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La ricchezza illecita tra profili sanzionatori e capacita contributiva

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA

Corso di Laurea in Giurisprudenza

Tesi di Laurea Magistrale

LA RICCHEZZA ILLECITA TRA PROFILI

SANZIONATORI E CAPACITÀ CONTRIBUTIVA

Il Candidato:

Martina Puglisi

Il Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa E. Venafro

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Alla mia famiglia, a chi non potrà condividere con me questo momento, ai miei maestri, a D.

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INDICE

Introduzione………I Capitolo I:

LE PREMESSE STORICHE DELLA TASSAZIONE DEI PROVENTI ILLECITI

1. Le cattive abitudini della I Repubblica……… ……...1 1.1. Tangentopoli a Milano……….1 1.2. Non solo a Milano. “Fiamme sporche”………...11 2. La “nuova” Tangentopoli ed evoluzione della corruttela…………..15 3. Costi ed effetti delle tangenti e reazione dell’ordinamento…………19 3.1. Costi morali e sociali…………..………19 3.2. Costi economici: incidenza sul PIL e sulla crescita economica del Paese……….26

Capitolo II:

UNO SGUARDO OLTRE I CONFINI: ANALISI COMPARATISTICA

1. Premessa ………..………30

Sezione I: L’imposizione tributaria sui profitti illeciti nel panorama europeo………...…..………31

1. I proventi illeciti e nell’ambito della direttiva 77/338/CEE……….31 2. Imponibilità sui frutti dell’illecito al vaglio della Corte di Giustizia Europea: tra ipotesi di esclusione……….35 3. … E revirement della CGUE ………..38

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4. Focus sulla giurisprudenza: critiche ed osservazioni della

dottrina……...42

Sezione II: La disciplina della ricchezza illecita negli ordinamenti di Spagna, Germania e Stati Uniti………45

1. L’imposizione fiscale sui proventi illeciti nell’ordinamento Spagnolo……….………..45

1.1. Il dibattito dottrinale…………...47

1.2. La soluzione giurisprudenziale………...48

1.3. Profili di criticità………...54

2. La risposta dell’ordinamento tedesco alla questione dei proventi illeciti………58

3. Il trattamento dei fruits of crime nell’ordinamento statunitense………...63

Capitolo III: LA RICCHEZZA ILLECITA NELL’ORDINAMENTO ITALIANO: DISCIPLINA E PROFILI APPLICATIVI Sezione I: La disciplina dei proventi illeciti………….……….72

1. La tassazione della ricchezza illecita: una visione storica……..…...72

2. La tassazione dei proventi illeciti prima della tassazione. Soluzioni pretorie……….76

3. L’intervento normativo: atto, fatto, attività e natura dell’illecito…...83

3.1. (Segue)…L’impresa illecita………...85

3.1.2. L’impresa illecita e l’impresa mafiosa: tentativi di differenziazione………92

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4. L’elemento positivo della fattispecie: la riconducibilità del reddito tra

le categorie del T.U.I.R………..……….103

5. L’elemento negativo della disciplina: i provvedimenti ablatori penali e la perdita del possesso del reddito……….………...107

6. Innovazione o interpretazione?...111

7. Il legislatore interprete………....114

8. L’accertamento dei proventi illeciti………....118

Sezione II: Il regime dei costi illeciti………...122

1. Le soluzioni della prassi al vuoto normativo………..……….122

2. L’intervento legislativo del 2002 tra (poche) luci e (molte) ombre………..125

2.1. Le questioni di incostituzionalità……….…130

3. Le operazioni di “chirurgia normativa” del 2012 ………..…….…131

4. Le ricadute sul regime delle fatture per operazioni inesistenti…...143

Sezione III: Profili applicativi della tassazione dei proventi illeciti………..150

1.L’imposizione tributaria sui redditi derivanti dalla prostituzione…150 1.1. Dibattito sull’imponibilità del meretricio e la posizione fiscale dello sfruttatore………150

1.2. Attività di meretricio, categorie reddituali e difficoltà di accertamento……….…..153

2. La tassabilità delle tangenti……….154

2.1. I profili inerenti alla indeducibilità dei costi……….157

3. La tassazione dei proventi del reato di usura e i rapporti con la confisca penale………...158

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Capitolo IV:

PUNTI DI CONTATTO TRA MATERIA PENALE E TRIBUTARIA: UN CRINALE DI DIFFICILE COMPOSIZIONE

Sezione I: I rapporti tra processo penale e tributario……….163

1. Obblighi di comunicazione reciproci tra autorità giudiziaria ed amministrazione finanziaria………...163 2. Gli intricati rapporti tra processo penale e tributario…………...…168 3. L’utilizzabilità degli elementi di prova raccolti in sede penale all’interno del processo tributario………...169 4. Gli effetti del provvedimento del giudice penale e del patteggiamento………..……….173

Sezione II: Proventi illeciti e (presunti) obblighi dichiarativi……….176

1. Considerazioni preliminari……….176 2. Brevi cenni sul reato di omessa dichiarazione………177 3. L’omessa dichiarazione dei proventi illeciti………178

Conclusioni……….I Bibliografia……….I

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I

Introduzione

La trattazione che seguirà ha lo scopo precipuo di esporre la disciplina della ricchezza illecita, un tema che assume sempre più rilevanza negli ultimi anni, dal momento che la globalizzazione ha favorito la mobilità di persone, capitali, beni e servizi. Questo scenario economico sociale diviene terreno fertile per la nascita e lo sviluppo della criminalità economica1 che sfrutta l’estrema mobilità che caratterizza il sistema degli scambi per poter incrementare i propri profitti. Essa, galvanizzata dal fiorire degli scambi economici, ha sempre più preso piede cogliendo anche la possibilità di far perdere le tracce degli illeciti, tramite operazioni finanziarie di natura transnazionale, che permettono alla criminalità economica, non solo di autofinanziarsi, ma anche di poter ripulire il denaro sporco derivante dalla commissione di reati. Questo fenomeno ha posto i legislatori di tutte le nazioni dinanzi alla necessità di adottare degli strumenti idonei per poterlo arginare. A tal proposito sono stati realizzati degli interventi per impedire il riciclaggio, anche tramite la recente introduzione del reato di autoriciclaggio2; sono state inoltre sfruttate le potenzialità degli strumenti ablatori di natura penale.

Il problema della ricchezza illecita, tuttavia, non è confinato al solo diritto penale, ma interessa anche il diritto tributario. La dottrina e la giurisprudenza, infatti, per lungo tempo si sono poste l’interrogativo di quale fosse il regime fiscale di tali ricchezze, se ve ne fosse uno. Ed invero, nelle pagine che seguono verranno ripercorsi questi dibattiti che non sono stati sopiti neppure dall’intervento del legislatore. Quest’ultimo a partire dal 1993 - anno in cui è stato introdotta la legge

1 AA. VV., L'impresa illecita. Profili tributari e contrasto patrimoniale, in Teoria e

pratica del diritto, Giuffrè Editore, Torino, 2015, pag. XI; P. GRABOSKY, The prevention and control of economic crime, in Corruption and Anti – corruption, a cura di P. LARMOUR, N. WOLANIN, ANU Press, 2013.

2 Introdotto con l’art. 3 della l. n. 186/2015, che ha inserito all’interno del codice

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II

537/1993 - ha mostrato sempre più interesse al tema della rilevanza tributaria dei proventi illeciti.

Tuttavia, nonostante l’intervento di normazione, sono rimaste delle incertezze e delle problematiche che il legislatore ha tentato di risolvere tramite una modifica del regime previgente.

V’è da dire che la materia risulta affetta da molti profili di complessità e criticità che la rendono delicata nei suoi contatti con la disciplina penalistica. Infatti, come si vedrà, è in quest’ultimo versante che si palesano le maggiori difficoltà, dal momento che si tratta di conciliare due branche del diritto, profondamente diverse tra loro per struttura e finalità, vale a dire il diritto tributario ed il diritto penale. Il primo è volto a garantire all’Erario che tutti i contribuenti partecipino alla spesa pubblica secondo un principio solidaristico improntato sulla capacità contributiva. Il secondo, invece si presenta come un Giano bifronte che tutela la collettività dalla lesione di beni giuridici rilevanti, nonché il reo dalla forza dello Stato che, se non regolamentata, potrebbe schiacciarlo. Le due discipline si incontrano nel momento in cui il diritto tributario si serve della sua ancella prediletta per sanzionare coloro che, pur essendo tenuti alla contribuzione, vi si sottraggono. Tuttavia in questo incontro tra mondi diversi si generano profonde fratture di difficile composizione. In questo lavoro si cercherà di far emergere queste complessità per poterne dare, se possibile, una soluzione conforme ai principi che improntano il nostro sistema giuridico.

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1

Capitolo I

LE PREMESSE STORICHE DELLA TASSAZIONE DEI

PROVENTI ILLECITI

SOMMARIO:

1. Le cattive abitudini della I Repubblica - 1.1. Tangentopoli a Milano - 1.2. Non solo a Milano. “Fiamme sporche” - 2. La “nuova” Tangentopoli ed evoluzione della corruttela - 3. Costi ed effetti delle tangenti e reazione dell’ordinamento - 3.1. Costi morali e sociali - 3.2. Costi economici: incidenza sul PIL e sulla crescita economica del Paese.

“Tutti sanno che gran parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. Non credo ci sia nessuno in quest'aula, sia esso responsabile politico o di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo, perchè, presto o tardi, i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”

Bettino Craxi

1. Le “cattive abitudini” della I Repubblica… 1.1 Tangentopoli a Milano

La premessa storica della disciplina della tassazione dei proventi illeciti, risiede nello scandalo di Tangentopoli che ha segnato la storia del nostro Paese. Il fenomeno in questione ha posto i cittadini italiani e la giustizia dinanzi ad un malcostume oramai noto ma taciuto: quello della tangente. Quest’ultimo è un “vizio capitale” che l’Italia si trascina da tempo immemore: già dai primi anni dell’unità d’Italia emersero i primi scandali caratterizzati da stretti intrecci tra politica e imprenditoria1. Questo rapporto simbiotico si è protratto, in maniera

1 Basti pensare ai casi delle Ferrovie Meridionali e allo scandalo della Banca

Romana. Nel primo caso, avvenuto subito dopo l’annessione al Regno d’Italia del Regno di Napoli, il Ministro delle Finanze Bastogi, aveva ceduto i lavori per la costruzione delle ferrovie meridionali ad una impresa privata con contributo immediato di 20 milioni di lire, cui si aggiungeva una sovvenzione annua pari a 29

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talvolta sotterranea, nel corso della storia italiana e non accenna a terminare: Mani Pulite è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, il caso più evidente che ha disvelato all’opinione pubblica qualcosa di assodato, certo. Un noto costruttore italiano, Vincenzo Lodigiani2, ha ricostruito lo scenario di corruttela nel nostro Paese3 affermando che negli anni 50’- 60’, fino a che le elargizioni ai partiti venivano effettuate da Confindustria e da giganti dell’energia, le imprese erano immuni dalla corruzione. Tuttavia le risorse economiche di cui la politica aveva bisogno aumentavano a dismisura4 e i flussi di danaro provenienti da Confindustria erano sempre più insufficienti: per questa ragione il sistema partitico cominciò a rivolgersi a quella parte di imprenditoria intenzionata a far affari nell’ambito delle opere pubbliche. Difatti tutte le imprese, che desideravano partecipare ad una gara d’appalto, avrebbero dovuto dare un corrispettivo direttamente ai vertici dei partiti, i quali, dal canto loro, avrebbero garantito che nessuna sorta di ostruzione sarebbe stata fatta a dette imprese. Questo sistema, però, non teneva conto di una magistratura indipendente che aveva già il sentore di questo “mercimonio della cosa pubblica” e conseguentemente si era adoperata nelle indagini. Tuttavia a questo primo fervore investigativo non seguiva una reazione sociale adeguata: l’impressione del quivis de populo era quella di ritenerle mere irregolarità, delle beghe di palazzo che non potevano interessare il comune cittadino.

milioni di lire (fino al 1869) poi ridotta a 20 milioni di lire. La compagnia era riuscita ad ottenere un pagamento di 210 mila lire per km subappaltando ad altra impresa per 198 km. Questa manovra truffaldina vedeva coinvolto lo stesso Ministro delle Finanze che fu costretto a dimettersi. Il caso della Banca Romana si colloca nel 1893 e vede l’intreccio di politica e banche le quali sovvenzionavano occultamente i partiti nascondendo le poste tramite cambiali intestate a nullatenenti per pochi spiccioli. Tali cambiali erano inserite nel bilancio come poste inesigibili.

2 Presidente di una delle più importanti imprese di costruzioni italiane.

3 AA. VV., Il prezzo della tangente, la corruzione come sistema a dieci anni da

“mani pulite” a cura di G. FORTI, Vita e pensiero, Milano, 2003 pag.14.

4 Come afferma Bettino Craxi in un suo scritto (Io parlo e continuerò a parlare, a

cura di A. SPIRI, Mondadori, Milano, 2016) i partiti politici si trovavano a far fronte ad ingenti spese per poter portare avanti i loro programmi: dai periodici, ai volantini, dalle conferenze, ai manifesti. Questi costi non potevano essere affrontati con i canali di finanziamento istituzionali.

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3

Le prime inchieste sulla corruzione venivano spesso insabbiate e i politici corrotti si rifugiavano in Parlamento dietro lo schermo dell’immunità parlamentare. Un esempio può essere fornito dal caso di Antonio Natali5, esponente socialista e presidente della Metropolitana di Milano (primo ideatore nella divisione delle tangenti), arrestato nel 1985. A seguito della sua detenzione, tutto il partito di appartenenza manifestò solidarietà nei suoi confronti nonché notevole sgomento per l’accaduto, tant’è che lo stesso Bettino Craxi chiese ed ottenne una autorizzazione per poter fargli visita in carcere al fine di discutere talune questioni di partito. Pochi giorni dopo, venne liberato e dopo qualche anno venne eletto al Senato della Repubblica, il che gli valse l’immunità parlamentare e gli consentì di “tenere a bada” le toghe.

Visti tali precedenti, cui l’opinione pubblica aveva dato poco seguito, ci si potrebbe chiedere, però, perché lo scandalo di Tangentopoli ebbe tanta risonanza se la corruttela era abbastanza nota. Forse perché, in quell’occasione, la corruzione aveva assunto delle dimensioni immani, aveva coinvolto l’intera politica oltre che l’imprenditoria, e, forse, era il coinvolgimento della prima ad aver “risvegliato” le coscienze dei cittadini e della magistratura: non era un singolo politico ad essere corrotto, bensì un intero sistema; non qualche mela marcia ma un intero “raccolto”.

Il fatto storico da cui tutto traeva inizio appariva isolato, molto simile ai precedenti, quasi un caso di routine per la magistratura: un piccolo imprenditore, titolare di un’impresa di pulizie, aveva denunciato, alla Procura di Milano, Mario Chiesa, presidente del Pio albergo Trivulzio, per la richiesta continua di tangenti al fine di mantenere l’appalto. Da questa denuncia cominciò una delle inchieste più grandi della storia della giustizia italiana. La Procura di Milano aveva scoperto l’esistenza in banche svizzere, di numerosi conti

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4

miliardari che incastravano Chiesa, il quale, dopo un mese in carcere in custodia cautelare, cominciò a confessare giacché era stato oramai tradito dai suoi compagni di partito (che ne prendevano le distanze) e dagli imprenditori che erano oramai stanchi delle sue continue ed incessanti richieste di danaro. A seguito delle rivelazioni del Presidente del Pio Trivulzio si capì che, quello che apparentemente sembrava un caso singolo, era un sistema ben strutturato nei minimi dettagli e che coinvolgeva un’intera classe politica, un’intera amministrazione nonché tutta l’imprenditoria; erano coinvolte imprese di interesse nazionale come la Montedison, l’Eni e tante altre.

Si era creato un sistema perverso di rapporti che vedeva intrecciati la Pubblica Amministrazione, la politica e l’imprenditoria: soggetti diversi accomunati da un minimo comune denominatore ossia la tangente. Come spiega Antonio Di Pietro in un’intervista il meccanismo era molto semplice e funzionava in tal modo: “quando si

tratta di gestire appalti o di fare le nomine, si passa sempre attraverso l’imprenditore di riferimento e tramite questi attraverso le segreterie di partito, prima ancora di arrivare agli organi istituzionali, agli assessorati e così via. Le segreterie di partito, insomma, sono le chiavi di lettura di questo sistema”6. Le segreterie del partito erano, quindi, il

motore da cui partiva il complesso sistema di tangenti. Ma il fenomeno emerso con l’arresto di Mario Chiesa era già stato intuito da Antonio di Pietro. Quest’ultimo, infatti, giunto a Milano da poco tempo, si trovò a discutere con un imprenditore, la cui impresa non era mai decollata a causa delle correlazioni anomale che si erano instaurate, il quale gli svelò il meccanismo del do ut des che caratterizzava il sistema degli appalti milanesi (e non solo). Dunque, quando il magistrato si trovò ad occuparsi di Mani Pulite, ebbe a che fare con una situazione a lui non del tutto ignota poiché si trovò ad indagare su casi simili: basti pensare

6 Cit. A. DI PIETRO, Intervista su Tangentopoli, a cura di G. VALENTINI, Editori

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allo scandalo della Lombardia Informatica, oppure al caso delle “patenti facili”. Erano tutti casi che avevano acceso una spia sul fenomeno in questione e che gli avevano permesso di ricostruire qualche tassello del grande mosaico che si sarebbe di lì a poco svelato. L’indagine su questi fatti di corruzione non aveva però ottenuto un risultato soddisfacente, erano dei fuochi destinati a spegnersi.

Di Pietro sentì parlare per la prima volta di Mario Chiesa nel ’87, come egli stesso afferma: “ne sento parlare per la prima volta

nel’87. Poi, un paio di anni dopo, il giornalista Nino Leoni scrive un articolo sul <<Giorno>> in cui denuncia l’esistenza di una lobby del ‘caro estinto’”7. Sostanzialmente nel caso in questione i funerali degli

anziani che alloggiavano al Pio Trivulzio erano affidati sempre alla medesima ditta di pompe funebri.

Quando il presidente del Pio Trivulzio venne arrestato, il pool investigativo non aveva ancora intuito la portata del caso. Infatti lo stesso procuratore della Repubblica Borrelli non riusciva a capire quale fosse il motivo di tanto fermento in ambito politico, giacché egli riteneva che il caso si sarebbe chiuso con un processo per direttissima8;

lo stesso Borrelli aveva chiesto a Di Pietro di depositare gli atti per avviare il rito speciale nei confronti di Chiesa. Tuttavia il magistrato, per intuizione investigativa, non depositò gli atti nei termini previsti per legge, difatti afferma: “non fu un errore, chiaramente non fu un

errore. Oggi posso ammettere di aver sbagliato apposta. […] Il mancato deposito fu un atto volontario. […] ricorro ad un espediente tecnico che però la legge mi consente”9. Ebbene la forzatura di Di

Pietro fu fondamentale per lo sviluppo delle indagini, con una frettolosa conclusione della vicenda giudiziaria di Chiesa forse non

7 A. DI PIETRO, op.cit., pag. 11. 8 A. DI PIETRO, op. cit., pag.4. 9 A. DI PIETRO, op.cit., pag. 14.

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sarebbe mai emerso il sistema che si sarebbe di lì a poco scoperto; Chiesa era solo la punta dell’iceberg.

Vi è da chiedersi, che reazione ebbe la politica dinanzi a questi accadimenti. Dopo l’arresto del presidente del Pio Trivulzio, Bettino Craxi lo definì un “mariuolo isolato”10, a voler sottolineare la sua

estraneità, nonché quella del partito di appartenenza (il Partito Socialista) da questo sistema. Ma via, via che Chiesa confessava, appariva sempre meno certa la lontananza della politica dal fenomeno della corruttela, ed aumentava in maniera esponenziale il numero dei politici coinvolti e le autorizzazioni a procedere nei loro confronti. Giova all’uopo, da quest’ultimo punto di vista, menzionare come sia stata di vitale importanza, per il pool, la modifica dell’articolo 68 della Costituzione con legge costituzionale n.3 del 1993. Quest’ultimo, nella versione previgente, recitava:

I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura. Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile.

Quindi, secondo la norma costituzionale previgente, per poter procedere penalmente contro un membro del parlamento, era necessaria l’autorizzazione della Camera di appartenenza, la quale doveva pervenire entro un termine prestabilito di giorni. In assenza di

10 G. COLOMBO, Lettera a un figlio su Mani Pulite, Garzanti, Milano, 2015, pag.

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autorizzazione, oppure nel caso in cui la stessa fosse stata concessa in un termine diverso da quello previsto per legge, l’attività svolta si sarebbe dovuta arrestare. Un meccanismo siffatto penalizzava notevolmente le indagini che potevano essere compromesse in maniera irrimediabile, rischiando anche ostruzionismi da parte del potere politico. Invece con la riforma del 1993 modifica in tal modo la norma costituzionale:

I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza.

Dalla lettura della norma vigente, si nota ictu oculi come sia meno restrittiva per le esigenze investigative: mentre in precedenza l’autorizzazione era necessaria per avviare un procedimento penale, adesso è richiesta per alcuni atti che sono suscettibili di incidere sulle libertà costituzionalmente garantite. Questo potrebbe suscitare qualche polemica sulla richiesta di autorizzazione in merito alla perquisizione in quanto viene meno l’effetto sorpresa dell’atto stesso, ma non è questa la sede per poterne discutere. Il pregio della riforma consiste, è giusto ribadirlo, nel non paralizzare l’avvio del procedimento penale.

Ritornando alla spiegazione del sistema corruttivo milanese, gli indagati adducevano come spiegazione delle tangenti il fatto che esse

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andassero a confluire nelle casse dei partiti, ma veniva riscontrato come una buona parte invece rimanesse nelle mani di chi le raccoglieva.

Alla base della spartizione della torta vi era un “tariffario” ben delineato; l’importo della tangente variava dal 3% al 13,5% a seconda della difficoltà del lavoro. Le elargizioni venivano raccolte mediante un sistema piramidale per il quale si partiva dai subappaltatori per poi giungere ad un unico imprenditore che riceveva il danaro raccolto dai gradini più piccoli della piramide, il quale consegnava tutto a un solo politico. Quest’ultimo poi distribuiva le somme ai partiti principali dell’allora scena politica, secondo delle percentuali prefissate11. In

particolare12 il sistema politico divideva le tangenti in quattro parti: una parte andava alla DC, un’altra al PSI, un’altra ancora al pentapartito che dominava una determinata zona ed infine una parte al PCI sotto forma di lavoro alle Cooperative che erano sotto l’influenza del partito medesimo. A titolo esemplificativo si riporta la divisione delle tangenti13 nel caso dell’appalto della metropolitana di Milano in

figura 1.

DIVISIONE DELLE TANGENTI

Figura 1

È interessante sottolineare come alle Cooperative fossero garantiti commesse ed appalti e questo spiega perché, in alcuni casi,

11 G. COLOMBO, op. cit, pagg. 32-33. 12 A. DI PIETRO, op. cit., pag. 70 e ss. 13 G. COLOMBO, op. cit., pag. 33.

37,50% 18,75% 18,75% 17% 8% PSI PCI/PDS DC PS Part. Rep

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non fossero state perseguite penalmente. Formalmente mancava il reato perché ad esse veniva commissionata la realizzazione di un’opera che effettivamente era svolta. Questa realtà delle cd “coop rosse” era stata svelata nel 1993 da Giovanni Donigaglia, responsabile della cooperativa “Argenta s.p.a.”.

Gli imprenditori, che volevano accedere al sistema “tangentizio”, recuperavano la somma di danaro necessaria con fondi neri creati all’interno della contabilità dell’impresa. Il sistema utilizzato dalla Procura per individuare tali fondi consisteva nell’analizzare il fatturato delle imprese coinvolte: le fatture formalmente erano corrette, ma nella sostanza si caratterizzavano per la mancanza del contenuto; ovverosia erano fatture per operazioni inesistenti. Come racconta Di Pietro nell’intervista più volte citata: “se

io vengo a comprare le viti o i bulloni da lei e mi rilascia la fattura, non riesci mai a trovare una fattura che finisce con tutti zeri, pari pari.”14 Era questo un criterio “di fortuna” che tuttavia ha permesso

alla magistratura di scoprire la provenienza dei fondi e di tracciarne il percorso.

Le indagini avevano portato al pool il sostegno della società, anche grazie al rilievo massmediatico della vicenda, poiché si trattava del primo processo trasmesso in televisione. Le telecamere stazionavano all’interno della Procura riprendendo il lavoro dei magistrati, nonché dentro le aule di tribunale durante lo svolgimento del processo. Tuttavia, a questo entusiasmo sociale non corrispondeva una risposta positiva da parte dell’ambiente politico. Infatti a mano a mano che veniva fatta chiarezza sui fatti, il grande lavoro svolto dalla Procura di Milano rischiava di subire una battuta d’arresto con il decreto Conso varato dal governo nel 1993. Quest’ultimo infatti, tra le misure in esso contenute, prevedeva la depenalizzazione del reato di

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finanziamento illecito dei partiti; era una forte presa di posizione del Parlamento e dell’allora Governo che testimoniava il timore dell’evolversi della vicenda che oramai vedeva quasi tutti coinvolti15.

Tuttavia il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, non firmò l’atto che non entrò mai in vigore. Un altro tentativo legislativo di arenare le indagini era costituito dal Decreto Biondi, varato nel ’94, che impediva la custodia cautelare in carcere per taluni reati, quali quelli di corruzione, imponendo la scarcerazione degli indagati già in custodia. Il decreto suscitò l’indignazione del pool che, il 14 luglio fece un comunicato stampa in cui annunciava le dimissioni: “L’odierno

decreto legge a nostro giudizio non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato16. […] Come magistrati, abbiamo applicato e applicheremo le leggi quali che esse siano. […] Tuttavia, quando la legge, per le evidenti disparità di trattamento, contrasta con i sentimenti di giustizia ed equità, diviene molto difficile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia. Abbiamo pertanto informato il procuratore della Repubblica della nostra determinazione a chiedere al più presto l’assegnazione ad altro e diverso incarico”17. L’opinione pubblica

non tardò a mostrare il proprio dissenso nei confronti di questa normativa ingiusta, anche tramite fax di protesta inviate a testate giornalistiche che veicolavano il comune sentire. Sulla scorta di queste reazioni, il decreto venne ritirato ma, nonostante ciò, aveva espletato i suoi effetti sull’indagine.

L’attività investigativa proseguiva e con essa i tentativi posti in essere da detrattori del pool per delegittimarne l’operato, ne sono prova i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati della Procura di

15 Questa consapevolezza è descritta nitidamente dall’affermazione che Bettino Craxi

fece in parlamento riportata all’inizio del capitolo.

16 Poiché si trattava di crimini contro la P.a. era molto più facile occultare ed

inquinare le prove, dunque la custodia cautelare era funzionale ad impedire tali pericula.

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Milano, le ricorrenti ispezioni da parte del Ministero della Giustizia, nonché la diffusione di talune congetture circa la scaturigine delle indagini18. Ad esempio, si vociferava che l’intera inchiesta fosse nata a tavolino allo scopo di spazzare via la classe politica, oppure ancora taluni esponenti del Partito Socialista Italiano asserivano che si trattasse di una vera e propria persecuzione politica nei confronti di quel partito millantando la sussistenza di favoritismi, da parte del pool, nei confronti di altri partiti poco colpiti (uno tra tutti il Partito Comunista). Oppure ancora accuse erano mosse contro Antonio Di Pietro ed in particolare contro il suo modo “poliziesco” di condurre gli interrogatori, ma, in particolare, a suo carico vennero aperti procedimenti penali riguardo alcuni fatti di corruzione. A titolo esemplificativo, si ricordano le accuse a lui mosse da Giancarlo Gorrini19, titolare della Maa Assicurazioni, il quale sosteneva che Di Pietro lo avesse indotto a cedergli una costosissima automobile, nonché a prestargli una ragguardevole somma di danaro senza interessi, ad affidare le pratiche della sua agenzia allo studio Mazzoleni20 e, infine, a coprire i debiti di gioco di Rea. Tali accuse

vennero giudicate infondate dal processo penale ad esse conseguente. Questo non fu l’unico procedimento avviato a carico del magistrato, se ne potrebbero ancora riportare degli altri ma non è questa la sede.

1.2. Non solo Milano. “Fiamme sporche”

Nel prosieguo delle indagini venivano a delinearsi scenari sempre più torbidi che andavano oltre il distretto milanese: le confessioni fornite agli inquirenti mostravano che il sistema si era diffuso in maniera inarrestabile. Come afferma Di Pietro nella sua intervista: “ Nel prosieguo delle indagini sono emersi reati non più

riferibili alla sola area milanese, bensì riferibili ad appalti pubblici (e

18 Cfr. G. COLOMBO, op. cit., pag. 59 e ss. 19 Cfr. DI PIETRO, op. cit., pag. 149 e ss. 20 Appartenente al suocero di Di Pietro.

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più in generale rapporti con la pubblica amministrazione) intervenuti nella regione Lombardia e non solo.[…] Si è altresì potuto constatare che lo stesso metodo di aggiudicazione e gestione degli appalti veniva applicato a contrattazioni riguardanti i lavori sulle strade nazionali e sulle autostrade, la vendita di immobili ad enti pubblici, istituti penitenziari e centrali Enel […] interessando l’intero territorio nazionale”21.

Dunque, ben presto, gli avvisi di garanzia fioccarono in altre parti della Penisola. Giova, tuttavia, fare una digressione. Dopo la confessione di Mario Chiesa numerosi imprenditori si presentarono al Palazzo di Giustizia milanese per confessare; sia Gherardo Colombo che Antonio Di Pietro raccontano nei loro scritti di file lunghissime di persone che aspettavano di essere interrogate e di poter confessare. La confessione permetteva agli imprenditori dei vantaggi non solo processuali ma, e soprattutto, di natura economica, poichè si permetteva all’azienda di rimanere indenne potendo continuare a svolgere la sua attività produttiva evitando la morte economica dell’impresa.

Tuttavia, quando si chiedeva agli imprenditori di parlare dei loro affari al meridione, erano restii nel collaborare, rispondevano: “No, questo non posso dirlo, preferisco la galera”22. Nonostante la

loro reticenza, si era scoperto che la mafia percepiva gli utili delle imprese sotto forma di percentuale al fine di mantenere la pace sociale. In Sicilia la raccolta del danaro presso le aziende non era fatta dal politico e la dazione non avveniva direttamente da parte delle imprese. Di Pietro delinea nella sua intervista il sistema: “quando c’è da fare un

grande appalto nelle zone sottoposte all’influenza della criminalità organizzata e mafiosa, il sistema delle imprese nazionali sa che deve

21 Camera dei Deputati, Domanda di autorizzazione a procedere, doc. IV, n. 402, 3

giugno 1993, pag. 2.

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andare a lavorare in territorio ostile. […] E allora non va a dialogare con il politico, va a trattare con l’associazione di imprese di imprese dove c’è l’imprenditore locale che garantisce la pax”23. La tangente

richiesta veniva in parte data al sistema politico locale (che era espressione del clan mafioso dominante) e in parte alla famiglia mafiosa che dominava il territorio.

Scoperto il sistema di corruzione “alla meridionale” da parte del pool di Milano, cominciò ad operare anche la Procura di Palermo24 che, tuttavia, trovava delle grosse difficoltà nel rendere appetibile la confessione agli imprenditori che operavano in quel territorio. Infatti confessando questi sarebbero andati incontro a una ritorsione da parte dei clan mafiosi e a morte certa. Il pool di Palermo si recò a Milano per poter avere delle informazioni circa il sistema delle tangenti in Sicilia. Dal momento che gli imprenditori non intendevano confessare si giunse ad un accordo investigativo tra i due pool: quello di Milano si sarebbe incaricato dell’onere di interrogare gli imprenditori che avevano degli appalti al Sud, poiché intrattenevano con essi dei rapporti di natura processuale. Ci si potrebbe chiedere perché gli imprenditori avrebbero dovuto svelare tutto solo al pool milanese e non ai componenti della Procura di Palermo. Il motivo risiede nella convenienza, a livello processuale, nell’avere un solo referente, racconta infatti Di Pietro: “appena acquisite le prime notitiae criminis,

avremmo inviato immediatamente gli atti a Palermo, stralciando la posizione processuale degli imprenditori dichiaranti sulla base di un’interpretazione giurisprudenziale elaborata da Davigo: quella della differenza tra ‘connessioni forti’ e ‘connessioni deboli’, in base alla quale la procura che aveva in carico la posizione processuale di

23 Ibidem.

24 Le indagini erano svolte da Gian Carlo Caselli, Roberto Scarpinato, Antonio

Ingroia, Luigi Patronaggio. Cfr. G. BARBACETTO, Mani Pulite, anno zero, in Micromega, 2004.

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un certo inquisito poteva mantenere la giurisdizione su tutte le vicende che lo riguardavano”25.

L’accordo investigativo fu molto fruttuoso per entrambe le Procure perché permise di chiarire molte posizioni incerte, nonché di scoprire il funzionamento del sistema di corruttela. Le imprese coinvolte nel sistema di tangenti erano la Lodigiani, la Cogefar (appartenente al gruppo Fiat), la Calcestruzzi (facente parte del gruppo Ferruzzi), la Grassetto di Salvatore Ligresti e numerose cooperative. Durante il fervore di Mani Pulite, a Palermo si indagava su mafia e appalti e il cui giro d’affari ammontava sui mille miliardi. Su questa grande operazione, denominata “Tavulinu”, vegliava solerte Cosa Nostra. La denominazione dell’affare non era casuale, col termine dialettale tavulinu si indicava un Tavolo a tre gambe, attorno a cui sedevano imprenditori, politici e mafia. A parlarne a Di Pietro fu il colonello dei Ros Mario Mori che aveva stilato nel 91 un rapporto sulla mafia e gli appalti, e da questa informazione la “join venture” tra i due pool ebbe inizio.

L’inchiesta, a fianco al filone milanese e siciliano, si arricchisce di altre vicende quale quella delle c.d. “Fiamme Sporche” 26 .

Nell’aprile 1994 il sottufficiale della Guardia di Finanza, Pietro Di Giovanni, svolse una verifica presso una società e il maresciallo Francesco Nanocchio gli diede una busta contenente dei contanti giustificati come ringraziamento della azienda verificata. Di Giovanni raccontò l’accaduto al suo comandante, il quale lo accompagnò alla Procura per denunciare il fatto; ivi si trovava il Dottor Tito il quale dispose le verifiche opportune. La notte tra il 27 e il 28 aprile venne arrestato il maresciallo Nanocchio e, nella sua abitazione, vennero scoperti 40 milioni in contanti. Nel prosieguo dell’inchiesta emerse che era pratica abbastanza diffusa presso la Guardia di Finanza, ricevere

25 Cit. A. DI PIETRO, op. cit., pag. 52. 26 Cfr. G. COLOMBO, op. cit., pag. 53 e ss.

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dalle imprese controllate tangenti, che poi venivano divise in maniera precisa ai vertici. Vennero arrestati 80 finanzieri ed indagati circa 300 imprenditori; tra le imprese figurava anche la Fininvest.

Il processo terminò con 1408 condanne (comprensivo di patteggiamenti), 790 assoluzioni (dati da aggiornare) e, purtroppo, con suicidi “eccellenti”, quali quelli di Sergio Moroni (parlamentare del Partito Socialista italiano), Gabriele Cagliari (Presidente Eni), Raul Gardini (azionista e manager della Montedison); nonché con la latitanza di Bettino Craxi ad Hamamet.

2. La “nuova” Tangentopoli ed evoluzione della corruttela La fine delle indagini su Mani Pulite non segnò la fine di Tangentopoli poiché la corruzione è ancora oggi un fatto concreto e non un lontano ricordo.

Per comprendere meglio l’evoluzione della corruzione, è utile ricordare qualche dato.

ANDAMENTO DELLA CORRUZIONE DAL 1989 AL 2000

(24)

16

Il grafico in figura 227 mostra l’andamento della corruzione tra il 1989 ed il 1999 e, come si può vedere, il picco di commissione del reato si attesta nel biennio 1993-199528. Nel 2000 invece si attesta una contrazione, i reati denunciati sono circa la metà dell’anno precedente. Le spiegazioni di questo dato possono essere due: o la corruzione non esiste, oppure continua a dilagare in maniera celata tenendo anche conto dell’irrisorio rischio penale. Infatti, in quest’ultimo senso, si considera che la gran parte delle condanne per corruzione/concussione è al risarcimento del danno: secondo le stime ANAC29 su 341 sentenze 30 prese in considerazione, 300 sono di condanna al risarcimento del danno (88%), mentre le altre 41 sono costituite da rigetti di atti di citazione e assoluzioni, come si vede in figura 3. Tra le 300 sentenze di condanna, 239 sono in primo grado e 61 di secondo grado.

SENTENZE PER ESITO PERIODO 2001- 2012.

Figura 3

27 Grafico elaborato, sulla base di dati Istat, da A. DI NICOLA, Dieci anni di

corruzione in Italia: cosa non ha funzionato e cosa può ancora funzionare, in Rapporto sulla criminalità in Italia, a cura di M. BARBAGLI, Bologna, Il Mulino, 2003.

28 Cfr A. DI NICOLA, Dieci anni di corruzione in Italia: cosa non ha funzionato e

cosa può ancora funzionare, pag. 9 e ss.

29 Cfr. ANAC, Corruzione sommersa e corruzione emersa in Italia: modalità di

misurazione ed evidenze empiriche, 2011,

http://www.anticorruzione.it/portal/rest/jcr/repository/collaboration/Digital%20Asset s/anacdocs/Attivita/Pubblicazioni/RapportiStudi/Metodologie-di-misurazione.pdf, ultima consultazione il 25/07/2016.

30 Si tratta di sentenze delle Sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti a partire dal

2001 con esclusione dei casi decisi in camera di consiglio. 88%

12%

Risarc. No risarc.

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17

È interessante, poi, analizzare la percezione sociale della corruzione. Secondo uno studio di Transparency International Italia effettuato nel 201131, sulla base del “Global Corruption Barometer

2010”32 la maggior parte degli italiani percepisce un aumento della

corruzione. I partiti sarebbero l’istituzione maggiormente corrotta sarebbero i partiti, seguiti dal Parlamento e dalle altre istituzioni. Nel 2015, secondo il Corruption perceptions Index33, il nostro Paese, si classifica al 61° posto nel mondo per i livelli di corruzione percepita. I Paesi più virtuosi sono quelli del Nord Europa, come si può vedere dal grafico in figura 4.

Figura 4.

Tuttavia vi è una differenza quantitativa tra reati effettivamente perseguiti e corruzione percepita: l’esiguità dei primi mal si concilia con la vastità della seconda e ciò fa trasparire che la corruzione sia sommersa. Si tratta di una micro corruzione pervasiva e diffusa in tutti

31 Cfr. TRANSPARENCY INTERNATIONAL ITALIA, “NIS Italia, sistemi di

integrità nazionale, 2011, https://www.transparency.it/nis-italia-2011/, pag. 14, ultima consultazione 25/07/2016.

32 Il Global Corruption Barometer, è stato ideato da Transparency International in

collaborazione con Gallup international e consiste in un sondaggio rivolto alla popolazione per verificare i livelli di percezione della corruzione.

33 Cfr. R. RICCIARDI, Corruzione, Italia tra i "cattivi": migliora, ma è 61esima al

mondo, in La Repubblica, 27 gennaio 2016. Il Corruption Perception Index determina l’indice di corruzione nel settore pubblico e nella politica in vari stati del mondo, attribuendo a ciascuna nazione un valore compreso tra 0 (equivale a massima corruzione) a 100 (assenza di corruzione). L’indice si ottiene tramite interviste effettuate ad esponenti della politica e del mondo degli affari. Dunque, rispetto al Global corruption barometer, il campione di intervistati è più selettivo e specifico.

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i settori dell’economia, caratterizzata anche dalla modesta entità della dazione. Secondo un recente rapporto dell’ANAC, tra le 341 sentenze di condanna analizzate, è stato possibile rinvenire in 220 l’entità della dazione. In 11 casi (5%) si tratta di somme inferiori a 1.000 euro, in 60 (27%) casi la dazione è compresa tra i 1.000 ed i 10.000 euro, in 96 (44%) tra i 10.000 ed i 100.000 euro, in 45 (20%) tra i 100.000 ed 1.000.000 di euro, e solo in 8 casi (4%) la somma superava il milione di euro. Altro elemento da analizzare è la distribuzione della somma34: le medie di dazione più elevate riguardano figure dirigenziali all’interno della P.a. e il livello politico; mentre le medie divengono sempre più basse in corrispondenza ai livelli più bassi dell’amministrazione. Interessante è analizzare il settore di più alta incidenza della corruzione/concussione: ai primi posti si collocano gli affari economici, l’istruzione, protezione sociale e sanità, mentre i livelli più bassi riguardano l’ordine pubblico e la sicurezza, laddove si tratta di micro corruzione perpetrati da singoli agenti di polizia.

La corruzione ha subito un notevole cambiamento anche da un altro punto di vista. Come fa notare Alberto Vannucci, in un’intervista per Micromega35, il fenomeno è meno visibile rispetto agli anni di

Mani Pulite, ed ha assunto la connotazione del conflitto di interessi. A favorirlo è stato, secondo Vannucci, il cambiamento dello scenario politico poiché a scendere in campo “per il bene della cosa pubblica” sono stati soggetti non politici, provenienti dall’imprenditoria che hanno trascinato nelle loro decisioni per il Paese l’enorme fardello dei propri interessi privati. Questi ultimi entrano prepotentemente ed inevitabilmente nelle decisioni sull’ amministrazione. In tal modo la corruzione è invisibile perché non vi è una dazione materiale e manifesta tra corrotto e corruttore che, nei fatti, finiscono per coincidere; il problema non è più la “mazzetta” ma il modus operandi

34 Cfr. ANAC, Corruzione sommersa e corruzione emersa in Italia: modalità di

misurazione e prime evidenze empiriche.

35 Cfr. VANNUCCI, Corruzione, il nuovo potere invisibile, in Micromega, 2

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19

della classe dirigente che rende la corruzione un problema culturale più che penale.

3. Costi ed effetti delle tangenti e reazione

dell’ordinamento 3.1 Costi morali e sociali

Afferma Gabrio Forti in un suo contributo: “la tangente è di per

sé il prezzo pagato per corrompere, è, come si legge in un dizionario della lingua italiana, la << quota di denaro versata illegalmente in cambio della concessione di appalti, favori e vantaggi vari>>. […] Solo per i corruttori infatti la tangente è semplicemente un prezzo; per tutti gli altri (ivi compresi coloro che, nel lasciarsi corrompere, pensano di trarne solo profitti personali), la tangente ha avuto ed ha un prezzo altissimo”36. Come emerge chiaramente da questo inciso, la

tangente ha un costo non solo per i soggetti che prendono parte al

pactum sceleris, ma anche per la collettività e, tale costo, non è solo di

natura economica ma anche, e soprattutto, morale.

Concentrando l’attenzione su quest’ultimi, in primo luogo vi è da dire che la corruzione incide negativamente sulla fiducia della collettività nei confronti del sistema politico democratico. Uno dei principi cardine della democrazia è la trasparenza37: in un sistema

democratico gli atti dei governanti, così come la gestione interna dei partiti politici, devono essere conoscibili da parte dei consociati. Il principio di trasparenza non è espressamente previsto dalla Costituzione, ma può desumersi da taluni principi, di natura costituzionale, che riguardano la pubblica amministrazione ed i dipendenti pubblici, quali l’articolo 28 (responsabilità degli impiegati

36 Cit. AA. VV., op.cit., pag. XI.

37 Concetto che sta a cuore al legislatore giacché sempre più frequentemente vengono

adottate normative tese ad incrementare la trasparenza della pubblica amministrazione e delle istituzioni.

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pubblici), 54 (fedeltà allo Stato; obbligo per i funzionari pubblici di adempiere ai propri doveri con diligenza ed onore), 97 (organizzazione della P.a.) ,98 (limitazioni al ruolo di funzionario pubblico). Tuttavia anche il principio di uguaglianza, sancito dall’articolo 3 Cost. reclama a gran voce trasparenza: infatti la corruzione non consente ai cittadini di essere sostanzialmente uguali davanti alla P.a. né di avere pari opportunità38; insomma, per usare le parole del Capo dello Stato, “la

corruzione è un furto di democrazia”39. La trasparenza non deve, però,

solo orientare l’attività della P.a. ma anche quella dei partiti; come mirabilmente fa notare Maria Romana Allegri in un suo contributo40, il principio di trasparenza, è una conseguenza del principio costituzionale sancito dall’articolo 49 Costituzione per il quale: “Tutti i cittadini

hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Dunque, il

“concorrere con metodo democratico” comporta certamente anche un “obbligo” di trasparenza in modo tale da permettere alla popolazione un controllo di quelle organizzazioni cui tutti hanno diritto di partecipare per determinare la politica nazionale; in questo modo può essere attuato pienamente il dettato costituzionale. L’assenza di trasparenza in entrambi i fronti (della P.a. e dei partiti politici) rende sempre meno partecipe il popolo sovrano41 alla gestione della cosa

pubblica e ciò è una delle cause per cui esso se ne disinteressa e tutto ciò segna un’involuzione della democrazia.

In secondo luogo, un’altra conseguenza della corruzione, dal punto di vista morale, risiede nella percezione dei valori da parte dei

38 Cfr. A. PATRONI GRIFFI, Il fondamento costituzionale della legislazione in tema

di trasparenza e lotta alla corruzione: alcune riflessioni, 29 marzo 2016.

39 Così si è espresso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione

della giornata mondiale contro la corruzione. Cfr. M. LUDOVICO, “Corruzione è furto di democrazia”, in Il Sole 24 ore, 10 dicembre 2015.

40 M. R. ALLEGRI, Democrazia, controllo pubblico e trasparenza dei costi della

politica, in Federalismi. It, 4/2014, pag. 1.

41 Secondo l’art. 1, comma 2, della Costituzione spetta al popolo la sovranità, seppur

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21

consociati. In una società caratterizzata da corruzione (in cui essa è dilagante) si ha una considerazione distorta del modo in cui accedere ai “benefici” che lo Stato mette a disposizione dei consociati, nel senso che il cittadino pensa che per poter accedere ad un servizio di cui ha diritto, debba necessariamente dare un corrispettivo extra ordinem alla pubblica amministrazione. In tal modo la corruzione diviene il principale mezzo per approcciarsi ad essa, il che moltiplica il fenomeno in maniera inarrestabile. Ad esempio: Caio deve costruire un centro commerciale e necessita delle autorizzazioni prescritte per legge, se egli sa che l’amministrazione è tendenzialmente corrotta è chiaro che, per ottenere, per ipotesi, una concessione edilizia, sarà portato ad offrire un quantitativo di denaro al funzionario per poterla ottenere. Questo sistema ha degli effetti negativi sull’interiorizzazione dei precetti da parte dei consociati: si crea una situazione di profonda anomia42che induce la collettività a discostarsi dai valori posti dall’ordinamento43. Infatti il termine anomia deriva dal greco “a-nomos” che, letteralmente, vuol dire senza regola. Tuttavia questa

interpretazione letterale non sembrerebbe del tutto calzante con quanto ivi prospettato: nell’ipotesi in esame potrebbe essere più corretto interpretare tale concetto nel senso che le regole, pur essendovi, non vengono ritenute meritevoli di osservanza. Una recente indagine criminologica ha messo alla luce che, nonostante in Italia il tasso di criminalità sia inferiore rispetto a quello di altri stati, la popolazione avverte un profondo senso di insicurezza e paura della criminalità non inferiore rispetto agli stati, che, per contro, hanno livelli di criminalità più elevati. Taluno, come Alvazzi De Frate, ha interpretato questo profondo senso di insicurezza come derivante dalla capillare corruzione che contribuirebbe alla diffidenza del cittadino nei confronti di qualsiasi autorità, e ciò indurrebbe i consociati a

42 La teoria dell’anomia venne elaborata per la prima volta da Durkheim, ma ripresa

successivamente da Merton negli anni ’30.

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delinquere incrementando l’insicurezza della collettività. La corruzione genererebbe anomia poiché le norme sono poste da una classe dirigente che le pone ma poi se ne discosta, e dunque i consociati, constatando la non osservanza delle stesse da parte dei governanti, se ne allontana; il fenomeno della corruzione, in sostanza, minerebbe “l’oggettività delle regole vigenti nel corpo sociale”44. Nonostante

l’insicurezza collettiva derivi dai crimini commessi da chi governa, o riveste comunque un ruolo apicale, la collettività tende a rivolgere il suo sguardo ansioso ed angosciato verso la criminalità comune.

La teoria dell’anomia non pare l’unico modo con sui si potrebbe spiegare la correlazione tra criminalità e corruzione, infatti potrebbe venire in soccorso un'altra teoria, ossia la quella delle

“associazioni differenziali” elaborata da Edwin Sutherland nei primi

anni del ‘900. Tale teoria spiegava i crimini dei colletti bianchi, ossia quelle condotte criminose realizzate da soggetti che rivestono nella società, posizioni apicali; si tratta di individui ben integrati nella società che pongono in essere reati, tendenzialmente contro il patrimonio, abusando della fiducia, in loro, riposta dalla collettività. Secondo lo studioso americano, il comportamento criminale si apprende tramite il contatto con altri individui: così come la lingua, anche il crimine viene appreso attraverso il relazionarsi degli uomini tra loro: “Secondo la teoria delle associazioni differenziali, il

comportamento criminale è appreso a contatto con individui che definiscono tale comportamento favorevolmente e in isolamento da altri individui che di esso danno una definizione sfavorevole; nelle condizioni adatte, una certa persona tiene un comportamento criminale solo se le definizioni favorevoli prevalgono su quelle sfavorevoli” 45 . Nonostante questa elaborazione si riferisca

espressamente ai crimini dei colletti bianchi, ciò non implica che non

44 AA. VV. op. cit., pag. 127.

45 Cit. E. SUTHERLAND, White collar crimes, Dryden Press, New York, 1949, pag.

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possa essere utilizzata per spiegare la devianza in generale, e d’altronde lo stesso Sutherland non lo esclude. Dunque, la teoria in questione spiega il comportamento criminale tanto dei colletti bianchi, quanto della “criminalità comune”. Nel caso della corruzione, essa diviene comportamento diffuso ed imperante giacché la dazione illecita non è, di certo, una condotta vista con disfavore né nella pubblica amministrazione, né in talune istituzioni, e, quindi, nel momento in cui il cittadino si trova in contatto con tali ambienti, “apprende” la condotta criminosa e la pone in essere. Ma, questo modello teorico può venire in aiuto per descrivere l’atteggiamento di chi commette tali reati: infatti dagli autori dei medesimi, non sono ritenuti atti illeciti, bensì mere irregolarità, un atteggiamento spregiudicato, sintomo di intraprendenza negli affari, che non impedisce loro di considerarsi fedeli osservatori della legge. Si instaura, e, in questo modo, una doppia morale, in questo senso è emblematico l’aneddoto che lo stesso Sutherland racconta nella sua opera. Un magnate delle ferrovie, trovandosi con altri 16 presidenti di società ferroviarie, dichiarò: “nutro il massimo rispetto per lor signori

come persone, ma come Presidente delle Ferrovie non vi affiderei un attimo il mio orologio”.

Italo Calvino in un suo intervento per il quotidiano La Repubblica, riferendosi ai rapporti tra P.a. e imprenditoria, fece notare: “Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato

da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale non escludeva una superiore legalità sostanziale”46. Il comportamento che possiamo definire criminale

46 I. CALVINO, Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, in La Repubblica, 15

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viene “spacciato” per irregolarità o addirittura per bene comune, collettivo, superiore ed antecedente agli obiettivi personali.

In sintesi, si potrebbe, quindi, asserire che dal punto di vista sociale la corruzione spinge al crimine per due ordini di ragioni:

1. Perché si crea uno stato di anomia imperante che allontana il cittadino dal rispetto delle regole inducendolo al crimine in quanto la corruttela della classe governante delegittima le norme agli occhi della società;

2. Perché il comportamento deviante di chi governa viene appreso e poi fatto proprio dalla collettività, che, quindi assimila un disvalore.

Ma può il diritto penale addossare sulle sue spalle il peso della corruzione? Come accennato poche pagine addietro, molti, tra cui uno dei principali attori di Mani Pulite47, sostengono che il diritto penale da solo non è in grado di affrontare questo dilagante fenomeno; la repressione non è bastevole in sé, è necessario affrontare il problema da un punto di vista culturale e preventivo. Come ha affermato Sergio Mattarella, in occasione della giornata nazionale contro la corruzione, “occorre rafforzare l’azione educativa, a partire dalle famiglie, dalle

scuole, dai corpi intermedi. Così cresce e si rafforza la democrazia”48.

In tal modo il problema si sposta dalla repressione alla prevenzione e si può prevenire solo educando alla trasparenza e alla liceità. La fatica del diritto penale emerge in tutta la sua chiarezza de iure condito e de

iure condendo. Dal primo punto di vista le difficoltà nella repressione

emergono giacchè il diritto penale, riguardoso del principio di tassatività, si mostra ingessato e inadatto ad abbracciare il fenomeno corruttivo nella sua vastità e multiformità. La tipicità, in campo penale, pretende una fattispecie determinata e precisa nella individuazione del

47 Si fa riferimento a Piercamillo Davigo che, in talune interviste, ha spesso

sottolineato la necessità di trattare la corruzione dal punto di vista culturale.

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tipo criminoso che mal si concilia, o meglio non si concilia affatto, con le molteplici sfaccettature che il fenomeno corruttivo assume; in questo senso la battaglia della repressione è ex ante persa. De iure condendo, invece, il diritto penale, questa volta processuale, manifesta la sua ineffettività poiché sono noti a tutti i tempi (abbastanza lunghi da essere quasi biblici) della giustizia italiana oramai al collasso. Questa situazione favorisce l’azione della tanto temuta prescrizione che abbatte la sua scure sulla vicenda corruttiva sì da non lasciarne traccia, ed esentando gli autori dalle prescritte pene. Per far fronte a queste esigenze, il presidente Pd della commissione giustizia a Montecitorio, nel corso del 2016, ha proposto in Parlamento la necessità di allungare i tempi di prescrizione del reato de quo49, in conformità alle

prescrizioni derivanti dall’Unione Europea. Tuttavia, talune forze politiche si sono opposte fermamente affinché la proposta venisse eliminata in Senato; alla fine della querelle politica, si è giunti ad un testo normativo, di futura approvazione, che prevede un “mini” aumento di tre anni della prescrizione del reato di corruzione. Quindi, come prevenire il fenomeno? Come suggerisce Piercamillo Davigo in un’intervista: “Il punto non è aumentare le pene; è scoprire i reati.

Anche con operazioni sotto copertura, come si fa con i trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti a offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta”50. Poiché manca una soluzione alternativa al diritto penale, è la giurisprudenza a farsi carico delle inadeguatezze normative e ciò è quanto successo durante le indagini di Mani Pulite. La natura endemica e sistemica della corruzione rendeva inadeguata la fattispecie di corruzione del codice penale e ciò indusse il pool a “plasmare” una nuova categoria di corruzione, la corruzione sistemica. Tali straripamenti giudiziari, che

49 Cfr. L. MILELLA, Prescrizione, ecco la nuova mossa del governo. Tempi più

lunghi ma non per la corruzione, in La Repubblica, 15 aprile 2016.

50 A. CAZZULLO, Davigo: << I politici continuano a rubare ma non si vergognano

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nuocciono al principio di legalità, di determinatezza e tassatività, sono frutto di situazioni contingenti di emergenza che richiedono una pronta risposta della giustizia; tuttavia essi rappresentano un rimedio, un palliativo, alla questione e non la soluzione.

3.2. Costi economici: incidenza sul PIL e sulla crescita economica del Paese

“Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso

bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non, diciamo, a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo, la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza di atto di forza, con cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto, la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta”51.

La citazione di Italo Calvino mette in evidenza l’altra conseguenza della corruzione, questa volta, di natura economica: come si è già affermato precedentemente52, essa ha dei costi incidendo negativamente sul bilancio pubblico di uno Stato e sulla crescita economica. Partendo da una visione “mondiale”, il Fondo Monetario Internazionale ha, di recente, tentato di effettuare una stima, seppur molto approssimativa, circa l’impatto della corruzione sul PIL

51 I. CALVINO, op. cit. 52 Si rinvia al paragrafo 3.1.

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mondiale ed essa risulta incidere sul PIL mondiale del 2%. Questa è la conseguenza principale della corruzione, ma ve ne sono altre di natura indiretta sulla spesa pubblica, quale l’aumento del costo delle opere pubbliche: infatti, in otto paesi europei (tra cui l’Italia) tale costo è aumentato del 13%53.

Volgendo, invece, lo sguardo al nostro Paese, la Corte dei Conti ha stimato, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 2012, che la corruzione costa allo Stato 60 miliardi54, riduce gli investimenti stranieri del 16% ad ogni aumento del livello di essa, il tutto, poi si riversa negativamente sul PIL. Infatti la corruzione ha un costo pro-capite pari a 200 € per cittadino55; in particolare, il fenomeno brucia 10

mld del PIL (circa il 4%) ogni anno, con una perdita di 100 mld del PIL in 10 anni56. Oltre all’incidenza sul PIL nazionale, appare utile menzionare le ripercussioni sulla crescita delle imprese italiane: le aziende che operano in un contesto corrotto crescono il 25% in meno rispetto ad imprese che operano in un ambiente di tendenziale legalità e tra di esse, quelle che crescono meno sono di dimensioni medio-piccole, le quali registrano un tasso di vendite inferiore al 40% rispetto ad aziende che operano in un luogo (quasi) privo di corruzione57. Per la

Banca Mondiale un contrasto efficace ed efficiente alla corruzione, comporterebbe un aumento del reddito superiore al 2,4% annuo, le imprese potrebbero crescere del 3% annuo58.

53 L. PAGNI, La corruzione? Vale più del 2 per cento del PIL mondiale, in La

repubblica, 11 maggio 2016.

54 Cfr. ANAC, Corruzione sommersa e corruzione emersa in Italia: modalità di

misurazione e prime evidenze empiriche.

55 Cfr. L. SPADARO, in Forexinfo.it, 30 ottobre 2015, https://www.forexinfo.it/Italia-quanto-e-come-incide-la, ultima consultazione 27/07/2016.

56 Cfr. Tangenti expo: la corruzione toglie all’Italia 10 miliardi di PIL all’anno e

riduce del 16% gli investimenti esteri nel Paese, in Borse. It,13 maggio 2014,

http://redazione.borse.it/2014/05/13/tangenti-expo-la-corruzione-toglie-allitalia-10-miliardi-di-pil-allanno-e-riduce-del-16-gli-investimenti-esteri-nel-paese/, ultima consultazione 27/07/2016.

57 Ibidem.

(36)

28

A fronte di questi dati è necessario individuare le misure che l’ordinamento appronta per recuperare il mal tolto.

Un ruolo fondamentale è rivestito, sicuramente, dalla confisca, e dalle altre misure ablatorie previste dalla legge penale; a fianco troviamo il risarcimento del danno patrimoniale alla Pubblica Amministrazione; ed infine la tassazione dei proventi illeciti. Quest’ultima, filo conduttore ed argomento principale di tale trattazione, nasce all’indomani di Mani Pulite. Infatti, allora come adesso, si percepiva che la corruzione comportasse un depauperamento dello Stato, il che ricevette conferma dalle stime effettuate dall’economista Mario Deaglio nel 1992 per La Stampa. Come affermava quest’ultimo: “Si possono valutare in 5-6000 miliardi di lire

le tangenti sulla spesa pubblica del 1992 e nell’ordine di grandezza di 10 000 miliardi l’insieme delle risorse finanziarie complessivamente affluite in forma tangentizia […]”59. In particolare60:

• 10 mld di lire annui di costi per i cittadini;

• Un indebitamento pubblico tra i 15 e i 25 mld di lire; • Nel 1992 il rapporto debito/ PIL superava il 105%.

Tali parametri erano ben lontani da quelli sanciti da Maastricht per entrare a far parte della “zona euro” e la nostra condizione rendeva poco appetibile per gli investitori l’impiego dei loro capitali in Italia; infatti la società Moody’s declassò il rating del nostro Paese ad AA261 .

In un contesto quasi da default, urgevano degli interventi strutturali per poter dare una svolta alla nostra economia ed in questo scenario si trovò ad operare il Governo Amato. In un primo momento, precisamente la notte del 10 luglio del 1992, venne effettuato un

59 Cit. M. DEAGLIO, Liberista? Liberale. Un progetto per l’Italia del 2000, Roma,

1996, pag. 108.

60 Cfr. A. GIANGRANDE, Tangentopoli. Da Craxi a Berlusconi. Le mani sporche di

Mani pulite, Createspace, 2015.

61 Cfr. Moody’s: dopo 6 anni l’Italia in zona promozione in Il Sole 24 ore, 28

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