano superficiale. Il piano profondo è costituito da un fascio tibio-astragalico anteriore, obliquo in basso e in avanti che si fissa sulla branca interna della troclea astragalica, e uno posteriore, che si porta obliquamente in basso ed indietro e si fissa a livello di una profonda fossetta posta sotto la faccia interna della troclea astragalica arrivando talvolta posteriormente fino al tubercolo postero-interno. Il piano superficiale forma il legamento deltoideo, molto espanso e triangolare, che dalla tibia si irradia inserendosi lungo una linea continua lungo lo scafoide tarsale, il bordo interno del legamento glenoideo (che unisce il calcagno al tubercolo scafoideo) e la piccola apofisi calcaneale passando a ponte l’astragalo senza inserirvisi (tantoché veniva definito classicamente legamento tibio-scafo-gleno-sustentacolo-transastragalico).

I legamenti anteriore e posteriore dell’articolazione tibio-tarsica sono dei semplici ispessimenti capsulari. L’anteriore congiunge obliquamente il margine anteriore della superficie tibiale alla branca di biforcazione posteriore della troclea astragalica. Il posteriore è formato da fibre che partendo dalla tibia e dal perone si portano sul tubercolo postero-interno dell’astragalo7.

Il rifornimento ematico dei tessuti molli che ricoprono l’estremità distale della tibia viene espletato da arterie perforanti che originano dalle arterie pedidia dorsale, tibiale posteriore e peroneale6,8.

Il sistema venoso superficiale della gamba fa capo alla grande safena, che decorre accompagnata dal nervo safeno 2-3 cm davanti al malleolo mediale salendo poi lungo la faccia mediale della gamba, e alla piccola safena, che origina dietro il malleolo laterale, risale il tendine d’Achille e decorre poi verticalmente tra i due muscoli

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gemelli9. La rottura di questi vasi venosi al momento del trauma o dell’intervento

chirurgico può comportare alterazioni cutanee, tumefazione e talvolta ulcerazione.

1.2 Anatomia funzionale della caviglia

L’articolazione tibio-tarsica è una troclea e possiede un solo grado di libertà; condiziona i movimenti della gamba in rapporto al piede sul piano sagittale. Essa è necessaria, se non indispensabile, alla marcia. Si tratta di un’articolazione molto “serrata”, incastonata, che subisce sollecitazioni estremamente importanti in quanto in appoggio monopodalico sopporta la totalità del peso del corpo a sua volta aumentato dall’energia cinetica nel momento in cui il piede prende contatto con il suolo durante la marcia, la corsa o il salto.

La posizione di riferimento del piede si ha quando il piano della pianta del piede è perpendicolare all’asse della gamba. Partendo da questa posizione, la flessione della caviglia (detta anche dorso-flessione o flessione dorsale) si definisce come il movimento che ravvicina il dorso del piede alla faccia anteriore della gamba. Inversamente, l’estensione della tibio-tarsica si definisce come l’allontanamento del dorso del piede dalla faccia anteriore della gamba col piede che tende a disporsi nel prolungamento della gamba. Quest’ultimo movimento viene detto impropriamente anche flessione plantare, anche se per flessione dovremmo sempre intendere un movimento che conduce i segmenti di un arto verso il tronco.

La superficie articolare della tibia forma un arco concavo di 70° mentre la troclea astragalica, che con essa prende rapporto e si articola, forma rispettivamente un arco convesso di 140-150°. Ne consegue che, sottraendo ai 140-150° dell’arco astragalico i 70° di quello della superficie articolare tibiale, il pilone tibiale e la troclea astragalica possano scorrere tra loro per 70-80°, che altri non è che l’escursione fisiologica dell’articolazione tibio-astragalica. Poiché inoltre la troclea sviluppa la propria superficie articolare in modo maggiore posteriormente rispetto che in avanti, il movimento di estensione del piede ha un’ampiezza maggiore rispetto a quello di flessione: precisamente la flessione ha un’ampiezza che varia dai 20 ai 30°, mentre

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l’estensione dai 30 ai 50° (con un margine di variazione interindividuale che è quindi maggiore rispetto alla flessione) (Figura 3). Nei movimenti estremi di flesso-estensione si aggiunge l’ampiezza propria delle articolazioni del tarso (meno importante ma non trascurabile): nella flessione estrema l’ampiezza supplementare deriva da un appiattimento della volta, nell’estensione estrema da un infossamento della volta.

FIGURA 3:RANGE OF MOVEMENT DELLA CAVIGLIA (KAPANDJI IA.FISIOLOGIA ARTICOLARE: SCHEMI COMMENTATI DI BIOMECCANICA UMANA.3 ED;2002)

La limitazione della flessione dipende da fattori ossei, capsulo-legamentosi e muscolari. Il primo fattore a intervenire è la resistenza tonica del muscolo tricipite, la cui retrazione può limitare la flessione mantenendo la caviglia estesa (piede equino). Nella flessione estrema inoltre la faccia superiore del collo astragalico viene a urtare il

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margine anteriore della superficie tibiale e la porzione posteriore della capsula e i fasci posteriori dei legamenti collaterali si tendono. La capsula anteriore viene preservata grazie al pinzettamento operato dalla trazione dei muscoli flessori che tramite la loro guaina presentano aderenze con la suddetta.

La limitazione dell’estensione è a sua volta dovuta a fattori ossei, capsulo-legamentosi e muscolari. Il primo limite proviene dalla resistenza tonica dei muscoli flessori, il cui ipertono può portare a una flessione permanente (piede talo). Dopodiché nell’estensione estrema i tubercoli posteriori dell’astragalo, in particolare l’esterno (che talvolta risulta anatomicamente isolato dall’astragalo formando l’os trigonum), vengono in contatto col margine posteriore della superficie tibiale e la porzione anteriore della capsula e i fasci anteriori dei legamenti collaterali si tendono. La capsula è preservata posteriormente dallo stesso meccanismo che si ha per la flessione.

La stabilità antero-posteriore della tibio-tarsica e la sua coattazione sono assicurate dalla gravità (che trattiene l’astragalo sotto la superficie tibiale), dai margini anteriore e posteriore della superficie tibiale che formando dei rilievi impediscono lo

scivolamento della troclea in avanti o indietro (il margine posteriore rispetto a quello anteriore discende più in basso ed è detto terzo malleolo di Destot), dalla coattazione passiva dei legamenti collaterali e dalla coattazione attiva dei muscoli7.

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Capitolo 2: Clinica delle fratture di pilone tibiale

2.1 Patogenesi ed epidemiologia delle fratture di pilone tibiale

Le fratture del pilone tibiale rappresentano il 5-7%3,4,10,11 di tutte le fratture della tibia,

presentano una predominanza nel sesso maschile (57-65%) e distribuzione bimodale con 2 picchi, a 25 e 50 anni d’età4,12. Un’altra fetta consistente di popolazione

interessata da questo tipo di fratture sono i pazienti osteoporotici, in maggioranza donne, per i quali l’intensità del trauma necessaria a sviluppare la frattura sarà ovviamente minore4,13.

Le fratture del pilone tibiale si ritiene che siano provocate o da una compressione assiale o da una torsione della gamba. Le fratture dovute a una compressione assiale, nelle quali l’astragalo va a impattare sul mortaio tibiale lungo l’asse maggiore della gamba, sono spesso il risultato di un trauma ad alta energia, presentano frequentemente multipli frammenti articolari scomposti, comminuzione dell’osso metafisario, contusione e schiacciamento dei tessuti molli, affondamento metafisario e perdita ossea e si accompagnano sovente alla fratturazione del perone. Questo tipo di frattura si verifica spesso conseguentemente a cadute dall’alto, incidenti automobilistici o infortuni durante l’attività lavorativa.

Le fratture del pilone derivate invece da traumi a bassa energia sono perlopiù secondarie a meccanismi rotazionali e pertanto sono di tipo spiroide con lieve comminuzione della metafisi e pochi frammenti articolari; si verificano in genere a seguito di infortuni durante attività sportive quali lo sci o il pattinaggio su pattini a rotelle e proprio per la minore energia attribuibile al trauma presentano tipicamente minore tumefazione dei tessuti molli e non sono sempre associate a una frattura della fibula6.

Le fratture del pilone tibiale hanno un notevole impatto sulla qualità di vita del paziente, guariscono molto lentamente e il pieno ritorno alle attività precedenti alla frattura, che non sempre avviene, impiega molti anni per verificarsi. Gli aspetti più

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rilevanti della riduzione della qualità di vita avvertiti dal paziente che non raggiunge una guarigione ottimale della frattura sono la difficoltà a camminare e a salire le scale, il dolore persistente, la diminuzione della flesso-estensibilità della caviglia e la riduzione delle capacità lavorative e delle proprie possibilità di trovare un impiego occupazionale. Riguardo a quest’ultimo punto, le fratture del pilone tibiale comportano un notevole periodo di astensione dall’attività lavorativa, che può durare 6 mesi o anche anni, soprattutto per quanto riguarda le mansioni lavorative più manuali quali gli operai (i cosiddetti blue collars). Proprio per questo motivo in questi pazienti vi è un alto tasso di indebitamento e di ricorso all’assistenza sociale a causa delle difficoltà finanziarie, nonché di depressione, perdita dell’autostima, insonnia e ansietà facendo sì che le ripercussioni delle fratture del pilone tibiale costituiscano un problema sociale non indifferente2.

2.2 Classificazione delle fratture di pilone tibiale

Esistono diversi tipi di classificazione per questo tipo di fratture.

Classificazione molto utilizzata e semplice è quella di Ruedi-Allgower. Essa divide le fratture del pilone tibiale in 3 tipi sulla base delle dimensioni e della scomposizione: nel tipo I rientrano le fratture composte, nel tipo II le fratture scomposte lievemente compresse (cioè con incorporamento di un frammento osseo su un altro) o comminute (cioè con rottura dell’osso in piccoli frammenti) e nel tipo III le fratture con comminuzione articolare o compressione significative (Figura 4)14.

FIGURA 4:CLASSIFICAZIONE DI RUEDI-ALLGOWER (DUJARDIN F,ABDULMUTALIB H,TOBENAS AC.TOTAL FRACTURES OF THE TIBIAL PILON.ORTHOPAEDICS & TRAUMATOLOGY, SURGERY & RESEARCH :OTSR2014;100(1SUPPL):S65-74)

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Un’altra classificazione, più complessa ma molto utilizzata, è quella fatta dalla fondazione Arbeitsgemeinschaft für Osteosynthesefragen e dall’Orthopaedic Trauma Association, meglio conosciuta come classificazione AO/OTA di Müller. Questa classificazione non è specifica del pilone tibiale, ma è una classificazione sistemica delle fratture di tutte le ossa dello scheletro umano. Ciascun osso è indicato con la prima cifra, mentre la cifra seguente indica la porzione dell’osso suddetto interessata dalla frattura in questione. Prendendo appunto la tibia come esempio, questa corrisponde al numero 4 mentre l’estremità distale di un osso si indica ponendo come seconda cifra il numero 3: ne consegue che per indicare le fratture della metafisi distale della tibia si userà il numero 43. Le fratture del pilone tibiale vengono quindi divise nei sottogruppi 43-A, 43-B e 43-C (Figura 5)15.

FIGURA 5:CLASSIFICAZIONE AO/OTA DI MÜLLER (BENTLEY G.EUROPEAN SURGICAL ORTHOPAEDICS AND TRAUMATOLOGY: SPRINGER;2014)

Nel sottogruppo 43-A rientrano le fratture extra-articolari, senza interessamento cioè della rima articolare, a sua volta divise in 43-A1 (con rima di frattura semplice che divide l’osso in due frammenti. Può essere associata o meno a frattura fibulare), 43-A2 (incuneata, cioè con rima di frattura tripartita che delimita un frammento osseo posto a mo’ di cuneo tra le estremità distale e prossimale della tibia. Può essere associata o

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meno a frattura fibulare. In genere sono meno stabili delle fratture 43-A1) e 43-A3 (complessa, con multipli frammenti).

Le fratture del sottogruppo 43-B sono indicate come fratture articolari parziali coinvolgendo solo una porzione della superficie articolare mentre la porzione restante rimane in continuità con la tibia prossimale. Sono a loro volta suddivise in 43-B1(con split semplice, ovvero con frammento articolare diviso dal restante osso senza compressione), 43-B2 (nelle quali si ha un frammento articolare maggiore diviso dal restante osso e un’area di compressione inter-frammentaria) e 43-B3 (in cui si ha più di un frammento osseo separato. In genere si accompagna inoltre compressione inter-frammentaria).

Le fratture infine del sottogruppo 43-C sono le fratture articolari complete, in cui si ha un distacco completo dei frammenti distali dalla porzione prossimale della tibia. Sono suddivise in 43-C1 (nella quale si ha una rima di frattura articolare semplice e una rima di frattura metafisaria semplice in modo tale che si formino solo due grandi frammenti ossei entrambi comprendenti la superficie articolare), 43-C2 (nella quale si ha una rima di frattura articolare semplice, in modo tale che si formino due grandi frammenti ossei articolari, e un’area di comminuzione metafisaria prossimale) e 43-C3 (in cui si hanno multipli frammenti sia a livello metafisario che articolare).

La maggior parte delle fratture di tipo B presentano un meccanismo di trauma torsionale, quelle di tipo C invece di tipo perlopiù compressivo di alta energia15,16.

2.3 Presentazione clinica e imaging

Quando ci si approccia a un paziente con lesioni della caviglia, durante l’anamnesi è fondamentale indagare le caratteristiche del trauma, lo stato preesistente della parte lesa e lo stato di salute generale dell’individuo.

Per quanto riguarda l’indagine delle caratteristiche del trauma, è fondamentale valutare la localizzazione del trauma in particolare in caso di ferite aperte ai fini di valutare l’estensione della contaminazione e quando esso è avvenuto, in modo tale da poter

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valutare lo stato dei tessuti molli in rapporto alla sua distanza temporale dal momento trauma (quest’ultima valutazione risulta di particolare importanza ai fini della programmazione di un eventuale trattamento chirurgico).

Riguardo allo stato preesistente della caviglia lesa bisogna valutare se essa presentasse una funzionalità normale in precedenza, condizione in assoluto più frequente per quanto riguarda le fratture del pilone tibiale trattandosi in genere di pazienti tra i 30-40 anni, o se vi fossero stati problemi vascolari (ulcere venose da stasi, claudicatio secondaria a un’Arteriopatia Obliterante Cronica Periferica), condizioni di instabilità secondarie a traumi pregressi o a lesioni ligamentose o altro.

Importante infine è valutare il paziente anche dal punto di vista sistemico: un paziente con diabete mellito per esempio può presentare neuropatie periferiche che complicano la riabilitazione del paziente; forti fumatori hanno una maggiore incidenza di complicanze nella guarigione della frattura; lesioni all’arto controlaterale possono impedire il carico necessitando quindi di particolari attenzioni rispetto alla programmazione della riabilitazione; problemi cardiovascolari possono far sì che il paziente non sia in grado di deambulare con un apparecchio gessato17.

Per quanto riguarda l’esame obbiettivo, esso in fase iniziale può essere difficile da eseguire in maniera completa (l’esame dell’escursione e stabilità articolari per esempio è controindicato e andrà posticipato in caso di una frattura marcatamente scomposta) o comunque di difficile valutazione; rimane comunque fondamentale fare una valutazione dei tessuti molli al fine di decidere se posticipare l’intervento chirurgico definitivo o meno (in quanto lo stato dei tessuti molli incide profondamente sull’outcome chirurgico) e una valutazione della perfusione dell’area ai fini di identificare e correggere rapidamente un’eventuale ischemia.

Per le fratture chiuse Oestern e Tscherne hanno proposto un sistema di classificazione delle lesioni dei tessuti molli diviso in 4 categorie: nel grado 0 ho lesioni dei tessuti molli trascurabili; nel grado 1 ho abrasioni o contusioni superficiali della pelle e dei tessuti sottocutanei con frammento osseo che preme dall’interno; nel grado 2 ho

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abrasioni profonde contaminate o contusioni cutanee o muscolari localizzate con rischio di insorgenza di una sindrome compartimentale; infine si parla di grado 3 quando abbiamo un’estesa avulsione sottocutanea, un grave danno muscolare, una lesione arteriosa o una sindrome compartimentale ormai instaurata (sospettabile clinicamente con parestesie, intorpidimento dell’arto fino alla paralisi, dolore ingravescenti). L’utilità di questa classificazione è tuttavia dibattuta: non è stata infatti disegnata in modo specifico per questo tipo di fratture, manca di una convalida sperimentale e non è del tutto attendibile. Ciò non toglie che in caso di frattura chiusa di pilone tibiale sia richiesta un’attenta e dettagliata ispezione dei tessuti molli, esaminando nello specifico la presenza di abrasioni, contusioni, edema, tensione cutanea, flittene. Per quanto riguarda quest’ultime è fondamentale valutarne il contenuto: nonostante le flittene siano dovute in ogni caso a uno scollamento della giunzione dermo-epidermica, un contenuto ematico è indicativo di un danno ai tessuti molli più profondo rispetto a una semplice flittena sierosa. Non a caso l’incisione chirurgica di una flittena ematica è associata a maggiori complicazioni nella guarigione della ferita18-20.

FIGURA 6:FRATTURA CHIUSA DI PILONE TIBIALE CON ECCHIMOSI E FLITTENE EMORRAGICHE

Allo stesso modo, Oestern e Tscherne descrivono 4 gradi per la classificazione delle lesioni dei tessuti molli nelle fratture aperte: nel grado 1 (per le fratture esposte non

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viene descritto un grado 0) si ha una semplice lacerazione della cute e le lesioni dei tessuti molli sono minime; nel grado 2 ho una lacerazione della cute, contusioni circonferenziali e moderata contaminazione della ferita; nel grado 3 si hanno lesioni dei tessuti molli estese, con danni ai vasi maggiori o ai nervi e talvolta sindrome compartimentale; nel grado 4 infine vengono inclusi quei casi in cui si hanno amputazioni o sub-amputazioni. Nonostante alcuni autori abbiano effettivamente correlato i gradi più alti di questa classificazione con un peggiori risultati clinici e funzionali post-operatori, la classificazione delle lesioni dei tessuti molli nelle fratture esposte di Oestern e Tscherne al momento non viene inclusa in nessuna linea guida, risultando perciò poco utile nei processi decisionali per la gestione di questo tipo di fratture19,20.

Per le fratture esposte infatti viene generalmente usata come classificazione standard quella di Gustilo-Anderson, che prende in considerazione la gravità del danno dei tessuti molli con relativo grado di copertura dei segmenti ossei, la gravità della contaminazione della ferita e la compromissione vascolare. Le fratture di tipo 1 sono stabili, con piccole ferite o lacerazioni inferiori a 1 cm, senza schiacciamento dei tessuti molli; le fratture di tipo 2 presentano ferite o lacerazioni maggiori di 1 cm con moderato danno delle parti molli, ma senza avulsione, lembi cutanei, schiacciamento o contaminazione della ferita; le fratture di tipo 3 sono associate a ferite lunghe più di 10 cm, molto contaminate o con gravi danni a carico dei tessuti molli e in genere si tratta di fratture segmentarie o comminute secondarie a traumi ad alta energia. Le fratture di grado 3 sono a loro volta divise in 3 gradi: le fratture 3A sono fratture con ampie ferite ma adeguata copertura dei segmenti ossei; le fratture 3B hanno un esteso danno delle parti molli e ampia esposizione ossea oltre a massiva contaminazione della ferita; le fratture 3C presentano un’esposizione massiva e una lesione arteriosa associata. L’utilizzo di questa classificazione nella tibia distale è tuttavia limitato dal fatto che la copertura dei tessuti molli a questo livello è molto limitata e pertanto una lesione che potrebbe apparire semplicemente di tipo 1 essendo la ferita inferiore a 1 cm dovrebbe essere valutata come un tipo maggiore per la forte contusione dei tessuti molli. La

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classificazione di Gustilo-Anderson rimane comunque utile, facendo però attenzione a tenere conto dei suoi limiti e a prendere i dovuti accorgimenti18,21.

FIGURA 7:FRATTURA APERTA DI PILONE TIBIALE ESPOSTA IN MODO MASSIVO E AMPIAMENTE CONTAMINATA

Per le lesioni dei tessuti molli esiste anche una classificazione sviluppata dalla AO/OTA; questo tipo di classificazione valuta separatamente le lesioni del tegumento, le lesioni muscolari e dei tendini e le lesioni dei nervi e dei vasi. Le lesioni della cute vengono suddivise in due sottogruppi a seconda che la frattura sia chiusa o aperta, e ciascuno di questi due sottogruppi viene classificato in 5 gradi a seconda della gravità. Le lesioni del tegumento nelle fratture chiuse vengono indicate con la sigla IC (Integument Closed): nel grado 1 non si hanno lesioni cutanee; nel grado 2 ho una contusione cutanea senza che vi siano lacerazioni; nel grado 3 si ha una avulsione del sottocute circoscritta; nel grado 4 si ha una avulsione del sottocute (pur rimanendo la frattura chiusa); nel grado 5 si ha necrosi cutanea secondaria alla contusione. Le lesioni dei tegumenti nelle fratture esposte si indicano con la sigla IO (Integument Open): nel grado 1 la rottura cutanea avviene dall’interno verso l’esterno; nel grado 2 la rottura cutanea avviene dall’esterno verso l’interno, presenta bordi contusi ed è minore di 5

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cm; nel grado 3 la rottura cutanea avviene dall’esterno verso l’interno, presenta bordi devitalizzati e una forte contusione ed è maggiore di 5 cm; nel grado 4 si hanno una notevole contusione cutanea a tutto spessore, abrasioni, perdita cutanea e avulsione del sottocute; nel grado 5 si ha una grave e importante avulsione del sottocute. Le lesioni muscolari e dei tendini vengono indicate con la sigla MT (Muscle Tendon): nel grado 1 non si hanno lesioni muscolari; nel grado 2 ho un danno muscolare circoscritto, ossia limitato a un solo compartimento; nel grado 3 ho un danno muscolare considerevole, esteso cioè a più di un compartimento; nel grado 4 ho un difetto muscolare, lacerazione dei tendini e un’estesa contusione muscolare; nel grado 5 ho un danno esteso dei muscoli che comporta una sindrome compartimentale o una sindrome da schiacciamento. Le lesioni dei nervi e dei vasi si indicano con la sigla NV (Nerve

Vessel) e presentano anch’esse 5 gradi sulla base della gravità clinica: nel grado 1 i

danni neurovascolari sono assenti; nel grado 2 ho una lesione isolata di un nervo; nel grado 3 ho una lesione vascolare localizzata; nel grado 4 si ha una lesione vascolare estesa segmentale; nel grado 5 ho una combinazione di lesioni vascolari e nervose fino all’amputazione22.

L’esame vascolare deve comprendere la palpazione dei polsi pedidio e tibiale posteriore; tuttavia spesso il gonfiore o la deformità ne possono ostacolare la percezione. In questo caso può essere utile una valutazione col Doppler anche se indica con affidabilità la presenza di un buon flusso solo se viene misurata la pressione arteriosa locale con un laccio pneumatico al polpaccio. Bisogna inoltre valutare la temperatura e l’eventuale pallore cutanei, il circolo capillare con la digitopressione, l’ingorgo venoso e l’edema.

Può essere utile infine fare un eventuale esame della funzionalità nervosa valutando i nervi dal punto di vista algico e esterocettivo in ciascuna area sensitiva: il nervo surale, che a livello del dorso del piede prende nome di nervo cutaneo dorsale laterale del piede, innerva il calcagno laterale ed il bordo laterale del piedefino al dorso del quinto e parte del quarto dito; la pianta è innervata dai nervi plantari mediale e laterale, rami del nervo tibiale (che dà anche rami mediali per il calcagno)17; il nervo safeno, ramo

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terminale del nervo femorale, è responsabile della sensibilità delle superfici mediale e posteromediale della gamba e della superficie dorsomediale del piede; il nervo peroniero superficiale tramite rami collaterali innerva la parte inferiore del lato laterale della gamba e tramite i suoi rami terminali, i nervi cutaneo dorsale interno e il nervo cutaneo dorsale mediale, innerva le superfici dorsali dell’alluce, del secondo, del terzo e di parte del quarto dito; il nervo peroneo peroniero profondo nel suo tratto terminale fornisce rami sensitivi per il dorso del piede a livello del primo spazio intermetatarsale9,17.

Le classificazioni delle fratture di pilone tibiale sono tutte basate su radiografie convenzionali nelle proiezioni antero-posteriore, laterale e obliqua. È tuttavia praticamente sempre necessario fare una Tomografia Computerizzata per esaminare correttamente in ogni suo aspetto la frattura ai fini di una corretta valutazione pre-intervento23.

Attraverso l’imaging diviene fondamentale porre l’attenzione su 14 punti fondamentali:

• il numero di frammenti

• quali sono i pilastri della tibia coinvolti (mediale, laterale o posteriore)

• il piano di allineamento dei monconi della frattura (frontale, sagittale o trasverso)

• l’eventuale presenza di una frattura peroneale • se vi è un’estensione intra-articolare della frattura • se vi è un’estensione diafisaria della frattura

• la presenza di un eventuale accorciamento del segmento osseo • se vi è compressione metafisaria

• se vi è compressione della superficie articolare (centrale o anteriore) • la possibile presenza di split semplice (sagittale o coronale)

• l’eventuale distacco del tubercolo anteriore laterale dal pilastro laterale della tibia (la cosiddetta frattura di Tillaux-Chaput)

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• l’eventuale distacco del malleolo mediale dal pilastro mediale della tibia

• l’eventuale distacco del malleolo posteriore di Destot dal pilastro posteriore della tibia

• se vi è aria nei tessuti molli.

La ricostruzione tridimensionale mediante post-processing delle acquisizioni TC risulta di grande aiuto e permette un’analisi più precisa della frattura; essa può essere fatta o con ricostruzioni multiplanari in cui il chirurgo può scegliere il piano di osservazione preferito (assiale, sagittale, trasversale, obliquo), oppure con tecniche Volume-rendering (Figura 8) che permettono la visualizzazione in tre dimensioni delle superfici coinvolte18.

FIGURA 8:RICOSTRUZIONE TRIDIMENSIONALE VOLUME-RENDERING DI FRATTURE DELLE DIAFISI E METAFISI DI TIBIA E PERONE IN UN POLITRAUMA

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Capitolo 3: Approccio terapeutico alle fratture di pilone tibiale

3.1 Il problema della scelta della tecnica chirurgica

Le fratture del pilone tibiale sono fratture particolarmente severe, per le quali non si può sperare di ottenere una buona guarigione con un semplice intervento conservativo di immobilizzazione in apparecchio gessato ma richiedono necessariamente un intervento di osteosintesi, ossia un intervento chirurgico mediante il quale si riducono (uniscono) e rendono stabili i frammenti ossei attraverso mezzi metallici. Presentano inoltre una oggettiva difficoltà di trattamento imputabile all’assenza di inserzioni muscolari in loco, alla vascolarizzazione terminale della regione e al frequente interessamento delle parti molli e della superficie articolare18.

L’osteosintesi (in gergo fissazione) può essere esterna o interna. L’osteosintesi esterna prevede l’utilizzo di fissatori esterni e ha il vantaggio di essere un intervento molto rapido e soprattutto versatile in quanto può essere utilizzato anche in caso di gravi fratture esposte o in caso di gravi lesioni cutanee, nelle quali vi è un alto rischio di infezione a seguito dell’esposizione chirurgica della frattura (che nell’osteosintesi esterna viene evitata). L’osteosintesi interna può essere divisa in osteosintesi a cielo chiuso o aperto a seconda del fatto che il focolaio di frattura venga più o meno esposto. L’osteosintesi interna a cielo chiuso non prevede l’esposizione del focolaio chirurgico e si realizza mediante l’uso di chiodi endomidollari; l’osteosintesi interna a cielo aperto invece prevede l’esposizione del focolaio chirurgico e si realizza perlopiù mediante l’ausilio di placche e viti24.

Per quanto riguarda le fratture del pilone tibiale, negli anni ’80,’90 numerose pubblicazioni scientifiche suggerivano e consigliavano una stabilizzazione primaria della frattura mediante una osteosintesi esterna più o meno coadiuvata da una fissazione interna limitata (i cosiddetti “fissatori ibridi”). Ciò era dovuto al fatto che nell’utilizzo della tecnica di riduzione a cielo aperto e fissazione interna (la cosiddetta Open Reduction and Internal Fixation, ORIF, ossia un’osteosintesi interna a cielo aperto) erano state riscontrate numerose complicazioni di tipo infettivo3,25-30. Tuttavia,

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sebbene la fissazione esterna o ibrida abbia dimostrato possedere effettivamente un tasso di complicanze infettive significativamente ridotto, molti studi scientifici sembrano dimostrare che questa tecnica non sia altrettanto efficace nell’ottenere un livello di riduzione anatomica e di raggiungimento di una fissazione stabile analogo a quello ottenuto con la tecnica ORIF; sono state inoltre riportate anche nell’esecuzione della fissazione esterna complicanze di altro tipo, quali la perdita di riduzione dei frammenti ossei o la loro non unione, l’infezione o danni neurovascolari o tendinei all’inserimento di fili di Kirschner percutanei e anche casi di artrite settica secondari alla perforazione della capsula articolare31,32. Per questo motivo oggi giorno questo tipo

di tecniche di osteosintesi esterna sono meno utilizzate.

Il tasso di complicanze infettive nella tecnica ORIF è stato successivamente abbattuto grazie all’approccio a due stadi che è oggi molto utilizzato: secondo questo approccio non andiamo subito a trattare definitivamente la frattura una volta avvenuto il trauma, ma eseguiamo un intervento provvisorio di fissazione esterna che induca il ristabilimento della lunghezza corretta dell’arto, la riduzione della risposta infiammatoria, il miglioramento del drenaggio venoso locale, la guarigione dei tessuti molli lesionati e solo in seguito, dopo un periodo di tempo che va dai 7 ai 24 giorni, quando ormai l’edema successivo al trauma si è significativamente ridotto e le eventuali aree necrotiche sono ormai nettamente demarcate, tratteremo definitivamente la frattura con tecnica ORIF. L’approccio a due stadi permette inoltre la mobilizzazione precoce del paziente e un miglior planning preoperatorio (prima di procedere all’intervento definitivo si ha infatti tempo per indagini radiologiche aggiuntive in modo tale da permetterci di studiare più approfonditamente il caso)18,33,34.

Per il trattamento definitivo con tecnica ORIF sono state descritte due finestre chirurgiche ottimali al fine di diminuire il tasso di complicazioni: una entro 6 ore, la seconda tra i 6 e 12 giorni dall’evento. La scelta del tempo di intervento e della finestra chirurgica, come precedentemente detto, avverrà in base alle condizioni dei tessuti molli35. Nel caso in cui l’intervento definitivo venga posticipato oltre le due settimane dal trauma può risultare impossibile ottenere un adeguato allungamento della frattura;

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sono state sperimentate diverse tecniche al fine di ottenere suddetto allungamento anche in questi casi, che sono associate tuttavia a un maggior tasso di complicanze infettive36.

Le fratture di pilone tibiale infine non possono essere trattate con la tecnica del chiodo endomidollare in quanto non si ha spazio disponibile nel frammento distale della tibia per l’impianto delle viti bloccanti necessarie al fissaggio del chiodo. Può essere comunque utilizzata per fratture della metafisi distale della tibia più prossimali, che non rientrano però per definizione tra le fratture di pilone tibiale18.

3.2 Management terapeutico

Nel momento in cui il paziente raggiunge il Pronto Soccorso, l’arto lesionato andrebbe stabilizzato prima delle indagini di imaging per evitare che i tessuti molli possano essere danneggiati ulteriormente; ciò può essere facilmente ottenuto con una stecca gessata radiotrasparente.

Una volta eseguite le indagini radiologiche possiamo trovarci di fronte a tre diverse scenari. Nel primo scenario possiamo direttamente operare il paziente con tecnica ORIF; questo scenario è tuttavia improbabile si verifichi a causa del fatto che lo stato dei tessuti molli e la necessità di ulteriori approfondimenti con imaging e di un adeguato planning preoperatorio impediscono perlopiù al chirurgo di operare immediatamente. Ciò fa sì che generalmente in questo scenario ricadano unicamente alcune fratture di tipo 43-A (cioè extra-articolari), le quali possono essere trattate in alcuni casi con tecniche miniinvasive. Nondimeno, nella maggior parte dei casi, anche le fratture 43-A ricadono in un secondo scenario, nel quale risulta necessario immobilizzare tutta la gamba con un apparecchio gessato e posticipare l’intervento chirurgico a quando si sarà ristabilito uno stato dei tessuti molli che permetta l’operazione chirurgica. Nel terzo scenario, molto frequente, il paziente ha subito un trauma ad alta energia e necessita di una stabilizzazione mediante un fissatore esterno a ponte della caviglia in attesa dell’intervento definitivo.

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È stato descritto in aggiunta all’intervento di stabilizzazione provvisoria della caviglia mediante fissatore esterno la possibilità di eseguire una ORIF concomitante della fibula in caso essa sia fratturata; ciò dovrebbe favorire la riduzione dei frammenti anterolaterali e rendere più semplice nella ORIF definitiva successiva la ricostruzione della superficie articolare37. È stato visto tuttavia che la fissazione del perone rimane

difficile da ottenere nel primo stadio e una sua riduzione imperfetta possa complicare l’intervento di ORIF definitivo. La presenza inoltre di un perone mobile durante la ricostruzione delle fratture del pilone potrebbe risultare anzi vantaggiosa. Si ricorda infine che l’esecuzione di un’incisione laterale o posterolaterale per eseguire l’ORIF del perone durante il primo stadio pregiudicherà la possibilità di un intervento definitivo nel secondo stadio con approccio anterolaterale (proprio a causa della persistenza dell’incisione dell’intervento precedente). Per i suddetti motivi si preferisce rimandare al secondo stadio anche la fissazione della frattura di perone18.

3.3 Accessi chirurgici per le fratture di pilone tibiale

Gli accessi chirurgici alle strutture della caviglia e del piede sono generalmente anteriori; le ossa e le articolazioni che vengono esplorate sono superficiali, se non addirittura sottocutanee. Oltre alle complicanze legate alle tecniche chirurgiche stesse, la più frequente complicanza nelle fratture di piede e di caviglia in generale è una scarsa guarigione della ferita; proprio per questo motivo, è importante valutare preventivamente la circolazione e la sensibilità della regione, in quanto un piede ischemico o neuropatico presenteranno una rimarginazione delle ferite scarsa e possono rappresentare una controindicazione alla chirurgia. La guarigione delle ferite è inoltre correlata anche allo spessore dei lembi cutanei: è importante infatti tagliare lembi cutanei più spessi possibile in modo da evitare retrazioni forzate. Difatti più una incisione è lunga più verrà richiesto un minor sforzo nella retrazione dei lembi per ottenere un’esposizione chirurgica di pari grado; le incisioni più lunghe sono pertanto spesso più sicure di quelle brevi, in quanto i due lembi risulteranno essere più affiancati e rimargineranno più facilmente38.

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26 3.3.1 Approcci anteriore e anteromediale alla caviglia

L’accesso chirurgico anteriore alla caviglia è ottimo per operare l’artrodesi della caviglia, ma può essere usato anche per la riduzione a cielo aperto e la fissazione interna (ORIF) di fratture comminute di pilone tibiale. Per questo tipo di accesso, si posiziona il paziente supino sul lettino operatorio. Si rende il piede il più possibile esangue tenendolo sollevato per 3-5 minuti o mettendo un bendaggio compressivo e dopodiché si applica uno stretto tourniquet; il campo parzialmente esangue permette di identificare il fascio vascolonervoso grazie alle strutture venose che appariranno blu. Nonostante queste procedure è comunque possibile si verifichi un certo stillicidio di sangue. L’incisione viene iniziata circa 10 cm distalmente all’articolazione e si estende prossimalmente in modo tale che attraversi la caviglia nel punto di mezzo tra i due malleoli e finisca sul dorso del piede, ottenendo così un’incisione longitudinale di circa 15 cm. Si deve fare molta attenzione a incidere unicamente la pelle, in quanto il fascio vascolonervoso anteriore e rami del nervo peroniero superficiale attraversano la caviglia nelle strette vicinanze della linea d’incisione. In modo alternativo, si può fare un’incisione longitudinale sempre di 15 cm spostata medialmente in modo tale che incroci la faccia anteriore del malleolo mediale; quest’ultimo è chiamato anche accesso antero-mediale (Figura 9).

FIGURA 9:ACCESSO CHIRURGICO ANTEROMEDIALE ALLA CAVIGLIA (HOPPENFELD S,DE BOER P,BUCKLEY R.SURGICAL EXPOSURE IN ORTHOPAEDICS:THE ANATOMIC APPROACH.PHILADELPHIA:LIPPINCOTT WILLIAMS &WILKINS)

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Sebbene questo tipo di incisione non sfrutti in realtà nessun vero e proprio piano internervoso (ossia un piano posto tra muscoli serviti da nervi periferici differenti, presentando pertanto un minor rischio di denervazione dei muscoli incisi), si viene a delineare un chiaro piano intermuscolare tra i muscoli estensore lungo dell’alluce e estensore lungo delle dita, entrambi serviti dal nervo peroniero profondo (Figura 10); questo piano può essere comunque usato in quanto entrambi i muscoli vengono ben innervati prossimalmente rispetto al livello dell’incisione. Continuando a seguire la linea dell’incisione cutanea, si procede con la dissezione della fascia profonda della gamba aprendo un varco attraverso il retinacolo degli estensori. Si identificano quindi il piano intermuscolare sopra citato e il fascio vascolonervoso (costituito dall’arteria tibiale anteriore e dal nervo peroniero profondo) che si trova appena medialmente al tendine dell’estensore lungo dell’alluce e distalmente lo incrocia passandovi al di dietro e portandosi sul davanti dell’articolazione tibioastragalica. I tendini dei muscoli estensore lungo dell’alluce e estensore lungo delle dita risultano già mobili dopo l’incisione del retinacolo degli estensori; il fascio vascolonervoso richiede invece un’operazione di mobilizzazione. Si divarica quindi l’incisione retraendo lateralmente il tendine dell’estensore lungo delle dita e medialmente il tendine dell’estensore lungo dell’alluce e il fascio vascolo nervoso. Nel caso si sia optato per l’incisione spostata più medialmente, per esporre la superficie tibiale si incide la fascia profonda della tibia lungo il lato mediale del muscolo tibiale anteriore.

FIGURA 10:MUSCOLI ESTENSORI NELL’ACCESSO CHIRURGICO ANTERIORE ALLA CAVIGLIA (HOPPENFELD S,DE BOER P, BUCKLEY R.SURGICAL EXPOSURE IN ORTHOPAEDICS:THE ANATOMIC APPROACH.PHILADELPHIA:LIPPINCOTT WILLIAMS &

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Nella dissezione chirurgica profonda bisogna sempre prestare attenzione a preservare il più possibile i punti di attacco dei tessuti molli all’osso; occorrono pertanto meticolosi planning preoperatori e incisioni molto precise per ridurre al minimo il danno ai tessuti molli. Questo accesso chirurgico può essere esteso prossimalmente per esporre le strutture del compartimento anteriore della gamba sfruttando il piano tra la tibia e il muscolo tibiale anteriore38.

3.3.2 Approccio anterolaterale alla caviglia

L’accesso chirurgico anterolaterale oltre a permettere l’esposizione dell’articolazione della caviglia, permette l’esposizione anche delle articolazioni talo-navicolare, calcaneo-cuboidale e talo-calcaneale. Si posiziona il paziente supino sul tavolo operatorio, ponendo al di sotto della natica dello stesso lato della caviglia affetta un cuscino di posizionamento al fine di far ruotare la gamba verso l’interno e portare il malleolo laterale verso l’avanti. Si rende esangue l’arto elevandolo per 3-5 minuti o applicando un bendaggio compressivo e dopodiché si applica il tourniquet. Si inizia l’incisione 5 cm prossimalmente alla caviglia, 2 cm anteriormente al bordo anteriore del perone; si continua quindi l’incisione verso il basso descrivendo una leggera curva e incrociando l’articolazione della caviglia 2 cm medialmente rispetto all’apice del malleolo laterale e terminando circa 2 cm medialmente alla base del quinto metatarso (sopra la base del quarto metatarso), per una lunghezza totale di circa 15 cm (Figura 11). Il piano internervoso utilizzato in questo accesso è quello che giace tra i muscoli peronieri, innervati dal nervo peroniero superficiale, e i muscoli estensori, innervati dal nervo peronieri profondo. Si incide quindi la fascia profonda della gamba e si aprono i retinacoli superiore e inferiore degli estensori, stando attenti a identificare e non sezionare gli eventuali rami cutanei dorsali del nervo peroniero superficiale che possono attraversare il campo di dissezione. Si identificano i muscoli peroneo anteriore ed estensore lungo delle dita e, nella metà superiore della ferita, si incide lateralmente ad essi fino all’osso. Si ritrae la muscolatura estensoria medialmente per esporre la faccia anteriore della tibia distale e la capsula anteriore della caviglia. Si può proseguire al caso con la dissezione chirurgica profonda più distalmente per esporre le

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articolazioni calcaneo-cuboidale e talo-navicolare. Il rischio maggiore in questo tipo di accesso è quello di dissezionare il nervo peroneo profondo e l’arteria tibiale anteriore che passano al davanti della caviglia; per prevenire questo rischio si deve cercare di condurre la dissezione il più possibile vicino all’osso. L’incisione può essere estesa prossimalmente per esplorare il compartimento anteriore della gamba o distalmente per esporre la metà laterale dell’articolazione tarso-metatarsale38.

FIGURA 11:LINEA D'INCISIONE DELL'ACCESSO ANTEROLATERALE ALLA CAVIGLIA (HOPPENFELD S,DE BOER P,BUCKLEY R. SURGICAL EXPOSURE IN ORTHOPAEDICS:THE ANATOMIC APPROACH.PHILADELPHIA:LIPPINCOTT WILLIAMS &WILKINS) 3.3.3 Approccio mediale alla caviglia

L’accesso mediale (Figura 12) permette di raggiungere la porzione mediale della caviglia, il malleolo mediale e il margine posteriore della tibia. Per eseguirlo, in primo luogo si posiziona il paziente supino sul letto operatorio. Si rende esangue l’arto tenendolo

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sollevato per 5 minuti o applicando un bendaggio, dopodiché si applica un tourniquet. Di norma si ha una rotazione spontanea della gamba verso l’esterno che rende il malleolo mediale ben esposto, rendendo non necessarie ulteriori manovre. Si fa quindi un’incisione di circa 10 cm, longitudinale alla gamba, che a livello centrale si porta dietro l’apice del malleolo mediale e al di sotto di esso descrive una curva a concavità anteriore portandosi sul lato mediale del piede. Per questo tipo di accesso chirurgico non viene sfruttato nessun tipo di piano internervoso; l’approccio rimane comunque sicuro in quanto a questo livello la tibia è subito al di sotto della cute. Si mobilizzano i lembi cutanei, prestando attenzione a non danneggiare la grande safena e il nervo safeno, cosa comunque difficile in quanto decorrono insieme lungo il bordo anteriore del malleolo mediale. Si procede quindi con la dissezione profonda dei tessuti incidendo longitudinalmente il retinacolo dei muscoli flessori dietro il malleolo mediale, si identifica il tendine del muscolo tibiale posteriore, situato subito posteriormente al malleolo mediale, e lo si ritrae anteriormente esponendo così la superficie posteriore del malleolo38.

FIGURA 12:ACCESSO CHIRURGICO MEDIALE ALLA CAVIGLIA (HOPPENFELD S,DE BOER P,BUCKLEY R.SURGICAL EXPOSURE IN ORTHOPAEDICS:THE ANATOMIC APPROACH.PHILADELPHIA:LIPPINCOTT WILLIAMS &WILKINS)

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31 3.3.4 Approccio laterale alla caviglia

L’accesso laterale della caviglia viene utilizzato soprattutto per l’osteosintesi interna a cielo aperto del malleolo laterale e della diafisi della fibula, ma può essere sfruttato anche per accedere alla porzione posterolaterale della tibia. Si posiziona il paziente supino sul letto operatorio con un cuscino al di sotto della natica dell’arto da operare in modo che quest’ultimo ruoti verso l’interno esponendo così il malleolo laterale (rotazione che può essere ulteriormente accentuata inclinando il letto operatorio). Operare a lato del paziente comporta un ottimo accesso alla tibia distale; questa posizione del chirurgo rende tuttavia difficoltoso l’accesso al malleolo mediale, rendendola un’opzione poco utile nel trattamento delle fratture di pilone tibiale. Si rende l’arto esangue sollevandolo per 3-5 minuti, dopodiché si applica un tourniquet; è buona norma identificare prima di queste operazioni la piccola safena, che decorre lungo il bordo posteriore del malleolo laterale. Si fa un’incisione longitudinale di 10-15 cm lungo il margine posteriore del perone, proseguendo di circa 2 cm oltre il suo termine (Figura 13).

FIGURA 13:LINEA D’INCISIONE DELL’ACCESSO LATERALE ALLA CAVIGLIA (HOPPENFELD S,DE BOER P,BUCKLEY R.SURGICAL EXPOSURE IN ORTHOPAEDICS:THE ANATOMIC APPROACH.PHILADELPHIA:LIPPINCOTT WILLIAMS &WILKINS)

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Anche in questo caso, non vengono sfruttati piani internervosi essendo l’osso a questo livello subito al di sotto della cute. Nel caso si estenda questa incisione prossimalmente si sfrutta invece il piano internervoso tra i muscoli peronieri (innervati dal nervo peroniero superficiale) e i muscoli flessori (innervati dal nervo tibiale); l’incisione può essere anche estesa distalmente descrivendo una curva a concavità anteriore e portandosi così lungo il margine laterale del piede. Si mobilizzano quindi i lembi cutanei facendo attenzione a non danneggiare la piccola vena safena e il nervo surale; in caso di lesioni al nervo surale si può avere la formazione di un doloroso neurinoma oltre che la perdita della sensibilità cutanea a livello della porzione laterale del piede. Si incide longitudinalmente il periostio a livello della superficie sottocutanea e lo si porta via per esporre il sito di frattura; bisogna fare attenzione a che queste incisioni non danneggino i rami terminali dell’arteria peroniera, che si trova appunto nelle vicinanze del malleolo laterale, e a rimuovere meno periostio possibile, in quanto la sua rimozione comporta una riduzione di apporto ematico all’osso. Un danno ai rami terminali dell’arteria peroniera inoltre può comportare la formazione di un ematoma dopo la rimozione del tourniquet; è buona norma pertanto togliere il tourniquet prima di chiudere la ferita chirurgica in modo di assicurarsi che vi sia una perfetta emostasi38.

3.3.5 Approccio posterolaterale alla caviglia

L’accesso postero-laterale è l’accesso che permette la migliore visualizzazione nel trattamento delle fratture del malleolo posteriore di tibia. Poiché tuttavia questo tipo di approccio prevede che il paziente sia posizionato prono sul letto operatorio, non può essere utilizzato nel caso in cui debbano essere trattati allo stesso tempo la fibula e il malleolo mediale; in questo caso sarà infatti preferibile utilizzare nell’intervento due accessi: un acceso mediale e un accesso laterale, e tramite quest’ultimo accedere alla porzione posteriore della caviglia. Il paziente viene posizionato prono sul letto operatorio e, come per tutti gli accessi per i quali si utilizzi la posizione prona del paziente, risulta utile posizionare dei cuscini longitudinali al di sotto della pelvi e del petto in modo tale da permettere i normali movimenti per la respirazione. Si può inoltre posizionare un cuscino al di sotto della caviglia in modo che essa possa essere

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facilmente estesa durante l’operazione. Il dissanguamento si ottiene elevando l’arto per 3-5 minuti o applicando un bendaggio compressivo; dopodiché si applica il tourniquet. Si esegue un’incisione longitudinale di circa 10 cm a metà tra il bordo posteriore del malleolo laterale e il bordo laterale del tendine di Achille cominciando all’altezza dell’apice del malleolo laterale e proseguendo prossimalmente (Figura 14). In questo tipo di accesso chirurgico si sfrutta un piano internervoso che giace tra il muscolo peroniero breve, innervato dal nervo peroniero superficiale, e il muscolo flessore lungo dell’alluce, innervato dal nervo tibiale. Si mobilizzano quindi i lembi cutanei; il nervo surale e la piccola safena decorrono subito al di dietro del malleolo laterale, pertanto dovrebbero trovarsi anteriormente all’incisione. Si incide quindi la fascia profonda della gamba seguendo la linea d’incisione. Si identificano i tendini dei muscoli peroniero breve e del peroniero lungo, si mobilizzano incidendo il retinacolo dei peronieri e si retraggono entrambi anteriormente e lateralmente esponendo così il muscolo flessore lungo dell’alluce. Per aumentare l’esposizione dell’incisione chirurgica, si fa un’incisione longitudinale tra le fibre laterali del flessore lungo dell’alluce subito alla loro origine dalla fibula. Si retrae quindi il flessore lungo dell’alluce medialmente per esporre la tibia posteriormente38.

FIGURA 14:LINEA D'INCISIONE DELL'ACCESSO POSTEROLATERALE ALLA CAVIGLIA (HOPPENFELD S,DE BOER P,BUCKLEY R. SURGICAL EXPOSURE IN ORTHOPAEDICS:THE ANATOMIC APPROACH.PHILADELPHIA:LIPPINCOTT WILLIAMS &WILKINS)

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34 3.3.6 Approccio “estendibile” alla caviglia

Esiste un ultimo tipo di accesso chirurgico, descritto nel 200733, che permette tramite un’unica incisione di accedere sia al pilastro mediale della tibia che a quello laterale, risultando pertanto molto utile nelle fratture di pilone tibiale particolarmente complesse; questo tipo di accesso viene chiamato in inglese exstensile approach, che possiamo tradurre come “accesso estendibile”. Il paziente è posto supino sul letto operatorio e si allestisce un campo sterile per tutta la lunghezza dell’arto (dalle dita del piede fino al livello a cui applicheremo il tourniquet). Il dissanguamento deve essere ottenuto unicamente tramite la sollevazione dell’arto per 3-5 minuti, non tramite bendaggi compressivi; dopodiché si applica il tourniquet. Si inizia l’incisione 1 cm circa al di sotto della punta del malleolo mediale, si procede quindi trasversalmente fino ad arrivare poco più a lato del punto di mezzo della caviglia e, descrivendo un angolo ottuso di circa 105-110° (non un angolo retto) si prosegue prossimalmente, 10 mm lateralmente alla cresta tibiale, di modo che l’incisione si trovi lateralmente al tendine del muscolo tibiale anteriore (Figura 15).

FIGURA 15:LINEA D’INCISIONE DELL’ACCESSO ESTENDIBILE ALLA CAVIGLIA (ASSAL M,RAY A,STERN R.THE EXTENSILE APPROACH FOR THE OPERATIVE TREATMENT OF HIGH-ENERGY PILON FRACTURES: SURGICAL TECHNIQUE AND SOFT-TISSUE

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In genere la porzione verticale dell’incisione misura circa 15 cm, ma può essere estesa a piacimento del chirurgo. Nel caso in cui si voglia garantire un accesso migliore al pilastro laterale della tibia, l’incisione può essere spostata più lateralmente. Si preferisce usare lame di bisturi precise (per esempio n° 15) nel momento in cui si incide l’angolo di 105-110° per far sì che l’incisione rimanga perfettamente perpendicolare alla cute e per evitare di raschiare i tessuti. Si prosegue con la dissezione del tessuto sottocutaneo lungo la linea di incisione e si solleva il lembo supero-lateralea tutto spessore. Si incide quindi il retinacolo degli estensori tentando di non ledere il tendine del muscolo tibiale anteriore subito al di sotto (cosa non sempre possibile in quanto la sua guaina è intimamente connessa col retinacolo) e si apre lo spazio al di sotto retraendo il lembo infero-mediale medialmente in modo atraumatico (usando suture con fili di nylon, non tramite forcipi) e il tendine del muscolo tibiale anteriore lateralmente. Si incide quindi la capsula articolare longitudinalmente e si espone il talo18.

3.4 Interventi chirurgici

3.4.1 La fissazione esterna come intervento provvisorio nel pilone tibiale

L’utilizzo di fissatori esterni nel campo delle fratture di pilone tibiale può avere diverse finalità; generalmente vengono utilizzati per ottenere una stabilizzazione provvisoria della frattura in attesa che le condizioni dei tessuti molli permettano un intervento definitivo sicuro.

FIGURA 16:FISSATORE ESTERNO CON CONFIGURAZIONE A DELTA (BIBLE JE,MIR HR.EXTERNAL FIXATION:PRINCIPLES AND APPLICATIONS.THE JOURNAL OF THE AMERICAN ACADEMY OF ORTHOPAEDIC SURGEONS 2015;23(11):683-90)

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In un intervento di fissazione esterna provvisoria della caviglia si cerca tendenzialmente di ottenere una cornice di fissazione esterna il più semplice possibile e di posizionare i chiodi in lontananza dal sito in cui verrà eseguito l’intervento definitivo. Ciò viene perlopiù ottenuto mediante un fissatore esterno a ponte tibio-calcaneale, con due viti prossimali posizionate sulla diafisi tibiale antero-medialmente e una vite (o fiche) distale transcalcaneale collegate tra loro mediante barre laterali e mediali quasi a formare una lettera delta greca maiuscola (Figura 16). L’utilizzo di una vite transcalcaneale, ossia che attraversa entrambi i lati del calcagno, rispetto a una vite semplice garantisce una migliore stabilità e riduzione della frattura. Questa vite deve essere inserita distalmente e posteriormente rispetto al fascio vascolonervoso tibiale; l’area più sicura dove inserire la fiche ha forma triangolare ed è racchiusa dalla metà posteriore di una linea immaginaria che congiunge il margine postero-inferiore del calcagno al margine infero-mediale del malleolo mediale e dal terzo posteriore di una linea che partendo sempre dal margine postero-inferiore del calcagno arriva alla tuberosità navicolare (Figura 17); questa finestra di sicurezza è molto piccola e nonostante questo rimane il rischio di danneggiare il nervo calcaneare mediale e il nervo plantare laterale: proprio per questo risulta conveniente operare una dissezione per via smussa fino all’osso per scongiurarne il danno. L’inserzione delle viti lungo l’ampia superficie sottocutanea della tibia è invece relativamente sicura in quanto i grandi fasci neurovascolari decorrono tutti posteriormente alla diafisi.

FIGURA 17:AREA DI SICUREZZA PER LA VITE TRANSCALCANEALE (BIBLE JE,MIR HR.EXTERNAL FIXATION:PRINCIPLES AND APPLICATIONS.THE JOURNAL OF THE AMERICAN ACADEMY OF ORTHOPAEDIC SURGEONS 2015;23(11):683-90)

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A fine intervento, per assicurare un’ulteriore stabilità alla caviglia e per prevenire l’equinismo si può confezionare una stecca gessata posteriore o, in alternativa, posizionare medialmente altre viti sul collo del talo, sui cuneiformi o sulla base del primo metatarso o lateralmente sul cuboide o sulla base del quinto metatarso. Si raccomanda inoltre di far sì che i morsetti siano posizionati abbastanza lontani dal sito di frattura e dall’articolazione della caviglia in modo da non complicare le indagini radiologiche. L’obbiettivo della fissazione esterna provvisoria è di ristabilire la lunghezza del segmento osseo e riposizionare l’astragalo al di sotto dell’asse della tibia secondo i piani frontale e sagittale18,39.

3.4.2 La fissazione esterna come intervento definitivo nel pilone tibiale

Talvolta la fissazione esterna, da sola o accompagnata da una fissazione interna limitata, può essere invece sfruttata nelle fratture di pilone tibiale come intervento definitivo. Si decide di ricorrere a quest’opzione in particolar modo nei casi di fratture esposte, comminute, con esteso coinvolgimento dei tessuti molli o nel caso in cui si abbia un’estesa rima di frattura obliqua a livello della diafisi tibiale che potrebbe comportare notevoli difficoltà di riduzione al momento dell’intervento definitivo (che appunto verrebbe eseguito dai 7 ai 21 giorni dopo). L’utilizzo di questa tecnica permette di ridurre il rischio di complicanze infettive a breve e medio termine; rimane tuttavia discussa e non accettata da tutta la comunità scientifica la tesi secondo cui la fissazione esterna, con o senza fissazione interna limitata, utilizzata come trattamento definitivo sia in grado di assicurare dei risultati analoghi a quelli ottenuti con tecnica ORIF, ossia con la riduzione a cielo aperto e fissazione interna, e gli studi a riguardo non hanno dato al momento risultati univoci.

Nel caso in cui si decida di utilizzare unicamente il fissatore esterno per il trattamento definitivo di una frattura di pilone tibiale, si dovrà procedere come descritto per l’intervento di stabilizzazione provvisoria della caviglia. A causa tuttavia del fatto che in questo caso il fissatore esterno può garantirmi una stabilità solo relativa, dovremo aspettarci la formazione di un callo osseo, dovuto a una guarigione ossea secondaria.

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Per quanto riguarda la tecnica di fissazione esterna con fissazione interna limitata (Figura 18), si inizia posizionando il paziente supino sul tavolo operatorio con l’arto da operare poggiato su un supporto radiotrasparente ai fini di facilitare le indagini radiologiche; in caso sia presente una trazione transcheletrica si rimuove. In prima istanza si provvede a stabilizzare il perone in modo da ristabilire la lunghezza dell’arto e di fornire un sostegno laterale che prevenga la deformazione della frattura in valgo o in varo; questa prima osteosintesi di minima viene generalmente ottenuta tramite uno o due fili di Kirschner inseriti dall’apice del malleolo laterale in senso disto-prossimale. Dopodiché, se necessario, si procede alla riduzione della superficie articolare: nella maggior parte dei casi è sufficiente una semplice riduzione a cielo chiuso; in caso di grave comminuzione e affondamento della superficie articolare si usa una leva per ridurre il decalage (ossia la dislocazione rotatoria) della superficie articolare. A questo punto si prosegue con una sintesi di minima della frattura di tibia tramite viti cannulate che vengono posizionate parallelamente alla superficie articolare in modo tale operare una maggiore osteosintesi del frammento di Tillaux e del frammento posteriore ove presenti.

FIGURA 18:FRATTURA DI PILONE TRATTATA CON OSTEOSINTESI ESTERNA E INTERNA LIMITATA (PIPER KJ,WON HY,ELLIS AM.HYBRID EXTERNAL FIXATION IN COMPLEX TIBIAL PLATEAU AND PLAFOND FRACTURES: AN AUSTRALIAN AUDIT OF

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Si procede quindi con il montaggio del fissatore esterno; descriveremo qui di seguito le procedure per il montaggio nella fattispecie del fissatore esterno HOFFMAN II (STRYKER) nella sua versione ibrida TENXOR, che è quello utilizzato negli interventi di stabilizzazione definitiva con fissatore esterno nei casi del nostro studio. Questo tipo di fissatore si compone di un anello semicircolare in carbonio posizionato a livello dell’epifisi a cui è connessa per mezzo di morsetti d’acciaio e fili di Kirschner in tensione e di una struttura modulare che collega l’anello alle fiches poste sulla diafisi tibiale. Si posizionano i fili di Kirschner, generalmente 3, paralleli alla superficie articolare e distanti l’uno dall’altro di 1 cm, la cui funzione è quella di creare una griglia di supporto per l’osso subcondrale della superficie articolare: il primo filo è inserito a livello della fibula in senso postero-anteriore e latero-mediale con un’inclinazione di circa 45°; il secondo si introduce nella porzione antero-laterale della tibia con un’inclinazione di 60° rispetto al precedente; il terzo si inserisce dietro il perone con direzione latero-mediale seguendo una ideale bisettrice dell’angolo formato dai due fili precedenti. Dopo essersi accertati della corretta posizione dei fili di Kirschner mediante fluoroscopia, si connettono i fili all’anello di carbonio mediante speciali morsetti; si aggiustano i morsetti in altezza di modo che l’anello sia parallelo alla superficie articolare, si mettono in tensione fino a 100 kg i fili di Kirschner e si bloccano. In casi particolari in cui la frattura è particolarmente scomposta, si può applicare a ogni filo di Kirschner un’oliva al fine di esercitare una trazione sui diversi frammenti della frattura. Si posizionano quindi manualmente sotto guida radiografica tre fiches di 5 mm di diametro e 10 mm di lunghezza sulla faccia antero-mediale della diafisi tibiale, mediante piccole incisioni cutanee e guide per le fiches a protezione dei tessuti molli. Si assemblano le barre di carbonio del fissatore che vengono strette solo dopo che la frattura è stata ridotta.

La struttura geometrica del fissatore può essere perfezionata a seconda del tipo di frattura; generalmente si costruisce un triangolo simmetrico rispetto all’asse tibiale (Figura 19). Nel caso in cui i controlli radiografici a fissatore installato mostrino

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