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L’overruling delle Sezioni Unite sul termine di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo; ed il suo (ovvio e speriamo universalmente condiviso) antidoto - Judicium

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www.judicium.it ANTONIO BRIGUGLIO

L’overruling delle Sezioni Unite sul termine di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo; ed il suo (ovvio e speriamo universalmente condiviso) antidoto∗∗.

I) La giurisprudenza consolidata della Cassazione ritiene notoriamente che: a) il termine di

costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo sia ridotto a 5 giorni rispetto ai normali 10 allorché egli abbia assegnato (scientemente o perfino per errore di calcolo) all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, facoltà quest’ultima inequivocamente concessa dall’art. 645, c. 2° c.p.c. fino al dimezzamento di tale ultimo termine; b) non così invece – restando il termine di costituzione dell’opponente quello ordinario dei 10 giorni – quando, nell’indicare l’udienza, l’opponente abbia rispettato l’ordinario termine di comparizione non avvalendosi della predetta facoltà.

La Sezione Prima della Suprema Corte, riproponendo perplessità e critiche risalenti, dubita dell’assunto sub a), rilevante per decidere il caso concreto sottopostole (l’opponente si era in effetti avvalso della facoltà ex art. 645, c. 2° c.p.c., ma si era poi costituito oltre i 5 giorni e la sua opposizione era stata dichiarata improcedibile), e rimette la questione alle Sezioni Unite.

Queste ultime confermano la pregressa giurisprudenza e perciò l’assunto sub a), con

“una puntualizzazione” fortemente innovativa perché negatrice dell’assunto sub b) pur esso in precedenza consolidato.

1. Che il termine di costituzione dell’opponente sia ridotto a 5 giorni quando questi abbia

assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore al normale è assunto non

Questo scritto è dedicato con affettuoso e commosso ricordo a Franco Cipriani, che sapeva indagare impareggiabilmente anche de minimis quando ne valeva la pena.

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riconducibile al tenore dell’art. 645, c. 2° che si riferisce solo al possibile e facoltativo dimezzamento dei “termini di comparizione” (e l’improvvido plurale non è certo sufficiente, sul piano rigorosamente letterale, a leggere “costituzione” insieme a “comparizione”), e neppure riconducibile al tenore dell’art. 165, che rinvia al caso di “abbreviazione dei termini a norma del secondo comma dell’art. 163 bis”. I lavori preparatori relativi all’art. 645 (evocati senza troppa convinzione dalle Sezioni Unite che a mio avviso non colgono appieno il senso della riflessione acuta su quei lavori condotta da Franco Cipriani proprio per rafforzare la sua severa critica all’orientamento consolidato1) sono in realtà neutri.

E la esigenza acceleratoria in ordine alla trattazione delle cause di opposizione a decreto ingiuntivo - anch’essa evocata, e con maggiore convinzione, dalle Sezioni Unite - non ha nulla a che vedere con il dimezzamento del termine di costituzione dell’opponente. Dimezzamento che in sé considerato non accelera un bel nulla perché non favorisce lo studio anticipato della causa da parte del giudice (si è mai visto un giudice in trepida attesa che l’attore si costituisca prima possibile e che la causa gli sia assegnata per potersi subito accingere allo studio delle carte pur senza avere ancora davanti quelle del convenuto?), né avvicina la trattazione alla iniziativa attorea perché quella è già avvicinata, quando lo è, dalla riduzione dei termini a comparire per volontà (o anche semplice errore, come vuole la Cassazione) dell’attore.

In realtà non sussiste alcuna particolare esigenza acceleratoria oggettiva e

“ordinamentale” per i giudizi di opposizione. Esiste invece una esigenza di parte e secundum eventum: vorrà di regola accelerare l’opponente quando si sia visto notificare un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, ed avrà allora a disposizione la facoltà concessagli

1 La trappola che non c’è (ma che funziona): a proposito del termine di costituzione dell’opponente a decreto ingiuntivo, in Giusto processo civile, 2008, 989.

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dall’art. 645, c. 2°; vorrà accelerare l’opposto quando il decreto non sia provvisoriamente esecutivo e possa diventarlo solo in esito alla prima udienza, ed anche l’opposto avrà facoltà di chiedere, ex art. 163 bis, c. 3°, la anticipazione dell’udienza che in questo caso l’attore avrà verosimilmente fissato con ampio margine.

Di conserva con l’ultimo rilievo è fin troppo facile osservare che l’assunto sub a), tradizionale ed oggi convalidato dalle Sezioni Unite, ha dalla sua una sola banalissima giustificazione sistematica, accolta la quale è poi questione di scelta dire se essa conduca alla applicazione analogica dell’art. 165, e poi anche ed ovviamente dell’art. 166, nonostante che essi si riferiscano alla sola “abbreviazione ex art. 163 bis”, ovvero all’applicazione estensiva dell’art. 645, c. 2°, dovendosi in esso leggere “costituzione” insieme a “comparizione”.

Se il dimezzamento del termine di comparizione non comportasse il dimezzamento di entrambi i termini di costituzione, e se essi perciò restassero quelli di 10 giorni dalla notifica, per l’attore opponente, e di 20 giorni prima dell’udienza per il convenuto opposto, quest’ultimo vedrebbe notevolmente ridotto, rispetto al normale, lo spazio effettivo per la preparazione della comparsa di risposta, considerando anche l’esigenza (possibile anche se non ineluttabile) di consultare documenti a lui non noti che l’opponente abbia depositato al momento della sua costituzione. Insomma se X è il termine normale a comparire, la soluzione opposta a quella confermata dalle Sezioni Unite vedrebbe quello spazio effettivo equivalente ad X : 2 – 10 – 20, piuttosto che come normalmente accade ad X – 10 – 20. Mentre la soluzione della Suprema Corte assicura al convenuto opposto un più congruo X : 2 – 5 –10; quindici non disprezzabili giorni in più, che non compromettono minimamente l’”accelerazione” voluta dall’attore opponente né nuocciono, in punto di parità delle armi, a quest’ultimo, al quale si deve l’innesco del meccanismo “acceleratorio” con il dimezzamento del termine a comparire.

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Evidenti ragioni di semplificazione sconsigliano poi – scontando qualche incoerenza della giustificazione di fondo se rapportata a singole fattispecie – che la riduzione bilaterale dei termini di costituzione possa dirsi variabile caso per caso a seconda che l’attore opponente abbia utilizzato in tutto o solo in parte la facoltà di dimezzamento del termine di comparizione. Da qui appunto la soluzione della Cassazione: tutte le volte che nel giudizio di opposizione risulta assegnato al convenuto opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario i termini di costituzione sono dimezzati sia per l’opponente (con svantaggio bilanciato dal fatto che egli stesso lo ha provocato) sia per l’opposto (con vantaggio giustificato da plausibili esigenze difensive).

Come si vede una semplice faccenda aritmetica tutt’altro che particolarmente raffinata.

Le Sezioni Unite nella, invece raffinata, motivazione non ne fanno cenno esplicito, ma solo fra le righe alludendo alla “esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti” come contraltare della esigenza dell’opponente di “sollecita trattazione della opposizione”, nonché alla perdurante necessità che l’opposto, pur attore in senso sostanziale, abbia come qualsiasi altro convenuto tempo sufficiente onde prendere posizione sui possibili nova (in senso lato) dell’atto di opposizione. Salvo poi ad esprimersi addirittura in direzione cautamente contraria alla banalissima giustificazione pro-convenuto sopra esposta, allorché dicono “abbastanza ampi”, e riducibili ulteriormente de iure condendo, i tempi che, una volta bilateralmente dimezzati i termini di costituzione, sono a disposizione del convenuto per predisporre la sua difesa.

In realtà la semplice giustificazione “aritmetica” dell’orientamento consolidato della Suprema Corte non può certo dirsi imposta all’interprete della legge ordinaria dal parametro costituzionale (art. 24 e 111 Cost.). E’ solo una giustificazione in astratto idonea ad innescare l’esercizio di una discrezionalità interpretativa non smodata.

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A terreno vergine vi sarebbe da porsi il problema se valga davvero la pena assicurare al convenuto opposto quegli ulteriori 15 giorni non assolutamente indispensabili, e neppure sempre significativi (non quando l’attore opponente abbia assegnato termine a comparire di poco inferiore al normale, o non abbia depositato documenti e non abbia, da convenuto sostanziale, innovato con l’opposizione il thema decidendum già delineato dal ricorso monitorio), a costo di imporre all’opponente un termine di costituzione di 5 giorni che nella pratica, e per ragioni note a tutti, può rivelarsi scomodissimo.

Di fronte, però, ad una giurisprudenza già consolidata, la convalida delle Sezioni Unite è probabilmente da salutare con favore perché la giustificazione in qualche modo vi è e perché, nel dubbio sull’opportunità dell’una o dell’altra soluzione, dovrebbe sempre valere la conservazione delle regole del gioco, in questo caso pretorie, piuttosto che la loro innovazione.

2. Quest’ultimo tema è drammaticamente coinvolto dalla seconda parte della sentenza in

epigrafe, ove le Sezioni Unite, dopo aver omologato il tradizionale assunto retro riportato sub a), lo puntualizzano innovativamente: il dimezzamento del termine di costituzione dell’attore opponente opera non solo (come fin qui ritenuto dalla consolidata giurisprudenza della Corte) quando nell’atto di citazione in opposizione risulti assegnato al convenuto termine di comparizione inferiore a quello ordinario, bensì sempre; in ogni giudizio introdotto con opposizione a decreto ingiuntivo quest’ultima va, dunque, dichiarata improcedibile se l’attore non si sia costituito entro lo (scomodissimo) termine di 5 giorni dalla notifica della citazione.

Questo secondo assunto, che rientrava certamente nel compito di puntualizzazione della complessiva corretta interpretazione degli artt. 645 e/o 165 c.p.c. di cui le Sezioni Unite erano investite, non era però strettamente necessario alla definizione della controversia concreta in cui la Sezione remittente era coinvolta: in quel caso l’opponente aveva in effetti assegnato

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all’opposto un termine a comparire inferiore a quello ordinario, ed a confermare la declaratoria di improcedibilità dell’opposizione per mancata costituzione entro i 5 giorni bastava la conferma dell’assunto tradizionale, pur se – ovviamente – la puntualizzazione innovativa delle Sezioni Unite induce a fortiori a quella conferma. Insomma lo si può dire un obiter, anche se un obiter non extravagante (come molti altri ve ne sono stati), ovvero la si può dire una ratio decidendi e però una ratio decidendi non necessaria. Sono questi rilievi empirici e scontati, svolti qui non già per negare che sia fisiologico che le Sezioni Unite, investite dalla Sezione semplice del quesito “dimmi se A è corretto”, rispondano puntualizzando “A è corretto ma è anzi corretto A1”, bensì e solo per introdurre la domanda (anch’essa scontata) della quale ci si occupa nel successivo paragrafo: “ma ve ne era proprio bisogno, vista la materia e le situazioni su cui si andava ad incidere?”.

Poiché però una nota a sentenza non può essere solo un commento al metodo, occupiamoci rapidissimamente anche del merito.

L’assunto innovativo, e sorprendente, delle Sezioni Unite convince assai poco, perché se l’unica plausibile ragione del dimezzamento dei termini di costituzione consiste nel mettere a disposizione dell’opposto uno spazio difensivo iniziale non drasticamente inferiore a quello che egli avrebbe a disposizione in un normale giudizio, ebbene questa ragione non sussiste quando l’opponente assegna all’opposto termine a comparire non inferiore a quello normale.

In tal caso dimezzare i termini di costituzione significa imporre all’opponente un termine di 5 giorni, quasi giugulatorio, senza nessuna utilità.

Non quella della “coerenza sistematica”, perché tale non è l’estetica simmetria astratta di un sistema (ottima per la costruzione di un tempio greco, buona per la forma-sonata, consigliabile perfino per la fisica teorica, pressocché inutile per una scienza pratica quel’è

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l’ermeneutica giuridica).

Non la soddisfazione di altre esigenze “pratiche”, perché non ve ne sono, né le Sezioni Unite, pur evocandole, dicono quali esse siano.

Non la soddisfazione di esigenze di “certezza”, perché non vi è nessuna incertezza (e neanche per l’opponente), ma solo una differenza plausibilmente giustificata nel senso che si è chiarito, nel dire che l’opponente si deve costituire entro 5 o entro 10 giorni a seconda che nella sua citazione risulti assegnato a controparte un termine a comparire “normale” o diminuito ex art. 645, c. 2°. Mentre dire all’opponente “guarda un po’: ti semplifico le cose e per evitarti qualsiasi dubbio sul termine di costituzione te ne impongo sempre uno solo, brevissimo e difficile da rispettare in concreto” sembra francamente un po’ troppo.

Non il fatto (vedi sempre la motivazione annotata) che “l’effetto legale del dimezzamento [in ogni caso] dei termini di costituzione dell’opponente è pur sempre un effetto che discende dalla scelta del debitore” che ha proposto opposizione (e cos’altro poteva fare poverino?) ed egli “non può non conoscere quale siano le conseguenze processuali che la legge ricollega alla sua iniziativa”. Prescindendo per un momento da quanto involontariamente irridente suoni quest’ultima frase per i pretesi debitori che si sono fino ad ora costituiti entro 10 giorni confidando in ciò che la precedente consolidata ed ora innovata giurisprudenza faceva dire alla legge processuale, è appena il caso di osservare che qui non è questione di prevedibilità (ci mancherebbe!!) per l’opponente del termine per la sua costituzione; è invece questione – come ha intuito Corte Cost. n. 18/2008 (che le Sezioni Unite citano ma non raccolgono) – se sia in qualche modo giustificato o meno uno scomodissimo, anche se prevedibile, dimezzamento di quel termine.

Né tanto meno si tratta di giustificare – come le Sezioni Unite agevolmente ma

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inutilmente fanno nell’ultimo inciso dedicato all’overruling – la diversità, rispetto al momento della notifica della citazione, dei tempi di costituzione per l’attore e per il convenuto (che nessuno ha mai trovato men che fisiologica ed anzi ovvia nel giudizio “ordinario” come in quello di opposizione a decreto ingiuntivo); si tratta invece di giustificare il perché un termine già breve per la costituzione dell’attore debba essere reso brevissimo.

Quanto alla dottrina, cui le Sezioni Unite si appellano, mi pare dottrina isolatissima e di quelle bisognose di sperimentare non dico il processo civile reale, ma anche solo cosa voglia dire fare qualcosa di serio in cinque giorni. Mentre la irrilevanza della effettiva volontà dell’opponente piuttosto che del suo errore in ordine alla assegnazione di termine di comparizione inferiore a quello ordinario – irrilevanza già predicata dalla giurisprudenza tradizionale – essa non è affatto, come paiono ritenere le Sezioni Unite, il viatico anticipatorio dell’attuale overruling (quasi che non fosse del tutto normale che il dimezzamento del termine di costituzione possa dipendere anche dalla volontà dell’opponente visto che egli può già ridurre fino a dimezzarlo il termine a difesa per il convenuto). Quella irrilevanza è invece dovuta ad elementari ragioni di semplificazione che suggeriscono di evitare che la individuazione di un termine, anzi di due termini perché vi è di mezzo anche quello di costituzione del convenuto, sia collegata caso per caso ad una sottile indagine sulla concreta volontà dell’opponente, piuttosto che al riscontro oggettivo del termine a comparire assegnato.

II) Che la sentenza in epigrafe stia consegnando al panico schiere di avvocati è noto. Ed era

immaginabile, ed immaginabile anche per la Corte di Cassazione, la quale svolge la propria opera meritoria (e mai abbastanza lodata se si pone mente alla risposta all’overload, sicuramente efficiente a fronte dei mezzi a disposizione) nel chiuso di un palazzo dalle spesse mura: da un

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lato del Palazzaccio si scorge tra gli alberi il placido scorrere del Tevere pronubo alla riflessione teorica asettica e raffinata; ma dall’altro lato pullula la vita di Piazza Cavour.

Ebbene nella vita reale, e dopo questa sentenza, giudici di merito convinti in buona fede della ineluttabilità della cosa, ovvero lieti di poterlo fare liberando il ruolo da fascicoli, dichiarano e dichiareranno improcedibili opposizioni a decreto ingiuntivo – pur assegnanti (come sovente accade) termini a comparire non inferiori a quelli ordinari – perché risultate, alla stregua dell’overruling delle Sezioni Unite, tardivamente iscritte; ed i legali degli opponenti e poi i loro sbigottiti clienti lanceranno alti lai di fronte a decreti ingiuntivi che, senza colpo ferire, divengono esecutivi e passano in giudicato; risultato questo come è noto imposto dall’art. 647, c.

1° c.p.c. ed assai poco mitigabile in concreto attraverso il meccanismo della rinnovazione della opposizione entro il termine decadenziale, ora ammesso, sulla scia di Corte Cost. n. 18/2002, da Cass. 1.12.2004, n. 22502 e Cass. 23.10.2008, n. 25621.

La soluzione delle Sezioni Unite – la sua parte innovativa intendo, non la conferma della precedente e prevalente giurisprudenza – di per sé considerata è quella che è: né buona né cattiva, opinabile. A mio sommesso avviso molto opinabile. Ma questo non è importante.

Più importante è riflettere in termini generali su cosa possa o debba fare la Suprema Corte con le regole del gioco e con la propria giurisprudenza sulle regole del gioco.

Mi sforzo di essere sintetico, pur consapevole della complessità e della intrinseca ricchezza di sviluppi e riferimenti anche teorici della faccenda, qui solo sfiorabili. E nella sintesi correrò il rischio di sembrare lapidario, ciò che ovviamente non è mia intenzione essere.

a) La soluzione ermeneutica attinta dalla Suprema Corte a proposito dell’art. 645, c. 2° c.p.c. – termine per la costituzione dell’opponente dimezzato a 5 giorni anche quando egli abbia fissato

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all’opposto una prima udienza nel pieno rispetto dei termini di comparizione ordinari, non giovandosi perciò della possibilità di dimezzarli che la legge gli accorda - è, nell’economia della decisione di quel caso di specie, tutto sommato un obiter. Si è detto peraltro che è un obiter fortemente imparentato con la ratio decidendi, o se si vuole una “ratio decidendi non necessaria”. E se anche così non fosse, se fosse un obiter smaccato nessuno scandalo: non sarebbe il primo né sarà l’ultimo. Ma bisognerebbe andarci un po’ cauti; o per lo meno indulgere all’obiter, da un lato, con la stessa consapevolezza che si impegna nella formulazione della autentica ed indispensabile ratio decidendi, d’altro lato con la stessa circospezione che si impegna o che dovrebbe impegnarsi in una statuizione “nell’interesse della legge” ex art. 363 c.p.c.. Non dico che qui la Cassazione non lo abbia fatto (a prescindere dalla opinabilità del risultato); dico che dovrebbe sempre farlo. La distinzione effettuale concreta e pro futuro fra ratio decidendi ed obiter è parsa sempre e giustamente assai effimera agli studiosi più attenti, se considerata nel quadro di un sistema a precedenti “persuasivi” e formalmente non vincolanti; ed è distinzione che si attenua vieppiù in un sistema di nomofilachia oggi imperniato anche sui poteri della Suprema Corte ex art. 363 c.p.c.: la Corte è ormai formalmente autorizzata a parlare anche solo pro futuro ed indipendentemente dalla decisione della controversia concreta. Lo faccia – perfino nella guisa informale dell’obiter - ma lo faccia “con juício”.

b) Le regole del gioco processuale – e fin troppo ovvio segnalarlo – debbono essere il più possibile certe ex ante. Non è facile costruire un formale divieto o un formale limite alla loro modifica in via pretoria (come pure in altri lidi e/o in altri tempi si è tentato e nei nostri a volte adombrato). Ma in definitiva è questione di buon senso: si modifichino in via pretoria le regole del gioco a misura che: 1) non se ne possa fare a meno (l’orientamento pregresso era

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obiettivamente e francamente errato); 2) la sorpresa non sia eccessiva (la questione era già stata con un certo grado di diffusione sollevata e la soluzione affermata con l’overruling era in qualche modo “nell’aria”). A quest’ultimo riguardo la sentenza in epigrafe, pur nel suo contenuto innovativo, potrebbe dirsi in limitatissima misura giustificata. Ma la valutazione dell’”effetto sorpresa” non può non tener conto anche (oltre che del grado di prevedibilità) anche del grado di irrimediabilità delle conseguenze obiettive. E qui quel grado è altissimo: non si tratta di aprire la via a declaratorie di inammissibilità o improcedibilità che consentono la riproposizione; si tratta di aprire la via a declaratoria di improcedibilità cui corrisponde la formazione del giudicato sostanziale favorevole sull’altrui pretesa creditoria, e su di una pretesa a suo tempo accolta inaudita altera parte.

c) Una grande corte suprema, e soprattutto a sezioni unite, e soprattutto la nostra così creativa in questi ultimi tempi, dovrebbe cominciare a dotarsi – in via pretoria – del potere di temperare ratione temporis gli effetti della propria giurisprudenza innovativa, massime quando essa incida sulle regole del gioco ed in particolare comporti l’inasprimento di una decadenza o comunque di un onere processuale.

Senza addentrarsi nei meandri non sempre decifrabili della alternativa fra retrospective e prospective overruling di common law e della sua non ancora limpidissima recezione nella coraggiosa cultura giuridica tedesca, si potrebbe ad esempio guardare alla Corte di giustizia comunitaria (ed anche alla CEDU che però proclama in apicibus garanzie di conoscibilità delle regole che sono o dovrebbero essere, quanto al processo, già largamente insite anche nel nostro art. 111 Cost.) e cominciare da qui: per lo meno quando la Cassazione, e soprattutto a sezioni unite, anticipa un mutamento giurisprudenziale attraverso la pronuncia nell’interesse della legge

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ex art. 363 c.p.c., o il suo surrogato rappresentato da un obiter consapevole, enfatizzato ed anzi messo in cornice e perciò massimato (e questa tecnica dell’“anticipazione” svincolata dalla soluzione del singolo caso concreto sarebbe tutt’altro disprezzabile proprio in ipotesi di overruling concernente le regole del gioco), in questo caso – dicevo – lo stesso giudice della nomofilachia potrebbe espressamente precisare qualcosa di simile: “questa Corte [e perciò auspicabilmente gli altri giudici se persuasi dal “temperamento”] applicherà il principio di diritto sopra esposto qualora sia chiamata a pronunciarsi su controversie instaurate dopo la pubblicazione nel Massimario Ufficiale della presente pronuncia”. Mi rendo conto che così siamo ben oltre la metà del guado che passa dalla giurisprudenza come fonte di fatto al valore formalmente vincolante del precedente (non più di tanto però, visto che di postulato pretorio ed empirico si tratterebbe e non di condizionamento normativo e perciò di formale riconoscimento di quel valore). Ma è meglio l’ipocrisia dei nomina ed il pasticcio che la fedeltà assoluta al carattere dichiarativo dell’interpretazione giudiziale può ingenerare? ovvero il prendere atto della sostanza delle cose e modulare le risposte operative a seconda delle esigenze concrete senza pretese di coerenza assoluta?

d) In ogni caso – e tornando alla sentenza in epigrafe ed alla preoccupante attualità che essa dischiude – forse, nel momento stesso in cui si adottava, sia pure nella bassa cucina della procedura civile, soluzione (nuova o seminuova poco importa) così dirompente, le Sezioni Unite avrebbero potuto rammentare e richiamare espressamente la lodevole Cass. Sez. II, 2.7.2010, n.

15812 (resa proprio a proposito di overruling in materia processuale) ove si stabilisce che: “alla luce del principio costituzionale del giusto processo va escluso che abbia rilevanza preclusiva l’errore delle parte” [nella specie si trattava di un ricorso per cassazione proposto nelle forme

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dettate dal rito penale invece che in quelle dettate dal rito civile e perciò senza il famigerato

“quesito”] “la quale abbia fatto affidamento su una consolidata (...) giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, e che la stessa sua iniziativa possa essere dichiarata inammissibile o improcedibile in base a forme e termini il cui rispetto, non richiesto al momento [dell’assunzione di quella iniziativa], discende dall’overruling”. Continua la Sezione Seconda (che in motivazione si riferisce efficacemente all’assurdità del “cambiamento delle regole del gioco a partita già iniziata”): “il mezzo tecnico per ovviare all’errore effettivamente scusabile è dato dal rimedio della rimessione in termini previsto dall’art. 184 bis c.p.c. (ratione temporis applicabile), alla cui applicazione non osta la mancanza della istanza di parte, dato che, nella specie, la causa non imputabile è conosciuta dalla Corte di Cassazione, che con la sua stessa giurisprudenza ha dato indicazioni sul rito da seguire, ex post rivelatesi non più attendibili”.

E’ questa una via sicuramente più farraginosa, ma di profilo meno compromettente i massimi sistemi, per giungere nella sostanza, e perfino con qualche elasticità maggiore (la rimessione può essere ragionevole anche per chi abbia assunto l’iniziativa dopo la pubblicazione nel Massimario ma ad ovverruling plausibilmente non ancora diffuso), al risultato auspicato sub c); una via praticabile anche nei pulviscolari ma intensi drammi che le Sezioni Unite qui annotate hanno aperto in tutta Italia (e già imboccata ammirevolmente, a quanto risulta, da Trib.

Varese, Sez. I, 8.10.2010, pubblicata in ALTALEX) senza necessità del più ampio tenore del nuovo art. 153, u.c. sostitutivo dell’art. 184 bis, visto che la stessa Sezione Seconda in quella ordinanza ha confermato la piena superabilità del rigido ancoraggio di quest’ultimo all’“istruttoria”; una via praticabile, nel nostro caso, anche ex officio, visto che il presupposto della rimessione in termini officiosa che la Sezione Seconda considera – la normale e fisiologica

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conoscibilità della giurisprudenza pregressa e di quella innovativa della Suprema Corte, piuttosto che una causa non imputabile appartenente alla sfera privata della parte – può e deve predicarsi per il giudice di merito non meno che per la stessa Suprema Corte; una via, infine, perfino ovvia ed alla quale qualunque ben pensante va in questo momento pensando, ma che essa fosse ribadita dalle Sezioni Unite era tutt’altro che inutile.

Segnalandola espressamente, infatti, le Sezioni Unite avrebbero: tranquillizzato gli operatori, sgombrato qualsiasi sospetto di intenzioni brutalmente deflattive (siamo o non siamo un popolo di dietrologi?), e conferito un blasone di compattezza ed organicità ai recenti percorsi nomofilattici (in materia processuale) di una “Corte del precedente” quale ormai il legislatore (art. 360 bis) vuole che sia la nostra Suprema. Sarebbe stato un modo ragionevole per additare agli omnes – e da che importante pulpito e con quale importante e definitiva conferma del meritevole sforzo già intrapreso da una sezione semplice – il salvataggio della capra e dei cavoli: la libertà di evoluzione giurisprudenziale, prudentemente utilizzabile anche a proposito delle regole del gioco, e la tutela del diritto di difesa e dell’affidamento rispetto a sorprese paradossali.

Le Sezioni Unite non hanno espressamente indicato questo antidoto, ma esso sta lì nella saggia Cass. n. 15812/2010.

Copia di quest’ultima andrà opportunamente sfoderata in udienza, da Aosta a Capo Lilibeo, dall’opponente al quale l’opposto sbandieri, cantando vittoria, la pronuncia in epigrafe.

E speriamo che i giudici di merito ragionino e distraggano l’udito dalle sirene del facile sfoltimento dei ruoli.

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