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Academic year: 2022

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Che rapporto esiste fra monete e potere nel xxi secolo? Come si fronteggerà il rischio di inflazione? Ed è realistico pensare che – come conseguenza di una guerra in Ucraina che ha cambiato il mondo più del Covid – si apra una nuova guerra fredda non solo fra Stati ma anche fra aree monetarie?

Il sistema finanziario internazionale è ancora largamente dominato dal dollaro, come confermano gli articoli che pubblichiamo. Ma comincia a emergere un “multipolarismo” delle monete, che include il fenomeno delle criptovalute. Andiamo con ordine.

Geopolitica e geoeconomia procedono in parallelo. La moneta, in tutte le sue forme, è l’anello di congiunzione. E misura l’ascesa e declino delle grandi potenze. Il termometro monetario ci dice che il “privilegio esorbi- tante” del dollaro, per usare una celebre definizione del presidente fran- cese Valéry Giscard d’Estaing, resiste ancora: sono in dollari l’80% de- gli attuali scambi internazionali, a cominciare dai contratti petroliferi. E sono “agganciate” al dollaro la maggior parte delle monete nazionali, in America centrale e meridionale naturalmente, in larga parte dell’Africa e dell’Asia orientale. Il dollaro, dopo la sterlina, è stato – e in parte rimane

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tuttora – una moneta “imperiale”. Il punto, come dimostrano gli autori di Aspenia, è che il suo futuro primato non verrà insidiato da una singola moneta alternativa, a cominciare dal renmimbi dello sfidante del secolo, la Cina. Piuttosto, nasceranno e si consolideranno monete alternative, fra cui un euro che, per sorreggere un’Europa geopolitica, dovrà anche diventare sempre più una vera valuta di riserva internazionale. Andiamo insomma verso un sistema monetario meno omogeneo o addirittura frammentato in aree potenzialmente distinte, più o meno competitive e rivali: un processo che potrebbe essere accelerato dall’isolamento finanziario della Russia (con il crollo del rublo e le sanzioni occidentali), e dal rapporto fra Pechino e Mosca (con nuovi contratti energetici non in dollari). Sul versante opposto, il rapporto fra euro e dollaro ci dirà quanto l’Occidente, dopo avere ritrova- to la nato, sarà anche capace di gestire la difficile ripresa post Covid e la delicatissima transizione energetico-industriale che è stata delineata, con un tratto dominante: l’aumento e la persistenza dell’inflazione

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E qui veniamo al secondo punto. “L’inflazione è sempre e dovunque un fe- nomeno monetario”, secondo uno dei detti più famosi di Milton Friedman, il maggiore esponente del moderno monetarismo. Un certo tasso di infla- zione è l’olio necessario a lubrificare la macchina economica; o a riassor- bire, come oggi necessario, gli eccessi di indebitamento e di liquidità. Ma esistono i rischi per la crescita sottolineati da Friedman, in qualche modo confermati dalle difficoltà attuali. Con l’aggiunta però di una postilla importante: è anche “a un tempo barometro di movimenti profondi e causa di non meno formidabili conversioni delle masse” come scrisse lo storico francese Marc Bloch.

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Per capire meglio cosa sia davvero la moneta, può essere utile partire da una definizione. Oltre un secolo fa l’economista svedese Knut Wicksell de- finì la “triade monetaria”, peraltro già prefigurata da Aristotele: 1) unità di conto, il che significa che la moneta si usa per confrontare in maniera omogenea il valore di prodotti e servizi molto diversi tra loro; 2) riserva di valori, e cioè la moneta permette di spostare nel tempo la quota di reddito che non viene utilizzata immediatamente per consumare beni e servizi;

3) mezzo di pagamento, dal momento che la moneta può essere scambiata istantaneamente con beni e servizi, l’acquirente la consegna al venditore e si libera da ogni obbligo nei confronti di quest’ultimo che, accettandola, ne riconosce il valore.

La moneta, quindi, è merce e misura di tutte le merci, serve a pagare gli scambi e a dare valore a quel che viene accumulato, alla ricchezza co- siddetta reale, terre, case, gioielli, patrimoni di ogni tipo. John Maynard Keynes aggiunge un’appendice: oltre al motivo delle transazioni e a quello precauzionale, la moneta serve anche per funzioni speculative.

Il boom delle criptovalute, utilizzate come fiche di casinò, la rilancia: non a caso, Keynes definì il capitalismo un by-product di una bisca. Sia quel che sia, l’esito è che ogni cambiamento negli equilibri monetari diventa prima conseguenza e poi causa di cambiamenti economici, sociali e poli- tici; di trasformazioni dei mercati e di scelte dei governi. La storia è piena di esempi anche drammatici, basti ricordare l’impatto devastante dell’ipe- rinflazione sulla Repubblica di Weimar negli anni Venti del secolo scorso o lo sconquasso mondiale provocato negli anni Settanta, con la fine della convertibilità del dollaro in oro.

La moneta può essere messa sotto controllo per riportare la rincorsa dei prezzi entro limiti accettabili, ma anche questo ha costi che spesso si rive- lano insopportabili. Se l’inflazione colpisce i risparmiatori e i lavoratori a

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reddito fisso, la deflazione riduce l’attività produttiva e provoca disoccu- pazione di massa. La moneta, dunque, va trattata e maneggiata con cura.

Questo ci porta al problema e al dibattito di oggi. Per mettere sotto con- trollo l’inflazione occorre governare la moneta: ridurne la quantità e alza- re il suo costo (i tassi d’interesse) per frenare la dinamica dei prezzi. Ma il rischio, evidentemente, è di frenare bruscamente la crescita. Per sconfig- gere l’iperinflazione di allora, la Federal Reserve guidata da Paul Volcker nel 1979 alzò drammaticamente i tassi e tutte le altre banche centrali lo imitarono. Ciò ebbe conseguenze pesanti per i paesi in via di sviluppo indebitati in dollari. Negli Stati Uniti, seguì un triennio di recessione e aumentò la disoccupazione; poi la molla produttiva, come se si fosse rica- ricata nel frattempo, scattò in alto e produsse il boom degli anni Ottanta, il ciclo reaganiano.

Nell’ultimo decennio è accaduto il contrario, si è arrivati persino a tassi di interesse sotto zero, una contraddizione in termini che non è servita a riportare l’inflazione entro l’obiettivo di una crescita annua del 2% e in compenso ha creato seri squilibri nei bilanci delle banche, delle assicura- zioni, degli Stati. E soprattutto: è finita l’epoca della “helicopter money”.

Per la Federal Reserve americana sembrerebbe di sì: sono attesi vari rialzi dei tassi. La Banca centrale europea è più esitante, nella convinzione che, di fronte alle incertezze della ripresa post Covid e della transizione verde, una parte almeno delle economie europee abbia ancora bisogno del lubrificante monetario, tanto più dopo le ripercussioni economiche della guerra in Ucraina; e che il vero antidoto al debito sia sempre e comunque la crescita. Vedremo, nel dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità, quanto a lungo reggerà questa impostazione.

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Fino alla fine del 2021 è prevalsa la lettura secondo cui la spinta inflazio- nistica sarebbe stata temporanea e la tendenza di lungo periodo resterebbe la stessa che ha segnato il decennio scorso: l’innovazione tecnologica e la globalizzazione hanno aumentato a tal punto la concorrenza sia tra i beni sia tra la forza lavoro, da far cadere i costi di produzione, inclusi i salari.

Insomma, l’operaio cinese o l’idraulico polacco, tanto per riprendere due immagini usate e abusate, hanno di fatto soppresso il rischio inflazione.

Se così è accaduto in passato, oggi tuttavia le cose cambiano: “il genio è uscito dalla bottiglia”, ha scritto Martin Wolf sul “Financial Times”. “Il pericolo è che si inneschi una spirale nella quale le aspettative si spostano sempre più in alto causando una fuga dalla moneta e destabilizzando così le aspettative”. Non siamo all’aumento a due cifre degli anni Settanta, ma quando la dinamica dei prezzi supera ogni previsione e non accenna a frenare, “la credibilità va preservata a tutti i costi”. La stessa guerra in Ucraina con la ricaduta sui mercati finanziari e sulla catena produttiva internazionale ha gettato altra benzina sul fuoco. Conseguenza: esistono pressioni di tipo diverso, per cui un aggiustamento di politica monetaria dovrà essere condotta con gradualità e grande attenzione.

Va infine tenuto conto che l’inflazione favorisce chi è indebitato (anche gli Stati), ma penalizza i lavoratori a reddito fisso e i risparmiatori che non sono in grado di aggiustare i propri patrimoni. Difendersi è difficile e persino dannoso: ogni scala mobile, ogni rincorsa tra redditi e prezzi, finisce per alimentare l’inflazione. Ma tirare le redini troppo e troppo pre- sto, chiudere il borsellino, ridurre la offerta di moneta, aumentando i tassi e rinunciando ad acquistare titoli pubblici o privati da parte delle ban- che centrali, rischia di innescare una recessione. Se mal gestita, la svolta può diventare nociva; è una questione di come, quanto e quando agire.

Nel 2011 la bce, spaventata anche dall’aumento del prezzo del petrolio e

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quindi dall’inflazione, aumentò i tassi mentre il ciclo economico era già in discesa e favorì la crisi dei debiti sovrani. Al contrario, dopo l’11 settembre 2001 Alan Greenspan aprì i rubinetti per impedire il collasso di Wall Street e una lunga recessione, ma continuò a pompare moneta favorendo così la crisi dei subprime e il crollo dell’intera economia mondiale nel 2008.

Quella del banchiere centrale è un’arte più che una scienza esatta, disse nel 1932 l’economista inglese Ralph George Hawtrey.

La nuova dimensione cibernetica cambia a sua volta l’offerta di moneta e rende più difficile metterla sotto controllo. El Salvador ha deciso di uf- ficializzare la criptovaluta, quanti seguiranno il suo esempio? I banchieri stanno correndo ai ripari, arriverà anche la valuta digitale degli Stati.

Ma le banche centrali sono in ritardo e, come dimostra la parte finale di questo numero, le scosse sono notevoli. Mervyn King – ex governatore della Banca d’Inghilterra – ammette che “le banche centrali possono spiegare la loro reazione, ma non possono dire che cosa faranno perché non sanno che cosa farà l’economia”. E a suo parere “il target dell’inflazione media è certamente nato morto”.

Del resto, come ancora scrive Martin Wolf, “una grande lezione della sto- ria è che gli economisti sbagliano se pensano di capire come funziona la macroeconomia. Negli anni Trenta la convinzione comune era che l’eco- nomia si stabilizzasse da sola. Negli anni Sessanta che aspettative d’in- flazione e moneta non contassero. Negli anni Ottanta che contava solo la moneta. Negli anni Duemila che l’espansione creditizia non destabiliz- zasse il sistema finanziario. Nel 2020 che la moneta fosse irrilevante. Ci innamoriamo sempre di storie ingenue. Vogliamo credere che l’economia è un meccanismo semplice e non lo è”.

Come non richiamare di nuovo Marc Bloch che nei suoi “Lineamenti di una storia monetaria d’Europa”, opera rimasta incompiuta perché l’autore

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venne ucciso dai nazisti, riportava ironicamente i lamenti di Gilles Li Mui- sis, abate di Tournai, sette secoli fa: “In fatto di monete le cose sono molto oscure: esse crescono e diminuiscono di valore e non si sa cosa fare; quando si pensa di guadagnare, si trova il contrario”. Allora non è cambiato nul- la? La storia mostra grandi trasformazioni insieme a grandi continuità:

ogni volta che la moneta è servita a soddisfare la volontà di potenza del so- vrano o s’è allontanata dai “giochi dello scambio”, è sfuggita al controllo.

Vediamo cosa ne pensa Giulio Tremonti, intervistato da Aspenia.

ASPENIA. Denaro e potere: è un binomio su cui si reggono le sorti dell’u- manità, ma non è sempre chiaro quali sia il rapporto tra i due fattori, e come questo rapporto cambi in tempi e luoghi differenti. In che modo conviene guardare ai due fenomeni?

TREMONTI. Nel Manifesto Karl Marx esprime i sensi della sua pro- fonda nostalgia per i “variopinti vincoli” che erano tipici del vecchio mondo, sostituiti da un unico e nuovo vincolo: “lo spietato pagamento in contanti”. Il contante è oggi un po’ demodé ma dubito che Marx gradireb- be gli strumenti che l’hanno sostituito.

Parlare di “monete e potere”, ovvero di “soldi e potere”, significa guar- dare a combinazioni che, per certi versi, ricordano la figura dell’enan- tiosema, figura basata come nel caso sull’opposizione tra due parole pri- mordiali: la moneta e il potere.

Come cominciare? Naturalmente dal principio. Pecunia deriva da pecus:

al principio le antiche monete rappresentavano la testa dell’animale. La pecora era ricchezza mobile perché si muoveva sul territorio, ma diven-

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tava ancora più mobile con la sua raffigurazione sul pezzo di metallo che la rappresentava. Poi, alla testa dell’animale, si è aggiunta la testa del sovrano che, per suo conto, simbolizzava oltre alla ricchezza, il potere. Poi la moneta si è fatta prima carta – la banconota, la faustiana cambiale di Goethe – e poi plastica. Infine – sulla rete digitale – si è transustanziata in un asettico segno informatico. Ed è così che arriviamo al tempo presente.

Per avere un’idea politica e organica della moneta, come è stata fino a oggi, va notato che la moneta non è mai stata solo una monade, una entità tecnica astratta dalla vita e dalla politica, ma sempre un elemento strut- turale delle architetture politiche.

Tecnologie digitali e criptovalute: quanto sono compatibili con un intero quadro economico che si regge appunto, assieme ai mercati, sull’emissione di valuta come monopolio statuale e attributo della sovranità?

Siamo al “mattino dei maghi”, che comincia con i bitcoin e poi con le criptovalute, e va avanti con Libra, questa la moneta ideale per la piatta- forma, una moneta che non è riserva di valore, ma è comunque efficace strumento di pagamento. Oggi si va oltre, si entra nel “metaverso”.

Tutto questo concreta la profezia di Goethe: “i biglietti alati voleran- no tanto in alto che la fantasia umana, per quanto si sforzi, mai potrà raggiungerli…”, cambiali mefistofeliche che permettono di andare per astrazione oltre la realtà materiale sostituendola con realtà inventate e con mondi virtuali. Come oggi è sulla rete nel mondo digitale, un mondo dove soprattutto ormai prevale un categorico digito ergo sum.

Cosa dobbiamo aspettarci allora nel rapporto in evoluzione tra econo- mia (o meglio finanza) e politica? Che senso ha per i governi e le banche centrali inserirsi nel gioco delle monete digitali? È l’ultimo stadio della

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“fintech”, con la vittoria della finanza sull’economia reale, oppure al con- trario è la riaffermazione del ruolo dello Stato?

Oggi è la realtà materiale, la realtà politica che ci costringe a tornare per terra. Quattro passaggi sono essenziali:

A. La tecnica ha permesso lo sviluppo della magia del fiat money: la massa monetaria si è sviluppata in rapporto di 3 a 1 rispetto alla realtà, l’unità di conto è non per caso passata dal billion (miliardo) al trillion (mille miliardi).

B. Dopo la crisi finanziaria del 2008 e per effetto di questa, dal- l’“helicopter money” al “whatever it takes”, la massa monetaria è ancora più cresciuta, senza basi e senza limiti.

C. La pandemia ci ha fatto passare da un eccesso di austerità all’idea opposta, all’idea del debito buono (formula questa che attualizza la vec- chia Golden Rule), fino all’ idea che il debito pubblico è categoria che appartiene al passato.

D. Nella Bibbia c’è il mito della Torre di Babele: l’uomo sfida la divinità erigendo una torre che sale verso il cielo, ma la divinità reagisce privan- dola della lingua unica.

È stato più o meno lo stesso con la pandemia, che ha “hackerato” il sof- tware della globalizzazione, che ha infranto lo schema del pensiero unico facendo riemergere la storia, la storia che si pensava fosse superata ed è tornata, basti guardare alla crisi ucraina, accompagnata dalla geografia.

È così che si ritorna a un mundus furiosus in cui alla certezza si sostitui- sce l’incertezza. Incertezza di tutto e su tutto. Con i suoi effetti economici.

Quali sono le scelte politiche fondamentali da fare in un contesto così volatile?

Nel 2009, nel pieno della crisi finanziaria, si confrontarono due visioni:

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quella del Global Legal Standard e quella del Financial Stability Board.

Il Global Legal Standard, proposto dal governo italiano e poi votato all’assemblea dell’ocse, era la bozza di un trattato multilaterale ispirato dall’idea che fosse arrivato il tempo per il passaggio “dal free trade al fair trade”, un sistema di regole generali per l’economia. All’articolo 4 si prevedevano “regole ambientali e igieniche” (questo oggi ci dice niente?). Per contro, il Financial Stability Board escludeva la necessità di nuove regole nell’economia, ritenendosi sufficiente l’introduzione solo di alcune nuove regole per la finanza. A prevalere fu allora il Financial Stability Board, fermo che da allora comunque di financial stability se ne è vista poca.

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