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Pourquoi proposer la foi? Séduits par Dieu, fascinés par l Évangile

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Academic year: 2022

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Série « Actes » n° 3

Publié sur le site : www.pastoralis.org en janvier 2012

Pourquoi proposer la foi ?

Séduits par Dieu, fascinés par l’Évangile

Actes du 25ème colloque Européen des Paroisses Mons, du 5 au 10 juillet 2009

Alphonse Borras et Luca Bressan (dir.)

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Pourquoi proposer la foi ? Séduits par Dieu, fascinés par

l’Évangile

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Table des matières

Table des matières ... 3

Introduction – Luca Bressan ... 5

Joies et peines de la transmission de la foi aujourd’hui. Expériences des différents groupes nationaux – Hubert Windisch ... 9

Eine kurze Einführung in das Thema ... 9

Qualitative Aspekte der Antworten ... 12

Zusammenfassung ... 14

Wie religiös ist Europa? Reflexionen über die religiöse Situation in Europa – Klaus Vellguth ... 15

Religiosität in Europa ... 15

Zentrale Ergebnisse des Religionsmonitors 2008 ... 17

Heterogenität der Religiosität ... 20

Pastorale Herausforderung ... 21

Fazit ... 23

Pourquoi proposer la foi ? «Pour que notre (votre) joie soit complétée » (1Jn, 4) – André Fossion ... 24

Pourquoi proposer la foi? ... 24

Pour une intelligence théologique de la proposition de la foi ... 26

Pour un ajustement spirituel de la proposition de la foi: annoncer l’évangile de manière évangélique. ... 31

Luoghi di trasmissione della fede Battesimo e pastorale battesimale – Serena Noceti ... 36

Premessa ... 36

Pastorale battesimale ... 38

Ritornare al principio ... 40

Chiarire le motivazioni e accettare la sfida ... 41

Principi ispiratori e criteri per l’azione pastorale ... 42

Perché il battesimo sia luogo di trasmissione della fede: condizioni necessarie ... 43

Una scelta pastoralmente strategica ... 44

La transmission de la foi aux jeunes – Lode Aerts ... 45

Dieu prend son temps ... 45

Va au large ... 47

Ouverture et identité ... 47

Pour une belle et simple liturgie ... 49

La Bible comme une parole vivante... 50

Voyez comme ils s’aiment ... 52

(4)

Migrations : défis culturels et pastoraux – Marianne Goffoël ... 53

Une société multiculturelle et interconvictionnelle ... 53

Parmi les migrants…. un grand nombre de musulmans ... 53

Dialogue ... 56

Quel avenir pour un christianisme appelé à la rencontre avec l’Islam? ... 58

Transmettre la foi : nos ressources aujourd’hui ? – Paul Scolas ... 60

« L’Evangile que je vous ai annoncé. » (1Cor 15, 1) ... 60

Une culture du sujet et de la liberté ... 62

Notre histoire comme ressource ... 63

En guise de conclusion ... 65

Transmettre la foi : nos ressources aujourd’hui ? – Stijn Van den Bossche ... 66

Introduction ... 66

Regagner l’appel au coeur même du christianisme ... 67

Le sacerdoce commun de tous les fidèles ... 70

Le mariage ... 73

De la croyance à la foi. Pour une Église en voie de dépouillement – Alphonse Borras ... 77

(5)

Introduction

Luca Bressan

1

“Perché trasmettere la fede? Sedotti da Dio, affascinati dal Vangelo”. È questo il titolo del convegno organizzato dal Colloquio Europeo delle Parrocchie (CEP), che si è tenuto a Mons in Belgio, dal 5 al 10 luglio 2009. Nato nel 1961 dalla libera iniziativa di due parroci, uno francese e uno tedesco, questo appuntamento biennale è giunto in quell’occasione alla sua 25ª edizione, conservando intatte e in equilibrio la freschezza e la gratuità che ne segnano in modo unico l’identità. Non appoggiato in modo diretto a nessuna istituzione ecclesiale confessionale, ma favorevolmente sostenuto da più di una tra queste, il Colloquio Europeo è nato con l’obiettivo di far incontrare i cristiani di ogni regione del nostro continente, e di ogni confessione. Al centro ci stava la volontà di dare forza e strumenti a quella struttura che rende il cristianesimo presente nel tessuto della vita quotidiana degli uomini e delle donne anche del nostro tempo, la parrocchia appunto, sviluppando un dialogo e una riflessione tra Chiese che potesse nutrire con una partecipazione attiva la costruzione di un futuro sempre più ecumenico e solidale per il cristianesimo europeo.

Immaginato cinquant’anni or sono, un simile obiettivo è ancora oggi il fine di ogni appuntamento di questo organismo. E anche il colloquio di Mons si inserisce in questa linea: lo dimostrano i quasi duecento partecipanti intervenuti, provenienti da tredici nazioni europee (otto dell’Europa occidentale, e ben sette dell’Europa orientale).

Espressione di un cristianesimo che assume figure molto diverse all’interno dei vari contesti sociali, queste persone si sono liberamente impegnate in un percorso di riflessione che ha chiesto loro di prepararsi in modo autonomo e locale sul tema scelto, arrivando poi a confrontare il pensiero elaborato all’interno dell’itinerario del Colloquio. Ne è emersa una fotografia interessante e diversificata della situazione del cristianesimo parrocchiale europeo, che pur senza assumere i crismi della rappresentanza scientifica ha però permesso di toccare con mano molte delle sfide con cui le diverse Chiese europee sono chiamate oggi a misurarsi.

Al riguardo, il tema scelto per questo appuntamento si prestava perfettamente al compito indicato. Allo stesso tempo denso di significato, carico di domande e fonte di più di una apprensione, il tema della trasmissione della fede ha portato in modo immediato i partecipanti a confrontarsi su quella che si presenta come la sfida più forte con cui il cristianesimo europeo è chiamato a misurarsi: la sua capacità di generare

1 Prêtre du Diocèse de Milan, est professeur de théologie pratique à la faculté et au Grand Séminaire de Milan

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futuro. Il tema scelto va letto infatti sullo sfondo di un contesto in cui, anche se con modalità diverse, tutte le Chiese europee hanno scoperto che il compito di trasmissione della fede non è più una pratica che va da sé, ma una sfida che richiede tante energie, produce risultati non in linea con le attese, e genera incrinature e crisi nel nostro modo di pensarci come cristiani.

A questa introduzione spetta il compito di introdurre le relazioni che leggerete, il senso del percorso che vi faranno fare.

Punto di partenza di tutto il colloquio è stata la relazione del prof. H. Windisch (docente emerito di teologia pastorale alla Facoltà di teologia di Freiburg im Bresgau), incaricata di fare il legame tra il colloquio e i passi precedenti. Rileggendo i risultati del lavoro preparatorio svolto dalle varie delegazioni europee, il prof. H. Windisch ha aperto di fatto il colloquio rilanciando la portata della sfida che la trasmissione della fede pone alle nostre comunità cristiane: non va più da sé questa trasmissione, perché nelle nostre società europee non è più normale essere credenti; ci mancano gli strumenti necessari per consegnare alle giovani generazioni ciò che abbiamo vissuto come esperienza di fede e le tante conoscenze che la riflessione cristiana nella sua storia ha saputo elaborare. Anche se gli stessi delegati, con le loro risposte, non hanno mancato di fornire segnali che aprono al futuro: le energie che le nostre Chiese investono in questa trasmissione rimangono comunque; si vive questa trasmissione non come un dovere, come una conseguenza naturale del nostro vivere la fede, conseguenza che produce in noi gioia; si cerca di ancorare sempre di più le nostre pratiche di annuncio alle Scritture, alla loro lettura, al loro annuncio. La conseguenza obbligata di una simile situazione:

assumere in modo esplicito e voluto il concetto di missione come figura della fede del nostro tempo. Siamo in un momento, ci ha ricordato il prof. Windisch, in cui la missione non è più soltanto fuori la Chiesa ma anche dentro di essa.

Il concetto di missione si presentava così come una prima pista percorribile per costruire una risposta alla sfida posta. Ma a rendere questa pista più accidentata ci ha pensato la relazione del prof. K. Vellguth, professore di missiologia alla Facoltà teologica di Vallendar. Disorientando non poco i partecipanti, il prof. Vellguth ha mostrato come la nostra società sia tutt’altro che secolarizzata. La presentazione dei risultati di una ricerca svolta di recente in ambito religioso (Religionsmonitor 2008, ricerca svolta dalla fondazione Bertelsman) ci ha permesso di scoprire infatti come, seppur con figure anche molto diverse, la domanda e la ricerca religiosa sono ancora molto presenti nel continente europeo. Per via empirica abbiamo così potuto constatare come il senso religioso, la domanda religiosa siano un fondamentale dell’identità umana, a cui ogni singolo individuo cerca di dare risposta. E qui si sono scoperti i problemi: i dispositivi comunicativi attualmente utilizzati dalle istituzioni ecclesiali cristiane non riescono a intercettare se non in minima parte questa domanda, togliendo al messaggio cristiano molta della forza missionaria che possiede.

Il prof. Vellguth ha mostrato con chiarezza che, pur abitando il paradigma della missione, occorre evitarne una declinazione lineare a partire dallo schema domanda- risposta (le istituzioni cristiane, il nostro annuncio come risposta diretta alle domande che la gente ci pone, domande già strutturate nelle nostra lingua e già segnata dai fondamentali antropologici cristiani). Il mondo religioso si è presentato in tutta la sua

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ricchezza e la sua autonomia, come una sfida che obbliga l’esperienza cristiana ad abitarlo, cercando forme e linguaggi nuovi per l’annuncio della nostra fede.

Medesima sensazione di disorientamento i partecipanti l’hanno provata ascoltando la relazione del prof. A. Fossion, dell’istituto Lumen Vitae di Bruxelles. A lui era stata assegnata la riflessione teologica fondamentale, perché ci aiutasse a porre le basi ultime della trasmissione della fede, le sue esigenze, i suoi possibili modelli. L’ingresso nella riflessione è stato ad effetto: argomentando a partire da una tesi paradossale (l’assoluta gratuità della fede cristiana, e di conseguenza la sua “non necessità” storica, la sua contingenza, se con fede intendiamo le figure storiche di professione di fede che essa ha assunto), il prof. Fossion ha aiutato i partecipanti ad assumere un punto di vista più corretto a partire dal quale impostare tutta la nostra riflessione. occorre infatti riconoscere il primato, nell’esercizio della trasmissione della fede, all’opera dello Spirito Santo che precede ed eccede qualsiasi nostra pratica di annuncio. È questo quadro di conseguenza a fornire le caratteristiche delle pratiche cristiane di trasmissione della fede: pratiche che devono mettere al primo posto l’esperienza di fede di colui che è chiamato ad annunciare, così che – proprio grazie all’esperienza vissuta – possa elaborare un discernimento e un giudizio sulla situazione in cui è chiamato ad annunciare la fede che corrisponda il più possibile al giudizio di Dio, più che risultare dominato dalle nostre paure. Simili pratiche di annuncio della fede dovranno poi riconoscersi anche non soltanto per il contenuto evangelico, ma anche per lo “stile”

evangelico che le anima: dando primato alla testimonianza, ad un atteggiamento diaconale nei confronti dell’uomo, di aiuto a che diventi veramente uomo, sperimenti in modo pieno la sua identità, acquisendo in questo modo gli strumenti per riconoscere il disegno di Dio sulla storia e la sua manifestazione in Cristo.

Il colloquio è proseguito concentrandosi nell’ascolto di luoghi e di esperienze concrete di trasmissione della fede. Sono stati così toccati l’ambito della pastorale battesimale, grazie alla riflessione di Serena Noceti (docente di teologia alla Facoltà teologica dell’Italia centrale), l’universo della pastorale giovanile, ascoltando la riflessione di Lode Aerts (incaricato della pastorale giovanile per la diocesi di Gand), il mondo del dialogo interreligioso, in particolare del confronto con l’islamismo, grazie alla testimonianza e alla riflessione di suor Marianne Goffoel (responsabile di Elkalima, Centro cristiano per le relazioni con l’Islam, Bruxelles). Le suggestioni sono state molte: una comunità cristiana chiamata a farsi carico in modo attivo e in prima persona della trasmissione della fede alle nuove generazioni, rideclinando la delega in bianco data in questo campo ai genitori, poco attrezzati per una sfida così esigente; un nuovo modo di guardare ai giovani, che sa attendere, e che percorre le vie del fascino tipiche del linguaggio liturgico (l’esperienza di Taizé come esempio), per poi abitare con loro il luogo della nostra memoria, l’esperienza di fede raccontata dalle Scritture (e qui il riferimento è andato all’esperienza delle Scuole della Parola del card. Martini a Milano); un confronto con un universo religioso, quale quello islamico, che ci obbliga a rivedere il nostro concetto di verità (alla luce del magistero del Vaticano II, che in questo campo non è stato più di tanto recepito nei nostri contesti ecclesiali quotidiani), e le vie attraverso le quali costruire veri percorsi di dialogo che tengano conto della capacità di stima reciproca, di rispetto, dell’esigenza di approfondire sempre di più la nostra fede per essere pronti a renderne ragione in modo non rigido ed impaurito ma aperto al riconoscimento del luogo dell’altro.

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Il colloquio si è concluso con due interventi che ci aiutassero a rilegger il percorso fatto, mettendo in luce tutte le acquisizioni e le sfide che le riflessioni e il dibattito a gruppi avevano suscitato in noi. Affidate a Stijn van den Bossche (professore di teologia e delegato interdiocesano per la catechesi) e Paul Scolas (professore di teologia a Louvain la Neuve), queste due riflessioni hanno centrato la tematica della trasmissione della fede sul ruolo della testimonianza del cristiano. È proprio la vocazione cristiana, termine capace di riassumere le Scritture e allo stesso tempo così impopolare nelle nostre culture, il punto di partenza di ogni annuncio di fede: una vocazione riconosciuta anzitutto nel suo tratto di santità (il sacerdozio battesimale di tutti i cristiani) che fa di ognuno di noi un profeta, araldo del Regno che viene; una vocazione che vede nel sacramento del matrimonio e nello stato di vita che ne consegue uno dei segni più chiari e attualmente più capaci di annuncio: cosa c’è di maggiormente evangelizzante di una vita matrimoniale vissuta alla luce dell’amore di Cristo, e dei tratti che questo amore assume? P. Scolas ha continuato la riflessione mostrando come in questa linea sia possibile assumere come strumento per la trasmissione della fede la nostra stessa storia cristiana, la nostra storia di fede, terreno dentro il quale gli uomini della nostra cultura possono trovare punti di aggancio e di intersezione con le loro storie e gli itinerari delle loro ricerche di senso.

Come mostra in modo chiaro A. Borras, nelle parole di chiusura del colloquio, lo scopo di tutto il colloquio è consistito nel guidare i partecipanti a comprendere in modo sempre più chiaro la sfida alla quale è chiamata la Chiesa oggi: una purificazione della sua fede, che l’aiuti ad essere sempre meglio testimone del Vangelo di Gesù Cristo agli uomini del nostro tempo. A questo scopo è legato anche il lettore che si appresta a cimentarsi nel viaggio appena descritto. Buona lettura e buon cammino di conversione

Luca Bressan

Nota Bene: i testi conservano la fragranza del colloquio. Non rivisti dagli autori, se non per delle correzioni veloci, con la loro struttura tipica del linguaggio parlato vogliono aiutare il lettore a situarsi nella dinamica del percorso chiesto ai partecipanti, permettendo così di poter rivivere almeno in parte le emozioni suscitate al momento della loro comunicazione, e – insieme alle emozioni – le riflessioni che sono sgorgate durante il percorso del colloquio.

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Joies et peines de la transmission de la foi aujourd’hui.

Expériences des différents groupes nationaux

Hubert Windisch

2

Eine kurze Einführung in das Thema

Der Titel „Warum den Glauben weitergeben?“ mag zunächst wie eine einfache Informationsfrage klingen. Doch er enthält über den Aspekt der Information hinaus auch einen Impuls, ist also gleichsam eine performative Frage, die somit zur Anfrage wird: Was treibt uns eigentlich, den Glauben weiterzugeben? Warum können wir nicht davon ablassen, den Glauben weiterzugeben? Was sind die innersten Gründe und nicht nur die Inhalte einer Glaubensweitergabe? Schauen wir auf den Untertitel unserer Tagung „Von Gott berührt, fasziniert vom Evangelium“, dann gibt dieser schon den Blick frei für eine tragfähige Antwort auf die Anfrage des Titels, ganz im Sinne von Apg 4,20: „Wir können nicht schweigen über das, was wir gesehen und gehört haben.“

Die Fragen an die CEP-Gruppen in den verschiedenen Ländern, die es zu beantworten galt, um das Thema der Tagung konkret werden zu lassen, lauteten:

* Was bedeutet für uns „den Glauben weitergeben“? Mit dieser Frage soll nach dem Wesen, nach der Substanz von Glauben und Glaubensweitergabe gefragt werden.

* Warum wollen wir heute den Glauben weitergeben? Mit dieser Frage werden die Gründe für eine Glaubensweitergabe heute gesucht, um sie dann auch benennen zu können.

* Wie können wir den Glauben heute weitergeben? Es braucht also auch geeignete Wege und Methoden der Glaubensweitergabe, ansonsten erübrigt sich die grundsätzliche Frage nach der Glaubensweitergabe heute.

Alle drei Fragen sollten von den Gruppen in folgenden Koordinaten beantwortet werden:

* Von welchen positiven und auch negativen Erfahrungen bezüglich der Glaubensweiter-gabe heute können wir berichten?

* Welche Tätigkeiten in bezug auf die Glaubensweitergabe können wir aufzählen?

2 Ordentlicher Universitätsprofessor (Pastoraltheologie) an der Theologischen Fakultät der Albert- Ludwigs-Universität in Freiburg.

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* Welche Wünsche, Sehnsüchte und Erwartungen verbinden wir mit der Glaubensweiter-gabe heute?

Schaubild 1

Quantitative Aspekte der Antworten

Ein eher quantitativer Zugriff auf die Rückmeldungen aus den Gruppen lässt folgende Daten und Merkmale erkennen:

Es gab insgesamt 30 Rückmeldungen aus 7 Ländern (Deutschland, Österreich, Schweiz, Belgien, Frankreich, Italien, Spanien/Katalonien). 15 Rückmeldungen stammen dabei aus dem deutschen Sprachraum und 15 Rückmeldungen aus dem romanischen Sprachraum.

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Schaubild 2

Quantitativer Zugriff auf die Rückmeldungen

 30 Rückmeldungen aus folgenden 7 Ländern:

Österreich Schweiz Deutschland

15 aus dt. Sprachraum

Belgien Frankreich Italien Spanien (Katalonien)

15 aus rom. Sprachraum

Im einzelnen handelt es sich um Rückmeldungen von Gruppen oder Einzelpersonen.

Sie lassen sich folgendermaßen aufschlüsseln:

Schaubild 3

 davon

Österreich: 2 (Gruppen oder einzeln nicht erkennbar) Schweiz: 1 (Gruppe)

Deutschland: 12 (nur einzeln)

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Belgien: 2 (1 Gruppe, 1 einzeln) Frankreich: 5 (4 Gruppen, 1 einzeln) Italien: 4 (nur einzeln)

Spanien: 4 (3 Gruppen, 1 einzeln)

Umfang und Stil der Rückmeldungen differieren stark zwischen langen, sehr persönlichen Berichten in Briefform und eher kurzen, thesenartigen Zusammenfassungen von Gruppensitzungen und –reflexionen. Dabei fallen auch bemerkenswerte Unterschiede zwischen den Antworten aus dem romansichen und den Antworten aus dem deutschen Sprachraum auf: Während in den Rückmeldungen aus dem deutschen Sprachraum fast durchweg der Ich-Stil und eine eher subjektivierende Einstellung zur Kirche und zum kirchlichen Glauben vorherrschen, zeichnen sich die Rückmeldungen aus dem romanischen Sprachraum durch einen kommunialen Wir-Stil und eine eher objektivierende Einstellung zur Kirche und zum kirchlichen Glauben aus.

Schaubild 4

 Umfang/Stil:

● lange persönliche Rückmeldungen (Briefform) oder

● kurze systematische Zusammenfassungen von Gruppenreflexionen

 Nuancen:

● dt. Sprachraum:

Ich-Stil

Subjektivierende Einstellung zu Kirche/Glaube

● rom. Sprachraum:

Wir-Stil

Objektivierende Einstellung zu Kirche/Glaube

Qualitative Aspekte der Antworten

Nun kommen wir zur qualitativen Aufschlüsselung der 30 Rückmeldungen der CEP- Gruppen aus den 7 Ländern und damit zum Hauptaugenmerk meiner Analyse.

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3.1 Zunächst fällt in allen Rückmeldungen der häufige Bezug zur Heiligen Schrift auf. Das ist eine erfreuliche und ermutigende Feststellung, zeigt sie doch, wie sehr alle Männer und Frauen, die geantwortet haben, im wahrsten Sinn des Wortes biblische Männer und Frauen sind bzw. sein wollen. Ferner wird bei allen Aussagen deutlich, dass die Freude am Glauben die Schwierigkeiten seiner Weitergabe überwiegt. Auch das ist eine hoffnungsfrohe Tatsache für die Zukunft. Und schließlich kann aufgrund der Rückmeldungen erkannt werden, dass in bezug auf die Weitergabe des Glaubens quer durch Europa viel getan und unternommen wird. Aufgrund ihres Einsatzes zeigen die Einzelpersonen und Gruppen in ihren Briefen an mich, wie sehr sie kostbare Salzkörner und helle Lichter (vgl. Mt 5,13-16) und immer wieder neuer Sauerteig der Frohen Botschaft Jesu in dieser unserer Welt sind (vgl. Mt 13,33; 1 Kor 5,7-8).

3.2 Auf die Frage, was Glaubensweitergabe im Kern bedeute, kann man in den Rückmeldungen grundsätzlich zwei Charakterisierungen erkennen: Zum einen ist Glaubensweitergabe nichts anderes als die Teilgabe an der eigenen Teilhabe des Lebenswerkes Jesu Christi. Und zum anderen bedeutet den Glauben weiterzugeben letztlich Leben weiterzugeben (vgl. Joh 10,10). Glaubensweitergabe ist also nicht nur Theorie, sondern Praxis, ist nicht nur ein Für-wahr-halten, sondern im innersten ein Die- Wahrheit-tun. Wer den Glauben weitergibt, will nach 1 Joh 3,18 nicht nur mit Wort und Zunge lieben, sondern in Tat und Wahrheit (vgl. auch Joh 3,21; Joh 8,32; 1 Petr 1,22).

3.3 Warum aber den Glauben weitergeben? Weil er ein kostbarer Schatz ist (vgl. Mt 13,44-46; 1 Petr 1,18-19). In Christus sind ja nach Paulus „alle Schätze der Weisheit und Erkenntnis verborgen“ (Kol 2,3). Gemäß einem alten scholastischen Axiom („bonum diffusivum sui“) kann man aber, wenn man wirklich lieben und gut sein will, Kostbares nicht für sich behalten. Es möchte mitgeteilt und geteilt werden. Auch auf den geschenkhaften, auf den gnadenhaften (gratia) Charakter von Glauben wird aufmerksam gemacht: Umsonst (gratis) haben wir empfangen, umsonst (gratis) sollen wir auch geben (vgl. Mt 10,8; 1 Kor 4,7). Klingen diese beiden Aspekte (Kostbarkeit und Gnadenhaftigkeit) zusammen, dann entsteht in bezug auf die Glaubensweitergabe eine innere und äußere Verpflichtung, die in einem Paradox als „freier Zwang“

beschrieben werden kann. Ich kann gar nicht mehr anders, als den Glauben weiterzugeben, und ich tue es aus freien Stücken, aus Überzeugung. „Wenn ich das Evangelium verkünde, kann ich mich deswegen nicht rühmen; denn ein Zwang liegt auf mir. Weh mir, wenn ich das Evangelium nicht verkünde!“ schreibt Paulus in seinem ersten Brief an die Gemeinde von Korinth (9,16).

3.4 Wenn man nach den Wegen der Glaubensweitergabe fragt, nach Methoden und Formen der traditio fidei, nach den Möglichkeiten, den Glauben heute wie Samenkörner auszusäen, wird in allen Rückmeldungen – vielleicht unbewusst – auf das Apostolische Schreiben „Evangelii Nuntiandi“ von Paul VI. aus dem Jahre 1975 Bezug genommen.

In diesem Schreiben steht an erster Stelle verschiedener Stufen der Verkündigung in heutiger Zeit das Zeugnis der Christen. Und zwar ist dieses Zeugnis zuallererst das Zeugnis des Lebens, bevor es auch zum Zeugnis des Wortes werden kann. Wort und Tat bedingen sich gegenseitig bei der Glaubensweitergabe. Wir müssen also christlich leben, damit wir auch nach dem Grund unseres Glaubens und unserer Glaubenshoffnung befragt werden können (vgl. 1 Petr 3,15-16). Dieses Zeugnis weist eine ganz persönliche und auch eine notwendige institutionelle Dimension auf.

Christsein in der Welt geht nicht ohne Kirchesein und umgekehrt. Freilich wird immer

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auch in den Rückmeldungen davor gewarnt, Methoden der Glaubensweitergabe zum Selbstzweck werden zu lassen, zu einem sich verselbständigenden Spiel, das zuguterletzt nicht mehr dient und nützt. Jede Methode ist schon rein dem Wortsinn nach ein Durchgang (griechisch: meta hodos), ein Instrument, mit dem man ein Ziel erreichen kann. Was aber ist das Ziel jeder Glaubensweitergabe? Es ist letztlich die heilsame Begegnung zwischen Jesus Christus und den Menschen in der Lebenswelt von heute.

Zusammenfassung

Zum Abschluß erlaube ich mir, einige generelle Linien, die in den Rückmeldungen erkennbar werden, zu unterstreichen. Wir müssen bei allen Unterschieden nach Ländern und Personen sehen, dass die Herausforderung der Glaubensweitergabe heute ein europäisches Phänomen ist. Es gibt keine Insel der Seligen mehr. Christlich zu glauben und den christlichen Glauben weiterzugeben ist – mutatis mutandis – nicht mehr selbstverständlich. Nirgendwo. Das mag man bedauern. Gleichzeitig jedoch ist damit zum ersten Mal seit Konstantin dem Großen auch wieder ein ungewohntes neues Maß an persönlicher und institutioneller Freiheit gegeben, sowohl den Glauben zu leben als auch weiterzugeben. Nutzen wir die Chance der Freiheit für unseren Glauben!

Ratlos macht sicher viele Eltern und Großeltern der gewaltige Traditionsabriß in bezug auf den Glauben in Ehe und Familie und bei Kindern und Jugendlichen. Doch könnte in diesem Phänomen auch die Chance stecken, sowohl unsere Glaubensvollzüge als auch unsere Glaubensinhalte zu verwesentlichen und zu elementarisieren. Die nachwachsenden Generationen brauchen in einer immer komplizierter werdenden Welt und in immer unübersichtlicheren Lebenszusammenhängen laut Jesus das eine Notwendige zum Überleben (vgl. Lk 10,38-42).

Und schließlich fehlt vielen Gutgewillten (gerade auch unter denen, die mir geschrieben haben) oftmals das geeignete Instrumentarium, um Rechenschaft vom eigenen Glauben geben zu können. Vor allem fehlt vielen die Gefährtenschaft. Sie sind oft so allein. Worin besteht die Chance dieser Erfahrung? Christliche Freundschaften sind angesagt, kleine Gemeinschaften sollten so manchem eine Stütze für seinen Glauben sein und pastorale Einfachheit hinsichtlich der Methoden der Glaubensweitergabe könnte mehr Menschen zum Zeugnis von Jesus Christus ermutigen.

Ohne Zweifel leben wir in einer uns neu zugemuteten missionarischen Situation, und das nicht nur in die Welt, sondern auch in die Kirche selbst hinein. Ist es nicht auch schön und spannend, diese Zumutung der Glaub-Würdigkeit unseres Christseins zu erfahren und sich ihr zu stellen? Ein Wort- bzw. Buchstabenspiel (das leider nur in der deutschen Sprache greift) von Bischof Joachim Wanke aus Erfurt soll uns trostvoll in die Zukunft entlassen: Unsere Zeit, so sagt er einmal, ist nicht unchristlicher, sondern urchristlicher geworden.

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Wie religiös ist Europa?

Reflexionen über die religiöse Situation in Europa

Klaus Vellguth

3

Wenn im folgenden der Frage nachgegangen werden soll, wie religiös Europa tatsächlich ist, so soll dies in drei Schritten geschehen. In einem ersten Schritt wird die Religiosität in Europa phänomenologisch beleuchtet, in einem zweiten Schritt wird herausgearbeitet, inwiefern die Religiosität in Europa sich äußerst heterogen darstellt und quer zu den Ländergrenzen die Gesellschaften durchschneidet, und in einem dritten Schritt werden schließlich die pastoralen Herausforderungen herausgearbeitet, die sich aufgrund der religiösen Großwetterlage in Europa ergeben. Doch zunächst einmal zur Religiosität in Europa.

Religiosität in Europa

Im Jahr 2008 erschien der Religionsmonitor der Bertelsmann-Stiftung, der in einem weltweit angelegten Projekt die Religiosität in der sich globalisierenden Welt evaluiert.

Dieser Religionsmonitor, der vermutlich die umfangreichste Studie darstellt, die bislang zur Frage der Religiosität in verschiedenen Ländern erstellt worden ist, versteht sich als ein Instrument zur interdisziplinären Analyse von religiösen Dimensionen in der Gesellschaft. Dabei fließen in dieser Analyse sowohl soziologische als auch kulturwissenschaftliche und theologische Dimensionen ein. Befragt wurden im Rahmen dieser Studie insgesamt 21.000 Frauen und Männer in 21 Ländern. Mit Blick auf Europa wurde diese Befragung durchgeführt in Deutschland, Frankreich, Großbritannien, Italien, Österreich, Polen, Russland, Schweiz und Spanien. Damit legt die Studie in Europa einen spezifischen regionalen Fokus auf Zentraleuropa, wobei die Beneluxstaaten ausgeklammert worden sind.4 In Osteuropa wurde bislang nur die Religiosität in Polen im Rahmen der Studie berücksichtigt. Über Osteuropa hinaus wurde die Studie mit dem gleichen Studiendesign auch in Australien, Brasilien, Guatemala, Indien, Indonesien, Israel, Marokko, Nigeria, Süd-Korea, Thailand und den Vereinigten Staaten durchgeführt.

Um die Religiosität der Bevölkerung in den verschiedenen Ländern zu messen, berücksichtigt die Studie sechs verschiedene Kerndimensionen von Religiosität:

 Intellekt

3 Professor für Missionswissenschaft an der Philosophisch-Theologischen Hochschule Vallendar.

4 Bislang legt die Studie einen regionalen Fokus auf Zentraleuropa, doch ist geplant, dass die Studie künftig auch auf bislang noch nicht berücksichtigte Länder ausgeweitet wird.

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 Glaube/Ideologie

 Öffentliche Praxis

 Private Praxis

 Religiöse Erfahrung

 Konsequenzen

Unter der Kerndimension „Intellekt“ misst der Religionsmonitor das Interesse der Menschen an religiösen Themen. Dies geschieht dadurch, dass religiöse Überlegungen, religiöse Suchbewegungen und die spirituelle und religiöse Lektüre der Bevölkerung gemessen wird.

Unter der Kerndimension „Glaube/Ideologie“ wird der Glaube an Gott bzw. an etwas Göttliches verstanden. Diese Kerndimension wird dadurch gemessen, dass die Menschen zu ihren Gottesbildern, Weltbildern, zum religiösen Pluralismus, zum religiösen Fundamentalismus und sonstigen religiösen Vorstellungen befragt werden.

Unter der Kerndimension „Öffentliche Praxis“ versteht der Religions-monitor die den privaten Raum übersteigende religiöse Praxis, also dem Gottesdienstbesuch, die Teilnahme an Gemeinschaftsgebeten bzw. den Besuch des Tempels.

Unter der Kerndimension „Private Praxis“ versteht der Religionsmonitor das Gebet und die Meditation und berücksichtigt darüber hinaus weitere Aspekte wie Pflichtgebete, Praktiken eines Hausaltars etc.

Unter der Kerndimension „Erfahrung“ fasst der Religionsmonitor den Aspekt der Du-Erfahrung bzw. Einheitserfahrung (Kosmisierung) sowie der religiösen Gefühle der Menschen zusammen. Dieser Aspekt der Erfahrung ist mit Blick auf die Religiosität von entscheidender Bedeu-tung, da Religion nur dann eine Tiefenwirkung hat, wenn sie nicht als eine kognitive Lehre bzw. Ideologie rezipiert wird, sondern auf der Erfahrungsebene einen ganzheitlichen Zugang ermöglicht. So hat Stefan Knobloch in seinem Buch „Mehr Religion als gedacht!“ zuletzt darauf verwiesen, dass gerade die Erfahrung eine wesentliche religiöse Dimension besitzt: „Die Lehren einer religiösen Gruppe werden für das Subjekt nur insofern relevant, als sie den Filter der eigenen Erfahrungs-evidenz durchlaufen haben.“5 Mit dieser Betonung der Erfahrung knüpft Knobloch an Überlegungen von Karl Rahner, dem größten deutschen Theologen des 20.

Jahrhunderts an, der bereits in einem vor knapp 40 Jahre gehaltenen Vortrag darauf verwies: „Erfahrung als solche und die begrifflich objektivierende Reflexion auf solche Erfahrung sind zwar nie absolut getrennt, aber diese beiden Größen Erfahrung und objektivierende Reflexion auf sie sind auch nie identisch. Die Reflexion holt die ursprüngliche Erfahrung nie ganz ein.“6 Gerade Karl Rahner, der eine Koryphäe im

5 Knobloch, Stefan, Mehr Religion als gedacht! Wie die Rede von der Säkularisierung in die Irre führt, Freiburg 2006, 87.

6 Rahner, Karl, Vortrag an der Katholischen Adademie Koblenz vom 22.10.1969. Publiziert in:

Schriften zur Theologie, Bd. IX, Einsiedeln 1970, 161-176.

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Bereich der theologischen Reflexion war, war sich in aller Bescheidenheit bewusst, dass die Reflexion sich stets nachgelagert zu sehr viel bedeutsameren religiösen Erfahrungen verhält. Aus diesem Grund muss der Kerndimension „Erfahrung“, die der Religionsmonitor als eine von sechs Kerndimensionen betrachtet, eine besondere Relevanz zukommen.

Unter der Kerndimension „Konsequenzen“ misst der Religionsmonitor die allgemeine Alltagsrelevanz der Religion. Dabei bezieht er sich auf die Relevanz der Religion in verschiedenen Lebensbereichen, z.B. in der Familie, der Politik, der Kindererziehung, der Sexualität etc.

Um diese sechs Kerndimensionen angemessen zu erfassen, wurden im Rahmen der Erhebung insgesamt fast 100 Fragen formuliert, die sich auf die verschiedenen Kerndimensionen beziehen. Das Ergebnis dieser (weltweiten bzw.) europaweiten Befragung war beeindruckend:

Zentrale Ergebnisse des Religionsmonitors 2008

Der Religionsmonitor weist darauf hin, dass Europa nach wie vor vom christlichen Glauben geprägt ist. Drei Viertel aller Europäer (74%) in den erhobenen Ländern sind religiös, ein Viertel (25%) sogar hochreligiös. Nur 23% der Europäer bezeichnen sich als nichtreligiös. Die christlichen Konfessionen sind dabei so dominant, dass der Religionsmonitor aufgrund der geringen Fallzahlen keine repräsentativen Aussagen über andere Religionen machen kann. Dabei zeigt sich jedoch auch, dass Religiosität vor allem besonders ausgeprägt ist in den Bereichen der intellektuellen Auseinandersetzung, der Beschäftigung mit dem Glauben und der Reflexion der eigenen Religiosität. Darüber hinaus ist Religiosität auch geprägt durch individuelle religiöse Praktiken wie dem Gebet bzw. theistischen Spiritualitätsmustern. Dies führt dazu, dass die Menschen in Europa sich sowohl als religiös als auch als spirituell erleben und ein religiöses bzw. spirituelles Selbstbild besitzen.

Der Religionsmonitor zeigt, dass Religion tatsächlich eine konstitutive Konstante für das Leben in den europäischen Ländern darstellt. Gerade mit Blick auf die Diskussion um die Verankerung des Gottesbegriffs in der Europäischen Verfassung erstaunt zunächst einmal die Feststellung: „Religion bildet eine wichtige Klammer für das europäische Zusammenwachsen. Sie beeinflusst das persönliche und soziale Leben in allen Ländern, wenn auch in unterschiedlicher Intensität.“7 Dabei wird ausgeführt, welche einheitsstiftende Bedeutung Religion für das Leben der Menschen besitzt:

„Religion kann aus einem gemeinsamen Wertekanon schöpfen, z.B. im Umgang mit wichtigen Lebensereignissen wie Geburt, Partnerschaft, Tod oder nach Fragen nach dem Sinn des Lebens.“8

7 Bertelsmann-Stiftung, (Hg.), Religionsmonitor 2008. Überblick zu religiösen Einstellungen und Praktiken, Gütersloh 2008, 4.

8 Bertelsmann-Stiftung, (Hg.), Religionsmonitor 2008. Überblick zu religiösen Einstellungen und Praktiken, Gütersloh 2008, 4.

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Interessant ist, die Religiosität in Europa noch einmal konfessionell zu differenzieren. Unter den Katholiken bezeichnet sich sogar jeder Dritte (33%) als hochreligiös, nur 11% der Katholiken bezeichnet sich selbst als nichtreligiös. Unter den Protestanten bezeichnen sich fast jeder Fünfte (18%) als hochreligiös, 16% der Protestanten würden sich selbst als nichtreligiös betrachten.

Auch wenn diese Aussagen zur Religiosität in Europa zunächst einmal auf ganz Europa zutreffen, zeigt sich auch, dass sich in Europa keine homogene Religiosität nachweisen lässt. Es lässt sich tatsächlich ein starkes religiöses Gefälle feststellen. Dies Gefälle kann man zunächst einmal regional beobachten. Die stärkste religiöse Verwurzelung konnte in Polen und in Italien gemessen werden. Die geringste religiöse Verwurzelung wurde in Frankreich nachgewiesen. Hier zeigt sich, welch eine Bedeutung ein explizit laizistisches Verständnis einer Gesellschaft auch auf die Entwicklung der Religiosität besitzt.

Erstaunlich ist mit Blick auf die Religiosität in Europa: Selbst bei den Konfessionslosen wurde das Phänomen der Religiosität gemessen. Und mehr als ein Viertel der konfessionslosen Befragten in Europa ist nach Aussage des Bertelsmann Religionsmonitors 2008 religiös. Besonders verbreitet ist dieses Phänomen, dass konfessionslose Menschen dennoch als religiös eingestuft werden können, in der Schweiz bzw. in Italien. Dort konnten 9% bzw. 6% der Konfessionslosen als hochreligiös identifiziert werden.

Interessant ist, die Religiosität nicht nur in ihrer Gesamtheit in Europa zu betrachten, sondern auch einmal nach den jeweiligen Kerndimensionen zu differenzieren. Zunächst einmal zu den beiden Kerndimensionen Intellekt bzw. Glaube/Ideologie: Mehr als zwei Drittel der Befragten in Europa (68%) glauben, dass ein Gott bzw. etwas Göttliches existiert. Sie glauben auch, dass es in irgendeiner Form ein Weiterleben nach dem Tod gibt. Besonders ausgeprägt ist dieser Glaube – dies mag nach dem bisher Gesagten nicht weiter verwundern – in Polen und in Italien. Besonders schwach ausgeprägt ist dieser Glaube an Gott oder etwas Göttlichem tatsächlich in Frankreich.

Mit Blick auf die beiden Kerndimensionen öffentliche Praxis bzw. private Praxis stellt der Religionsmonitor fest, dass fast zwei Drittel der Befragten in Europa (61%) das persönliche Gebet praktizieren. Und mehr als die Hälfte der Befragten (57%) nehmen mehr oder weniger regelmäßig an Gottesdiensten teil. Auch hier zeigt sich wieder, dass die private Praxis des Gebets vor allem in Italien und Polen überdurch- schnittlich stark beheimatet ist. Die etwas weniger konfessionell gebundene private Praxis der Meditation hingegen ist in Polen kaum, dafür in Italien wiederum überdurchschnittlich stark verbreitet. In Italien und Polen konnten wiederum die höchsten Werte für die Frage nach der öffentlichen Praxis des Glaubens gemessen werden, während zur öffentlichen Praxis in Frankreich und Großbritannien auffallend niedrige Werte gemessen werden konnten.

Interessant ist an dieser Stelle ein Vergleich zwischen Europa und den USA mit Blick auf die öffentliche Praxis Dieser Vergleich relativiert die überraschend hohen Werte, die der Religionsmonitor zur öffentlichen Praxis in Europa ausweist. Auch wenn sich in Europa gerade unter der katholischen Bevölkerung eine überraschend starke öffentliche Praxis feststellen lässt (74% nehmen mehr oder weniger regelmäßig an

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Gottesdiensten teil), übersteigt der Wert in den USA bei der katholischen Bevölkerung mit 89% den europäischen Wert deutlich. Dieses Bild ergibt sich auch bei einem Vergleich der öffentlichen Praxis zwischen der protestantischen Bevölkerung in Europa und den USA. Hier ist der Unterschied sogar noch signifikanter. Während in Europa 53% der Protestanten mehr oder weniger regelmäßig an Gottesdiensten teilnehmen, beträgt dieser Wert in den USA immerhin 90%. Und selbst bei den Menschen, die keiner Konfession angehören, nehmen in Europa „nur“ 7% an Gottesdiensten teil, während in Amerika 22% sich zu einer öffentlichen Praxis ihrer Religiosität bekennen, auch wenn sie selbst keiner Konfession angehören.

Mit Blick auf die religiöse Erfahrung zeigt der Religionsmonitor, dass Religiosität oder religiöse Erfahrung sich bei den Menschen in Europa in erster Linie in Empfindungen der Erfurcht, Geborgenheit, Dankbarkeit, Liebe und Hoffnung ausdrückt. Deutlich geringer ausgeprägt sind religiöse Empfindungen wie Schuld, Angst und Zorn. Hier zeigt sich, dass die Menschen von einem positiven, eher befreienden Gottesbild ausgehen, das keine bedrückende, sondern eher befreiende Perspektiven besitzt.

Mit Blick auf die Kerndimension „Konsequenzen“ zeigt der Religionsmonitor, dass im Bereich der Erziehung der Kinder die Religiosität für die Menschen in Europa eine deutlich stärkere Bedeutung besitzt als beispielsweise im Bereich der politischen Einstellungen bzw. der Sexualität. Hier lassen sich aber auch wiederum nationale Differenzen aufzeigen. Während in Polen beispielsweise die Frage der Erziehung der Kinder sehr stark von der Religiosität der Bevölkerung geprägt ist, während die politische Einstellung sich davon abgekoppelt hat, ist die Bedeutung der Religiosität für die Erziehung der Kinder selbst im stark religiös geprägten Italien deutlich geringer. Die geringste Bedeutung der Religiosität für politische Entscheidungen bzw. für den Bereich der Sexualität hat die Religion in Frankreich. Insgesamt zeigt die Erhebung über die Konsequenzen der Religiosität für das konkrete Leben, dass sich die Befragten in Europa vor allem in den Bereichen Politik und Sexualität nicht an ihren Glauben gebunden fühlen und keinen Zusammenhang mit ihrer Religiosität sehen.

Erfreulich ist, dass der Religionsmonitor selbst unter den jungen Erwachsenen nicht weniger Europäer als religiös identifiziert als in der Gesamtbevölkerung. Diese Aussagen des Religionsmonitors sind keine Zufallsergebnisse einer einzelnen Studien, sondern decken sich weitgehend mit anderen Parallelstudien. Hier wären vor allem die beiden Studien „Kehrt die Religion wieder an?“9 und die Studie „Church and Religion in an Enlarged Europe“10 zu nennen.

Als Fazit der Analysen des Religionsmonitors 2008 kann also festgehalten werden, dass entgegen einem weitverbreiteten Empfinden das Leben der Menschen in Europa zu Beginn des dritten Jahrtausends von einer starken Religiosität geprägt ist. Letztendlich

9 P.M. Zulehner / Isa Hager / Regina Polak, Kehrt die Religion wieder? Religion im Leben der Menschen 1970-2000, Ostfildern 2001.

10 Church and Religion in an Enlarged Europe 2006. Das von der Volkswagen-Stiftung finanzierte Projekt wird am Lehrstuhl für Vergleichende Kultursoziologie der Europa-Universität Viadrina (Frankfurt/Oder) durchgeführt.

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handelt es sich bei dieser stark ausgeprägten Religiosität um einen Gegentrend zu einem Menschenbild, bei dem der Mensch „auf eine klonbare Biomasse, auf einen wertschöpfenden Wirtschaftsfaktor reduziert wird.“ (Matthias Horx). Mit seiner These von der Respiritualisierung der Gesellschaft knüpft Horx an Überlegungen zur De- Säkularisierung (Peter L. Berger), De-Privatisierung (José Casanova) bzw. der Rückkehr der Religionen (Martin Riesbrodt) an. Gotthard Fuchs, ein deutscher Theologe, schloss sich dieser These zuletzt an und bemerkte: „Wo alles in den Wirbel der Kontingenzen und Zufälligkeiten gerät, wächst der Wunsch nach letzten Gewissheiten, nach letzten Geltungen. Wo gar von der Diktatur des Relativismus gesprochen werden muss, entsteht neu die Suche nach Absolutem.“11

Letztendlich deckt sich die These von der spirituellen Durchdringung der Gesellschaft mit den Aussagen der Konzilsväter, die darauf verwiesen haben, dass alle Menschen mit religiösen Grundfragen konfrontiert werden: „Was ist der Mensch? Was ist denn nun Ziel unseres Lebens? Was ist das Gute, was ist die Sünde? Woher kommt das Leid und welchen Sinn hat es? [...] Und schließlich: Was ist jenes letzte und unsagbare Geheimnis unserer Existenz, aus dem wir kommen und wohin wir gehen?“12 Und an anderer Stelle formulieren die Konzilsväter: „Sie (sic. die Kirche) weiß darum, dass der Mensch unter dem ständigen Antrieb des Geistes Gottes niemals dem Problem der Religion gegenüber gleichgültig sein kann [...].“13

Heterogenität der Religiosität

Der Religionsmonitor von Bertelsmann zeigt mit Blick auf Europa, dass Europa zum einen sehr stark religiös geprägt ist, dass es aber mit Blick auf die verschiedenen Länder Europas erhebliche Unterschiede sowohl in der Ausprägung als auch Intensität von Religiosität zu beobachten ist. Diese Heterogenität der Religiosität ist jedoch nicht nur territorial zu beobachten, die Heterogenität des Glaubens kann auch in den einzelnen Gesellschaften beobachtet werden. Dies hat zuletzt eine Studie eindrucksvoll belegt, die in der Bundesrepublik Deutschland veröffentlicht worden ist. Die sogenannte Sinus- Milieu-Studie „Kirchliche und religiöse Kommunikation in den Sinus-Milieus® 2005“

hat die Gesellschaft der Bundesrepublik Deutschland sowohl mit Blick auf ihre soziale Schichtung als auch mit Blick auf die von den Menschen vertretenen Werte analysiert.

Damit handelt es sich um eine differenzierte Untersuchung der Gesellschaft, die sowohl den jeweiligen Lifestyle als auch die semiometrischen Variablen berücksichtigt. Das Ergebnis dieser Milieu-Studie war, dass die deutsche Gesellschaft in zehn verschiedene Milieu-Gruppierungen differenziert werden kann. Mit Blick auf die religiöse bzw.

kirchliche Verwurzelung dieser zehn Milieus ließ sich nachweisen, dass die Kirche nur noch Kontakt zu drei der insgesamt zehn Milieus besitzt: zum Milieu der

„Konservativen“, zum Milieu der „Traditionsverwurzelten“ und zum Milieu der

„Bürgerlichen Mitte“. Zu allen anderen insgesamt sieben Milieus hat die Kirche den Anschluss verloren. Dies ist besonders tragisch, da vor allem die Milieus, in denen

11 Fuchs, Gotthard, Zwischen Wellness und Weisheit. Neue Begeisterung für die Mystik, in: HK spezial, Renaissance der Religion. Mode oder Megathema?, November 2006, 32-36, 34.

12 Nostae Aetate 1

13 Gaudium et Spes 41

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Jugendliche heute beheimatet sind und die vermutlich in Zukunft an Bedeutung gewinnen werden, jeglichen Kontakt zur Kirche verloren haben. Eckhart Bieger, der sich intensiv mit dieser Studie befasst hat, hält fest: „Mit der Art, wie die Kirche Gottesdienste feiert, wie sie in den Medien präsent ist und wie sie überhaupt ihr gemeinschaftliches Leben organisiert, schließt sie vor allem die jungen Milieus aus. Es gibt, wenn man diesen Seelsorgestil weitermacht, keine Hoffnung, dass die Jüngeren mitmachen.“

Pastorale Herausforderung

Auch wenn der Religionsmonitor 2008 darauf hinweist, dass die Menschen in Europa religiös bzw. hochreligiös sind, ist die Religiosität also immer weniger kirchlich beheimatet. Die pastorale Herausforderung besteht nun darin, sich dieser Situation zu stellen, und nicht resignativ auf den Verlust an Kirchlichkeit zu reagieren, sondern pastorale Konzepte zu entwickeln, die an der Religiosität der Menschen in Europa anknüpfen und sie in einen Dialog mit der christlichen Botschaft bringen. Konkret handelt es sich dabei um Ansätze einer mystagogischen Pastoral, die „im Kontext lebensgeschichtlicher Erfahrungen aufmerksam werden lässt auf die verborgene Gegenwart des unbegreiflichen Gottes und das Wirken seines Geistes.“14 Wie dies in der Praxis aussehen kann, soll an einigen Beispielen gezeigt werden.

Gerade mit Blick auf Jugendliche bzw. junge Erwachsene besitzt die Pop-Kultur eine wesentliche Bedeutung für den gesamten Bereich der religiösen bzw. nichtreligiösen Sozialisation. Aus diesem Grunde stellt es eine besondere Chance dar, in der Popmusik auf Spurensuche zu gehen und dort religiöse Anknüpfungspunkte zu finden. Tatsächlich zeigt sich, dass zahlreiche solcher Anknüpfungspunkte identifiziert werden können, da die Popmusik durch und durch mit religiösen Fäden durchwebt ist. Beispielsweise behandelt Robbie Williams in seinen Songs explizit religiöse Themen, wenn er sich beispielsweise mit der Frage von Schuld auseinandersetzt und singt: „Sin, sin, sin, look where we’ve been and where we are tonight. Hate the sin and not the sinner [...]“ und an anderer Stelle des Liedes fährt Robbie Williams fort: “[…] just relax, it’s what Jesus would do, we are made in this image baby, lets ride this thing through”. Natürlich sind dies keine katechismustauglichen Sätze, die hier von einem weltweit bekannten Popstar formuliert werden. Doch es sind Auseinandersetzungen mit religiösen Fragen bzw.

religiöse Anklänge, die junge Menschen beschäftigen und die zum Ausgangspunkt eines dialogischen Prozesses gewählt werden können, in dem die Religiosität der vor allem jungen Menschen mit der christlichen Botschaft in den Dialog tritt. Ein anderes Beispiel für die Möglichkeit, von der Popmusik aus eine Brücke zum Gespräch über religiöse Fragen zu schlagen, ist das Lied „Prayer of San Francis“ der kanadischen Popsängerin Sarah McLaughlin. Sie vertonte das dem Heiligen Franziskus zugeschriebene Gebet

„Herr mach mich zum Werkzeug Deines Friedens“ und gelangte damit in die Internationalen Charts. Hier ließen sich noch zahlreiche Anknüpfungspunkte in der Popmusik finden, die eine Herausforderung an die Pastoral sind, junge Menschen in der ihnen vertrauten religiösen Ausdrucksform anzusprechen und Glaubensverbindungen herzustellen.

14 Simon, Werner, Stichwort „Mystagogik, in: LThK Bd. 7, Freiburg 1998, 571f.

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Der bekannteste zeitgenössische deutsche Philosoph, Jürgen Habermas, der vor wenigen Tagen seinen 80. Geburtstag feierte, hat darauf hingewiesen, dass die religiöse Sprache zum Gemeingut der europäischen Gesellschaften gehört: „Die säkularisierte Gesellschaft hat sich einen Sinn für die Artikulationskraft religiöser Sprache bewahrt.“15 Dies zeigt sich nicht zuletzt in der Bildsprache, in der heute kommuniziert wird.

Beispielsweise hat erst in der vergangen Woche nach dem Tod von Michael Jackson das größte deutsche Nachrichtenmagazin, „Der Spiegel“, den verstorbenen Popstar in einer für ihn typischen Pose auf dem Titelbild abgebildet, die Michael Jackson mit ausgebreiteten Armen und erhobenen Kopf zeigt, die an der Kreuzigungsikonographie anknüpft. Diese religiös durchtränkte Körpersprache wurde von Michael Jackson nicht nur im Video zu seinem Song „Earth Song“ eingesetzt, sondern nun auch vom Nachrichtenmagazin „Der Spiegel“ auf der Titelseite zitiert, da diese religiöse Ikonographie und Sprache ihre eigene Sprachgewalt besitzt. Die religiöse Symbolik gehört selbst in der sogenannten säkularisierten Gesellschaft zu einem gemeinsamen, intuitiv erschließbaren Sprachfundus.

Ein anderer Anknüpfungspunkt sind Produkte, die von der Konsumgüterindustrie entwickelt werden, die aber mit einem spirituellen Mehrwert versehen werden, um sie aus der Masse qualitativ gleichwertiger Konkurrenzprodukte herauszuheben. Ein Beispiel für solch eine „spirituelle Aufladung“ eines Konsumgutes stellt der Keksriegel

„Cielo“ (Himmel) dar. Dieser Keksriegel wurde mit einer himmlischen, spirituellen Diktion bezeichnet, um ihn über rein geschmackliche Qualitäten hinaus mit einer spirituellen Aura zu umgeben. „Die Werbung benutzt unablässig religiöse Zitate und legiert im Rahmen des Kulturmarketing Produkte mit Lebensstil und Lebenssinn.“16

Anknüpfungspunkte bieten sich aber auch in der Literatur, die zahlreiche religiöse Anknüpfungspunkte besitzt, darüber hinaus aber auch immer wieder explizit religiöse Themen aufgreift: „In der postmodernen Vielfalt des heutigen Literaturbetriebs hat auch das Thema Religion wieder seinen Platz.“17

All diese Beispiele zeigen, dass in der europäischen Kultur und im auf den ersten Blick weithin so unchristlichen Alltag, der uns begegnet, überall Spuren der Religiosität zu finden sind, die der Religionsmonitor von Bertelsmann in der europäischen Gesellschaft gemessen hat. Die pastorale Herausforderung besteht nun darin, an dieser Religiosität der Menschen, die sich oft gerade in der Banalität des Alltags zeigt, anzuknüpfen, um von dort aus den Dialog mit der christlichen Botschaft zu initiieren:

„Es überzeugt eher, auf das geistliche Sehnen dieser Menschen zu setzen – ohne es ihnen von außen aufzuoktruieren - , in welcher noch so rudimentären und latenten Form es auch immer begegnen mag. Dieses geistliche Sehnen ist ins Gespräch zu bringen mit

15 Habermas, Jürgen, Glauben und Wissen. Friedenspreis des Deutschen Buchhandels 2001, Frankfurt 2001.

16 Höhn, Hans-Joachim, Postreligiös oder postsäkular? Wo heute religiöse Bedürfnisse aufleben, in:

HK spezial, November 2006, 2-6, 2.

17 Langenhorst, Georg, „Ich gönne mir das Wort Gottes“. Renaissance des Religiösen in der Gegenwartsliteratur? Herder Korrespondenz spezial, November 2006, 55-59, 55.

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der christlichen Botschaft des Geheimnisses der Menschen.“18 Letztlich basiert solch ein pastoraler Ansatz auf dem Axiom, dass Gott sich in allen Gesellschaften und in allen Kulturen inkarniert und dass der Glaube in diesen Gesellschaften und Kulturen inkulturiert ist. Diese inkulturierten Glaubensspuren sind ein Weg, der vorgezeichnet ist, um zu einem Gespräch mit den Menschen zu kommen, die sich selbst zwar als religiös bezeichnen, zu denen die Kirche aber den Bezug längst verloren hat.

Karl Rahner hat dazu ermutigt, immer wieder an der alltäglichen Gotteserfahrung anzuknüpfen und von dort aus den religiösen Dialog zu suchen. Er sagte: „Eine solche Gotteserfahrung ist somit im Alltag schon immer gegeben, auch wenn der Mensch mit allem, nur nicht mit Gott, beschäftigt ist.“19

Vor einer Woche endete offiziell das Paulusjahr, das Papst Benedikt VXI. ausgerufen hatte. Ein solcher pastoraler Ansatz, der hier skizziert wurde und der auf die Gottessehnsucht der Menschen, ihre Religiosität und die Erfahrung Gottes im Alltag setzt, kann letztlich als ein paulinischer Ansatz betrachtet werden. Denn schon in Athen wies der Völkerapostel auf die Gottesnähe aller Menschen hin: „Sie sollen Gott suchen, ob sie in ertasten und finden können; denn keinem von uns ist er fern. Denn in ihm leben wir, bewegen wir uns und sind wir, wie auch einige von Euren Dichtern gesagt haben. Wir sind von seiner Art.“ (Apg 17,27f)

Die pastorale Herausforderung besteht nun darin, in die mitunter fremden Kulturen einzutauchen und dort Ansatzpunkte einer mystagogischen Pastoral zu identifizieren.

Mancher wird dabei verwundert sein, wie religiös es an scheinbar unreligiösen Orten zugeht: „Die unterschiedlichen Räume, in denen Menschen leben, sind voller Spuren, die auf Gott hinweisen. Sie zu entdecken und mit der Botschaft des Evangeliums zu verbinden, ist Aufgabe einer zeitgemäßen christlichen Verkündigung.“20

Fazit

Die Analyse des Bertelsmann Religionsmonitors 2008 zeigt, dass entgegen einem weitverbreiteten Empfinden das Leben der Menschen in Europa zu Beginn des dritten Jahrtausends von einer starken Religiosität geprägt ist. Diese Religiosität ist jedoch äußerst heterogen, und auch wenn die Menschen in Europa überwiegend religiös bzw.

hochreligiös sind, ist ihre Religiosität immer weniger kirchlich beheimatet. Daraus ergibt sich eine pastorale Herausforderung. Die Kirche ist heraus-gefordert, die Religiosität der Menschen und auch den Glauben abseits der Kirche aufzuspüren und mit dem Glauben der Kirche in einen lebendigen Dialog zu bringen.

18 Knobloch, Stefan, Mehr Religion als gedacht! Wie die Rede von der Säkularisierung in die Irre führt, Freiburg 2006, 145.

19 Rahner, Karl, Selbsterfahrung und Gotteserfahrung, in: Schriften zur Theologie, Bd. 10. Zürich – Einsiedeln – Köln 1972, 134.

20 Die Deutschen Bischöfe, Zeit zur Aussaat. Missionarisch Kirche sein. Hg. Vom Sekretariat der Deutschen Bischofskonferenz. Bonn 2000.

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Pourquoi proposer la foi ?

«Pour que notre (votre) joie soit complétée

21

» (1Jn, 4)

André Fossion

22

Pourquoi proposer la foi?

Telle est la question23 que je voudrais rencontrer dans cet exposé. Pour entamer la réflexion, arrêtons-nous brièvement à la première épître de Paul aux Corinthiens

Une interrogation à l’exemple de Paul

Au chapitre 9 de l’épître aux Corinthiens, Paul s’interroge sur son action d’évangélisation. Pourquoi évangélise-t-il ? Paul énonce les motivations qui sont les siennes mais aussi celles qu’on pourrait lui prêter. Il pourrait être soupçonné, dit-il, de vouloir tirer des avantages matériels des communautés où il passe ? Pour écarter ce soupçon, Paul souligne d’emblée qu’il ne veut être à charge de personne. Il ne cherche pas de salaire auquel pourtant il aurait droit comme ouvrier de l’Evangile, de la même manière qu’un soldat gagne sa solde. «Nous n’avons pas usé de ce droit, écrit-il. Nous supportons tout au contraire, pour ne créer aucun obstacle à l’Evangile du Christ » (1 Co 9,12). Mais alors s’il ne cherche pas d’avantages matériels, quelles sont ces véritables motivations ? Ne serait-ce pas l’orgueil, la volonté de pouvoir, le besoin d’être reconnu comme le meilleur apôtre ? Paul envisage franchement cette hypothèse.

Annoncer l’Evangile d’une manière aussi désintéressée sans requérir aucun salaire pourrait être, en effet, un motif secret d’orgueil, une façon de se faire prévaloir. Mais Paul se reprend aussitôt en disant : « L’évangile n’est pas un motif d’orgueil pour moi, mais une nécessité qui s’impose à moi : malheur à moi si je n’annonce pas l’Evangile (1 Co 9,16). Ainsi donc, la motivation profonde de Paul, selon ses déclarations, serait non point l’orgueil mais la nécessité qui s’impose à lui d’échapper au malheur. En d’autres termes, pour lui, l’annonce de l’Evangile a partie liée à son propre bonheur. Paul le déclare avec force : il éprouve du contentement et de la joie à offrir l’Evangile gratuitement sans user des droits que son travail d’évangélisation pourrait cependant lui conférer. C’est donc pour son propre bonheur comme pour celui des autres que Paul se dépense sans compter à annoncer l’Evangile tant aux juifs qu’aux païens. Son

21 En grec, « ρερληρωμένη » participe passé passif du verbe « ρληρόω »

22 Professeur à l’Institut Lumen Vitae (Belgique).

23 L’expression « Proposer la foi » a été popularisée par la publication de la Lettre aux catholiques de France « Proposer la foi dans la société actuelle », rapport de Mgr, Dagens, préface par Mgr.Louis-Marie Billé, Editions du Cerf, Paris, 1996, 129p.

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espérance, ajoute-t-il, est d’en gagner quelques uns à l’Evangile, d’éprouver lui-même le salut et d’avoir part ainsi à l’Evangile.

Ce bref commentaire du chapitre 9 de la première épître de Paul aux Corinthiens n’avait pas pour but de trouver une réponse à la question « Pourquoi proposer la foi ? ».

Mon intention ici était simplement de mettre en exemple Paul qui s’interroge, de manière critique, sur ses propres motivations lorsqu’il annonce l’Evangile. La question est pour lui non pas seulement un objet de réflexion, mais un objet de débat en lui- même et avec les autres. Paul s’interroge sur les ressorts éventuellement cachés qui l’animent, sur les soupçons qu’il pourrait lever, sur les obstacles qu’il pourrait dresser.

A l’exemple de Paul, n’avons-nous pas, nous aussi, comme témoins de l’Evangile, à faire la lumière, de manière réflexive et critique, sur nos propres motivations et à les ajuster, autant que possible, au message de l’Evangile lui-même ?

Des motivations plurielles, complexes, ambiguës voire perverses

Pourquoi évangélisons-nous ? Qu’est-ce donc qui nous pousse à annoncer l’Evangile, à le propager, à le transmettre de génération en génération ? Comme toute action humaine la proposition de la foi peut receler des motivations diverses, multiples, plus ou moins conscientes. Les sciences de l’homme ont bien montré que l’être humain n’est jamais complètement maître chez lui, qu’il n’est jamais en parfaite transparence par rapport aux désirs multiples, divers ou même contradictoires qui le traversent et le meuvent. Un désir peut toujours en cacher un autre. Ainsi, en est-il de l’annonce évangélique. Parce qu’elle est humaine, elle n’échappe pas à la pluralité des motivations, aux ambiguïtés ou même aux perversions qui subrepticement peuvent la dénaturer.

L’histoire, en effet, montre que l’annonce évangélique a été mêlée à des motivations complexes, obscures, pas toujours honorables, loin s’en faut. La propagation de l’évangile, l’enseignement de la foi ont été liés, de fait, au jeu des puissances. Les empires – comme ceux de Constantin ou de Napoléon - s’en sont servis pour asseoir leur unité et leur stabilité politiques. Le mouvement des croisades, manifestement, n’était pas de pure évangélisation ; il charriait avec lui, sans doute même prioritairement, des intérêts commerciaux et des ambitions politiques. L’élan missionnaire ne s’est pas effectué non plus sans lien étroit avec la volonté de domination et de domestication du Nouveau Monde par l’Occident chrétien. Le marxisme a dénoncé la propagation de la foi chrétienne comme un instrument de la bourgeoisie pour maintenir les populations opprimées sous sa dépendance et perpétuer ainsi un ordre social injuste. Des mouvements de droite, aujourd’hui encore, considèrent avant tout la foi chrétienne comme un rempart contre ce qui, à leur yeux, apparaît comme une décadence morale ou contre la montée de l’Islam. L’expansion des religions paraît bien, en effet, inséparable des enjeux géopolitiques et de la répartition des aires d’influence entre les puissances.

Sur le plan psychologique et interpersonnel, les motivations à proposer la foi et à l’animer ne sont pas plus transparentes. Là encore notre modernité n’a pas manqué de souligner les ambiguïtés, les faux–fuyants, les illusions, les volontés de puissance qui peuvent se lier à l’entreprise de propagation de la foi. N’est-ce pas, par exemple, comme le dit Comte-Sponville, une manière imaginaire d’exorciser la peur de la mort – la

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sienne comme celle des autres – et de se consoler à bon compte au lieu d’affronter lucidement et en vérité la finitude. « Que nous dit la religion, écrit-il, spécialement chrétienne ? Que nous ne mourons pas, ou pas vraiment, ou que nous allons ressusciter (…) Que nous sommes d’ores et déjà aimés d’un amour infini… Que demander de plus ? Rien, bien sûr. C’est justement ce qui rend la religion suspecte : c’est trop beau, comme on dit, pour être vrai ! (…) une croyance qui correspond à ce point à nos désirs ; il y a lieu de craindre qu’elle n’ait été inventée pour les satisfaire (au moins fantasmatiquement)24 ». Ainsi donc, si on suit Comte-Sponville, annoncer la foi serait une manière d’exorciser nos peurs et de vivre dans un imaginaire consolateur. Mais, ce pourrait être aussi la volonté de puissance, la volonté de pouvoir sur l’autre, la volonté de le conformer à ce que l’on est soi-même. Rappelons-nous les temps de la première église : les juifs convertis au christianisme voulaient que les païens convertis au christianisme adoptent leurs propres coutumes juives et deviennent en quelque sorte comme eux. Il y a donc dans la proposition de la foi une sorte de rapport possible à la vérité qui est de possession, qui cherche à l’imposer à l’autre pour qu’il s’y plie. Nous le savons aussi, il y a des formes de pastorales qui respirent l’inquiétude, la nostalgie, la moralisation, la fixation névrosée sur des interdits, sur des coutumes, voire sur des rubriques. Il y a des zèles religieux désordonnés, des prosélytismes tapageurs, qui s’apparentent au harcèlement et qui font fuir. « Le salut en Jésus-Christ ? Ah non, merci, salut, je me sauve ! » répondait quelqu’un, non sans humour, à un missionnaire de la foi un peu trop pressant. Et puis, il y a encore la routine. On annonce la foi par habitude, pour faire marcher le système, parce que c’est un métier dont on s’acquitte, que l’on exerce, pour lequel on est socialement reconnu et éventuellement rémunéré.

Un double espace de travail : théologique et spirituel

Ainsi donc, c’est ce que j’ai voulu souligner ici, les motivations qui nous poussent à annoncer l’Evangile peuvent être multiples, complexes, obscures, plus ou moins conscientes tant sur le plan psychologique que sur le plan social. Ne nous leurrons pas ; nos motivations ne seront jamais parfaitement pures et transparentes. Mais, au moins, comme pasteurs, par souci d’authenticité dans notre mission d’évangélisation, avons- nous à nous atteler à un double travail : tout d’abord, un travail d’intelligence théologique de l’annonce de la foi au sein de l’économie du salut et, ensuite, un travail d’ajustement spirituel de nos pratiques pastorales à l’annonce évangélique elle-même, à la grâce dont elle témoigne. D’où, les deux points de la suite de mon exposé. Quelle intelligence théologique pouvons-nous avoir de la proposition de la foi ? A quelle conversion, à quel ajustement spirituel, cette intelligence de la proposition de la foi nous convie-t-elle ?

Pour une intelligence théologique de la proposition de la foi

La perspective que je voudrais développer consiste à souligner que la foi chrétienne - et par conséquent son annonce – se tient dans un paradoxe : elle est radicalement non nécessaire pour le salut, et pourtant radicalement précieuse pour la vie, pour la transfiguration qu’elle permet de vivre. Radicalement non nécessaire, radicalement

24 André COMTE-SPONVILLE, L’esprit de l’athéisme. Introduction à une spiritualité sans Dieu, Albin Michel, Paris, 2009, pp.135-136.

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