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Locke e l’empirismo 1. IL CONTESTO CULTURALE •

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Locke e l’empirismo

1. IL CONTESTO CULTURALE

1632: nello stesso anno in cui Galileo Galilei pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro nascono due tra i maggiori protagonisti della filosofia secentesca: l’inglese John Locke (29 agosto) e l’olandese Baruch Spinoza (24 novembre), che possono essere presi a esempio di due modi profondamente diversi di intendere il senso e il ruolo della ragione umana.

• Il confronto tra le loro filosofie mette in luce gli elementi di continuità e le novità rispetto al pensiero cartesiano, che costituisce il più importante punto di riferimento nella cultura filosofica europea del secolo XVII.

Ispirandosi al rigore dimostrativo delle scienze esatte, Cartesio intende la ragione come una facoltà assolutamente potente, che funziona secondo il modello del metodo matematico, ovvero attraverso un procedimento che dall’intuizione di alcune verità prime per sé evidenti, ricava, attraverso una serie di passaggi logico-deduttivi, l’intero complesso del sapere, garantito nella sua scientificità appunto dal rigore del metodo.

• In questo quadro l’esperienza sensibile ha un ruolo marginale, pressoché nullo.

• La ragione cartesiana – infatti – o meglio, il modello di razionalità elaborato da Cartesio è quello di una ragione intesa come facoltà che deduce da princìpi e proposizioni prime, già presenti alla mente, ogni contenuto conoscitivo.

La ragione cartesiana ricava le sue conoscenze per logica deduzione, a partire dalla dotazione di idee innate, conoscendo tutto con evidenza e indubitabile chiarezza, ma a prescindere dall’esperienza sensibile (i sensi, infatti, ingannano. Cfr. Prima meditazione metafisica).

• A questo modello di ragione si ispirano Leibniz e Spinoza. Quest’ultimo, anzi, riprende e rafforza l’intento, proprio del razionalismo cartesiano, di spiegare ogni cosa in maniera chiara e distinta affidandosi al procedimento matematico- geometrico.

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2. IL MODELLO EMPIRISTICO DI RAGIONE

• Accanto a quello matematico, emerge nella filosofia secentesca un altro modello di ragione, secondo cui nel processo della conoscenza umana la ragione è affiancata dall’esperienza, anzi lavora a posteriori sui dati forniti dall’esperienza.

• Ora, se il conoscere umano dipende dall’esperienza, la ragione non appare più come il mezzo assolutamente potente, capace di per sé di giungere a verità assolute e indubitabili, ma è vincolata ai limiti dell’esperienza, che si muove circoscritta entro confini precisi.

Vincolata ai dati sensibili, la ragione empirista non ha più il carattere della chiarezza e della assolutezza indubitabile tipici del razionalismo, ma appare invece limitata e dipendente dalla testimonianza dei sensi, sicché il conoscere non è più – principalmente – questione di certezze rigorose e indiscutibili, bensì di probabilità.

• A questo modello di ragione, che poggia sulla sensibilità e le sensazioni, è ispirato l’indirizzo di pensiero denominato “empirismo inglese”, i cui principali esponenti sono Locke, Berkeley e Hume.

• Secondo gli empiristi la conoscenza procede non da intuizioni prime, immediatamente evidenti (come ad esempio il cogito cartesiano), ma da idee ricavate dalle impressioni sensibili.

• Dunque: da un lato, Cartesio e Spinoza sono coloro che esaltano al massimo la potenza conoscitiva della razionalità matematico-geometrica e il rigore del metodo deduttivo (soprattutto Spinoza); dall’altro, Locke avanza una nozione più problematica di ragione, interrogandosi sulle sue effettive competenze e i suoi limiti.

• Locke affronta prioritariamente i problemi relativi alle possibilità e ai limiti conoscitivi della mente umana e pone l’esperienza sensibile come fondamento di tutta la conoscenza, facendone non solo l’origine, ma anche il criterio capace di stabilire la validità della conoscenza stessa.

• In tal modo Locke esprime un’alternativa al razionalismo cartesiano.

Inoltre, in campo politico, religioso e pedagogico, egli delinea una prospettiva di tipo liberale, attenta ai diritti dell’individuo, alle libertà di opinione e di fede e alle esigenze di un’armonica formazione umana.

• Il modello epistemologico lockiano, con la derivazione di tutti i contenuti mentali (idee) dai sensi, implicava un sostanziale ridimensionamento, nel confronto con la prospettiva razionalistica cartesiana, della potenza della ragione.

• L’antinnatismo delle idee lockiano, inscrivendo la mente umana, il suo funzionamento e la sua finalità all’interno di un orizzonte totalmente naturale ed empirico, si contrapponeva a una tradizione epistemologica secolare che vedeva nella facoltà razionale, vera e propria scintilla nell’essere umano della luce divina, una realtà differente e superiore rispetto alla realtà naturale.

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• Il modello lockiano, con la centralità del materiale empirico e dell’esperienza sensibile nella spiegazione del conoscere, al contrario, faceva della mind un ente naturale dipendente dagli altri enti naturali, e del pensiero razionale una delle operazioni e delle funzioni dell’anima, non – come in Cartesio - la sua essenza, o una sostanza.

In sintesi:

• La figura di Locke rappresenta l’altra grande alternativa del pensiero seicentesco: da una parte il razionalismo di Descartes (che intendeva la ragione come una tecnica che procede in modo autonomo e geometricamente, cioè utilizzando solo le idee chiare e distinte in un ordine rigoroso), e dall’altra, appunto, la filosofia di Locke e dei pensatori a lui successivi quali Hume e Berkeley.

• L’empirismo non voleva negare l’importanza della ragione. Esso sostiene invece che la ragione ha dei poteri, i quali sono però limitati dall’esperienza, intesa, quest’ultima, come la fonte e l’origine del processo conoscitivo, ed anche come il criterio di verità o lo strumento di certificazione delle tesi proposte dall’intelletto, che risultano valide solo se suscettibili di un controllo empirico.

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PAROLA CHIAVE Ragione

 Anche per Locke, come per Cartesio, la ragione è strumento essenziale di conoscenza, di orientamento nel mondo e di progresso dell’umanità.

Essa è, però, concepita in modo diverso.

E’, anzitutto, ragione legata all’esperienza sensibile, ossia alle sensazioni (a differenza di quella cartesiana, che ne prescindeva).

 Sono i sensi a fornire all’intelletto il materiale necessario per pensare; le idee nella nostra mente – dalle più concrete alle più astratte – sono soltanto le rappresentazioni nella nostra mente delle cose percepite mediante i sensi.

In secondo luogo, la ragione empiristica presenta dei limiti costitutivi, proprio sul piano conoscitivo, nella sua capacità di conoscere le cose. Ed è proprio la ricerca sulle possibilità e sui limiti della mente umana il fulcro dell’impresa filosofica di Locke.

 Inoltre, proprio in quanto ha il senso del limite, la ragione è ragionevolezza, cautela nell’indagare, equilibrio e autocontrollo nell’agire, spirito di tolleranza, senso della libertà come valore irriducibile per ogni essere umano.

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DIZIONARIO FILOSOFICO Empirismo

Termine derivante dal greco empeiria, “esperienza”, usato nell’antichità in riferimento al sapere scientifico (soprattutto medico), come testimonia, per esempio, l’impiego che ne fa il filosofo Sesto detto “empirico” (sec. II-III dopo Cristo), il quale definisce empirici i medici che rifiutano le dottrine dogmatiche per osservare i fenomeni, cioè le manifestazioni delle cose, come si presentano di fatto.

Criteri distintivi dell’empirismo sono:

L’affermazione dell’esperienza come base dell’intero sapere (contro la tesi che nella mente umana esistano idee innate);

 Il principio metodologico secondo cui la conoscenza, in quanto fondata sui dati sensoriali, deve procedere dalla sensazione al concetto e non viceversa (in sintonia con l’affermazione della Scolastica che niente è nell’intelletto se non ciò che proviene dai sensi: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu).

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3. IL SAGGIO SULL’INTELLETTO UMANO

Il capolavoro di Locke, il Saggio sull’intelletto umano (1690), è un esame approfondito delle possibilità conoscitive dell’uomo, ribadendo che la gnoseologia (teoria della conoscenza) è la parte più importante della filosofia, come è ormai chiaro da Cartesio in poi.

All’inizio del Saggio sull’intelligenza umana, nella Epistola al Lettore, Locke presenta il tipo di indagine che intende svolgere.

Lasciando da parte le questioni metafisiche e la ricerca di un fondamento assoluto del sapere, il suo scopo è piuttosto di eseguire una ricognizione delle capacità conoscitive dell’uomo, studiandone le origini, il funzionamento, i limiti, le possibilità di uso pratico.

 Locke afferma di essersi convinto della necessità di avviare una riflessione preliminare sulle possibilità e sui limiti della conoscenza umana durante una discussione su questioni filosofiche, morali e religiose avvenuta nel 1670 con alcuni amici, discussione senza sbocco a causa dei dubbi e delle divergenze di opinione che non si riusciva a dissipare.

Poiché eravamo giunti a un punto morto, incapaci di andare oltre, ho ritenuto che, prima di impegnarci in ricerche di quel genere, fosse necessario esaminare la nostra stessa capacità e vedere quali oggetti siano alla nostra portata e quali, invece, siano superiori

alla nostra comprensione.

 Di fronte a sistemi filosofici come quelli di Cartesio e di Spinoza, secondo cui ogni cosa può essere conosciuta, dedotta, ordinata dentro il quadro sistematico del sapere, Locke avanza dei dubbi e invita a mutare l’orientamento delle indagini:

prima di studiare la realtà, si studino il funzionamento e le condizioni della conoscenza umana, per capire fino a che punto essa sia affidabile, quali fenomeni possiamo conoscere e quali siano invece fuori della portata delle facoltà conoscitive;

tra i principali propositi di Locke vi è dunque quello di definire i poteri, le possibilità e i limiti dell’intelletto umano.

 Occorre un’attenzione nuova, secondo Locke, verso le difficoltà e i limiti costitutivi del sapere, con la fiducia che tale opera preliminare aiuti a sgomberare il campo da tanti falsi problemi, da tante velleità conoscitive, quindi permetta di evitare i fallimenti a cui vanno incontro tentativi del genere.

Se noi possiamo scoprire sino a che punto l’intelletto può estendere il suo sguardo, sino a che punto esso è in grado di raggiungere la certezza, e in quali casi, invece, esso può semplicemente opinare e supporre, impareremo ad accontentarci di ciò

che è raggiungibile in questo nostro stato.

 Locke si propone dunque, in primo luogo, di “esaminare l’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana”, chiarire quali siano le reali possibilità di conoscere degli uomini e i loro limiti, cioè di accertare le competenze, i campi di applicazione della conoscenza umana.

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 Prima di guardare alla realtà, a ciò che di essa possiamo conoscere, è il suo invito, guardiamo al nostro intelletto.

Allo stesso tempo, compito del Saggio è quello di trovare “quale sia l’origine delle nostre conoscenze, per quale via la nostra mente venga a conoscere le cose”.

Quella di Locke è una ricognizione intorno all’intelletto umano e alle sue reali capacità di conoscere.

Emerge così un nuovo modo di intendere la ragione, che non appare più come uno strumento universalmente valido, del tutto sicuro nel suo procedere matematico.

 La ragione umana non è universale – come dimostra la varietà delle opinioni – né infallibile, né autosufficiente, tanto da avere bisogno di una base empirica per funzionare.

Non è più l’infallibile ragione matematica, è invece un intreccio fra esperienza e intelletto, fra ricezione passiva delle informazioni dal mondo esterno e rielaborazione attiva di tali informazioni.

L’interesse lockiano ed empiristico in generale non è più quello di raggiungere la conoscenza perfetta e assoluta, che ci sfugge, o anche l’essenza delle cose, ma di determinare i limiti della nostra ragione e delle conoscenze che sono alla nostra portata.

 Perciò bisogna evitare obiettivi troppo ambiziosi, eliminare teorie e interpretazioni che non trovano alcun riscontro empirico e che perciò suscitano infinite controversie irresolubili.

 Sgombrato il campo dai falsi problemi e dalle false aspettative di conoscenza, sulla base delle capacità effettive e accertate della conoscenza umana ci si potrà occupare dei temi che più stanno a cuore in vista del bene degli uomini: i temi della religione, della morale, della politica.

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4. CONTRO L’INNATISMO

Il primo libro del Saggio è volto a combattere le dottrine che sostengono l’esistenza di idee e di princìpi conoscitivi, o logici, e morali innati nella mente umana.

 Esso è cioè contro la concezione che esistano nella nostra mente princìpi o idee presenti in noi fin dalla nascita, come per esempio afferma Cartesio a proposito delle verità matematiche, dei princìpi logici e dell’idea di Dio.

 Ma la polemica lockiana riguarda, oltre che Cartesio e Leibniz, un gruppo di filosofi attivi a Cambridge, di poco più anziani di lui, i quali sostengono la presenza innata di idee e princìpi morali universalmente riconosciuti e accettati dagli uomini, ‘scritti’ da sempre nell’intelletto umano.

 La critica lockiana all’innatismo si basa su due ordini di considerazioni. In primo luogo:

• se anche è vero che l’innatezza dei princìpi, ossia il loro carattere originario e costitutivo della mente degli individui, implica di necessità che essi siano accolti dall’assenso universale, pure non è immediatamente vero il contrario.

• Cioè, se anche ammettiamo l’esistenza di alcune verità sulle quali tutti gli uomini si trovano d’accordo (argomento del consenso universale), ciò non significa di per sé che tali verità siano innate.

Basta dimostrare che esiste un’altra via attraverso la quale gli uomini sono pervenuti a quelle concordanze.

Inoltre, non è vero che almeno su alcuni princìpi, teorici, morali, o religiosi, ci sia un comune e universale accordo tra gli uomini (ricordo che l’argomento dell’accordo universale tra gli uomini è preso da Locke come la base di ogni dimostrazione dell’esistenza di verità innate).

Basta pensare – osserva Locke – ai bambini o agli idioti (che per esempio non hanno alcuna idea dei princìpi di identità e di non contraddizione) per verificare come tali conoscenze non siano da sempre impresse nella mente.

 Anche la facoltà di apprendere i princìpi più generali e di ragionare non è innata, ma si forma nei fanciulli solo attraverso l’esperienza, l’osservazione dei casi particolari, l’assegnazione dei termini alle idee, la formazione del linguaggio e la comunicazione con gli altri.

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Così, sebbene un fanciullo cominci ben presto a consentire in questa proposizione:

“una mela non è fuoco” – ossia non appena abbia acquistato, mediante la pratica ordinaria, le idee di queste due cose diverse, impresse distintamente nella sua mente, ed abbia appreso che i nomi di mela e fuoco stanno per queste idee – tuttavia lo stesso fanciullo consentirà forse solo vari anni dopo in quest’altra proposizione: “E’ impossibile che la stessa cosa sia e non sia”. Poiché, sebbene le parole che esprimono quest’ultima proposizione siano forse altrettanto facili da apprendere quanto quelle di mela e di fuoco, tuttavia, il significato loro essendo più esteso, comprensivo ed astratto di quello dei nomi annessi a queste cose sensibili con cui il fanciullo ha avuto a che fare, egli non apprenderà così presto il senso preciso di questi termini astratti, e gli occorre un tempo maggiore per formare chiaramente nella propria mente le idee generali per cui stanno questi termini […]

Ora, se i fanciulli sono capaci di pensare, di acquistare delle conoscenze, e di dare il loro assenso a delle verità diverse, si può ragionevolmente supporre che essi possano ignorare le nozioni che la natura ha impresso in loro, se queste nozioni vi sono impresse effettivamente? Si può immaginare con qualche apparenza di ragione che essi ricevano delle impressioni delle cose esterne, e che al tempo stesso ignorino questi caratteri che la natura stessa ha preso cura di imprimere nell’anima loro? E’ mai possibile che, ricevendo delle nozioni avventizie dentro di loro e dando ad esse il loro assenso, non abbiano alcuna conoscenza di quelle che si immagina siano intessute nei princìpi stessi del loro essere, e vi siano impresse a caratteri indelebili, per servire da fondamento e da guida a tutte le loro conoscenze acquisite, e a tutti i ragionamenti futuri? Se ciò fosse, la natura si sarebbe data questa preoccupazione assai inutilmente, o almeno avrebbe scritto male questi caratteri, poiché essi non riuscirebbero a farsi leggere da occhi che vedono molto bene altre cose. Così, molto a sproposito si immagina che questi princìpi siano le parti più luminose della verità e i veri fondamenti di tutte le nostre conoscenze, giacché non sono conosciuti prima di ogni altra cosa, e, senza il loro concorso, si può acquistare una conoscenza indubbia di molte altre cose. Il fanciullo sa con tutta certezza che la sua nutrice non è affatto il gatto con cui egli scherza, né il negro di cui ha paura. Egli sa benissimo che il vermifugo o la mostarda, che egli rifiuta, non sono affatto la mela o lo zucchero, che invece piange per avere. Di tutto questo, dico, egli ha un’assoluta certezza; ma chi oserà dire che un fanciullo consente tanto saldamente in tali cose, e in altre che fanno parte della sua conoscenza, in virtù di questo principio: è impossibile che la stessa cosa sia e non sia? O che un bimbo abbia alcuna nozione o alcuna comprensione di questa proposizione in un’età, nella quale tuttavia appare evidente che egli conosce molte altre verità? Che se altri osasse affermare che i fanciulli hanno qualche idea di tali massime generali ed astratte al tempo in cui succhiano dal poppatoio o giocano col sonaglino, di queste persone si potrebbe dire, senza far loro gran torto, che in verità esse sono degli appassionati zelatori delle loro opinioni, ma non le difendono davvero con la sincerità e veridicità che si trovano nei fanciulli. [Questa argomentazione è retta dal presupposto che se vi sono delle verità innate, guide di tutte le altre possibili conoscenze, è necessario che esse siano i primi oggetti del pensiero, le prime ad apparire. Ma si dà invece il caso che molte proposizioni generali, o massime, sempre accolte con pronto e costante assenso dagli adulti, sono sconosciute ai bambini nel tempo in cui questi già conoscono altre cose.]

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 Altrettanto per quanto riguarda i princìpi della morale o le idee religiose: molti popoli non conoscono quelle leggi etiche che noi consideriamo irrinunciabili e hanno consuetudini a nostro giudizio orrende, come dimostrano le recenti testimonianze provenienti dai viaggi nei nuovi continenti, o l’assenza dell’idea di Dio.

 E’ stato infatti accertato dagli esploratori del Nuovo Mondo che esistono popoli del tutto privi dei valori etico-religiosi.

 Prodotto di ciò che i sensi scrivono nel suo spirito, il soggetto, secondo Locke, non è originariamente fornito di contenuti morali

 I princìpi morali per Locke nascono anch’essi da processi di costruzione razionali che escludono l’origine innata.

 Non esistono dunque norme capaci di determinare il nostro comportamento che siano impresse naturalmente nell’animo umano e quindi da questo necessariamente possedute.

Non esistono, quindi, idee innate nella mente, né di natura logica, né di tipo morale.

 Chi parla di idee innate sembra dominato da una specie di pigrizia dello spirito: crede di possedere sin dalla nascita idee vere, di valore e significato universali, e perciò desiste dal verificare la loro consistenza e non dubita affatto di esse.

 O, ancor peggio, tende ad assumere atteggiamenti autoritari e a porre limiti arbitrari alla libera ricerca della ragione

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