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Capitolo 2: Le nuove dimensioni della responsabilità

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Academic year: 2021

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Capitolo 2: Le nuove dimensioni della responsabilità

“L’uomo è progetto, è proiezione in avanti verso un futuro migliore; l’uomo non è tutto ciò che è, che ha, ma tutto ciò che vorrebbe essere e ciò che vorrebbe avere.” (Sartre).

La convinzione secondo cui la condizione umana, definita dalla natura dell’uomo e dalla natura delle cose, sia data una volta per tutte nei suoi tratti fondamentali, è stata fortemente smentita dalla storia dell’evoluzione, ed è ancora più messa in discussione dall’ampliamento delle potenzialità operative sulla nostra natura che la tecnologia oggi è in grado di offrirci.

Le biotecnologie e le loro applicazioni, hanno introdotto sfere d’azione, oggetti, conseguenze di dimensioni così nuove che l’ambito dell’etica tradizionale, un’etica per cui il valore morale dell’azione si rapporta alle intenzioni dell’agente e alle predisposizioni della sua volontà, al di là degli effetti che ne potrebbero derivare, non sembra più in grado di soddisfare.

Allo stesso modo un’”etica della prudenza”, che trova un ampia schiera di sostenitori nel dibattito attuale, sembra portare a un blocco totale dello sviluppo di queste tecnologie, eliminando l’opportunità di sondare anche questi nuovi possibili orizzonti evolutivi.

Per affrontare adeguatamente le sfide tecnologiche presenti e future è invece necessario trovare una via che riesca a conciliare l’inevitabile incertezza intrinseca di ogni attività umana che abbia a che fare con un sistema complesso, con la necessità di continuare a migliorare la nostra condizione utilizzando al meglio la conoscenza scientifica minimizzando, per quanto ci è possibile, i rischi che da tale applicazione possono derivare.

In questa trattazione abbiamo scelto di concentraci sulla possibilità di intervenire, attraverso l’utilizzo di BCI, sulla condizione umana al fine di realizzare un ampliamento delle prestazioni cognitive e al fine di renderci disponibili nuove forme di operatività sui contenuti mentali, che biologicamente ci sarebbero precluse.

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Nel primo capitolo abbiamo tentato di descrivere il funzionamento di un interfaccia neurale cervello-computer per poi soffermarci sulle possibili applicazioni connesse all’utilizzo di questa tecnologia.

Ci siamo poi orientati peculiarmente sulla possibilità, che sembra potersi concretizzare in un futuro prossimo, di realizzare un ampliamento delle prestazioni cognitive attraverso un progetto, quello del gruppo di ricerca dell’ingegnere biomedico Ted Berger, che sta sperimentando un particolare tipo di neuroprotesi, attraverso la quale si potrebbe realizzare un uploading della memoria a lungo termine su supporto informatico, prospettandoci una serie di operatività sui nostri contenuti mentali di dimensioni e conseguenze totalmente nuove e inesplorate.

In questo capitolo ci soffermeremo su tutte quelle obiezioni di principio1che vengono

avanzate contro l’idea stessa di produrre delle modifiche sostanziali della nostre prestazioni, nel terzo capitolo ci occuperemo invece di tutte quelle obiezioni legate

1

Possiamo distinguere tra due generi di obiezioni da avanzare contro l’idea di liberalizzare l’accesso a pratiche di Human Enhancement.

Obiezioni di Prudenza:

Alle obiezioni “di prudenza” appartengono tutte quelle classi di obiezioni che non mettono in discussione la liceità morale del desiderio di superamento della condizione umana, ma si concentrano sui possibili rischi o usi associati alle tecniche che sembrano poterci aiutare a realizzare questo obbiettivo.

Queste obiezioni si focalizzano intorno ai problemi a lungo termine legati all’utilizzo di queste tecnologie e al loro possibile impatto sociale.

Di per sé le obiezioni di prudenza potrebbero rappresentare un modo cosciente e responsabile di accostarsi ai problemi sollevati dagli sviluppi delle biotecnologie, di fatto però molto spesso finiscono per rappresentare dei veri e propri ostacoli epistemologici che inibiscono la ricerca.

Obiezioni di Principio:

Un’obiezione può essere definita “di principio” quando condanna come immorale, o dichiara come morale, un’azione o un intervento in modo preliminare e incondizionato, in riferimento alla possibilità che possa ledere un valore ritenuto non negoziabile, o in quanto potrebbe rappresentare una minaccia alla stessa morale pubblica.

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all’idea specifica di realizzare un ampliamento delle nostre prestazioni cognitive, obiezioni che si focalizzano intorno ad un concetto chiave della bioetica quello di responsabilità morale.

2.1 Responsabilità morale

Quando ci riferiamo al concetto di responsabilità, ci riferiamo usualmente al suo significato più comune “Il dovere di rispondere delle conseguenze delle azioni che abbiamo compiuto in violazione di una norma del diritto o della morale”.

Questo significato, che possiamo definire sanzionatorio, è quello accolto dai nostri codici giuridici ed etici, ma non è l'unico.

Finora l’etica moderna che chiameremo “tradizionale”, nata dal pensiero cristiano e giusnaturalista, ha “normalizzato” il concetto di responsabilità, racchiudendolo nella

categoria normativa del “dovere”2.

La responsabilità è stata assoggettata, nella sua elaborazione concettuale, ad una serie di regole e codici, di norme e di vincoli, imbrigliata nelle maglie della normatività, e rappresentata come l’antitesi della libertà.

Alla “leggerezza” della libertà è stata contrapposta nelle analisi filosofiche e nello stesso immaginario collettivo, la “gravità” della responsabilità, come se la seconda fosse la garanzia contro le anarchiche tendenze della prima, la certezza dell’ordine contro i pericoli di una morale assoluta.

Sia nel diritto che nella morale, essere responsabili significa essere punibili, assoggettabili a una pena o a una sanzione, in modo che l’ordine turbato dal gesto compiuto contro le norme della comunità possa essere ripristinato.

Per questo possiamo dire che alla responsabilità è stata assegnata finora una funzione “normalizzatrice”, di conservazione di un equilibrio sociale ed economico.

L’avvento delle biotencologie e l’ampliamento dell’operatività che ne consegue ha consentito di problematizzare un concetto che fino ad ora è stato presentato come

2 Cfr. J. Schwartlander, Responsabilità, in H. Krings - H.M. Baumgarten – C. Wild(a cura di),

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coerente e lineare nel linguaggio dei doveri, rilevandone le aspre contraddizioni, esaltando, a lato della punibilità, la riflessione e la ponderatezza, accanto alla sanzione la prevenzione, e alle norme che devono orientare l’agire responsabile, l’irrequietezza

di un impulso morale non codificabile.

Uno degli elementi che accomuna prospettive e soluzioni così differenti è l’abbandono dell’approccio metodologico che ha caratterizzato le analisi tradizionali della responsabilità.

L’alternativa tra determinismo e libero arbitrio non costituisce più condizione di pensabilità della responsabilità, non rappresenta la condizione teorica che dev’essere soddisfatta per poter affrontare i dilemmi dell’agire responsabile.

La ricerca di un nuovo fondamento della responsabilità impone l’adozione di una nuova prosettiva teorica, sollecitata dalla portata dello sviluppo tecnologico che ha sovvertito gli equilibri naturali portando all’attenzione dell’umanità nuovi oggetti di responsabilità come le generazioni future.

Nel corso di questo capitolo cercheremo quindi di ricostruire un percorso attraverso il quale focalizzare l’attenzione sull’urgenza etica sollevata dallo sviluppo delle nuove applicazioni biotecnologiche, e sulle risposte avanzate da questa nuova esigenza.

Prenderemo spunto dalla riflessione di Hans Jonas come premessa necessaria per comprendere la nascita di un’etica della responsabilità come etica della previsione e della prudenza, per poi focalizzare l’attenzione sulle applicazioni pratiche di questa nuova prospettiva etica, esemplificate dal moderno “principio di precauzione” largamente presente nel diabatitto contemporaneo, e divenuto materia di numerosi trattati internazionali.

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Fra le numerose debolezze dimostrate dal pensiero filosofico moderno, nessuna sembrerebbe così profonda come l’inadeguatezza della percezione dell’evoluzione tecnologica.

Fin dalla tradizione classica, ripresa sotto questo aspetto dal razionalismo illuminista, la tecnologia è stata considerata come uno strumento, un procedimento sottoposto alla razionalità dei fini che l’essere umano sovranamente voleva conferirgli, senza altro limite che la disponibilità limitata dalle risorse, l’ignoranza delle leggi che governano la realtà e i principi di impossibilità determinati dai limiti della condizione umana.

Ma progressivamente si è fatta strada la percezione che l’idea della tecnica quale strumento neutrale e dipendente dalla razionalità dei fini umani sia inadeguata, dato che è sempre più la tecnologia stessa a definire se stessa.

Il paradosso che si è venuto a creare è che da una parte l’uomo si è reso sempre più dipendente dalla tecnologia, e questo sembra caratterizzarsi come un processo per molti versi irreversibile perché si alimenta di sempre nuove necessità e bisogni a cui solo la tecnologia stessa può supplire, dall’altra vorrebbe difendersene bloccando una tendenza che porta all’evoluzione attraverso un lento e progressivo processo di “disumanizzazione”, da assumere al di là del suo significato retorico e emotivo, cioè nel senso di progressivo abbandono delle nostre peculiarità biologiche di specie. Fino a che la tecnologia si è sviluppata sottoforma di dispostivi esterni, di agevolazione dei compiti, non si sono destate particolari preoccupazioni intorno alla natura di questo sviluppo, anzi la tendenza è stata quella negare un particolare valore culturale allo sviluppo tecnologico; nel momento in cui però, è l’uomo ad essere diventato uno degli oggetti della tecnica, ed è l’uomo che ha iniziato a prendere parte a quei processi che da sempre sono dominati e determinati dalla natura, il problema etico si è destato improvvisamente, e la tecnologia ha iniziato ad essere percepita da molti esclusivamente come una minaccia.

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Il dibattito contemporaneo riferito allo sviluppo della scienza e della tecnologia nelle loro implicazioni teoriche e pratiche ruota intorno al concetto di Responsabilità e al diverso modo di declinare tale principio da parte dei diversi autori.

La riflessione di Hans Jonas può essere assunta come preliminare all’esame delle varie declinazioni del concetto di responsabilità nella misura in cui, nella sua riflessione, si fa interprete della necessità di una nuova etica, un etica globale per la civiltà tecnologica, che rifletta i nuovi modi dell’agire umano, cosciente del valore e del ruolo della che oggi la tecnologia ha acquisito.

“Il principio di responsabilità, un’etica per la civiltà tecnologica” di Hans Jonas, pubblicato nel 1979, si inserisce nel contesto della cosiddetta “Rehabilitierung der praktischen philosophie3“, indirizzo di pensiero sorto, nel contesto delle filosofie contemporanee,

con l’intento di rivendicare la specificità dell’etica, riaffermandone lo statuto di sapere autonomo capace di autogiustificarsi sul piano della razionalità e non della pura e semplice intuitività, anche se di una razionalità diversa da quella scientifica.

Dopo una profonda fase di crisi dell’etica caratterizzata dall’avvento delle filosofie del sospetto (Nietzsche, Freud), dell’emotivismo neopostivistico, del divisionismo weberiano, del pensiero postmoderno che ne sostenevano l’impraticabilità, a cui affiancare la crisi delle scienze sociali e delle scienze umane, non in quanto tali, ma in quanto forma di sapere o di razionalità utilizzabile nell’ambito dell’etica, negli anni settanta si è assistito ad una rinascita dell’etica normativa, la cui tesi di fondo afferma la possibilità di fondare razionalmente criteri, norme e principi in grado di orientare l’agire umano.

Fino ad alcuni decenni fa la mentalità scientifica largamente dominante, portava a credere che l’etica, e quindi anche le norme, i valori che riguardano il comportamento, potessero in qualche modo servirsi dei risultati delle scienze umane

3L’espressione “Riabilitazione della filosofia pratica” fu coniata da Karl-Heinz Ilting nel 1964 e fu ripresa nel titolo di un’antologia in due volumi (1972-74) curata da Manfried Riedel. L’espressione fa riferimento alla distinzione aristotelica fra scienze teoretiche, poietiche e pratiche, che fu mantenuta nella filosofia accademica tedesca fino a Wolff (l’espressione “filosofia pratica” fu usata fino alla fine del secolo XVIII per indicare l’insieme delle riflessioni sulla praxis, cioè l’etica, l’ “economica” e la politica). La rinascita della filosofia pratica avviene per lo più in polemica con la “scienza politica” moderna ispirata da Weber e soprattutto con l’impossibilità di un’etica fondata sulla conoscenza, affermata dalle tendenze prevalenti nella filosofia analitica anglosassone (emotivismo e prescrittivismo)

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(sociologia, antropologia, psicologia); quando invece si è tentato di utilizzare veramente questi risultati, ci si è resi conto del fallimento di tale progetto, proprio a causa del carattere rigorosamente scientifico che si doveva mantenere nell’ambito delle scienze sociali, o scienze umane.

Tale carattere implicava infatti quella posizione neutrale, o avalutativa (wertfreiheit), che Max Weber aveva teorizzato per primo a proposito proprio di queste scienze.

Gli autori riconducibili a questo indirizzo di riabilitazione della filosofia pratica sono accomunati dalla convinzione che l’agire dell’uomo, con i molteplici problemi che pone oggi l’esercizio del potere scientifico-tecnologico, richieda l’intervento di un modello di pensiero che abbia una sua specificità rispetto alle conoscenze scientifiche, dotate appunto di validità descrittiva ma prive di validità prescrittiva. All’interno di questo indirizzo si ritiene dunque che anche il sapere pratico abbia una sua validità razionale, e non sia soltanto il frutto di scelte e preferenze soggettive, ciò sia nel caso che si tratti dell’agire dell’uomo singolo di fronte alle sue scelte personali, sia che si tratti di quell’agire che investe le comuni responsabilità pubbliche nei campi della politica, dell’economia, del diritto.

Il fenomeno di rinascita d’interesse per la filosofia pratica si è sviluppato negli ultimi due decenni soprattutto in due aree geografico-culturali abbastanza definite, cioè l’area tedesca da una parte e l’area angloamericana dall’altra.

Nell’area tedesca il richiamo più esplicito alla filosofia pratica si è avuto nella corrente dei cosiddetti neoaristotelici, Gadamer, Ritter, un fenomeno per alcuni aspetti analogo si è avuto nell’area angloamericana, dominata come sempre dalla filosofia analitica, dove si è passati da un interesse per una discussione prevalentemente metaetica4, cioè si una filosofia della morale, ad un passaggio di interesse per

questioni di etica applicata.

4 Per Metaetica si intende generalmente un tipo di approccio ai problemi della morale, che

mette da parte i problemi etici concreti e reali, le questioni normative e pratiche, e privilegia invece i problemi legati all’analisi del linguaggio morale.

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La particolarità della posizione jonasiana all’interno di questi indirizzi di pensiero, è che egli recupera una concezione “forte” della razionalità pervenendo ad una fondazione metafisica dell’etica, un’etica globale della civiltà attuale.

La riflessione di Jonas muove da una considerazione di fondo:

“La prassi tecnica ha messo in atto un processo in cui le serie causali che dipendono dalle deliberazioni umane hanno esteso il loro dominio in senso spaziale e temporale e hanno assunto un carattere cumulativo sconosciuto all’agire umano in tempi precedenti.

Gli effetti si addizionano in modo tale che la condizione delle azioni e delle scelte successive non è più uguale a quella dell’agente iniziale, ma risulta diversa da essa in misura crescente e sempre di più un risultato di ciò che già è stato fatto5.”

“La nostra tesi è che le nuove forme e le nuove dimensioni esigono un’etica della previsione e delle responsabilità in qualche modo proporzionale, altrettanto nuova quanto le eventualità con cui essa a che fare.6

Dobbiamo secondo Jonas porci quindi nella prospettiva di un’etica che abbracci queste nuove dimensione della poiesi umana, e che contempli le nuove dimensioni dei suoi effetti, un’etica che da un lato ribadisca la dignità e la sacralità della vita e dall’altro la necessità di un principio etico in grado di accompagnarci e sostenerci in questi sentieri inesplorati del nostro agire:

“Per un verso Jonas muove dalla constatazione che il pensiero scientifico moderno, con la sua riduzione scientifica del mondo a totalità puramente

5 Hans Jonas, 2002, p.10. 6 Hans Jonas, 2002, p.24.

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fattuale, rende impossibile la fondazione razionale di norme etiche e apre dunque la via all‘irrazionalismo morale.

Per altro verso prende atto delle conseguenze pratiche dello sviluppo scientifico, che in virtù delle sue applicazioni tecnologiche è venuto alterando in modo sostanziale il profilo della condizione umana7.”

Le premesse dell’etica tradizionale secondo le quali: la condizione umana, definita dalla natura dell’uomo e dalla natura delle cose, è data una volta per tutte nei suoi tratti fondamentali, e secondo le quali su questa base si può determinare in modo oggettivo il bene umano, non soddisfano più, secondo Jonas, le esigenze poste dalle nuove dimensioni dell’agire.

Nell’ambito dell’etica tradizionale la sfera della technè, fatta eccezione per la medicina, era considerata come neutrale sotto il profilo etico, poiché l‘agire coinvolgeva soltanto in misura irrilevante la natura, capace di autoconservazione delle cose, non sollevando quindi alcuna questione riguardante un danno duraturo all’integrità del suo oggetto (ordine naturale).

In breve, l’incidenza su oggetti non umani non costituiva un ambito di rilevanza etica, la dimensione dell’etica era limitata ai rapporti interumani, alle situazioni ricorrenti e tipiche della vita privata e pubblica, l’etica si configurava come una guida immediata a compiere certe azioni; il bene e il male si manifestavano nella prassi stessa e nella sua portata immediata, nessuno era ritenuto responsabile per le conseguenze involontarie di un suo atto ben intenzionato, il lungo corso delle conseguenze era rimesso al caso, al destino oppure alla provvidenza.

Nell’etica tradizionale la portata dell’agire umano, quindi della responsabilità, era strettamente circoscritta nello spazio e nel tempo.

La mutata natura dell’agire umano e delle sue conseguenze esige però un abbandono di questi presupposti in favore di un analogo mutamento anche nell’etica.

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Da queste considerazioni l’esigenza jonasiana di sostituire all’imperativo etico kantiano:

“ Agisci in modo tale che anche tu possa volere che la tua massima diventi una legge universale.8

con una nuova forma di imperativo etico9:

“Agisci in modo che le conseguenze delle tua azione siano compatibili con un’autentica vita umana sulla terra.”

Oppure,

“Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita.10

Tutte le formulazioni di questo nuovo imperativo sottendono un preciso monito prudenziale:

8

I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti Morali, a cura di P.Chiodi, Utet, Torino, 1986, p.47.

9 Il nuovo imperativo proposto da Jonas, evoca un’altra coerenza rispetto al vecchio imperativo: non

quella dell’atto con se stesso, ma quello dei suoi effetti ultimi con la continuità dell’attività umana nell’avvenire. Mentre cioè l’imperativo kantiano assume il significato di criterio guida dell’azione su un fondamento prettamente logico, in quanto autocontraddittoria riusulterebbe l’azione umana che a esso si conformasse, l’imperativo jonasiano che ingiunge di agire per la conservazione del mondo e per la prosecuzione della vita umana sulla terra può essere invece violato senza cadere in contraddizione, si tratta di un altro genere di imperativo che si può fondare in definitiva solo nell’ambito della metafisica.

“ È senz’altro evidente che nessuna contraddizione razionale è inerente alla violazione di questo tipo di imperativo.

Io posso volere il bene attuale sacrificando quello futuro; come posso volere la mia fine, posso volere anche la fine dell’umanità.

Senza cadere in contraddizione con me stesso, posso preferire, per me come anche per l’umanità, il breve fuoco d’artificio di un’estrema autorealizzazione alla noia di una continuazione infinita nella mediocrità.

Ma il nuovo imperativo afferma appunto che possiamo si mettere a repentaglio la nostra vita, ma non quella dell’umanità […] non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo di rischiare il non essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali.” Hans Jonas, 2002, p.102.

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“Non si deve mai fare dell’esistenza o dell’essenza dell’uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell’agire.”

L’interrogativo che nasce dall’assunzione di questo monito sembra essere: perché non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo di rischiare il non essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali, e perché abbiamo invece un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora, né in sé ha bisogno di esistere, e comunque in quanto inesistente non ne avanza la pretesa?

Fornire una fondazione teorica di questo dovere, che non si ancori ad alcun fondamento religioso, è uno dei passaggi più controversi della riflessione jonasiana, tant‘è che Joans assume questo dovere come un assioma che si riserva di fondare. Appare evidente l’intento di stabilire una connessione vincolante tra etica e presupposti di carattere ontologico-metafisico, per fondare il passaggio dalla dimensione della responsabilità individuale, alla dimensione della responsabilità collettiva che allo stesso modo, secondo Jonas, ci deve appartenere.

Quello che Jonas attraverso una macchinosa serie di argomentazioni tenta di dimostrare, è che in natura vi sono degli scopi in sé e che la presenza di scopi, ovvero “l’essere“, è infinitamente superiore all’assenza di scopi, cioè al “non essere“:

“Nella capacità di avere degli scopi in generale possiamo scorgere un bene in sé, la cui infinita superiorità rispetto a ogni assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa.

Non sono sicuro se questo sia un enunciato analitico, oppure sintetico, ma in ogni caso non è possibile retrocedere davanti all’autoevidenza che esso possiede11.”

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Alla base dell’argomentazione di Jonas sta quindi la persuasione, quasi aristotelica, secondo cui nel mondo esistono scopi e valori ontologicamente fondanti, ossia non riducibili alle nostre soggettive attribuzioni di senso.

Se tutte le cose che esistono valgono in relazione ad un fine, come ad esempio il martello per martellare qualcosa di diverso dal martello stesso, dobbiamo chiederci se esiste anche qualcosa che non valga utilitaristicamente per un fine esterno, ma che abbia il suo fine in sé.

Jonas trova questa utilità per se stessa nella finalità “esistenza”.

Ogni cosa che esiste realizza in quanto tale una finalità metafisicamente superiore a ciò che non esiste, dal momento che “il nulla” rappresenta un’assenza di finalità. È appunto ciò che Jonas chiama “l’assioma ontologico”, per cui l’esistenza è in quanto tale è una finalità buona, rispetto alla “non finalità” e quindi alla “non bontà” di ciò che non esiste.

Jonas deduce quindi dall’utilità dell’esistenza come un mezzo per realizzare delle finalità, il carattere valido dell’esistenza come fine assoluto in sé.

Manifestazione di questa disponibilità a favorire mediante l’azione il diritto alla vita è per Jonas il senso di responsabilità.

La responsabilità può essere intesa in due modi:

- la responsabilità è imputazione causale delle azioni compiute - la responsabilità è determinazione del da farsi

È il secondo concetto di responsabilità che Jonas considera fondamentale per un’ etica della responsabilità proiettata nel futuro.

Soltanto chi detiene una responsabilità (ha cura di qualcosa) può agire in modo irresponsabile.

Gli esseri viventi sono fini a se stessi, ma solo l’uomo può essere responsabile anche per loro, una responsabilità di portata così nuova ma che paradossalmente trova secondo Jonas il suo archetipo originario nelle cure dei genitori verso i figli.

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Infatti è proprio il neonato, nella sua indifesa e nuda esistenza, che funge da attestazione evidente e da “inconfutabile paradigma ontico” della coincidenza ontologica tra essere e dover essere, fra la vita e l’appello a far sì che la vita continui. In questo seno Jonas si fa fautore di un minimalismo programmatico che individua nella sopravvivenza anziché nel perfezionamento il suo obiettivo primario:

“Per il momento ogni sforzo in vista dell’uomo “autentico” passa in seconda linea rispetto al puro e semplice salvataggio del suo presupposto, l’esistenza dell’umanità in un ambiente naturale sufficiente.

Nella minaccia totale di questo momento storico-universale siamo sospinti indietro dalla questione sempre aperta, e di variabile risposta, di che cosa debba essere l’uomo, all’imperativo originario, preliminare, anche se fino ad ora mai diventato attuale, che egli debba essere, appunto in quanto uomo.”

Il principio di responsabilità di Jonas è caratterizzato come un dovere assoluto, ma prescrive un giudizio di tipo consequenzialistico, che dispone di agire in modo tale da non distruggere la possibilità della vita umana sulla terra; questa forma di consequenzialismo è però diversa da quella dell'utilitarismo, le conseguenze infatti non si valutano in base alla massimizzazione del benessere, in quanto l'oggetto ultimo dell'etica della responsabilità non è il benessere o la felicità, ma la sopravvivenza delle generazioni future.

L'aver impostato il principio di responsabilità come un "dovere assoluto" e l'aver ricercato per questo una fondazione metafisica, hanno fatto si che Jonas costruisse un'argomentazione molto suggestiva, ma altrettanto esposta alla possibilità di obiezioni.

L’argomento di Jonas, concernente quel senso di responsabilità verso le generazioni future, che come uomini attualmente esistenti ci dovrebbe appartenere e dovremmo includere nel nostro agire, può infatti essere accolto nella misura in cui si accetta

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l’assioma aristotelico del carattere teleologico della natura umana come fonte di dovere e il presupposto teologico della presunta eccezionalità della natura umana.

Se non si assume come necessariamente vero l’assioma del carattere teleologico della natura umana non sembra doversi escludere la possibilità che la sopravvivenza sia il fondamento di un dovere razionale verso l’esserci della generazioni futuro e verso l’esserci in un certo modo.

Ma la responsabilità causale della specie per il proprio destino (il potere di fare) non implica necessariamente la responsabilità morale verso la propria sopravvivenza, e non è contraddittorio supporre che la specie stia lavorando, per così dire, per non continuare la propria sopravvivenza futura.

La continuità della specie umana nel tempo, non è infatti qualcosa di logicamente necessario.

Karl-Otto Apel preso atto che l’etica elaborata nel principio di responsabilità è stata definita dall’autore stesso “un’etica della conservazione, della salvaguardia, della prevenzione e non del progresso” ha sottolineato come possa risultare problematica la rinuncia all’idea di moderno progresso con il suo contenuto di emancipazione.

Anche Berti, sottolinea questo passaggio:

“L’uso che fa di questo ancoraggio metefisico […] è solo per giustificare la difesa della vita intesa come semplice sopravvivenza della specie, e non come ideale aristotelico del vivere bene, della buona vita e quindi della felicità. Jonas si accontenta di molto meno, si accontenta che l’etica garantisca le condizioni perché la specie umana non si estingua e possa continuare a sopravvivere. Quindi troviamo un aristotelismo ridotto o dimezzato. Sostiene un idea del giusto ma non del bene12.”

12

E. Berti, Soggetti di Responsabilità, Questioni di Filosofia Pratica, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 1993, p. 103-104.

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La riflessione di Jonas ci ha portato a confrontare due diverse modalità di intendere il concetto di responsabilità:

- Una forma di Responsabilità che potremmo definire Intenzionale che si lega ad un’etica di tipo kantiano (Gesinnungsethik), un’etica per cui la moralità dell’azione si rapporta alle intenzioni dell’agente e alla predisposizione della sua volontà, per cui la purezza dell’intenzione non viene inficiata dalle conseguenze soprattutto quelle non volute, inattese.

- Una forma di Responsabilità che potremmo definire cautelativa, legata alla formulazione dell’etica della responsabilità jonasiana, che sostiene un concetto di responsabilità che regola il proprio operato sulle conseguenze prevedibili e sui risultati attesi.

L’etica della responsabilità abbandona le dimensioni della prossimità, della dimensione individuale nella direzione di un etica collettiva e universale.

Entrambe queste formulazioni del concetto di responsabilità sembrano rivelarsi però per motivi diversi inefficaci dal punto di vista della loro applicazione nell’esperienza pratica: la Responsabilità intenzionale, legata alla sfera individuale e caratterizzata dall’assenza di una dimensione temporale e spaziale, può essere assunta come una formulazione della responsabilità antropocentrica e autoreferenziale.

L’etica dell’intenzione sembra ai critici, un’etica troppo astratta, rischia di non essere efficacie nel campo dell’esperienza pratica per inseguire principi assoluti che assume a prescindere dalle conseguenze, e come rileva Jonas non si dimostra efficace rispetto alle nuove esigenze di una civiltà tecnologica.

L’etica della responsabilità rischia invece di compromettere la purezza dei principi adattandoli al piano della prassi.

Ingiunge di agire tenendo sempre presente e facendosi condizionare dalle conseguenze che potrebbero scatuire dal nostro agire, in questo senso finisce per accettare la regola secondo cui il fine giustifica i mezzi.

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L’etica della responsabilità, come bisogno di salvaguardare “un ordine“, pur rappresentando una prospettiva iniziale necessaria per intraprendere una riflessione bioetica sullo sviluppo biotecnologico, deve porsi il problema del conflitto che si instaura con un principio altrettanto fondamentale per una riflessione bioetica, il principio di autonomia, di cui l’etica jonasiana sembra non rendere conto.

Jonas invoca il dovere di assumere una responsabilità cautelativa, capace di fornire risposte concrete ed efficaci alle minacce incombenti, anche a costo di limitare, attraverso l’autorità, la libertà degli individui

In una direzione vicina al pensiero di Jonas, sembra muoversi quella bioetica contemporanea che ha connesso le problematiche realtive alla gestione del rischio inerente la prassi biotecnologica e la gestione dell’incertezza scientifica ad essa legata, a quella linea di condotta che si esplica nel Principio di Precauzione, da alcuni definito anche “Principio di Jonas”.

2.4 Il principio di Precauzione

Il concetto di “Principio di Precauzione” (PdP) fa riferimento ad una linea di condotta bioetica inerente la politica della gesitione dell’incertezza scientifica.

Il PdP è uno strumento decisionale di tipo giuridico nato per cercare di far fronte alle scelte tecnologiche quando, pur in una situazione d’incertezza o ignoranza scientifica, vi sono ragioni per credere che una determinata attività potrebbe avere conseguenze negative molto estese e, soprattutto, irreversibili.

Da un punto di vista teorico, il PdP, fa la sua prima comparsa agli inizi degli anni settanta, sotto la spinta dell’emotività provocata dalla scoperta di alcuni gravi problemi di etica ambientale.

Il PdP si caratterizzava come un intervento diretto delle autorità nella salvaguardia ambientale, in un’ottica di cura e protezione per le generazioni presenti e per quelle

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future, anche in mancanza di prove scientifiche adeguate sull’esistenza di una correlazione fra una data causa e un determinato effetto ambientale.

Il principio trova però la sua formulazione definitiva, diventando materia di trattati internazionali, solo negli anni novanta, acquisisce infatti particolare visibilità solo in seguito alla “Conferenza delle nazioni unite su ambiente e sviluppo”, svoltosi a Rio de Janeiro nel 1992, il cui documento finale è noto come “Convenzione sulla diversità biologica” (CDB) firmata a Rio de Janeiro nel giugno 1992 e approvata dalla comunità europea nell’ottobre del 1993.

Tale principio, contenuto nell’articolo 15 della dichiarazione, afferma quanto segue:

“ Al fine di proteggere l'ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l'adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale. “

Il Principio delinea quindi un approccio alla gestione del rischio che si applica in circostanze di incertezza scientifica, e che riflette l’esigenza di intraprendere delle azioni a fronte di un rischio potenzialmente serio, senza attendere i risultati della ricerca scientifica.

Con gli anni il PdP si è diffuso ad altre realtà nazionali e internazionali, e la sua applicazione è stata estesa oltre alla semplice protezione ambientale, fino ad includere anche la salute degli uomini e degli animali.

Possiamo quindi dire che esso afferma un principio politico e pratico, non scientifico: il diritto di applicare una delle strategie euristiche fondamentali di ogni organismo vivente, che prevede di procedere con cautela quando si avanza verso l’ignoto,

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cercando di cogliere indicazioni da ciò che accade intorno e utilizzando la strategia più adatta alla situazione per decidere e agire. La precauzione appare in definitiva niente più che una norma di buon senso, che recenti esperienze negative hanno condotto a riaffermare in maniera più formale.

Il vero problema sta quindi nel trovare modalità di messa in atto del principio che lo limitino e regolamentino adeguatamente onde evitare abusi.

L'applicazione del principio di precauzione richiede quindi, nella sua formulazione generale, almeno tre elementi chiave:

(i) L'identificazione dei potenziali rischi;

(ii) Una valutazione scientifica, realizzata in modo rigoroso e completo sulla base di tutti i dati esistenti;

(iii) La mancanza di una certezza scientifica che permetta di escludere ragionevolmente la presenza dei rischi identificati.

Le diverse interpretazioni del significato morale:

Pur nascendo come principio e strumento legato alla gestione del rischo, da un punto di vista politico economico e sociale, il principio di precauzione figura ampiamente anche all’interno del discorso morale contemporaneo, in particolare all’interno di quelle analisi del discorso morale che muovono dalla considerazione dei cambiamenti intervenuti nelle circostanze dell’azione umana a seguito degli sviluppi tecnologici e dell’impatto che possono avere sulla salute, la sicurezza e l’integrità biologica umana.

Due sono le possibili interpretazioni da un punto di vista etico di questo principio:

(i) Il PdP può essere interpretato come una precisa teoria della morale (la morale come precauzione) condivisa quindi solo dai suoi sostenitori.

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(ii) Il PdP può essere intepretato come una regola procedurale neutra, intesa cioè come principo metanormativo condivisibile da tutte le dottrine morali sostantive.

Secondo queste due interpretazioni ci troveremo quindi di fronte a una dicotomia ermeneutica che contrappone da una parte i sostenitori della precauzione come norma assoluta, che sostengono quindi un divieto pregiudiziale, dall’altra chi vede nella precauzione una norma procedurale che prescrive un obbligo prima facie in base al quale in situazioni di carenza d’informazione e d’incertezza di previsione occorre predisporre una misura di precauzione senza attendere che i rischi si manifestino nella loro cruda realtà.

Nel primo senso l’intervento biotecnologico viene interpretato come violazione di un limite e perciò stesso classificato come amorale. La precauzione diviene punto di intersezione tra saggezza e misura, mentre ogni forma di transgenesi si toverebbe al di fuori della moralità (Marchesini).

Chi invece interpereta la precauzione come norma procedurale sostiene l’idea secondo cui l’approccio all’intervento tecnoscientifico non debba essere interpretato come una violazione del “limite”, ma come accesso ad una “soglia” che richiede adeguata conoscenza, ritiene infatti che l’incertezza dovrebbe rappresentare in primo luogo uno stimolo per acquisire nuove informazioni, in secondo luogo che lo stato precauzionale deve essere considerato come provvisorio ed eccezionale, in terzo luogo non esclude misure alternative al divieto.

Il principio di precauzione così definito non è di per sé un principio morale, ossia un concetto di base assunto per distinguere il bene dal male, ciò che è lecito da ciò che va evitato, ma rappresenta piuttosto un’applicazione del principio di “non maleficenza”.

Da un punto di vista filosofico, esso poggia sulle nozioni di “responsabilità” e “consapevolezza”, che affondano le radici nell’opera di autori come Jonas e Ricoeur.

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La cautela nel valutare gli effetti a lungo termine dei nostri atti è parte della responsabilità morale. Mentre la responsabilità giuridica è collegata all’obbligo di riparare un danno, la responsabilità morale implica un impegno a prevenire il danno stesso, anche per il futuro, prendendo decisioni anche in situazioni d’incertezza sul piano delle conoscenze.

A supportare la tesi della necessità di un approccio alla gestione del rischio di tipo preventivo sembra essere in primo luogo la tesi di un’incertezza costituiva del sapere scientifico.

Per quanto riguarda la razionalità scientifica, si può dire che l’eredità culturale del ‘900 sia senza dubbio la scoperta della dimensione ineliminabile dell’incertezza all’interno della conoscenza scientifica.

Ciò naturalmente non toglie nulla al suo valore teorico e pratico, ma permette di comprendere meglio quale valore si debba assegnare alle enunciazioni di regolarità descritte dalle leggi scientifiche, e quali ne possano invece essere i limiti intrinseci e ineliminabili.

In particolare, il problema si acuisce per il fatto che il PdP si rivolge anche a tutta quella classe di interventi tecnologici che ha a che fare sostanzialmente con sistemi adattativi complessi (ambiente, ecosistemi, organismi viventi), il cui comportamento è imprevedibile nel tempo e nello spazio.

In questi casi, i modelli di laboratorio si rivelano spesso inadeguati a descrivere con sufficiente accuratezza ciò che avviene in realtà.

Molte delle innovazioni di cui si occupa il PdP hanno un unico, vero laboratorio, costituito dal mondo reale in cui esse trovano applicazione, e questo diventa ancora più vero quando ogggetto di intervento è la biologia, come nel caso dell’ingengieria gentica o delle interfaccce neurali di cui ci stiamo occupando.

I detrattori di questo principio infatti, appartenenti soprattutto all’ambiente scientifico, lo criticano in quanto ritengono che possa rappresentare un freno

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eccessivo allo sviluppo e alla diffusione di nuove tecnologie. Secondo alcuni il principio di precauzione si porrebbe in contrasto con il metodo scientifico stesso.

Uno dei capisaldi del metodo scientifico è difatti il criterio di falsificabilità, introdotto da Karl Popper, criterio che per alcuni si pone in aperto contrasto con i principi su cui si fonda il principio di precauzione.

Il principio di precauzione non si basa infatti sulla disponibilità di dati che provino la presenza di un rischio, ma sull'assenza di dati che assicurino il contrario.

Questo genera il problema di identificare con chiarezza la quantità di dati necessaria a dimostrare l'assenza di rischio, soprattutto alla luce dell'impossibilità della scienza di dare certezze ultimative e definitive. In questo contesto, secondo alcuni, l'applicazione scorretta del principio finirebbe per bloccare la ricerca scientifica su nuove tecnologie o prodotti, più che preservare la salute dei cittadini e dell'ambiente.

A questo punto sembra neccessario chiedersi: può l’incertezza scientifica avere un valore morale nel decidere se intraprendere o non intraprendere un determinato corso d’azione?

Come sottolinea Bartolommei le decisioni in condizioni d’incertezza non sono affato sconosciute alla storia della morale (si pensi all’introduzione dei vaccini) e la mancanza di una prevedivilità certa degli effetti a lungo termine non può rappresentare la base per astenersi dall’agire:

“Se si è deciso di agire è perchè si è ritentuo che la mera imprevedibilità degli esiti non è una buona ragione per non agire, specie se agendo si possono conseguire ampi benefici a fronte di rischi minimi o meramente ipotetici. Ciò che conta da un punto di vista morale non è la mancanza di predicibilità degli effetti a lungo termine, ma i motivi che spingono ad agire e l’incidenza effettiva delle conseguenze sulla qualità della vita umana. Meditare sull’imprevedibilità delle conseguenze è un buon esercizio per

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stare in guardia dagli effetti indesiderati e di lungo termine, ma non è un criterio moralmente decisivo per decidere cosa fare o non fare13.”

Non si tratta di sostenere un'accettazione passiva della fallacia tecnicistica, per cui banalmente tutto quello che si può fare deve essere fatto, per il fatto che abbiamo il potere di farlo.

L’idea è piuttosto quella di riflettere sul fatto che l'abbandono della pretesa del pieno controllo ridefinisce le modalità dell'azione.

E' la consapevolezza della possibilità dell'inaspettato e dell'imprevedibile, pur nella sua gradualità, che va dall'incertezza fino all'ignoranza, che impone una diversa

prospettiva per l'azione.

Questa condizione d’incertezza, ormai tematizzata e inglobata nel corredo concettuale della scienza, rappresenta il nuovo vincolo epistemologico della

responsabilità e impone di inventare nuove modalità di azione.

Come sostiene Mari Antonietta Foddai (Responsabilità: una nuova virtù per l’era postmoderna), è quando vengono a mancare le regole conoscitive su cui fare affidamento, è quando non sappiamo esattamente quello che dobbiamo fare e non abbiamo un luogo dove rivolgerci, che incontriamo qualcosa come la “responsabilità".

Quello che ci fa capire la vera differenza tra una responsabilità illuminista e una postmoderna sta nel passaggio da un orizzonte di certezza ad uno d’incertezza. La prima, quella con cui abbiamo forgiato le nostre forme culturali, nasce in una società ordinata, costruita su regole certe e un robusto concetto di verità; la seconda trova la sua condizione di pensabilità nell'incertezza che segna il nostro agire morale e il nuovo statuto epistemologico.

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Il paradosso, secondo la Foddai, è generato dal fatto che continuiamo a ragionare secondo il modello tradizionale che aggancia la pensabilità della responsabilità al comportamento individuale e alla sua possibile sanzione.

In tal senso è coerente escludere la responsabilità da un contesto governato dall'incertezza e dall'impossibilità individuale di prevedere e controllare il corso delle azioni. L'unica risposta coerente in questo senso è il freno all'agire. L’unica risposta possibile sembra essere quella di accettare le apparenti contraddizioni della responsabilità, spostandoci da un sistema governato dalla certezza sui fatti e sulle norme, verticistico, basato sul concetto di autorità, ad uno disegnato dalla cornice concettuale dell'incertezza, basato sulla partecipazione e sulla condivisione.

Per superare la contraddizione, suggerisce Maria Antonietta Foddai, dobbiamo ricorrere a uno degli antichi significati della responsabilità, elaborato dal diritto romano, quello della garanzia.

Il responsabile è il garante di un corso futuro di azioni. Essere responsabili significa quindi in questa prosettiva essere pronti a far fronte, "esserci", con la nostra capacità critica, la nostra buona volontà.

La “mia responsabilità” nel suo senso morale più profondo significa: "Io ci sarò", è legata alla mia persona e ad un progetto d’azione del quale io sono garante. E' intorno a questo nucleo concettuale che dovrebbe essere quindi elaborato un modello complesso e strutturato su più livelli e forme di agire responsabile.

Se la responsabilità semplice deriva il suo significato dal contesto normativo nel quale viene impiegata, rivelandosi coerente con una concezione ordinata della società, in cui esiste un’autorità a cui rendere conto delle proprie azioni, quella complessa non può essere ricavata da un insieme prestabilito di valori, interessi e doveri. La prima incorpora concetti come giudizio, autorità, volontà norma e coercizione, la seconda racchiude quelli di previsione, prudenza riflessione, capacità critica, autonomia e rischio.

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La responsabilità verso cui dobbiamo orientarci deve essere vista come concetto procedurale, che prescrive un modo per portare le nostre capacità umane all'eccellenza, per trasformare le nostre risorse morali nella nuova e necessaria virtù per l'età tecnologica.

2.5 Il dibattito contamporaneo sulle human enhancement technologies:

Dopo esserci soffermarti sull’esigenza di una revisione del concetto di responsabilità che tenga conto delle mutate potenzialità della poiesi umana e delle sue possibili conseguenze, la nostra riflessione sarà concentrata intorno ad una questione etica specifica:

“Possiamo considerare etico e desiderabile utilizzare mezzi tecnoscientifici per superare la “condizione umana data”?”

Quello che ci si propone in questo senso e di tentare di illustrare le varie posizioni che nel dibattito etico contemporaneo avanzano considerazioni circa l’eticità o meno di un possibile accesso a pratiche di human enhancement.

Possiamo tentare di suddividere le posizioni che si confontano nel dibattito contemporaneo, pur nella loro eterogeneità, in due grandi orientamenti:

Etiche di stampo anti consequenzialista: che esprimono un no alle pratiche di human enhancement a partite da considerazioni circa la diginità e l’inviolabilità della natura umana, o che si appellano a considerazioni di ordine prudenziale volte a evitare le conseguenze di un incontrollaro prometeismo umano.

Etiche di stampo consequenzilista: che valutano l’accesso a pratiche di human enhancement come una chance morale, oltre che empirica, che permette agli esseri

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umani, quali agenti morali, di realizzare in pieno la propria autonomia e la propria libertà.

Faremo poi riferimento a quella classe di posizioni etiche che hanno tentato di

individuare un’alternativa al “bioconservatorismo” delle etiche

anticonsequenzialistiche e il “bioprogressismo” delle etiche consequenzialiste.

2.6 Dignità umana

Prima di intraprendere l’illustrazione delle varie teorie etiche che sostengono o avversano il ricorso a pratiche di enhancement, focalizzeremo l’attenzione su un concetto chiave del dibattito contemporaneo sull’enhancement, quello di “dignità umana”.

Nel corso degli anni il concetto di dignità è sempre più stato laicamente invocato nei dibattiti bioetici andando ad assumere un valore centrale nelle riflessioni non solo teoriche ma anche pratiche.

Il concetto di dignità è stato quindi parallelamente assunto come argomento decisivo sia dai sostenitori dell’intangibilità della natura umana sia dai sostenitori della liceità di questo progetto, assumendo sfumature ed accezioni diametralmente opposte.

Qual è l’oggetto di quella responsabilità che ci deve appartenere come atteggiamento etico collettivo, cioè non come singoli agenti ma come membri di una società pluralistica, quando affrontiamo la questione etica circa la violabilità o meno della nostra “natura”?

Secondo un’idea ampiamente diffusa nella bioetica contemporanea, il rispetto e la difesa della dignità della persona umana costituiscono l’unico referente assiologico da porre alla base di un’etica minima condivisa pressoché da tutti, nonostante le profonde differenze morali diffuse nella società contemporanea, caratterizzata da forte pluralismo etico.

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Uno dei timori diffusi rispetto alla possibilità di modificare la nostra natura attraverso interventi d’ampliamento di capacità e funzioni che biologicamente ci sarebbero precluse, è la minaccia che questi interventi rappresenterebbero per il concetto di dignità stesso.

La realizzazione di alcuni ampliamenti come abbiamo visto nei paragrafi precedenti è una strada che passa attraverso un lento e progressivo processo di “disumanizzazione“, ovvero un progressivo abbandono di limiti biologici che umanamente ci caratterizzano, sul quale i diversi autori esprimono valutazioni morali apertamente contrastanti.

In questa prospettiva si rinnova quindi la necessità di porsi degli interrogativi circa la plausibilità e la liceità di alcuni interventi:

- Quali sono i limiti di liceità dell’intervento tecno-scientifico manipolativo dell’uomo sulla vita umana?

- Fino a che punto è lecito utilizzare le nuove possibilità di intervento artificiale sulla vita umana?

Quello che la riflessione bioetica contemporanea si propone in questo senso è di tentare di individuare un possibile confine, nel contesto della vita umana, che fissi la soglia in grado di distinguere tra interventi leciti o illeciti da operare sulla nostra natura, non al livello di scelta individuale e privata ma a livello di specie.

Il concetto di “dignità umana” sembra, per molti bioeticisti, poter assolvere a questo compito.

Oltre ad essere una nozione di carattere descrittivo può anche assumere un valore di carattere prescrittivo; la conferma di questo orientamento è facilmente rilevabile: la riscoperta e rivalutazione della nozione di dignità umana ha accompagnato, nel secondo dopoguerra, il diffondersi di quello che è stato definito come l’«ethos universale» dei diritti14.

14 Il termine “dignità“, o le espressioni “dignità della natura umana“, “dignità della vita umana”, hanno

assunto un ruolo rilevante, formale ed esplicito, nei documenti ufficiali che di quell’ethos volevano essere la proiezione giuridica, e hanno così fortemente caratterizzato i dibattiti bioetici contemporanei.

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Nella generalità dei suoi usi il termine “Dignità”, come i suoi corrispondenti semantici nelle varie lingue (ad esempio, il tedesco Würde), rinviano alla nozione di grado o rango.

In questo nucleo di significato, che possiamo considerare originario rispetto alle molte accezioni derivate, raramente “dignità” compare come vox media; più frequentemente è associata ad una connotazione di valore positiva, seppur differenziata, per indicare il grado più o meno elevato di un certo soggetto, o di un certo ente, in un determinato contesto.

Essa ha assunto sulla base dei suoi usi abituali un forte e prevalente significato emotivo e retorico:

Chi segue lo sviluppo della bioetica in campo internazionale trova – nell’azione svolta da grandi organismi sovranazionali come l’Unesco, l’Organizzazione mondiale della sanità e il Consiglio d’Europa un’ispirazione “etica” comune: la tutela della dignità dell’uomo. Con l’evoluzione della teoretica dei diritti fondamentali, alcuni dei quali divengono diritti costituzionali, il concetto di dignità umana acquista sempre di più valore di riferimento “etico” ed in qualche modo pregiuridico. Proclamato solennemente nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite il 26 giugno 1945, il principio della dignità della persona umana è in effetti alla base della protezione dei diritti fondamentali che i grandi testi internazionali e le costituzioni emanate nel dopoguerra voglionogarantir Anche il Preambolo del Patto delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici del 1966 fa derivare i diritti in tale documento riconosciuti dalla dignità inerente alla persona umana. La stessa Costituzione italiana del 1947 – fra le prime – trova ispirazione ideale nel rispetto della

dignità umana.

Tuttavia, è solo nella Costituzione tedesca che il riferimento alla dignità dell’uomo compare in maniera esplicita, e dà luogo a importanti interpretazioni giurisprudenziali nel contesto del “sistema” del diritto tedesco. La Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina del novembre 1996, nota anche come Convenzione di Oviedo, rappresenta un’altra proiezione giuridica della nozione di dignità umana.

Questa Convenzione afferma con sicurezza alcuni principi, e fra questi la necessità di proteggere l’essere umano e l’integrità di ogni persona umana; il primato dell’uomo rispetto alla società e alla scienza; il valore del “consenso” in ogni atto medico; il divieto dell’utilizzazione commerciale del corpo umano; la tutela della vita privata per quanto concerne i dati sanitari; il divieto di manipolazione genetica non terapeutica per la persona interessata; il divieto di produrre embrioni umani a scopo di ricerca. Su questi principi vi può essere il pieno consenso.

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“parlare della dignità della vita umana non è solo un modo per indicare qualcosa di valore ma è contemporaneamente presentare una forte spinta emotiva a favore della vita umana15.”

Com’ è proprio delle parole fornite di prevalente significato emotivo, anche nel caso di dignità ci troviamo di fronte a una nozione spesso usata in modo tale da ostacolare un’indagine critica.

Questo uso evocativo della nozione di dignità finisce per renderla uno strumento inefficace sul piano pratico, fino a rappresentare un vero e proprio ostacolo epistemologico che non fornisce argomenti utili al dibattito.

Fa parte dell’analisi metaetica cercare invece di individuare il principale significato descrittivo o conoscitivo che tale nozione ha in quanto distinta da altre espressioni prescrittive.

Per quanto riguarda la nozione di dignità, come per tutte le nozioni di carattere etico, bisogna abbandonare l’idea che sia una nozione il cui significato possa essere compreso isolando la singola parola.

Si può parlare in modo generale e neutrale di dignità come:

“ Diritto inalienabile ad essere trattati con un minimo di rispetto proprio in virtù di ciò che si è.”

La difficoltà è riuscire a stabilire filosoficamente il significato preciso dell’espressione “ciò che si è”.

Nella storia della cultura filosofica, la nozione di «dignità propriamente umana» viene elaborata, e variamente definita, ogni volta che si affronta il problema di determinare

15 E.Lecaldano, La nozione di dignità della vita umana: esposizione , critica e ricostruzione, in Bioetiche in

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quale sia o debba essere il posto, o meglio il rango dell’essere umano nell’ordine naturale.

Con una certa semplificazione, si può rintracciare il luogo di nascita di tale nozione nel paradigma concettuale di una specifica visione del mondo, fondata sull’idea di «grande catena dell’essere»: ovvero, sulla rappresentazione dell’universo come organismo, in cui ciascuna specie di enti ha il suo posto e il suo ruolo, e reciprocamente ogni posto è occupato da una specie di enti, secondo un ordine complessivo di gradazioni, che corrisponde a una gerarchia di valori.

A partire dalla formulazione classica di Platone, questo paradigma cosmologico-metafisico, tendenzialmente deterministico, ha attraversato la storia della cultura occidentale con alterne fortune, toccando il culmine della diffusione nel secolo XVIII. Sono tutti usi della nozione di dignità che la legano strettamente a una concezione ontologicamente determinata e assolutistica della natura umana.

In genere dunque la dignità della natura umana veniva fatta discendere da una qualche pretesa conoscenza della struttura intrinseca delle diverse realtà che venivano gerarchicamente ordinate alla luce di una grande catena dell’essere che collocava su un gradino superiore gli esseri umani rispettto ad altrei esseri.

Ma la storia moderna del concetto di dignità umana inizia con una svolta anti-deterministica all’interno di quel medesimo paradigma concettuale.

In questa svolta possiamo riconoscere il primo tentativo d’interpretazione laica del concetto di dignità, ovvero all’interno della celebre orazione “De hominis dignitate“ (1486) di Giovanni Pico della Mirandola.

Nella visione di Pico, l’uomo possiede la massima dignità tra le creature, proprio perché non è creatura come le altre, non ha allo stesso modo una sua natura: l’uomo propriamente non è ma si fa da sé.

Il corso delle sue azioni e vicende non segue al suo essere, ad una sua natura predeterminata, ma il suo essere, la sua natura viene determinata dalle sue scelte e dalle sue azioni.

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In altre parole, l’uomo non è semplicemente l’ente medio, che sta fra angeli e bruti, ma il suo valore specifico, la sua «dignità», consiste nel suo essere non-ente, nell’essere un ente non determinato bensì autodeterminabile.

Da questa formulazione in poi si è tentato di connotare la dignità umana in senso non strettamente determinisitico.

Ne è un esempio la formulazione kantiana del concetto di dignità.

Il concetto di dignità, e la sua esplicazione, sono stati introdotti da Kant all’interno della Fondazione della metafisica dei costumi, nel corso dell‘enunciazione della seconda formula dell’imperativo categorico.

Secondo Kant gli esseri umani, in quanto esseri ragionevoli, «prendono il nome di persone perché la loro natura ne fa già fini in sé, ossia qualcosa che non può essere impiegato semplicemente come mezzo».

Di qui l’imperativo:

«Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»16.

Questo imperativo stabilisce che ogni uomo, anzi, ogni essere ragionevole, come fine in stesso, possiede un valore non relativo, ma intrinseco, cioè possiede una dignità.

«Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualche altra cosa equivalente; ciò che è superiore ad ogni prezzo, e perciò non consente nessuna equivalenza, ha una dignità.17»

Kant afferma che «l’umanità in se stessa è una Dignità», onde l’uomo «si innalza al di sopra di tutte le cose», destinate a servirgli da strumento, mentre non è lecito che un essere umano venga ridotto a semplice strumento di un altro.

16 Kant, 1992, p.147.

17

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Kant rintraccia quindi nel requisito dell’autonomia il principio della dignità della natura umana e di ogni natura ragionevole.

Secondo questa definizione la dignità dell’uomo risiede nel suo carattere noumenico, nel fatto che egli è un essere razionale, libero e autonomo, dotato della capacità di autodeterminarsi.

Sostanzialmente, in termini kantiani, la Dignità di un essere ragionevole consiste nel fatto che esso non obbedisce a nessuna legge che non sia anche istituita da lui stesso, La moralità, come condizione di quest’autonomia legislativa, è dunque la condizione della dignità dell’uomo e moralità e umanità sono le sole cose che non hanno un prezzo.

Il significato che assume il termine dignità in questo contesto è: avere dignità significa innalzarsi al di sopra di ogni prezzo di mercato e in questo senso solo un essere razionale come l’uomo ha una dignità, in quanto in grado di ubbidire a nessuna altra legge che a quella che egli stesso si dà.

In questo senso Kant sembra collocare la dignità propria della natura umana in una direzione non molto diversa da Hume ovvero nella capacità di vita morale.

A proposito della formulazione kantiana del concetto d’identità si sono sollevate però alcune obiezioni.

Joel Feiniberg esprime con molta chiarezza questo la necessità di un uso riformato della nozione di dignità, indicandola come l’esigenza di mettere da parte “la concezione aliena della dignità”rappresentata dalla formulazione kantiana.

“Trovo la concezione di Kant non convincente per due ragioni fondamentali.

In primo luogo essa colloca la dignità di una persona in una caratteristica astratta non peculiare a essa, piuttosto che, almeno in parte, nella sua propria individualità.

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Inoltre non riesco a comprendere come dal fatto che solo gli esseri umani e tutti gli esseri umani hanno dignità possa conseguire che tale dignità sia interamente fatta dipendere da quei tratti minimi che essi condividono e che li rendono per definizione, umani, ovvero perché mai il “rispetto” non debba essere propriamente indirizzato a tali esseri umani, ma a questi tratti considerati astrattamente18

Leacaldano, sulla scia di Feinberg, suggerisce l’idea e la necessità di connettere sempre più la nozione di dignità a qualcosa di “personale” nel senso di propriamente individuale che è in gioco nella vita che vogliamo rispettare e non umiliare.

Nessun riferimento alla natura umana in generale, o alla vita della persona umana in quanto tale, può aiutarci a dare contenuto alla nostra ricerca di quali possano essere in concreto i comportamenti che per quanto ci riguarda danno corpo alla nostra propria dignità che in nessun modo svenderemo; quei comportamenti ancora che sono necessari se non vogliono umilare gli altri e rispettare ciò in cui essi identitficano la propria dignità.

Questo stretto collegamento con l’individualità della nozione di dignità già presente in Mill viene spinto più oltre da Ronald Dworkin che connette la possibilità di dare vita a giudizi relativi alla dignità o meno solo in quanto ci troviamo, sia con noi stessi che con gli altri, di fronte a esseri forniti di una loro specifica e irriducibile identità.

“ Le persone hanno il diritto di non subire umiliazioni, di non essere trattate in modi che la loro cultura o la loro comunità considera segno di mancanza di rispetto.

Il diritto di una persona a essere trattata con dignità, ritengo, è il diritto a che gli altri riconoscano in lui una creatura di un genere e con uno status

18 Joel Feinberg, Harm to Self, III volume di The moral limits of the criminal law, Oxford

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morale tali che è intrinsecamente e oggettivamente importante il modo in cui vivrà19.”

Non vi sono quindi equivoci sulla collocazione pienamente individualistica del valore della dignità; ciascun essere umano ha diritto che gli sia riconosciuta dignità nel senso che sia attribuito alla sua vita lo stesso rispetto che si ha nei confronti delle altre vite e principalmente che sia riconosciuta a lui, come agli altri, la piena autonomia morale, ovvero la piena libertà di dare senso e significato nel modo che a lui sembrerà preferibile alla continuità degli eventi che costituiranno la sua vita.

2.7 Leon Kass e Michel Sandel: La natura umana come fondamento della dignità umana

Tutti gli argomenti etici che intendono sancire norme morali circa l’intangibilità di alcune caratteristiche umane a partire dall’idea secondo cui il fondamento della dignità umana debba risiedere in quello di natura umana, si basano sull’assunzione che il carattere fondamentale di “natura umana” sia proprio la sua intrinseca dignità.

Fondare il concetto di dignità su quello di natura sembra infatti indispensabile per non cadere in una deriva relativista.

Questa natura o essenza ritenuta costante costituisce l’elemento che ci conferisce un senso morale, rappresenta cioè in un contesto laico la condizione di possibilità della morale umana stessa.

In questo senso, nella misura in cui le biotecnologie attraverso le loro applicazioni vanno a modificare alcuni caratteri di questa natura, vanno ad inficiare il fondamento stesso del “senso morale umano”.

Il pensiero di Leon Kass può essere assunto come rappresentativo di tutti quegli orientamenti di pensiero “bioconservatori” di stampo anticonsequenzialita, sostenitori

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dell’inviolabilità della natura umana, che fanno del concetto di dignità e della sua sostanzializzazione il fondamento dell’intangibilità di alcuni aspetti della nostra natura. L’approccio bioconservatore si esplica nel tentativo di implementare una serie di divieti globali su aree di ricerca che appaiono promettenti per quanto riguarda la possibilità di applicazioni nel miglioramento della natura umana, in modo da prevenire uno slittamento verso una condizione postumana percepita come assolutamente degradante da un punto di vista antropologico e morale.

Leon Kass sostiene che ciò che ci appartiene per essenza, che ci è stato donato, può rappresentare una guida positiva rispetto alla determinazione di ciò che dobbiamo lasciare inalterato e a ciò che invece può essere oggetto di manipolazione candidandosi in questo senso ad assumere anche un valore di ordine prescrittivo:

“La gran parte dei doni della natura contiene una specificità determinata dalla specie a cui appartengono: tutti hanno caratteristiche specifiche. Gli scarafaggi e gli esseri umani hanno ricevuto lo stesso livello di doni, ma di natura diversa. Trasformare un uomo in uno scarafaggio (come se non bastasse l'esempio di Kafka) sarebbe disumanizzante.

Tentare di trasformare un uomo in un qualcosa che sia più di un uomo potrebbe avere lo stesso effetto. Non basta un vago apprezzamento di quanto abbiamo ricevuto dalla natura: abbiamo bisogno di un riguardo e di un rispetto particolari per quel dono speciale che è la nostra propria natura, così come l'abbiamo ricevuta.20

L’assunto di Leon Kass riflette anche la linea scelta dal President Council of Bioetichs americano:

20 Leon Kass, "Ageless Bodies, Happy Souls: Biotechnology and the Pursuit of Perfection," The New

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