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Sviluppo e caratterizzazione chimico-fisica di sistemi polimerici micro-nanostrutturati per l'incapsulamento di principi attivi in ambito alimentare

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Academic year: 2021

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“D

IPARTIMENTO DI

C

HIMICA E

C

HIMICA

I

NDUSTRIALE

Laurea Magistrale in Chimica Industriale

SVILUPPO E CARATTERIZZAZIONE CHIMICO-FISICA DI SISTEMI POLIMERICI

MICRO-NANOSTRUTTURATI PER L’INCAPSULAMENTO DI

PRINCIPI ATTIVI IN AMBITO ALIMENTARE

Relatore: Prof. Federica Chiellini Candidato: Margherita Trobbiani Controrelatore: Prof. Andrea Pucci

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(3)
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R

IASSUNTO

Il presente lavoro di tesi si è incentrato sullo sviluppo e caratterizzazione chimico-fisica di sistemi polimerici micro-nanostrutturati per l’incapsulamento di aromi per uso alimentare, in grado di conferire agli alimenti specifiche caratteristiche organolettiche.

In particolare tali sistemi polimerici sono stati sviluppati in modo tale da poter essere impiegati nello sviluppo di bibite come aromatizzanti e/o intorbidanti, e per i prodotti da forno come supporti micro-nanostrutturati per l’incapsulamento di aromi in grado di preservare le caratteristiche organolettiche dell’aroma anche a seguito del processo di cottura del prodotto di destinazione.

I materiali polimerici da impiegare sono stati scelti tra quelli già approvati per uso alimentare ma non ancora codificati come additivi alimentari, ed in particolare l' attenzione è stata rivolta all’impiego di polimeri di origine naturale ottenibili da fonti rinnovabili e sostenibili. Sono stati quindi selezionati ed impiegati due polisaccaridi: Ulvano e Chitosano. Le matrici polimeriche sono state convertite con successo in sistemi micro-nanostrutturati applicando metodi quali emulsione/reticolazione e emulsione/complessazione polielettrolitica impiegando come unico solvente l’acqua.

Le caratterizzazioni chimico-fisiche dei campioni preparati sono state condotte mediante misure di light scattering, di potenziale zeta e spettroscopiche (FT-IR/ATR). La morfologia dei sistemi micro-nanostrutturati è stata investigata impiegando la microscopia elettronica a ioni di elio, e l’efficienza di incapsulamento dei principi attivi è stata determinata mediante tecniche spettroscopiche (UV-VIS) e misure termogravimetriche (TGA).

Particolare attenzione è stata rivolta anche a valutare la stabilità in condizioni controllate dei sistemi preparati al fine di ottenere informazioni sulla shelf-life dei formulati sviluppati.

Sono stati infine selezionati i campioni più promettenti per essere impiegati in preparazioni su scala pilota al fine di valutare la loro effettiva applicabilità in ambito industriale.

Il presente lavoro si è svolto nell’ambito del progetto regionale Toscana “SYNERGY” (POR CReO 2007-2013) in collaborazione con l’azienda Giotti S.p.A. specializzata nella produzione e lavorazione di aromi alimentari.

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I

NDICE

Riassunto ... I Indice ... II

1 Introduzione ... 1

1.1 Oli Essenziali, Essenze ed Aromi ... 1

1.1.1 Classificazione e Caratteristiche Chimico Fisiche ... 1

1.1.2 Ruolo degli aromi nell’industria alimentare ... 12

1.2 Incapsulamento e Rilascio controllato di Aromi ... 13

1.2.1 Micro-nanosistemi per il rilascio controllato di aromi... 15

1.2.2 Metodi di preparazione di micro-nanosistemi per il rilascio controllato di aromi ... 16

1.2.3 Materiali di natura organica per l’incapsulamento ed il rilascio controllato di aromi. 31 1.3 Ulvani: una nuova classe di polisaccaridi da fonti rinnovabili ... 57

2 Scopo della Tesi ... 63

3 Materiali e Metodi ... 66

3.1 Materiali ... 66

3.1.1 Solventi ... 66

3.1.2 Reagenti ... 66

3.2 Strumentazione ... 67

3.2.1 Analisi Termogravimetrica (TGA) ... 67

3.2.2 Light scattering (LS) ... 68

3.2.3 Liofilizzatore ... 68

3.2.4 Sonicatore ... 68

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3.2.6 Spettrofotometro UV-Vis ... 68

3.2.7 Microscopio a Ioni Elio Secondari ... 69

3.3 Metodi ... 69

3.3.1 Sistemi micro-nanostrutturati a base di Ulvano e cloruro di calcio (UCa)... 69

3.3.2 Emulsioni intorbidanti ... 69

3.3.3 Preparazioni di Sviluppi in Bibita ... 73

3.3.4 Formulazioni per Prodotti da Forno ... 74

4 Risultati e Discussione ... 77

4.1 Emulsioni Aromatizzanti ed Intorbidanti a base di Ulvano ... 77

4.1.1 Emulsioni per bibite... 77

4.1.2 Sistemi micro-nanostrutturati a base di Ulvano e Cloruro di calcio (UCa) ... 80

4.1.3 Preparazione e Caratterizzazione di Emulsioni Aromatizzanti ed Intorbidanti... 81

4.2 Formulazioni per Prodotti da Forno ... 96

4.2.1 Preparazione e Caratterizzazione di sistemi micro-nanostrutturati a base di Chitosano, Ulvano ed Aroma Snack Erbe Fini ... 96

4.2.2 Preparazione e Caratterizzazione di Formulazioni a base di Chitosano ed Aroma Snack Erbe Fini mediante Emulsione e Reticolazione ... 98

4.2.3 Preparazione e Caratterizzazione di Formulazioni a base di Chitosano/Ulvano ed Aroma Snack Erbe Fini mediante Emulsione e Complessazione Polielettrolitica. ...102

5 Conclusioni ...113

Bibliografia ...117

(7)

1 I

NTRODUZIONE

1.1 O

LI

E

SSENZIALI

,

E

SSENZE ED

A

ROMI

1.1.1 Classificazione e Caratteristiche Chimico Fisiche 1.1.1.1 Oli Essenziali ed Essenze

Gli oli essenziali, noti come oli volatili o eterei, sono composti odorosi e volatili presenti nel 10% del regno vegetale e sono contenuti nelle piante in particolari strutture secretorie fragili, come ghiandole, peli, dotti e cavità secretorie o nei condotti della resina. [Ahmadi et al., 2002; Bezić et al., 2009; Ciccarelli et al., 2008; Gershenzon et al., 1994; Liolios et al., 2010; Morone Fortunato et al., 2010; Sangwan et al., 2001; Wagner et al., 1996].

In natura le essenze sono prodotte dalle piante per molteplici ragioni, e in alcuni casi forse anche come scarti del metabolismo. Le ipotesi più accreditate attribuiscono alle essenze una funzione allelopatica, antibiotica e di attrazione degli impollinatori. [Huang, 2012; Tholl, 2011; Surburg & Panten, 2006; Burdock & Fenaroli, 2010; Evans, 2009; Craker & Simon, 1986; Roth & Kormann, 1997; Lawrence, 2005].

Il contenuto totale di oli essenziali di una pianta è generalmente molto basso e raramente supera l’1%. [Bowles, 2003; Fahlbusch, 2012]. La quantità e la qualità degli oli dipende fortemente dalle condizione a cui è sottoposta la pianta da cui vengono estratti, dall’area geografica di coltivazione, dal clima, dal suolo di coltura; la stessa specie può fornire prodotti diversi a seconda della zona in cui viene coltivata e dal momento della raccolta. [Fahlbusch, 2012]. Gli oli essenziali sono idrofobi, solubili in alcool, solventi non polari o debolmente polari, in cere ed altri oli. La maggior parte sono incolori o tendenti al giallo chiaro, con l'eccezione dell'olio essenziale blu di camomilla (Matricaria Chamomilla). Sono per lo più liquidi e di densità

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inferiore a quella dell'acqua. [Gupta et al., 2010; Martín et al., 2010]. Gli oli essenziali a causa della loro struttura molecolare (presenza di doppi legami olefinici e gruppi funzionali come idrossili, aldeidici ed esterei) sono facilmente ossidabili da luce, calore ed aria. [Skold et al., 2006; Skold et al., 2008].

Gli oli essenziali come li conosciamo oggi sono un prodotto relativamente moderno. L'uso da parte dell'uomo di sostanze profumate risale al 5000 A.C., dove venivano impiegate resine grezze come l’Incenso o legni profumati come il Sandalo. In epoca greco-romana iniziarono ad essere usati estratti oleosi con scopo sia medico che per piacere sensoriale. Durante il medioevo i popoli arabi scoprirono come estrarre e concentrare essenze odorose in prodotti alcolici. Soltanto con il progredire della tecnologia fu possibile isolare con sempre maggior efficienza gli oli essenziali ed iniziare ad utilizzarli nei modi odierni. [Fahlbusch, 2012; Ohloff, 1994; Nijssen, 1963–1999].

Gli oli contenuti nelle piante possono essere liberati sottoponendo a pressione e/o calore varie parti della pianta stessa (foglie, fiori, boccioli, frutti, erbe, radici, cortecce, legni e resine). Le tecniche utilizzabili sono varie, la più usata è la distillazione in corrente di vapore, che si distingue poi in distillazione nella quale il materiale è immerso in acqua e distillazione nella quale il materiale è sospeso sopra la fonte di vapore. [Bowles, 2003; Margaris et al., 1982; Surburg & Panten, 2006, Fahlbusch, 2012].

Altri metodi, che portano all’estrazione sia di oli essenziali che di altre frazioni di composti odorosi contenuti nella pianta, prevedono l’uso di estrazione con solvente, infusione in acqua, pressatura a caldo o a freddo (la spremitura a freddo viene usata soprattutto per ottenere oli essenziali dalle tasche oleifere contenute nell’epicarpo dei frutti del genere Citrus), effleurage a caldo o a freddo [Fahlbusch, 2012], estrazione con fluidi supercritici e il phytonic process. [Da Porto et al., 2009; Hunter, 2009; Lahlou, 2004; Martínez, 2008; Pourmortazavi & Hajimirsadeghi, 2007; Surburg & Panten, 2006]. Quest’ultimo metodo, sviluppato recentemente, si basa sull'uso di idrofluorocarburi refrigerati, permettendo di effettuare le estrazioni a temperature anche

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inferiori a quella ambiente fornendo un prodotto di buona qualità. [Abdelouaheb & Amadou 2012].

Le essenze, contenute nelle piante di origine, sono la fonte degli oli essenziali come prodotto, ma non sono completamente sovrapponibili ad essi dal punto di vista chimico, dato che gli oli essenziali contengono solo le molecole volatili, nelle condizioni di estrazione, e idrofobiche. Le molecole idrofile si perdono nelle acque separate a seguito della distillazione e le non volatili nel residuo di distillazione, mentre le frazioni termolabili si degradano. Tuttavia, parte delle molecole idrofile o poco volatili sono talvolta utilizzate nella composizione di essenze “ricostruite”, aromi, fragranze e profumi. [Başer & Demirci, 2011; Fahlbusch, 2012].

La composizione chimica dell’olio essenziale, sia qualitativa che quantitativa, dipenderà quindi anche dal metodo di estrazione. Ad esempio, le distillazioni producono oli ricchi in idrocarburi terpenici, mentre l’estrazione con solventi supercritici fa ottenere maggiori quantità di composti ossigenati. [Donelian et al.,2009; Eikani et al., 2007; Reverchon, 1997; Wenqiang et al., 2007]. L'olio essenziale è quindi un estratto fitochimico altamente selettivo dato che si ottiene dall’isolamento di una componente minoritaria della pianta (mediamente dallo 0, 01% al 2%). Nonostante solo parte delle frazioni odorose presenti nei materiali di partenza entrino a far parte degli oli essenziali, questi sono una miscela molto complessa e possono contenere da 20 a 60 singoli composti, ma alcuni arrivano a contenerne anche centinaia. [Miguel, 2010; Sell, 2006; Skaltsa et al., 2003; Thormar, 2011].

Tra gli oli essenziali la cui produzione è stimata tra le più alte, troviamo l’arancia, la menta, il limone, il legno di cedro e l’eucalipto. [Abdelouaheb & Amadou, 2012].

In Tabella 1.1 sono riportate le parti delle piante da cui comunemente sono estratti gli oli essenziali.

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Tabella 1.1 Componenti delle piante impiegate per l'estrazione di oli essenziali

Frutti Foglie Fiori Corteccia Buccia Rizoma Resina

Anice Finocchio Vaniglia Pepe Ginepro Semi Mandorla Anice Sedano Cumino Noce moscata Basilico Alloro Salvia Eucalipto Citronella Origano Patchouli Menta Pino Rosmarino Timo Camomilla Chiodi di Garofano Geranio Luppolo Issopo Gelsomino Lavanda Maggiorana Arancio Rosa Ylang-ylang Cassia Cannella Legno Canfora Cedro Legno di rosa Sandalo Bergamotto Pompelmo Limone Lime Arancio Mandarino Zenzero Iris Valeriana Benzoino Copaiba Frankincense Mirra

[Abdelouaheb & Amadou, 2012; Fahlbusch 2012; Başer & Demirci, 2011]

Gli oli essenziali sono utilizzati estensivamente come aromatizzanti alimentari definiti Generally Regarded as Safe (GRAS), infatti gli oli essenziali puri sono generalmente innocui se assunti in piccole quantità. [Abdelouaheb & Amadou, 2012]

Con il termine “essenze” si possono trovare definiti molti prodotti, sia di origine naturale che sintetica. Le essenze sono solitamente miscele di più oli essenziali ed altre frazioni estratte dalle piante, ed hanno quindi una composizione chimica piuttosto complessa e variegata.

Sono disponibili anche essenze di origine sintetica e si distinguono in natural-identiche, con struttura chimica identica alla molecola aromatica naturale, e aromatizzanti artificiali cioè molecole con un odore caratteristico non reperibili in natura. [EU Flavouring Directive 88/388 EEC].

1.1.1.2 Aromi

Il consumo di cibo è strettamente correlato alla stimolazione sensoriale da parte di composti chimici che determinano il sapore di un alimento, unitamente alla sua apparenza e consistenza. Per definizione il sapore è una miscela di sensazioni derivante dall’interazione di vari segnali prodotti in risposta alla percezione di un odore ed alla consistenza di un alimento o bevanda. [Belitz et al., 2004; Laing & Jinks, 1996]. Quindi la percezione di un sapore è collegata

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primariamente a composti volatili avvertiti nel naso (odore) e non volatili percepiti sulla lingua (gusto). È ampiamente accettato che l’aroma sia la componente più importante del sapore di un alimento e quindi gli studi sui sapori sono incentrati sui costituenti volatili di un cibo. [Belitz et al., 2004].

Le definizioni di aroma, gusto e sapore sono rese particolarmente complicate dal fatto che una singola molecola in alcuni casi definita “aroma” può essere responsabile di varie stimolazioni sensoriali. A questa molteplicità di risposte provocate da una singola molecola, che rendono difficile il classificarla come “aroma”, si aggiunge la difficoltà della traduzione del termine “flavuor” che in molte lingue non ha un esatto corrispettivo. [D’Acampora,2012].

In questo lavoro di tesi col termine "aroma" ci riferiremo alla sensazione prodotta da sostanze chimiche sugli organi dell’olfatto. La sensazione globale data da un aroma è provocata da una complessa miscela di molecole volatili, per lo più idrofobe, percepite già quando sono presenti in tracce (ppm o ppb). Aromi relativamente semplici come fragola o uva, contengono da 100 e 300 composti volatili, mentre se si tratta di aromi derivanti da reazioni di Maillard, si può arrivare a più di 900 composti. Infine le molecole che compongono un aroma non contribuiscono in maniera proporzionale alla percezione di questo, spesso infatti componenti presenti in grandi quantità hanno un piccolo peso e altre minoritarie danno la nota fondamentale. [D’Acampora, 2012]. Da un punto di vista chimico quindi un aroma è una miscela di più molecole aromatiche che concorrono a produrre un odore caratteristico.

Un aroma può essere ottenuto a partire da molecole di origine sintetica, di origine naturale o da una miscela di entrambe, allo scopo di ricostruire l’odore tipico di un frutto, una pianta, una spezia ma anche di un pietanza o di una particolare preparazione. Potrà quindi essere composto da molecole più o meno volatili e con caratteristiche molto variabili.

Alcuni esempi di molecole aromatiche, sia di origine naturale che sintetica, comunemente impiegate nella formulazione di aromi sono riportati in Tabella 1.2 classificate sulla base della loro natura chimica.

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Tabella 1.2 Strutture chimiche di molecole aromatiche

Esteri

Nome Aroma Origine Struttura chimica

Geranyl acetate Fruttata, Rosa Rosa, Fiori

Methyl butyrate Mela, Ananas Ananas

Ethyl acetate Dolce, Solvente Vino

Ethyl butyrate Arancia, Ananas Sintesi chimica

Isoamyl acetate Banana, Pera Banana

Pentyl butyrate Pera, Albicocca Sintesi chimica

Pentyl pentanoate Mela Sintesi chimica

Octyl acetate Arancia Agrumi

Benzyl acetate Fragola Fragola

Methyl anthranilate Uva Frutta

Fructone Fruttata, mela Frutta

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Terpeni

Nome Aroma Origine Struttura chimica

Myrcene Legnosa, complessa Verbena, Alloro

Geraniol Rosa, floreale Geranio, Limone

Nerol Dolce, Rosa, floreale Neroli, Citronella

Citral, lemonal Geranial, neral Limone Limone mirto, Citronella

Citronellal Limone Citronella

Citronellol Limone Citronella, Rosa, Geranio

Linalool Floreale, dolce, legnosa Lavanda Coriandolo, Basilico, Lavanda

Nerolidol Legnosa, Corteccia fresca Neroli, Zenzero, Gelsomino

Limonene Arancio Arancio, Limone

Camphor Canfora Albero della canfora

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Aromatici

Nome Aroma Origine Struttura Chimica

Benzaldehyde Mandorla Mandorla amara

Eugenol Chiodi di garofano Eugenia

Cinnamaldehyde Cannella Cassia, Cannella

Ethyl maltol Frutta cotta, zucchero caramellato Sintesi chimica

Vanillin Vaniglia Vaniglia

Anisole Anice Anice

Anethole Anice Anice, basilico

Estragole Dragoncello Dragoncello

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Ammine

Nome Aroma Origine Struttura chimica

Trimethylamine Pesce, ammoniaca Pesce

Putrescine Pesce marcio Pesce marcio

Pyridine Pesce Belladonna

Alcoli

Nome Aroma Origine Struttura chimica

Furaneol Fragola Fragola

1-Hexanol Erbosa, legnosa Erba

cis-3-Hexen-1-ol Erba tagliata Erba

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Aldeidi

Nome Aroma Origine Struttura chimica

Hexanal Erbosa Frutta

Isovaleraldehyde nocciola, fruttato, simile al cacao Birra, formaggi, caffè, cioccolato

Anisic aldehyde Floreale, dolce, biancospino Fiori

Cuminaldehyde Speziato, simile al cumino Cumino

Chetoni

Nome Aroma Origine Struttura chimica

Dihydrojasmone Floreale fruttato legnoso Gelsomino

2-Acetyl-1-pyrroline Pane fresco, gelsomino, riso Pane, riso

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Lattoni

Nome Aroma Origine Struttura chimica

gamma-Decalactone Forte aroma pesca Albicocca, Molti alimenti

gamma-Nonalactone Cocco Albicocca

Jasmine lactone Forte, grasso, fruttato, pesca, albicocca Gardenia, Gelsomino

Massoia lactone Molto forte, cremoso, cocco Melassa, osmanto

Wine lactone Dolce, cocco Mele, agrumi, uva

Sotolon Sciroppo d’acero, curry Fieno greco

Tioli

Nome Aroma Origine Struttura chimica

Allyl thiol Aglio Aglio

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Le molecole aromatiche sono quindi sostanze con strutture chimicamente ben definite. Ad oggi ne sono state identificate circa 10.000, anche se l’industria degli aromi ne utilizza circa 2500. Tra queste ce ne sono alcune definite “maggiori” come il citral (aroma di limone) o il mentolo (aroma di menta), che sono presenti in numerosi alimenti. [EFFA, European Flavour Association]

1.1.2 Ruolo degli aromi nell’industria alimentare

Gli aromi sono aggiunti alle preparazioni alimentari principalmente per due motivi: 1) per aggiungere un sapore intrinseco (tipico esempio è l'acqua minerale aromatizzata con estratti di agrumi); 2) per aggiungere una fragranza che è stata persa o modificata durante la lavorazione del prodotto o che va diminuendo durante la conservazione dell’alimento.

I consumatori ricercano infatti nei prodotti alimentari una fragranza ottimale, tale che l’alimento appaia fresco, anche se il suo consumo avviene molto tempo dopo la sua preparazione. Si è inoltre notato come i consumatori siano influenzati per lo più dall’odore del prodotto nel giudicare un alimento nel suo insieme.

Gli aromi sono quindi aggiunti per consentire che un prodotto soddisfi le aspettative dei consumatori, rivestendo un ruolo fondamentale nel successo commerciale del prodotto stesso. Gli aromi sono miscele di vari composti odorosi citati nei paragrafi precedenti quali oli essenziali, essenze o composti sintetici recanti un odore specifico. Tali molecole sono spesso poco stabili e variazioni di temperatura, umidità e pH possono far degradare o evaporare l’aroma non facendolo giungere fino al consumatore. In alcuni casi l’aroma può anche reagire con altri ingredienti presenti nel prodotto o reagire a contatto con l’ossigeno. [Winkel, 2005]. Tutte queste problematiche portano alla necessità di aggiungere grandi quantità aromi ai cibi ed a cercare di stabilizzarli nel tempo.

In particolare, affinché il loro utilizzo risulti ottimale, è necessario che sia la stabilità intrinseca dell’aroma che la stabilità dell’aroma nell’alimento siano elevate.

In particolare la perdita di stabilità intrinseca dell’aroma è dovuta principalmente fenomeni quali l’evaporazione delle componenti più volatili, la cristallizzazione di frazioni poco solubili e

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le reazioni di degradazione (ossidazioni, riarrangiamenti della struttura molecolare). La stabilità dell’aroma nell’alimento è invece influenzata da fenomeni quali le separazioni di fase (ad esempio nelle emulsioni), la solubilizzazione indesiderata, i fenomeni di adsorbimento in alimenti con matrici complesse, le reazioni con ingredienti presenti nell’alimento unitamente al cambiamento dell’aroma, sia durante la lavorazione dell’alimento che nel periodo di conservazione del prodotto finito. [Grab W., 1994].

Gli aromi sono sviluppati dal flavourist che deve combinare diversi agenti aromatizzanti per ottenere l’odore finale previsto. Innanzitutto, sono identificate le sostanze dominanti che determinano l’odore caratteristico e, da queste sostanze, il flavourist crea quindi un aromatizzante, che tende ad avere una struttura più semplice rispetto all'originale naturale, ma allo stesso tempo risponde al profilo aromatizzante naturale [Baines & Knights, 2005].

Nel settore delle bevande a base di frutta, inoltre, i prodotti devono solitamente andare a ricreare anche l’aspetto di un succo di frutta corposo, o comunque avere un’apparenza opalescente ed emanare un profumo di frutta fresca all’apertura della confezione. Per ricostituire le caratteristiche sopraindicate, particolarmente gradite ai consumatori diventa necessario aggiungere quantità considerevoli di aromi e di agenti intorbidanti quali emulsioni olio/in/acqua che impartiscono una torbidità simile al prodotto naturale. [Taherian, 2008].

1.2 I

NCAPSULAMENTO E

R

ILASCIO CONTROLLATO DI

A

ROMI

L'uso di aromi alimentari micro-nanoincapsulati rappresenta una strategia promettente per risolvere alcune problematiche legate al loro utilizzo, che le industrie del settore si trovano ad affrontare, quale ad esempio la stabilità nel tempo.

La sfida in questo settore è selezionare, tra i metodi ed i materiali disponibili, quelli più appropriati per ottenere il microincapsulamento.

Ad oggi, è stata sviluppata e prodotta una vasta gamma di prodotti incapsulati in micro-nanostrutture commercializzati con successo nell’industria farmaceutica e cosmetica.

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Nell’ambito dell’industria alimentare invece la microincapsulazione è tuttora rivolta ad un mercato ristretto di prodotti commerciali. Le tecnologie alla base della microincapsulazione in ambito alimentare devono ancora essere pienamente sviluppate e promosse per poter diventare uno strumento convenzionale nel repertorio del tecnologo alimentare. [Desai & Park, 2005]. L’incapsulamento può essere definito come il processo di intrappolamento di una sostanza dentro un'altra, che produce una particella con un diametro che va da pochi nanometri a pochi millimetri. La sostanza incapsulata può essere definita nucleo, agente attivo, riempimento, fase interna etc.. La sostanza incapsulante viene definita rivestimento, membrana, guscio, materiale di trasporto, fase esterna, matrice. Il materiale di rivestimento deve possedere proprietà di barriera nei confronti del principio attivo incapsulato e dell’ambiente circostante, e se destinato all’impiego nel settore alimentare deve essere inoltre di grado alimentare (“food grade”). I benefici ottenibili tramite l’incapsulamento nell’industria alimentare sono molteplici, tra cui:

 Migliore maneggiabilità del principio attivo (conversione di liquidi in polveri scorrevoli, non pulverulente);

 Migliore stabilità del principio attivo durante il processo di lavorazione e nel prodotto finito (minore evaporazione di composti volatili, riduzione dei processi degradativi come le ossidazioni);

 Maggior sicurezza (ridotta infiammabilità di composti volatili, minori problemi nel maneggiamento di prodotti volatili);

 Creazione di effetti visibili e strutturali (ad es. polveri di colori diversi per prodotti diversi);

 Modellabilità delle proprietà/caratteristiche del principio attivo (dimensione delle particelle, struttura, solubilità in acqua o olio);

 Mascheramento di eventuali cattivi odori o sapori (es. olio di pesce, omega3, omega6);

 Rilascio controllato in risposta a stimoli precisi; [Zuidam et al. 2010]

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L’uso dell’incapsulamento risulta vantaggioso nel caso che i benefici acquisiti superino gli aspetti negativi di questa tecnica, quali [Frost & Sullivan, 2005]:

 Costi aggiuntivi

 Maggior complessità del processo produttivo o della catena di fornitura

 Problemi di stabilità dell’incapsulato durante il processamento e lo stoccaggio del prodotto.

1.2.1 Micro-nanosistemi per il rilascio controllato di aromi

Da un punto di vista strutturale si possono distinguere due tipi principali di sistemi incapsulati: quelli a serbatoio e quelli a matrice.

La struttura a serbatoio, definita in alcuni casi “capsula”, è costituita dal principio attivo (nucleo) rivestito da un guscio omogeneo, la cui rottura comporta la fuoriuscita del principio attivo. La struttura a matrice si distingue da quella a serbatoio per la dispersione omogenea del principio attivo nella matrice, sotto forma di piccole gocce o disperso a livello molecolare, e per la possibile presenza di questo anche sulla superficie della particella.

Questi tipi di strutture possono essere combinate in vario modo, dando origine a sistemi con caratteristiche molto versatili (Figura 1.1). Rivestendo una struttura a matrice, ad esempio, si ottiene un sistema con dispersione omogenea del principio attivo al suo interno, ma senza presenza di questo in superficie. Possono essere ottenuti anche sistemi con gusci e/o nuclei multipli e a simmetria non sferica. [Zuidam et al. 2010]

a) Serbatoio b) Matrice c) Matrice rivestita

Figura 1.1 Struttura a serbatoio/capsula (a), struttura a matrice (b) ed a matrice rivestita (c). Il principio attivo/nucleo è indicato in bianco, il materiale di rivestimento/matrice in grigio.

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1.2.2 Metodi di preparazione di micro-nanosistemi per il rilascio controllato di aromi

I metodi per preparare micro-nanosistemi sono numerosi, ed escluse poche eccezioni, la maggior parte dei metodi prevede due fasi principali a) formazione di gocce del principio attivo, b) inglobamento delle gocce di principio attivo nel materiale.

Di seguito in Tabella 1.3 sono riportati in modo schematico i principali processi di incapsulamento, le fasi necessarie e le caratteristiche delle particelle ottenute.

1.2.2.1 Spray-drying

Lo Spray-drying (Figura 1.2) è una delle prime tecniche usate per l’incapsulamento di principi attivi, ed è quindi ormai ben consolidata in ambito industriale anche grazie alla sua convenienza rispetto ad altre tecnologie.

Questa tecnica prevede la dispersione del principio attivo, che può essere sia idrofilo che idrofobo, in una soluzione/sospensione acquosa della matrice (es. gomme naturali, amido, ciclodestrine) e la successiva atomizzazione della miscela dei due in un flusso di aria calda che provoca la rapida evaporazione dell’acqua. [Barbosa-Cánovas et al. 2005; Gharsallaoui et al. 2007].

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Tabella 1.3 Tecniche di microincapsulamento e caratteristiche dei preparati

Tecnologia Fasi del processo Morfologia

Caricamento Principio Attivo (%) Diametro (m) Spray-drying

1) Dispersione o discioglimento del

principio attivo (PA) nella soluzione acquosa contente la matrice

2) Atomizzazione 3) Disidratazione

Matrice 5-50 10-400

Rivestimento in letto fluido

1) Fluidizzazione della polvere contenente

il PA 2) Rivestimento 3) Disidratazione o

raffreddamento Serbatoio 5-50 5-5000

Spray-chilling Spray-cooling

1) Dispersione o discioglimento del PA in

lipidi fusi 2) Atomizzazione

3) Raffreddamento Matrice 10-20 20-200

Melt injection

1) Fusione della matrice-rivestimento 2) Dispersione o dissoluzione del PA nel

materiale matrice/rivestimento fuso

3) Estrusione 4) Raffreddamento

Matrice 5-20 200-2000

Melt extrusion

1)Fusione della matrice-rivestimento 2) Dispersione o discioglimento del PA nel

materiale matrice/di rivestimento fuso

3) Estrusione con estrusore bivite 4) Raffreddamento

Matrice 5-40 300-5000

Emulsione 1) Discioglimento del PA nella fase oleosa e degli emulsionanti nella fase acquosa

(emulsione o/a) 2) Omogeneizzazione Matrice 1-100 0,2-5000

Emulsioni multistrato con

polielettroliti

1) Emulsione o/w con PA nella fase oleosa

e polielettroliti nella fase acquosa

2) Miscelazione dell’emulsione con

soluzione acquosa contenente poli-elettrolita di carica opposta al primo

3) Rimozione dell'eccesso di polielettroliti

liberi

Serbatoio 1-90 0,2-5000

Coacervazione

1) Preparazione emulsione o/w con il PA

(lipofilo) disciolto nella fase oleosa

2)Miscelazione in condizioni di turbolenza 3) Induzione immiscibilità delle fasi 4) Raffreddamento, 5) Reticolazione

Serbatoio 40–90 10–800

Liofilizzazione

1) Discioglimento o dispersione del

principio attivo e del materiale matrice in acqua 2) Congelamento del campione

3) Liofilizzazione 4) Riduzione delle

dimensioni tramite macinazione

Matrice Vari 20–5,000

Gelazione ionotropica

1) Dissoluzione o dispersione del

principio attivo in una soluzione di polimero 2)Gocciolamento in bagno di

coagulazione

Matrice 20–50 200 5000

Complessazione

1) Miscelazione del supporto e del

principio attivo (a secco, in acqua, in soluzioni concentrate o diluite) 2) Lavaggio ed essiccamento (opzionali)

Complesso di

inclusione 5–15 10-3-10-2 [Zuidam et al. 2010]

(24)

Durante questo processo si forma un film sulla superficie delle gocce che permette solo alle piccole molecole di acqua di fuoriuscire, trattenendo il principio attivo solitamente composto da molecole di dimensioni maggiori. In caso di principi attivi idrofobi solitamente si procede ad emulsionarli nella fase acquosa contenente la matrice, tal quali o miscelati con un mezzo oleoso. È possibile lavorare sia in co-corrente che in contro-corrente. Per prodotti particolarmente sensibili alla temperatura è più indicato lavorare in co-corrente per ridurre al minimo eventuali fenomeni di surriscaldamento.

Le dimensioni delle particelle ottenute dipendono da vari fattori quali la tensione superficiale e la viscosità del liquido, dalla pressione e dalle portate usate. La dimensione delle particelle influenza il tempo necessario per l’essiccamento, particelle più grandi necessitano di maggiori tempi di residenza. In media la temperatura del flusso di aria usato per l’essiccamento varia dai 150 ai 200°C ma la superficie delle particelle mantiene temperature che vanno dai 50 ai 100°C massimo (temperatura di bulbo umido alle condizioni operative all’interno dello spray-dryer). [Zuidam et al. 2010].

La soluzione può essere spruzzata dall’alto verso il basso o viceversa, nel caso sia necessario aumentare i tempi di residenza (es. per particelle particolarmente grandi).

Il prodotto ottenuto alla fine del processo è una polvere fine costituita da particelle porose con diametro variabile da 10m a 150m. Particelle dalle dimensioni maggiori, fino a 400m si possono ottenere favorendo l’agglomerazione delle polveri. [Barbosa-Cánovas et al. 2005; Ortega-Rivas, 2005].

L’agglomerazione è ottenibile sottoponendo le polveri non completamente secche ad un qualsiasi processo che preveda movimenti casuali (es. letto fluido). Altri metodi per ottenere particelle più grandi prevedono lo spray-drying della soluzione su supporti preesistenti (polveri porose), in alternativa si possono spruzzare le polveri, mantenute in sospensione in un letto fluido, con una soluzione che una volta evaporata faccia da legante. [Fuchs et al., 2006; Litster, 2003; Barbosa-Cánovas et al., 2005; Uhlemann et al., 2002; Ortega-Rivas, 2005].

(25)

I materiali usati come matrice devono avere caratteristiche opportune, quali buone proprietà di barriera, pur consentendo la fuoriuscita di acqua durante il processo, alta solubilità in acqua, buone proprietà emulsionanti, ed una temperatura di transizione vetrosa (Tg) abbastanza elevata tale da dare origine ad un prodotto finito non colloso, e quindi a delle polveri scorrevoli che non tendano ad agglomerarsi. [Gharsallaoui et al., 2007].

Alcuni dei materiali più usati, in ambito alimentare, sono le gomme naturali come la gomma arabica, i polisaccaridi come gli alginati, i carragenani e l’amido, le proteine animali e vegetali come la gelatina o le proteine di soia, i carboidrati come le maltodestrine o le ciclodestrine e i lipidi quali cere o fosfolipidi con azione emulsionante.

Le particelle ottenute tramite spray-drying sono solitamente idrofile, o almeno la componente avente funzione di matrice lo è, si dissolvono quindi rapidamente se messe in contatto con l’acqua rilasciando il principio attivo.

Tramite alcune modifiche quali reticolazioni o l’uso di materiali più idrofobi è possibile ottenere sistemi che rilascino il principio attivo in modo graduale una volta entrati in contatto con l’acqua.

Nel caso di emulsioni sottoposte a spray drying le caratteristiche dell’emulsione usata influenzano le modalità di rilascio del principio attivo una volta che la matrice si sia dissolta a contatto con l’acqua [Zuidam et al., 2010], infatti a seguito della dissoluzione della matrice, il prodotto ottenuto sarà nuovamente l’emulsione di partenza, eventualmente diluita rispetto all’originale sottoposta a spray-drying. Le caratteristiche del sistema idratato rispecchieranno quindi quelle per cui l’emulsione era stata progettata (es. rilascio controllato dell’aroma, ottenimento di torbidità della bibita).

In conclusione questa tecnica risulta adatta a molti tipi di ingredienti, inclusi quelli sensibili alle temperature e/o volatili (es. aromi) poiché la matrice protegge il principio attivo e limita la perdita di composti volatili. Inoltre il breve tempo di esposizione all’aria calda e la rapida evaporazione dell’acqua mantengono relativamente bassa la temperatura del nucleo, preservando le caratteristiche del principio attivo.

(26)

1.2.2.2 Rivestimento in letto fluido

Il rivestimento in letto fluido (Figura 1.3) è una tecnica che prevede l’applicazione di un materiale di rivestimento su di una polvere.

La polvere è tenuta sospesa in un flusso d’aria ad una determinata temperatura, il materiale di rivestimento viene atomizzato nel flusso d’aria e si deposita sulla polvere. La temperatura del flusso d’aria varia a seconda delle caratteristiche dei materiali utilizzati, questi devono avere una viscosità tale da permetterne un agevole atomizzazione, devono risultare termicamente stabili e capaci di formare un rivestimento omogeneo sulla superficie delle particelle.

I materiali impiegati possono essere soluzioni acquose di cellulosa o suoi derivati, destrine, proteine, gomme o amidi e loro derivati.

Figura 1.3 Schema di impianto per rivestimento in letto fluido

Nel caso di soluzioni acquose la velocità di evaporazione dell’acqua dipenderà dal contenuto iniziale di questa, dalla velocità di spraying, dal flusso di aria e dalla sua umidità e dalle temperature della soluzione atomizzata, del flusso di aria e del materiale rivestito. [Dewettinck e Huyghebaert, 1999; Guignon et al., 2002; Teunou & Poncelet, 2002, 2005].

Come materiale di rivestimento è possibile usare anche lipidi fusi.

È possibile effettuare il rivestimento introducendo il grasso atomizzato sia dall’alto che dal basso.

(27)

Nel caso si utilizzino lipidi è importante che questi non solidifichino prima di raggiungere la polvere da rivestire, ma anche che non rimangano fluidi dopo aver rivestito le particelle poiché questo ne causerebbe l’agglomerazione.

Per far avvenire la solidificazione al momento giusto è possibile agire controllando le temperature delle varie sezioni: la vasca di stoccaggio del grasso, la linea di alimentazione, l’ago di atomizzazione e il flusso per l’atomizzazione.

La velocità di solidificazione del rivestimento dopo l’atomizzazione viene controllata dalla velocità di applicazione del rivestimento e dalla temperatura del flusso di aria che mantiene in sospensione le particelle che solitamente è tenuta 10-20 °C sotto al punto di fusione. Se la temperatura fosse mantenuta troppo vicina al punto di fusione le particelle rimarrebbero collose portando all’agglomerazione. Idealmente le particelle sottoposte a rivestimento dovrebbero avere geometria sferica e una distribuzione dimensionale omogenea, nonché una buona scorrevolezza. La forma sferica risulta la migliore in quanto richiede il minimo materiale di rivestimento a parità di volume e garantisce un ottima scorrevolezza.

Il rivestimento generalmente viene applicato per aumentare la resistenza all’umidità, inoltre per migliorare ulteriormente la resistenza è possibile anche applicare più di un rivestimento o aumentare lo spessore del rivestimento applicato. [Zuidam et al., 2010].

1.2.2.3 Spray-chilling/Spray-cooling

Lo Spray-chilling/Spray-cooling è una tecnica che fornisce principi attivi di vario tipo rivestiti con lipidi o inglobati in matrici lipidiche. [Kjaergaard, 2001; Uhlemann et al., 2002; Gouin, 2004]. Il principio attivo può essere sciolto direttamente nel grasso nel caso vi sia solubile, ma vi può essere anche sospeso sotto forma di particelle solide o essere presente come emulsione acquosa. Il principio di funzionamento è molto simile allo spray-drying, il fluido viene atomizzato tramite un ago in una camera in cui da liquido diventa solido e dà origine ad una polvere.

A differenza di quanto accade nello spray-drying la solidificazione non avviene tramite essiccamento delle particelle a seguito di evaporazione di acqua, ma grazie alle basse

(28)

temperature che portano il grasso, inizialmente fuso, a solidificare come avviene nel rivestimento in letto fluido.

Sono generalmente usati grassi con punto di fusione tra 34 e 42°C per lo spray-chilling e grassi con temperature di fusione superiori per lo spray-cooling.

Le dimensioni delle particelle ottenute tramite questa tecnica dipendono dalla dimensione delle particelle solide eventualmente inglobate, dalla viscosità del fuso, dalle temperature usate e dalla velocità e pressione a cui avviene il processo. [Zuidam et al.2010].

1.2.2.4 Melt Injection e Melt Extrusion

La Melt injection e la Melt Extrusion sono due tecniche che prevedono la fusione di un materiale, contenente il principio attivo disperso o disciolto, e la sua pressatura attraverso ugelli a cui segue il rapido raffreddamento del materiale matrice usato e il conseguente intrappolamento del principio attivo in esso contenuto.

Sono tecniche usate principalmente con carboidrati (es. saccarosio, maltodestrine, sciroppo di glucosio, polioli e vari mono/disaccaridi), che vengono fusi portandoli generalmente al disopra dei 100°C. Le due tecniche si differenziano per la geometria del macchinario impiegato.

La Melt Injection si realizza tramite un estrusore a pistone (senza vite quindi) solitamente disposto in verticale, la Melt Extrusion si attua tramite un estrusore mono o bi-vite disposto orizzontalmente. (Figura 1.4)

(29)

Per produrre sistemi incapsulati è preferita solitamente la Melt Extrusion con estrusore bi-vite, con viti sinusoidali auto-pulenti. Il rapido raffreddamento (quenching) viene solitamente ottenuto facendo entrare in contatto l’estruso con un solvente freddo e disidratante quale l'isopropanolo, o impiegando azoto liquido. [Porzio, 2004].

Gli estrusori sono miscelatori termomeccanici che consistono in una o più viti contenute dentro ad un cilindro. Sia la fusione che il trasporto del materiale sono affidati alle viti (che possono anche essere riscaldate). Queste hanno geometria variabile così da sottoporre il materiale lungo il cammino all’interno dell’estrusore a sforzi di attrito ed a pressione, che aumentano progressivamente, e ne provocano il riscaldamento fino a portare il materiale alla fusione. L’estrusore è quindi solitamente diviso in zone in modo che le condizioni di lavorazione siano facilemente controllabili: nella parte iniziale la vite è costruita in modo da omogeneizzare il materiale appena introdotto sottoponendolo solo a basse pressioni, nelle zone successive la pressione aumenta grazie alla variazione di geometria della vite, ed il materiale si omogenizza ulteriormente ed aumenta di temperatura fino a fondere. Nel tratto finale la geometria della vite resta costante così da fornire una pressione costante e una fuoriuscita costante del materiale fuso dagli ugelli. L’aggiunta del principio attivo, che può essere un solido, un liquido, un emulsione o anche un gas, avviene solitamente a metà dell’estrusore così da minimizzare i tempi di residenza di questo all’interno del macchinario ed a sottoporlo solo per un breve periodo alle alte temperature necessarie alla fusione della matrice. [Zuidam, 2010].

I materiali matrice possono essere sia carboidrati (amidi, amidi modificati, maltodestrine, zuccheri, esteri della cellulosa) ma anche proteine, lipidi o gomme. Come anticipato, in ambito alimentare, sono per lo più usati carboidrati quali gli amidi termoplastici. [Yilmaz, 2003; Yilmaz et al., 2005].

La morfologia del prodotto ottenuto dipende da molti fattori tra cui la forma degli ugelli e dall’eventuale macinazione dell’estruso. [Ortega-Rivas, 2005].

La natura del principio attivo incapsulato e della matrice incapsulante e la compatibilità tra i due sono fattori molto importanti, infatti se il principio attivo è solubile nella matrice il prodotto

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ottenuto sarà omogeneo e riducibile in pezzature estremamente ridotte, in caso contrario, ovvero con sistemi immiscibili, si otterrà una matrice multifase la cui rottura può portare alla liberazione del principio attivo intrappolato. Per principi attivi immiscibili, sono possibili trattamenti volti a modificare il comportamento a seguito della rottura meccanica della matrice (pre-incapsulamenti, modifiche superficiali, etc.), inoltre l’eventuale aggiunta di agenti emulsionanti può aiutare ad ottenere un migliore controllo sulla distribuzione e sul rilascio del principio attivo. [Yilmaz et al., 2001].

In conseguenza dei vari fattori che influenzano la dimensione delle particelle, questa può variare tra 200 e 2000 m.

La quantità di principio attivo con cui possono essere caricati i prodotti ottenuti mediante queste tecnologie si attesta su valori relativamente bassi raggiungendo al massimo un loading del 10%.

1.2.2.5 Emulsioni

Convenzionalmente, le emulsioni sono dispersioni colloidali di due liquidi immiscibili in cui uno costituisce una fase continua e l’altro discontinua sotto forma di gocce di dimensioni anche molto variabili.

Le emulsioni sono tipicamente sistemi instabili che tendono a separarsi nelle due fasi originarie, una acquosa ed una oleosa. Modulando adeguatamente la dimensione delle particelle, le caratteristiche dell’interfaccia tra le due fasi, la viscosità delle soluzioni ed altri parametri, si possono creare sistemi cineticamente, ma non termodinamicamente, stabili. La separazione delle fasi è prevenibile quindi formulando correttamente la composizione delle due fasi e l’interfaccia tra le due. [McClements, 2005; Appelqvist et al., 2007]. La separazione in alcuni casi potrà essere resa talmente lenta da ottenere emulsioni capaci di mantenersi in una situazione di equilibrio metastabile per tempi prolungati. [Tharwat, 2013].

Le emulsioni si possono ottenere sottoponento un sistema bifasico a forti sforzi di taglio tramite ad esempio omogeneizzatori (Figura 1.5.), mulini colloidali o agitatori con geometrie adeguate.

(31)

Nel caso in cui le emulsioni siano prodotte per ottenere un rilascio controllato, dovranno avere caratteristiche tali da essere stabili nelle condizioni di stoccaggio e procedere alla liberazione del principio attivo una volta che sopravvenga una determinata condizione (apertura della confezione, consumo del prodotto, etc). [Appelqvist et al., 2007]. Le emulsioni possono essere usate per veicolare prodotti lipofili in ambiente liquido (o/w), prodotti idrofili in ambiente acquoso mantenedoli isolati dall’ambiente (w/o/w), o prodotti idrofili in ambiente lipofilo (w/o). [Appelqvist et al., 2007]. Emulsioni semplici (o/w, w/o) sono solitamente usate per veicolare principi attivi idrofili o lipofili all’interno di prodotti alimentari. Alcuni prodotti lipofili sensibili che necessitano di essere veicolati in forma protetta tramite emulsioni sono aromi, cartonenoidi, steroli, vitamina E ed acidi grassi (es. omega3, omega6). [Appelqvist et al. 2007].

Figura 1.5 Schemi di Omogeneizzatori: a)Omogeneizzatore a pressione, b)Omogeneizzatore a pale.

Le emulsioni o/w possono essere sottoposte a trattamenti successivi quali ad esempio lo Spray-drying (§.1.2.2.1) o la Liofilizzazione (§.1.2.2.7) prima di essere inglobate in prodotti alimentari secchi (es. prodotti istantanei), o funzionare da stampo per produrre coacervati complessi, microsfere ed emulsioni multistrato. La tecnica di emulsione può inoltre essere usata in alternativa alla tecnica dello spray-chilling/spray-cooling (§1.2.2.3), emulsionando il grasso fuso e successivamente raffreddando provocando la solidificazione delle particelle di grasso. [Mellema et al., 2006].

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Emulsioni multistrato con polielettroliti

Per ottenere emulsioni multistrato è necessario far adsorbire sulla superficie delle gocce dell’emulsione già formata un polielettrolita con carica opposta a quella presente sulla superficie delle gocce stesse. Il procedimento può essere anche ripetuto più volte alternando strati di polielettroliti con cariche opposte. [Guzey & McClements, 2006]. Questa procedura è chiamata anche deposizione elettrostatica strato su strato o layer-by-layer (LBL). Si tratta di una procedura relativamente nuova e ancora sotto investigazione. Risulta di semplice attuazione su scala di laboratorio, ma può essere più impegnativa su scala industriale. I materiali ad oggi impiegati per questa tecnica sono -lattoglobuline-(iota)-carragenani, -lattoglobuline-pectina, o sodio dodecil solfato (SDS)-Chitosano-pectina.

1.2.2.6 Coacervazione

La tecnica chiamata coacervazione (Figura 1.6) prevede la produzione di coacervati attraverso l’induzione di separazione tra due fasi liquide acquose, una ricca in polimero (coacervato) e una seconda fase impoverita di polimero. A seconda del numero di polimeri usati si possono avere coacervati semplici (un polimero) o complessi (più polimeri con cariche opposte).

Figura 1.6 Esempio di coacervazione: (a) dispersione del principio attivo nella gelatina, (b) principio di coacervazione della gelatina a seguito di una perturbazione, (c) deposizione della gelatina e prosecuzione della coacervazione sulla superficie del principio attivo disperso e (d) reticolazione del guscio di gelatina tramite reticolazione all’interfaccia. [Augustin & Hemar, 2009]

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Per incapsulare principi attivi sono per lo più usati coacervati di tipo complesso, a base di gomma arabica e gelatina. Questo tipo di coacervato è prodotto partendo da un’emulsione o/w contenente sia gelatina che gomma arabica 1:1 in acqua, mantenendo il sistema al di sopra della temperatura di gelazione della gelatina (35 °C). [Gouin, 2004; Lemetter et al., 2009]. Facendo variare il pH da neutro a pH 4 si creano 3 fasi immiscibili: una oleosa, una acquosa ricca in polimero ed una acquosa povera di polimero. La fase ricca in polimero tenderà ad adsorbirsi sulle gocce della fase oleosa. Successivamente, raffreddando il sistema, le pareti delle gocce oleose rivestite da gelatina e gomma arabica si solidificheranno stabilizzandosi.

La formazione di coacervati si può anche provocare tramite diluizioni o variazioni di forza ionica, in base ai polimeri con cui si sta lavorando ed alla loro solubilità. [Thies, 2007].

I coacervati possono essere ulteriormente stabilizzati tramite l’uso di reticolanti, o essiccati tramite spray-drying o fluid bed drying. [Tabor et al., 1992; Thies, 2007].

In alternativa alla diffusa gomma arabica è possibile usare altri polimeri caricati negativamente come la carbossimetilcellulosa, la pectina, i carragenani, gli alginati e derivati e polifosfati. [Bakker et al., 1999; Gouin, 2004; Thies, 2007]. La gelatina può invece essere sostituita da polimeri carichi positivamente come le proteine del siero di latte. [Weinbreck et al., 2003]. Ogni abbinamento ha caratteristiche a se in termini di pH, temperatura, forza ionica etc..

1.2.2.7 Liofilizzazione

La liofilizzazione consiste nella disidratazione di un materiale provocando la sublimazione dell’acqua in esso contenuta.

Il materiale viene congelato a temperature inferiori ai -20°C e successivamente disidratato provocando la sublimazione dell’acqua contenuta tramite l’uso di basse pressioni. I prodotti ottenuti sono molto porosi, non “collassati” e friabili, caratteristiche che consentono eventualmente un'agevole riduzione della pezzatura tramite macinatura. [Zuidam et al., 2003]. Gli svantaggi della liofilizzazione sono i lunghi tempi necessari al processo, l’alta richiesta energetica e l’alta porosità dei sistemi ottenuti che fa sì che non vi sia un marcato effetto barriera

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da parte della matrice. La liofilizzazione è inoltre dalle 30 alle 50 volte più costosa dello spray-drying. [Gharsallaoui et al., 2007].

1.2.2.8 Gelazione Ionotropica

La gelazione ionotropica è una tecnica tramite cui si ottiene la formazione di un gel per aggiunta di una soluzione di polimero, con caratteristiche di polielettrolita, ad una soluzione contenente ioni capaci di interagire con le cariche presenti sul polimero, e provocare così la formazione di un gel fisico. I gel formati dall’interazione tra ioni calcio ed alginato sono tra i sistemi di questo tipo meglio conosciuti e spesso usati per l’intrappolamento di vari principi attivi (oli, aromi, cellule, probiotici, lieviti, enzimi, etc.).

I prodotti ottenuti tramite gelazione ionotropica sono caratterizzati da una porosità piuttosto marcata che non consente il trattenimento di principi attivi dalle dimensioni eccessivamente ridotte. [Zuidam et al., 2010].

Solitamente la gelazione ionotropica è impiegata per produrre microsfere di gel in cui è possibile intrappolare il principio attivo e dare origine quindi a dei sistemi con struttura a matrice.

Il gel sotto forma di microsfere, con incorporato il principio attivo, si può ottenere tramite estrusione o gocciolamento di una soluzione acquosa, contenente il polimero miscelato al principio attivo, in un bagno di gelazione. [Zuidam et al., 2010].

Il gocciolamento può avvenire tramite l’uso di pipette, siringhe, aghi vibranti, sprayers, jet cutter, dischi di atomizzazione, flussi d’aria coassiali o campi elettrici. [Zhang et al., 2007]. Le dimensioni delle beads ottenute variano tra 0,2 e 5 mm a seconda della tecnica impiegata e della viscosità della soluzione gocciolata.

Tramite questo metodo è possibile produrre anche dei sistemi con struttura a guscio. Questi si possono ottenere usando aghi concentrici per effettuare una co-estrusione creando, ad esempio, un sistema con nucleo lipofilo contenuto in un guscio di gel. [Zhang et al., 2007].

La gelazione ionotropica si può abbinare anche alla tecnica di emulsione, così da ottenere sistemi dalle dimensioni particolarmente ridotte. Applicando la tecnica di emulsione ad un

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sistema che sia in grado di gelificare in determinate condizioni, è possibile preparare microsfere con dimensioni ridotte rispetto alla tecnica precedente (10 m-1 mm anziché 0,2-5 mm). Da un punto di vista industriale la gelazione ionotropica abbinata all’emulsione risulta più facilmente scalabile della tecnica precedente. [Zuidam et al., 2010].

1.2.2.9 Complessazione

La complessazione è una tecnica che sfrutta le reazioni di complessazione, ovvero quelle reazioni in cui si ha la formazione di complessi molecolari, o complessi di inclusione, i quali derivano dall’interazione di due molecole in cui una (l’agente complessante) ha la capacità di ospitare l’altra (principio attivo) in una cavità. Solitamente si sfruttano complessi formati tra molecole idrofobe (principio attivo) e molecole capaci di interagirvi ed aumentarne la solubilità in acqua (complessante idrofilo, con cavità idrofoba).

Le molecole più note che danno luogo a complessi molecolari di questo tipo sono le ciclodestrine [Hedges, 1998; Szente & Szejtli, 2004; Regiert, 2008], oligosaccaridi composti da 6-8 molecole di glucosio legate tra loro tramite legami -(), caratterizzate da una struttura a cono in cui la superfice esterna è idrofila e quella interna è idrofoba (Figura 1.7).

La capacità di una molecola di ospitare un principio attivo dipende sia dalla compatibilità di questo con la cavità di cui la molecola è fornita, principi attivi lipofili potranno essere ospitati in cavità lipofile, sia dimensioni adeguate della cavità rispetto al principio attivo.

La formazione di complessi molecolari si può ottenere caricando il materiale complessante con il principio attivo sia direttamente a secco che in soluzione o in slurry ad umido.

I complessi molecolari sono in equilibrio con l’ambiente in cui si trovano, di conseguenza il principio attivo è libero di migrare e la loro capacità di carico risulta quindi limitata. [Hedges, 1998].

Oltre alle già citate ciclodestrine altri materiali in grado di generare complessi molecolari sono l’amilosio, che può inglobare lipidi, e le proteine del siero di latte (es - lattoglobuline), le quali possono ospitare nella loro tasca idrofobica acidi grassi ed aromi. [De Wolf & Brett, 2000].

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1.2.3 Materiali di natura organica per l’incapsulamento ed il rilascio controllato di aromi

I materiali organici con caratteristiche tali da poter esser usati per intrappolare, incapsulare o rivestire principi attivi di varia natura sono molteplici, ma solo un numero limitato è utilizzabile in ambito alimentare. Tutti i materiali impiegati in questo ambito devono infatti essere classificati come “GRAS” ovvero “ generally recognized as safe”. [Zuidam et al., 2010].

La maggior parte dei materiali usati in ambito alimentare sono biomolecole, per lo più carboidrati ma anche lipidi e proteine. In Tabella 1.4 sono riportati alcuni tra i materiali organici attualmente impiegati per uso alimentare.

Tabella 1.4 Materiali organici per incapsulamento in ambito alimentare

Origine Polisaccaridi Proteine Lipidi

Vegetale Amido e derivati Cellulosa e derivati Essudati  Gomma Arabica  Gomma Karaya  Gomma Adragante Estratti

 Farina di semi di Tara (Gomma Tara)  Farina di semi di Guar (Gomma Guar)  Farina di semi di Carruba

Glutine Acidi grassi

Gliceridi Cere Fosfolipidi

Microbica o

Animale Xantani Chitosani Proteine del latte Gelatina

Marina Carragenani Alginati _ _

[Wandrey et al 2010]

1.2.3.1 Polisaccaridi

I polisaccaridi sono carboidrati complessi costituiti da omo e co-polimeri di zuccheri e loro derivati. Esiste un enorme varietà di polisaccaridi naturali e modificati con caratteristiche altrettanto variegate. Di seguito sono riportate alcune famiglie di polisaccaridi tra le più usate in ambito alimentare come matrici incapsulanti.

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Amido e derivati

L’amido (Figura 1.8), è un polisaccaride di origine vegetale costituito da catene di  -D-Glucopiranosio che si trova immagazzinato in quantità abbondanti in natura per lo più in tuberi, semi e frutti.

Le catene di glucosio sono organizzate secondo due tipi di strutture, una lineare ed una ramificata. La frazione lineare dell’amido prende il nome di amilosio (poli[-(1 4)anidro-D-Glucopiranosio) e costituisce in genere il 20-30% dell’amido con variazioni legate all’origine. [Wandrey et al., 2010]. Le catene di amilosio possono essere costituite da 500 a 6000 unità e sono organizzate nello spazio a formare un'elica. [Murphy, 2000].

La frazione ramificata, chiamata amilopectina, è costituita da catene principali con struttura identica all’amilosio, sui cui, circa ogni 20-30 unità, si innestano catene laterali attraverso legami

-(16), composte da circa 30 unità di -(14)anidro-D-Glucopiranosio. L’amilopectina costituisce generalmente il 70-80% dell’amido e si trova organizzata in zone amorfe, generate dalle ramificazioni, e zone cristalline nelle quali le catene, con struttura identica all’amilosio, hanno la possibilità di interagire organizzandosi in doppie eliche (Figura 1.9), [Wandrey et al., 2010].

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Figura 1.9 Struttura amilopectina, alternaza regioni amorge e cristalline [Bertoft, 2004].

L’amido si trova organizzato sotto forma di granuli con dimensione variabile tra 1 e 900 m [Murphy, 2000; Elias, 1992], la cui forma può essere sia lenticolare che sferica. [Ao e Jane, 2007]. Le eliche di amilosio si trovano intercalate alla struttura ramificata dell’amilopectina, la quale impedisce alle eliche di interagire e formare strutture rigide. [Wandrey et al., 2010].

L’amido si presenta come una polvere bianca incolore ed insapore, insolubile in acqua fredda, etanolo e nei principali solventi, tuttavia in acqua è soggetto a rigonfiamento (swelling). Riscaldando una soluzione di amido al di sopra di 90 °C, questo va incontro ad un processo di gelatinizzazione, durante il quale hanno luogo alcuni processi irreversibili: i legami intermolecolari (legami ad idrogeno) si rompono, si ha assorbimento di acqua con conseguente rigonfiamento, le frazioni cristalline fondono e si ottiene una parziale solubilizzazione. L’amilosio, insolubile in acqua fredda, diventa infatti solubile in acqua calda conferendo viscosità alla soluzione, l’amilopectina invece è soggetta a swelling ed a parziale degradazione. [Singh et al., 2003].

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Una volta che le corte catene di amilosio si trovano dissolte in acqua, e non più intercalate alle molecole ramificate di amilopectina, tendono ad unirsi tra loro ed a formare aggregati a doppia elica, provocando così l’aumento di viscosità della soluzione fino ad arrivare anche alla formazione di gel fisici [Wandrey et al., 2010]. Nel caso di soluzioni concentrate si può osservare la cristallizzazione dell’amilosio (fenomeno noto come retrogradazione). La riorganizzazione in strutture compatte e la cristallizzazione delle molecole di amilosio causano la formazione di gel rigidi ed aggregati insolubili; infatti, una volta essiccata, questa frazione non è più disperdibile in acqua. [Elias, 1992].

L’amilosio ha inoltre la capacità di formare complessi di inclusione con molecole lipidiche, all’interno dei granuli di amido grezzo si trovano infatti doppie eliche complessate con molecole lipidiche. (Figura 1.10).

Come anticipato, l’amilopectina non risulta solubile in acqua, tuttavia, se sottoposta a forte agitazione, dà origine a dispersioni colloidali oltre ad essere soggetta a swelling in acqua calda. A differenza di quanto avviene per l’amilosio, le dispersioni acquose di amilopectina non sono soggette a retrogradazione né a una vera e propria gelazione, danno origine infatti a gel soffici e scorrevoli [Yuan, 1993], che a seguito di essiccamento, forniscono polveri amorfe facilmente ri-disperdibili in acqua. [Wandrey et al., 2010].

Figura 1.10 Struttura molecolare proposta per granuli di amido di mais (A-catene lineari, B-catene ramificate) [Zobel, 1992].

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I rapporti tra amilosio ed amilopectina influenzano quindi il comportamento dell’amido: più è alto il contenuto di amilosio, più sono ridotti lo swelling e la forza dei gel formati a parità di quantità di amido impiegata. [Wandrey et al., 2010].

Da un punto di vista industriale, l’amido grezzo ha quindi un utilizzo limitato, infatti l’alta viscosità delle soluzioni ottenibili rende la lavorazione dei prodotti difficoltosa, mentre la degradazione a temperature elevate e la retrogradazione danno origine a prodotti che perdono rapidamente le caratteristiche organolettiche desiderate. Infatti la gelificazione fa sì che i prodotti perdano consistenza a seguito di cotture prolungate, mentre la retrogradazione conferisce una consistenza gommosa e poco gradevole. [Wurzburg, 2006].

Sono state quindi studiate modifiche in grado di inibire queste reazioni e fornire prodotti facilmente lavorabili e con una shelf-life più lunga (Tabella 1.5).

Tabella 1.5 Proprietà ed applicazioni degli amidi modificati [Wurzburg, 2006]

Processo Modifica ottenuta/Funzione Applicazioni

Idrolisi Acida Diminuzione della viscosità Caramelle gommose, formulazioni di

alimenti liquidi. Ossidazione Stabilizzazione e chiarificazione; consente

la formazione di gel coesi

Alimenti, pastelle, caramelle gommose, condimenti.

Destrinizzazione

(piroconversione)

Alta solubilità; utili come leganti, usate

come incapsulanti e come rivestimenti Dolci, prodotti da forno, aromi, spezie Reticolazione

Stabilizzazione ed inspessimento; prodotti impiegati per sospensioni e come

testurizzanti

Ripieni per torte, pane, prodotti da forno surgelati, budini, alimenti per infanzia, minestre, sughi

In ambito alimentare sono quindi largamente utilizzati i prodotti ottenuti tramite degradazione dell’amido.

Di seguito sono descritti alcuni processi di modifica (degradazione) cui è sottoposto l’amido. I prodotti ottenuti dalla degradazione dell’amido sono genericamente chiamati Destrine.

Uno dei metodi per modificare l’amido è l’idrolisi tramite acidi diluiti. Il processo prevede che uno slurry di amido in presenza di HCl o di un H2SO4 sia riscaldato a circa 60°C e lasciato sotto

agitazione fino all’ottenimento dell’idrolisi (e quindi della viscosità) desiderata. Questo procedimento indebolisce la struttura dei granuli di amido, intaccando soprattutto i legami 

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-(14), e quindi l’amilosio, conferendo prodotti caratterizzati da una viscosità nettamente inferiore a quella dell’amido nativo ed anche da minori capacità di swelling. Queste caratteristiche fanno sì che l’amido sottoposto ad idrolisi acida possa essere trattato facilmente in soluzioni più concentrate rispetto all’amido vergine, senza dover fronteggiare forti aumenti di viscosità. I prodotti ottenuti tramite questa tecnica, tuttavia, non sono stabili alle basse temperature, formano infatti gel che tendono ad opacizzarsi. [Wurzburg, 2006].

Un secondo metodo prevede l’ossidazione in ambiente basico dell’amido, tramite agenti ossidanti quali: acido peracetico, perossido di idrogeno, ipoclorito di sodio ed altri ossidanti ammessi per uso alimentare. Questo tipo di trattamento fornisce un amido con viscosità ridotta rispetto all’amido nativo, con un range di viscosità paragonabile a quello ottenuto tramite idrolisi acida. [Wurzburg, 2006].

A differenza dell’idrolisi acida che attacca preferenzialmente alcuni legami, l’ossidazione avviene in maniera casuale. Nelle condizioni basiche in cui viene condotta l’ossidazione si ha la formazioni di gruppi carbossilici che aumentano l’idrofilicità delle molecole e ne aumentano l’ingombro sterico. Tutto ciò contribuisce a diminuire la linearità delle molecole, minimizzando la tendenza ad aggregare che è alla base del fenomeno della retrogradazione. [Wurzburg, 2006]. Un ulteriore metodo di modifica è la piroconversione. Questa, a differenza dei due precedenti metodi, viene condotta a secco, ciò permette di ottenere prodotti altamente idrolizzati senza incorrere in problemi legati al recupero del prodotto dalla soluzione. La piroconversione consiste nella degradazione dell’amido a secco facendo uso di calore ed eventualmente in condizioni lievemente acide o basiche. [Wurzburg, 2006].

I prodotti ottenuti sono caratterizzati da una rapida solubilizzazione e dalla possibilità di ottenere soluzioni ad alta concentrazione, senza che questo comporti aumenti della viscosità. Queste soluzioni risultano quindi facilmente impiegabili in processi quali ad esempio lo spray-drying.

Benché la resistenza dei film prodotti con destrine sia minore di quella ottenuta con amidi non modificati, è tuttavia possibile produrre soluzioni di destrine molto più concentrate. Si

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ottengono così film più spessi e più rapidamente essiccabili rispetto a quelli prodotti con amido non modificato. [Wandrey, 2010]. Queste sono quindi spesso impiegate per incapsulare oli ed aromi alimentari insolubili in acqua tramite la già citata tecnica dello spray-drying. [Shahidi & Regg, 1991].

Una classe particolare di destrine è costituita da oligosaccaridi ciclici, noti come ciclodestrine, caratterizzate da 6-8 unità di D-Glucosio unite da legami (14) chiuse ad anello e prive di ramificazioni. Le strutture formate hanno geometria conica, con una cavità interna con caratteristiche idrofobe [Szejtli, 1998].

Esistono 3 tipi di ciclodestrine caratterizzate da dimensioni diverse (Figura 1.11) : - -ciclodestrina: 6 unità di glucosio, diametro interno 0,5 nm;

- -ciclodestrina: 7 unità di glucosio, diametro interno 0,6 nm; - -ciclodestrina: 8 unità di glucosio, diametro interno 0,8 nm.

In ambito alimentare le più diffuse ed utilizzate sono le beta-ciclodestrine, le quali formano complessi di inclusione con molecole lipofile. [Reineccius et al., 2005; Blanchard & Katz, 2006].

Figura 1.11 Strutture delle ciclodestrine:

a) alfa-ciclodestrina, b) beta-ciclodestrina, c) gamma-ciclodestrina

Un'ulteriore tecnica impiegabile per migliorare le caratteristiche degli amidi è la reticolazione. La reticolazione ha lo scopo di rinforzare la struttura dei granuli di amido tramite legami chimici, che vanno ad aumentare la stabilità dei legami ad idrogeno responsabili dell’integrità dei granuli. Infatti, in assenza di reticolazione, i granuli rigonfiano quando l’amido viene riscaldato in acqua al di sopra della temperatura di gelazione, ed a seguito di cotture prolungate si disgregano irreversibilmente, dando origine a sistemi prima viscosi e poi gommosi, poco graditi in ambito alimentare. La reticolazione consente di impedire la rottura dei granuli di

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