Sommario
Introduzione
3
CAPITOLO 1
Il rischio di liquidità
a) Liquidità e rischio di illiquidità: definizioni e commonalities. 9
b) Gli elementi considerati (tightness/depth/resilience/immediacy) 18
c) Inventory theory e information theory. 25
d) Endogenous and Exogenous liquidity. 33
CAPITOLO 2
Liquidità e approccio assiomatico alle misure di rischio
a) Vantaggi dell’approccio assiomatico rispetto a quello tradizionale 37
b) Il modello di Cetin, Jarrow e Protter (2003). 47
c) Heath e Ku (2007). La proposta di una misura convessa. 58
d) Acerbi e Scandolo (2007), dalle misure coerenti alle CPRM. 63
e) Alcune considerazioni comparative. 77
CAPITOLO 3
Dalla teoria all’applicazione. Strumenti per practicioners e istituzioni
a) Inglobare il liquidity risk nelle misure di rischio. 85
b) La misura di Roll (1984), suo utilizzo nel calcolo del VaR storico. 89
c) Bangia, Diebold et al (1998), l’L-VaR. 96
e) Shamroukh (2000) e il LA-VaR. 104
f) Alcune generalizzazioni del modello LA-VaR di Shamroukh. 110
CAPITOLO 4
Applicazione dell’L-VaR a titoli obbligazionari
a) Dati e metodologia. 120
b) Il BOT annuale. 124
c) Z.C bond – titoli italiani quotati solo sull’MTS. 129
d) Z.C. bond - titoli italiani quotati sia sull’MTS sia sull’EBM. 136
e) Z.C. bond - titoli europei.
138
f) Coupon bond - titoli italiani. 140
g) Coupon bond - titoli europei. 144
Appendice: Tabelle 153
Considerazioni finali
170
Introduzione
La liquidità di un certo portafoglio è una delle caratteristiche fondamentali che servono ad orientare le scelte d’investimento dei soggetti economici. Essa, infatti, determina l’attitudine di una posizione ad essere smobilizzata in tempi brevi per far fronte alle esigenze finanziarie e di tesoreria di colui che la detiene. Si capisce dunque come qualunque operatore dovrebbe, anche in un’ottica di risk management, prediligere investimenti, caratterizzati da un profilo in linea con le proprie necessità, onde evitare di incorrere in spiacevoli, quanto imbarazzanti situazioni di punta finanziaria, ovvero di scarsità di mezzi per assolvere gli impegni assunti.
E’ infatti noto che, per un’impresa, l’equilibrio finanziario è insieme conseguenza e pre-condizione del buon andamento della gestione economica. Senza equilibrio finanziario, infatti, è molto difficile che la politica degli investimenti possa procedere secondo le scadenze previste e si sa che i ritardi di pagamento verso fornitori e prestatori di servizi si tramutano di solito in maggiori costi per la gestione. Se ci si sposta nel mondo dell’intermediazione finanziaria, poi, la questione della liquidità assume un carattere di assoluta centralità. La scarsità di numerario e la difficoltà nello smobilizzo delle posizioni sono circostanze che valgono ad ingolfare il mercato, impedendone il buon funzionamento ed esponendolo al rischio di cadere in una di quelle crisi di fiducia che ciclicamente si ripropongono all’attenzione delle cronache finanziarie.
Nonostante, per quanto si è brevemente fin qui argomentato, la centralità del tema risulti evidente, il quadro interpretativo del fenomeno della liquidità è ancora lontano da potersi dire soddisfacentemente completo. Manca intanto, in dottrina come nel campo della regolamentazione, una definizione organica e condivisa del concetto stesso di liquidità e di quello associato di rischio di liquidità. Il carattere multiforme del fenomeno fa sì, infatti, che, quasi sempre, l’attenzione degli studiosi si concentri di volta in volta su singole dimensioni, smarrendo però la necessaria visione d’insieme. Alla mancanza di accordo su che cosa sia la liquidità corrisponde, purtroppo, l’assenza di misure in grado di quantificare il suo
livello e di dar conto della sua variabilità attesa (ovvero del rischio ad essa associato).
E’ solo in tempi recentissimi, in special modo a seguito delle recenti vicende legate alla crisi dei cosiddetti subprime, che inizia a registrarsi un aumento della coscienza della centralità del tema della misurazione del rischio di liquidità e dell’urgenza di colmare quelle lacune, cui si accennava prima e che sono ancora presenti in questo campo. Gli organi di regolamentazione, in primo luogo, sono chiamati ad elaborare strumenti in grado di fornire una rappresentazione fedele del livello della componente di rischio in parola, associata ad ogni singola posizione.
Proprio in quanto detto, questo lavoro trova la sua ragione d’essere. La consapevolezza da una parte dell’importanza del tema, e dall’altra dell’inadeguatezza del tempo dedicato alla sua trattazione all’interno dei normali percorsi curriculari in università, ha spinto chi scrive ad avvicinarsi, sebbene in maniera introduttiva e con scopi prima di tutto descrittivi, allo studio e alla ricerca sull’argomento. L’ambizione di questo lavoro, che vuole essere, in qualche modo, termine e culmine di questo periodo di riflessione, è dunque quella di fornire un’esposizione dello stato dell’arte dei contributi in materia. Sarebbe peraltro ingenuo illudersi di poter cogliere tale obiettivo una volta per tutte all’interno delle pagine che seguiranno. Non lo consente infatti la vastità della tematica, la quale, meritando ben altro spazio, stenterà a contenersi in quello limitato concessogli da questa trattazione. Si tenterà quindi, ogni volta che sembreranno straripare, di contenere il flusso delle argomentazioni, cercando il giusto equilibrio fra le varie parti. Da un lato, si darà conto, dunque, delle principali problematiche teoriche presenti nell’elaborazione di misure di rischio in caso di illiquidità, dall’altra ci si guarderà dal trascurare lo svolgimento di qualche considerazione di carattere più operativo su alcuni degli strumenti già a disposizione degli operatori.
I problemi fondamentali ancora sul tavolo, cui si è inteso dedicare all’interno del presente scritto un’attenzione maggiore, sono essenzialmente due, da un lato la mancanza di una definizione di liquidità (e, conseguentemente di rischio di liquidità) condivisa dalla letteratura, dalle istituzioni e dagli operatori. Dall’altro l’esigenza di un accordo sulle metodologie da adoperare per la misurazione (e la
gestione) di questo rischio. Si tratta, come è intuibile, di due questioni strettamente intrecciate fra di loro, in quanto la predisposizione e l’implementazione di una misura di rischio postulano che si abbia ben chiaro, intanto, che cosa bisogna misurare.
Sebbene dunque la trattazione abbia inteso focalizzarsi maggiormente sul secondo tema, è sembrato doveroso iniziare dedicando l’intera prima sezione ad un seppur breve inquadramento dell’argomento della liquidità, cercando di individuare, all’interno della varietà delle diverse posizioni della dottrina, gli elementi essenziali a delineare la definizione dei concetti principali.
In particolare, sono stati passati in rassegna i contributi, che sono apparsi più significativi, circa la natura sistematica, e dunque non diversificabile, del rischio di liquidità o di qualche sua componente. E’ stata dunque riconosciuta una duplice dimensione del rischio legato alla liquidità: da una parte quella dovuta alle condizioni del mercato e comune a tutti i portafogli, dall’altra quella tipica del singolo portafoglio, o meglio della singola strategia di liquidità. Proprio nell’importanza tributata alla strategia, ovvero, per utilizzare le parole di Acerbi e Scandolo, di “quello che si vuole fare con il portafoglio”, risiede una delle peculiarità del rischio di liquidità rispetto, per esempio al rischio di credito. Un portafoglio dunque non sarà mai caratterizzato in assoluto da un certo grado di rischio di liquidità (cosa che invece succede per il rischio di credito), ma presenterà una rischiosità legata alle esigenze finanziarie del soggetto decisore. E’ facile capire che si tratta di una particolarità in grado di rivoluzionare lo schema di riferimento, tanto che, in quest’ottica, il concetto stesso di diversificazione non ha più senso, o, meglio, assume un significato nuovo, che bisogna leggere soprattutto in una dimensione temporale.
Uno sguardo, per quanto sommario, è apparso opportuno rivolgerlo ai meccanismi economici sottostanti il rischio di liquidità. Soprattutto si è tentato di dar conto, seppur in maniera davvero succinta, della vasta letteratura in tema di inventory theory e information theory, ovvero delle due spiegazioni classiche che la letteratura ha nel tempo elaborato per fornire una ragione dell’esistenza del premio di liquidità espresso dagli spread di mercato.
A conclusione del primo capitolo è stata poi inserita qualche riflessione ulteriore circa la differenza fra rischio di liquidità endogeno ed esogeno. Questa specificazione risultava necessaria per introdurre la parte riguardante più da vicino il discorso sulle misure di rischio. Infatti, ognuno dei modelli analizzati, si rivolge all’analisi e alla misurazione di una delle due dimensioni del rischio, e solo raramente vengono suggeriti approcci in grado di comprenderle entrambe. Il diverso accento posto sulle due dimensioni da ciascuna delle proposte analizzate, che è ravvisabile in particolar modo quando si passa ad analizzare gli strumenti operativi che la letteratura in materia ha elaborato, non è solamente il frutto di diverse sensibilità da parte degli autori, ma piuttosto la conseguenza della differente importanza tributata di volta in volta alle due componenti. Mentre alcuni sostengono che bisogna soffermarsi sul solo rischio esogeno, in quanto non diversificabile e legato alla struttura del mercato, altri obiettano la natura episodica degli choc generalizzati di liquidità, sottolineando, per contro, la maggiore utilità della misurazione del rischio ordinariamente legato alle caratteristiche di una singola negoziazione o di una strategia composta da più operazioni collegate.
L’intero corpo del secondo capitolo è stato dedicato all’esposizione di quelle che sono sembrate le proposte più avanzate in tema di teoria della misurazione del rischio finanziario in contesti di liquidità imperfetta. Di conseguenza, il discorso non poteva non innestarsi all’interno di quello più ampio riguardante l’applicazione del paradigma della coerenza alle misure di rischio. In particolare, a seguito di una sommaria descrizione dell’approccio ideato da Artzner, Heath e Delbaen, si è proceduto a dar conto della critica di Follmer e Schied, i quali negano l’applicabilità dell’approccio della coerenza a contesti di illiquidità ed elaborano un paradigma alternativo, detto della convessità, in grado, a loro dire, di funzionare anche per la misura del rischio di portafogli illiquidi. Proprio sulla scorta di questa critica sono letti i tre contributi in materia di misura del rischio presentati nel prosieguo del suddetto capitolo. Ciascuno di loro tenta, seppur in modo e con finalità differenti, di proporre delle metodologie compatibili con l’approccio assiomatico. Con particolare cura, a tal proposito, si è tentato di dar conto dell’intuizione presente in un recente articolo di Acerbi e Scandolo, che non si limita a proporre un nuovo modello per la costruzione di misure del rischio di
portafogli illiquidi, ma sposta il discorso nella relazione fra la dimensione e il valore di un determinato portafoglio, relazione che risulterebbe, nel caso di non perfetta liquidità (e quindi nella quasi generalità dei casi) non lineare.
Il terzo capitolo ha cercato di spostare il discorso dal piano meramente teorico a quello più legato al mondo dell’applicazione. Nella consapevolezza dell’inesistenza di un metodo di misurazione della liquidità standard o comunemente accettato dagli operatori, si è scelto di presentare una breve carrellata delle esperienze che sono sembrate più significative. Non a caso, quasi tutti gli esempi esposti fanno riferimento ad approcci riconducibili allo schema del VaR, nonostante, come noto, questa misura non rispetti sempre le condizioni di coerenza (e nemmeno quelle di convessità). Mentre infatti la riflessione della dottrina più “scientifica” è già rivolta ad esplorare le condizioni ottimali per la misurazione della liquidità, coloro che, con approccio invero non meno scientifico, si danno l’obiettivo di elaborare strumenti applicabili nel concreto, hanno il compito di proporre approcci in linea con i metodi già in uso e che non richiedano uno sforzo di implementazione eccessivamente oneroso, pena il rischio di vedere le proprie idee, per quanto geniali e rivoluzionarie, rimanere lettera morta.
Proprio di uno di questi metodi, e segnatamente della misura L-VaR di Bangia, Diebold et al, si è fatto uso nella sezione che conclude il lavoro di tesi. Ripercorrendo le tappe presenti nel lavoro dello stesso Bangia, si è calcolata l’incidenza della componente legata alla liquidità all’interno del rischio totale di alcune categorie di titoli obbligazionari nazionali ed europei. Per l’elaborazione è stato utilizzato il database dei bond europei MTS, con riferimento ai dati giornalieri dell’anno 2004, messo cortesemente a disposizione dal Dott. Alessio Fontani della Direzione Finanza della Cassa di Risparmio di Firenze. Come era da attendersi, il peso della liquidità nel rischio di strumenti che godono, in genere, di un mercato ampio e profondo, è abbastanza minore di quello riscontrato da Bangia nel caso di portafogli monetari comprendenti valute di paesi emergenti; nondimeno, i risultati dell’analisi dimostrano come la liquidità1 sia una
1 Vale appena la pena di ricordare nuovamente che il rischio preso in considerazione dalla misura
di Bangia è solo quello esogeno, e dunque la componente totale legata alla liquidità risulta in ogni modo sottostimata.
dimensione tutt’altro che trascurabile nel risk assessment. In particolare, essa risulta essere particolarmente significativa nel caso di titoli a scadenza molto breve, laddove costituisce la quasi totalità del rischio complessivo (che è molto basso), e in quello dei titoli molto longevi, che, invece, venendo trattati in mercati meno liquidi, soffrono di spread più accentuati. Un’altra risultanza abbastanza significativa è il fatto che, almeno rispetto alla misura utilizzata, i titoli italiani (sia zero coupon che coupon bond) risultano godere di un più elevato livello di liquidità dei corrispondenti stranieri. La spiegazione che è stata fornita è legata alla maggiore dimensione dello stock del debito italiano, che, se da un lato lo penalizza in termini di rendimenti, dall’altra lo favorisce, riconoscendogli degli spread più contenuti.
Sebbene il lavoro sia stato sottoposto all’attenta revisione della Prof.ssa Franca Orsi, che colgo l’occasione per ringraziare nuovamente dell’insostituibile aiuto, le inesattezze e gli errori che il lettore avrà modo di reperire nel prosieguo di queste pagine sono da imputarsi solo alla disattenzione, all’inaccuratezza o all’ignoranza di chi scrive.
Capitolo 1
Il rischio di liquidità.
a. Liquidità e rischio di illiquidità, definizioni e commonalities.
La liquidità è una preoccupazione comune a tutti coloro che, a vario titolo, detengono un qualsivoglia portafoglio, siano essi il proprietario di un bene di consumo durevole o la banca che assume posizioni di rischio su contratti derivati, titoli e debito. Per tutti, da colui che possiede una bella casa, splendidamente arredata, e che pure non riesce a venderla, al manager della grande impresa d’investimenti preoccupata di far fronte ai propri impegni finanziari, la domanda è una sola: qual è la propria abilità nello smobilizzare la ricchezza che detengono?
In altre parole, tutti gli agenti economici sopra ricordati, sono ben consapevoli che l’assunzione tradizionale, secondo la quale i mercati sono sempre in grado di rispondere regolarmente ed immediatamente alle richieste di negoziazione che sorgono al loro interno, trova degli importanti limiti. Essi sanno, infatti, che la liquidità di mercato,2 ovvero la capacità di concludere transazioni in ogni tempo, al prezzo corrente e senza rilevanti costi di transazione non è mai del tutto assicurata.
La centralità che l’argomento assume nei mercati finanziari attuali, insieme ad una certa consapevolezza dell’importanza del ruolo che la liquidità ( o meglio della mancanza della stessa) assume nel garantire l’efficienza dei mercati3 come nel determinare o amplificare crisi finanziarie di vario tipo, ha spinto nel tempo un gran numero di contributi in letteratura, ed in particolare di quella specializzata
2
Arnaud Bevas, “Market liquidity and its incorporation into risk management”, Financial Stability Review, Banque de France, no. 8 May 2006 (p.2).
3 A proposito si può vedere T. Chordia, R. Roll, A. Subrahmanyamm, “Liquidity and market
efficiency”, Journal of Financial Economics, 87 (2008) (pp. 249-268). L’articolo verifica empiricamente che la maggiore liquidità favorisce il dispiegarsi degli effetti dell’arbitraggio riducendo gli scarti bid ask osservati. Ovviamente, il rapporto fra liquidità ed efficienza del mercato può essere visto anche simmetricamente, la prima sarebbe una degli effetti benefici della seconda.
nello studio della microstruttura dei mercati, ad impegnarsi nella ricerca della discriminazione dei fattori determinanti della liquidità e nella loro modellizzazione.
Uno dei maggiori ostacoli che i diversi interventi in materia si sono trovati a dover fronteggiare è legato al problema definitorio. L’attributo della liquidità, infatti, è difficile da identificare e, in prima approssimazione, molti studi preferiscono caratterizzarlo come un insieme di caratteristiche piuttosto che come un concetto unidimensionale. Inoltre, sempre in prima approssimazione, la liquidità è definibile più semplicemente in termini relativi che in termini assoluti. Un investimento sarà tanto più liquido quanto più facilmente, rapidamente ed in maniera sicura sarà possibile scambiarlo con l’asset più liquido per eccellenza, ovvero con il numerario. Per cui, un mercato perfettamente liquido sarà quello che garantisce in ogni tempo una sola combinazione di prezzi bid-ask, senza riguardo alla quantità scambiata. La liquidità sarà dunque equiparabile alla facilità per un investitore di trovare rapidamente una contropartita per un ordine, qualunque sia il segno di tale ordine, senza provocare un movimento rilevante dei prezzi.
Il rischio di liquidità, per parte sua, corrisponderà in generale ai costi di liquidazione di una posizione e aumenterà al diminuire della liquidità del mercato4. Esso sarà il rischio di non poter immediatamente liquidare o coprire la propria posizione al prezzo di mercato corrente. Questo rischio, che è dovuto alla circostanza che non tutti i mercati sono perfettamente efficienti e privi di incoerenze in tutti i momenti (ovvero le condizioni di atomicità dei partecipanti, free entry and exit, informazione trasparente non sono sempre rispettate), è diverso dal rischio legato all’incapacità di reperire fondi per assumere posizioni su determinati titoli, che la letteratura definisce balance sheet liquidity risk, e che, pur essendo in certa rilevante misura collegato al primo, se ne distingue in quanto affonda le sue origini in considerazioni legate al merito di credito e alle aspettative del mercato circa la solvibilità del soggetto in questione.
4 « Le risque d’illiquidité correspond à la perte provenant des couts de liquidation d’une position :
Ce risque augumente lorsque les marchés ne sont pas liquides ».Troviamo questa definizione in E. Le Saout, “Une modélisation dynamique du Risque de Liquidité”, Université Paris1 2002 (p.2). Altri autori forniscono definizioni molto simili.
Tipicamente, l’illiquidità di un mercato si manifesta con l’incremento dei costi di transazione e con degli spread decisamente più elevati del normale. Questo significa che i soggetti che vogliono abbandonare una posizione devono sostenere dei costi significativi, in termini di commissioni, minor (o maggior) prezzo, ritardo nell’esecuzione dell’ordine. Ciò detto, è evidente che tutti i mercati possono essere affetti, in qualche momento della loro vita, da una mancanza di liquidità, e persino le piazze finanziarie che quotano le grosse capitalizzazioni non sono state immuni da periodi in cui il loro livello di liquidità non raggiungeva la soglia di accettabilità. Non esiste, dunque, un mercato del tutto garantito contro l’insorgenza di tale pericolo.
Affermato ciò, la natura paradossale e contraddittoria della liquidità, che si trova già sottolineata in alcuni scritti keynesiani5, secondo cui la liquidità di un certo asset non esiste nella pratica, in quanto un bene resta liquido finché la sua liquidità è messa alla prova simultaneamente da tutti gli agenti del mercato, rende peraltro estremamente difficile definire l’estensione e i confini di questa categoria di rischio. La scomparsa della liquidità dai mercati, infatti, costituisce la conseguenza di un coordinamento da parte degli agenti presenti sul mercato, i quali, scegliendo di abbandonare il “gioco” tutti nel medesimo istante, si posizionano su un equilibrio “cattivo” di mercato. Questo tipo di eventi difficilmente possono essere previsti, inoltre le crisi di liquidità incentivano spesso determinati comportamenti razionali da parte dei soggetti coinvolti, che valgono a peggiorare ulteriormente la situazione globale del mercato. Infatti, in caso di diradamento della liquidità presente, la decisione più razionale per l’investitore è quella di abbandonare più in fretta possibile gli scambi, prima che la sfiducia nella ripresa delle negoziazioni divenga generale. E’ naturale che questi comportamenti, in caso di crisi di flight to liquidity servono solo ad accelerare l’evaporazione della liquidità stessa e a diffondere il panico, secondo il noto meccanismo delle aspettative self-fulfilling6. In tale contesto, bisogna poi
5 Keynes, 1936 6
A. Bernardo, I. Welch, “Liquidity and financial market runs”, Quarterly Journal of Economics, vol. 119, no. 1 (2004). Altri studi simili descrivono analoghe situazioni nel caso della corsa al ritiro dei depositi presso le banche. Si può, ad esempio, vedere D. Diamond, P. Dybvig, “Bank runs, deposit insurance and liquidity”, Journal of Political Economy, no. 91 (1983). Possiamo dire che, sebbene i due fenomeni abbiano caratteristiche e conseguenze di portata diversa, pure molte
ricordare che l’effetto sul mercato è anche proporzionale alla mole del soggetto che “per primo” fornisce il segnale della crisi e da quanto tale soggetto è riconosciuto essere depositario di una specifica conoscenza del segmento in cui opera. Per esempio, un rilevante disimpegno da parte di grossi fondi comuni o di hedge funds particolarmente attivi nel mercato, può essere interpretato come un importante “segnale d’allarme” dal resto degli investitori.
Quanto detto ha come conseguenza il fatto che il rischio di liquidità, proprio perché difficile da catturare e legato a fattori in generale scarsamente prevedibili basandosi su dati storici, è spesso sottostimato dagli operatori, in quanto in situazioni di normalità esso può sembrare di entità perlomeno trascurabile, tuttavia diversi studi sulle crisi finanziarie7 dimostrano come queste ultime sono sovente precedute da periodi di eccessiva fiducia nella persistenza di alti livelli di liquidità, che spingono gli investitori ad esporsi troppo attraverso il debito. Poi, quando qualche dubbio inizia a diffondersi tra il pubblico, in molti rimangono travolti dall’infuriare della crisi. Ecco dunque che viene in evidenza la definizione di crisi finanziaria fornita da Bevas8 (2006), secondo cui una crisi di liquidità non è altro che il rischio di liquidità che ha raggiunto il suo parossismo, ovvero l’incapacità del mercato di assorbire ulteriori ordinativi senza che si creino violenti aggiustamenti di prezzo slegati dal valore fondamentale dei titoli. Tali crisi sono caratterizzate da improvvisi allargamenti degli spread fra bid e ask, e dal restringimento dei volumi trattati, fino al raggiungimento di condizioni di impossibilità di negoziazione. In tal caso è evidente che il rischio di liquidità contiene in sé i semi di un sommovimento serio e globale del mercato, anche in situazioni di apparente “normalità” degli scambi.
Una prima distinzione che può essere svolta all’interno del rischio di liquidità è quella descritta da Dowd9 (1998): esiste un categoria di rischio che possiamo chiamare “normale”, e che aumenta in un portafoglio all’aumentare del peso di titoli negoziati su mercati considerati solitamente “poco liquidi”. Il secondo tipo
analogie, soprattutto sul piano dei meccanismi economici coinvolti e delle tipologie di scelte razionali adottate, sono facilmente riscontrabili.
7
C. Borio, “Market distress and vanishing liquidity: anatomy and policy options”, Bank for International Settlements, Working Papers no. 158 (2004)
8 A. Bevas, op. cit. (p.4) dice “Liquidity crisis is illiquidity risk that has reached its paroxysm”. 9 K. Dowd, “Beyond Value at Risk: the New Science of Risk Management”, ed. John Wiley &Son,
di rischio è invece legato alle crisi nelle quali ogni mercato perde le sue caratteristiche usuali di liquidità. La perdita associata a questo secondo tipo di rischio è di solito più elevata.
Entrando più nello specifico, e prendendo in considerazione la prima categoria di rischio, possiamo dire che esso corrisponde alla perdita potenziale subita nella negoziazione rispetto al prezzo che si sarebbe potuto ottenere in condizioni di liquidità ottimale. Tale prezzo, è bene precisare, non è un prezzo reale, ma è quello che per ipotesi si può riscontrare sul mercato in un certo tempo. Esso dipende, fra le altre cose, dalla grandezza della transazione e dal tempo in cui il contratto, cui la negoziazione si riferisce, è stato concluso. Tenuti fermi tutti questi elementi, il rischio di liquidità “normale” consisterà nella differenza fra questa somma teorica e il prezzo che effettivamente si determina sul mercato per una transazione “istantanea”, cioé operata da un soggetto non disposto a sopportare alcuna delazione nell’esecuzione del proprio ordine. Queste considerazioni sono fondamentali in quanto vanno ad incidere nel calcolo di alcune delle meglio conosciute misure di rischio, quali, ad esempio il VaR, che diviene funzione anche della strategia di temporalizzazione degli ordini messa in atto dall’investitore.
Come si accennava precedentemente, il rischio di liquidità può crescere in determinati contesti, quando cioè un mercato (o un titolo) che è liquido per la maggior parte del tempo, ad un certo istante fa esperienza di una grossa crisi e, di conseguenza, soffre uno squilibrio fra domanda e offerta (a favore della seconda), che provoca spesso il ritiro dalla negoziazione, ovvero la scomparsa, almeno temporanea della liquidità e quindi del mercato per un certo asset. Tenere in considerazione questa seconda tipologia di rischio è certamente più complicato, soprattutto nella misura in cui i metodi tradizionali falliscono nel dare conto dell’entità di perdite molto elevate ma di incertissimo verificarsi.
Un’ulteriore importante considerazione circa la natura rischio di liquidità, ed in particolare rispetto al fatto che esso sia da considerarsi parte del rischio
sistematico o piuttosto del rischio idiosincratico10, è stata svolta dalla letteratura in tema di commonalities, ovvero quella porzione di studi che si sono dedicati, attraverso l’analisi comparata degli andamenti di diverse misure di liquidità, alla ricerca degli elementi comuni in grado di esplicare la maggior parte delle singole variazioni dei livelli delle suddette misure dei vari titoli considerati.
La riflessione sulle commonalities, nello sforzo di allocare il rischio di liquidità, o almeno una sua parte, all’interno del rischio sistematico, compie un’operazione doppiamente preziosa. Da un lato, infatti, consente di capire quale quota di tale rischio può essere evitata per il tramite della diversificazione del portafoglio; dall’altro, e segnatamente nell’ambito del pricing, rende possibile l’evidenziazione del rischio di liquidità, che contribuisce alla formazione del prezzo, posto che il rischio diversificabile, in quanto tale, non è considerato nei modelli di equilibrio, a causa delle note considerazioni in tema di arbitraggio.
Il primo passo nel percorso logico scelto dalla dottrina per testare l’esistenza di un liquidity risk “comune” e dunque sistematico, consiste nella verifica della presenza di un premio di liquidità all’interno dei rendimenti. L’esistenza di questo premio è, come si diceva, decisiva nello sforzo di classificazione del rischio di liquidità: se un rischio è prezzato da una maggiorazione sul rendimento, allora esso non è diversificabile, ma, almeno per una sua parte, rimane latente in tutto il mercato, manifestandosi, nelle sue conseguenze più estreme, in un generale crollo della liquidità di tutti gli asset negoziati.
Più avanti nella trattazione, ci si occuperà di esporre le metodologie e gli approcci adoperati per addivenire ad un’idea della consistenza del suddetto liquidity premium, per ora basterà dire che evidenze dell’esistenza di questo premio sono state portate da numerosi contributi11. Più incerta pare invece la quantificazione
10 Le conseguenze di questa distinzione, che non deve apparire peregrina, sono da ricercarsi nelle
diverse conseguenze che i due approcci hanno rispetto alle pratiche di risk management. Come é noto, infatti, il rischio idiosincratico è diversificabile, a differenza di quello sistematico.
11 E’ soprattutto la letteratura in tema di market microstructure ad essersi interessata della ricerca
del rischio di liquidità. I primi modelli a un periodo e livelli di liquidità non stocastici sono quelli di Y. Amihud, H. Mendelson, “Asset Pricing and the bid ask spread”, Journal of Finance, 17 (1986) (pp. 223-249), che suggerivano alti rendimenti per i titoli con bassa liquidità o con alti costi di transazione. Più caute le risultanze di G. M. Costantinides, “Capital market equilibrium with transaction costs”, Journal of Political Economy, 94 (1986) (pp. 842-862) e J. Heaton, D.J. Lucas, “Evaluating the effect of incompleting markets on risk sharing and asset pricing”, Journal of
dell’incidenza dello stesso sul rendimento globale dei titoli in questione. Anche a prescindere da tale incidenza, tuttavia, è possibile affermare che anche se il livello di liquidità e sovente correlato con un premio tutto sommato modesto, il rischio di uno shock di liquidità di dimensioni mondiali è in grado di generare dei premi di liquidità di misura ben più rilevante.
In particolare, Acharya e Pedersen12 (2005) e Garleanu e Pedersen13 (2004), seppur seguendo approcci differenti, forniscono evidenza di una certa relazione fra entità dei premi di liquidità e caratteristica del rischio considerato. Quanto più il rischio di liquidità è considerato stocastico e non diversificabile, e tanto più gli shock della liquidità sono persistenti, tanto più grande risulta essere la maggiorazione sui rendimenti richiesta dal mercato. Il primo modello, infatti, dimostra come in equilibrio il livello di liquidità è prezzato, in relazione alla capacità degli agenti di poter attendere la fine degli eventuali shock di liquidità14. Il secondo, invece, afferma che la presenza e la consistenza del premio in questione è collegato alla presenza di asimmetrie informative sui mercati. L’effetto sui rendimenti dipende dunque dalla distribuzione dell’informazione privata sul mercato. Quanto più essa è ristretta, tanto più persistenti appariranno, agli investitori avversi al rischio, gli effetti ignoti delle crisi sistematiche di liquidità.
Muovendo da considerazioni simili a quelle sopra sintetizzate, la letteratura ha spesso fornito evidenza empirica dell’esistenza di quel fattore sistematico di liquidità responsabile del premio di cui si diceva15. Tale fattore, individuato di
Political Economy, 104 (1996) (pp. 443-487), i quail, partendo da modelli multiperiodali, calcolano premi di liquidità molto inferiori.
12 V.V. Acharya, L.H. Pedersen, “Asset pricing with liquidity risk”, Journal of Financial
Economics, 77 (2005) (pp.375-410). Il modello in questione prevede una liquidità stocastica considerando però un solo periodo.
13 N. Garleanu, L.H. Pedersen, “Adverse selection and the required return”, Review of Financial
Studies 17 (2004) (pp. 643-665). Il modello in questione, a differenza del precedente, è multiperiodale, tuttavia privilegia l’aspetto informativo a quello più propriamente legato a considerazioni circa la liquidità.
14 Come accennato, il modello è uniperiodale, dunque giunge al calcolo di premi di liquidità di
entità davvero ragguardevoli. Tuttavia alla facile critica legata alla struttura ad un solo periodo della costruzione teorica presa in considerazione, l’autore risponde affermando che la situazione rappresentata è realistica nella misura in cui l’orizzonte temporale dell’investitore non sopravanza la durata attesa della crisi in atto.
15 Ricordiamo solamente, fra i tanti, i contributi di T. Chordia, R. Roll e A. Subrahmanyam,
volta in volta con misure differenti in grado di apprezzare gli shock aggregati di liquidità, è stato individuato dagli stessi Acharya e Pedersen16 (2005) e da Sadka17 (2006), il quale fornisce verifica del fatto che i titoli più sensibili alle variazioni aggregate di liquidità sono quelli che guadagnano di più in caso di fluttuazioni rilevanti delle misure considerate, e tali rendimenti sono in genere persistenti.
Posta l’esistenza di un nucleo sistematico del rischio di liquidità, rimane da stabilire se si tratti di un elemento omogeneo, o piuttosto dell’esistenza di più caratteristiche, fra di loro strettamente correlate, a ognuna delle quali si deve far risalire un pezzo più o meno consistente del premio di liquidità complessivo. La questione posta non è di facile soluzione e si arena nella pluralità delle conclusioni, spesso discordi, cui è giunto il dibattito in materia. In sostanza, è pressoché impossibile, e forse persino scarsamente utile sul piano dell’operatività, stabilire, allo stato della ricerca in materia, se il premio di cui si discute dipenda dal livello di liquidità di un certo asset o piuttosto dal grado di rischio incorporato nel titolo (due concetti, come si è detto spesso confusi e in ogni caso difficilmente individuabili). E ancora, risulta arduo asserire con certezza che il solito premio sia correlato ad ognuna delle diverse dimensioni della liquidità, o piuttosto ad una dimensione fondamentale, di cui le diverse misure sono stime più o meno affette da errore18.
Lasciando da parte ulteriori considerazioni circa quest’aspetto, che costituisce la frontiera degli studi in materia di liquidità, e che continua ad attrarre l’attenzione dell’accademia, come dimostra, per esempio, il recente contributo di Korajczyk e Sadka19 (2008), quello che, ai fini della trattazione successiva, si può affermare con una certa sicurezza è che il rischio di liquidità ha natura composita. Una sua parte ha caratteristiche di asistematicità e può essere eliminato tramite accorte politiche di diversificazione, la restante porzione è invece sistematica, ovvero appartiene all’intero mercato. Ogni bene, presenta una sensibilità differente a
D.J. Seppi, “Common factors in prices, order flows and liquidity”, Journal of Financial Economics, 59 (2001) (pp. 383-411).
16 V.V. Acharya, L.H. Pedersen, op.cit. p. 380 17
R. Sadka, “Momentum and post-earnings announcement drift anomalies: the role of liquidity risk”, Journal of Financial Economics, 80 (2006) (pp. 309-349).
18 Questa la conclusione che si trova in R.A. Korajczyk e R. Sadka, “Pricing the commonality
across alternative measures of liquidity”, Journal of Financial Economics, 87 (2008) (pp. 48).
19
questa tipologia di rischio, sensibilità che si esprime ogni qual volta siamo in presenza di shock generali di liquidità. Quest’ultima porzione di rischio, in quanto non diversificabile, è retribuita dal mercato attraverso la correlazione dei rendimenti con l’andamento del fattore considerato. Il fatto che non sia diversificabile, inoltre, non impedisce che la misurazione e la migliore conoscenza di questo rischio non siano comunque di fondamentale importanza, dal momento che, per esempio, consentono l’impostazione di corrette strategie di copertura.
b. Gli elementi considerati (tightness/depht/resilience/immediacy)
In letteratura, il grado di liquidità del mercato, è misurato in diversi modi alternativi, per esempio il turnover, il rapporto rendimenti su volumi, il quoted bid-ask spread, e così via, ognuno di essi ha una diversa capacità di cogliere la componente dovuta alla sensibilità con il grado di liquidità generale riscontrabile sul mercato ovvero con quella più specifica del singolo bene in questione. Spesso queste misure mostrano delle elevate correlazioni fra di loro, dovute, secondo i sostenitori delle commonalities, ad una sostanziale unitarietà del fenomeno liquidità. Altri spiegano tale correlazione, invece, con il fatto che le diverse dimensioni in cui la liquidità si esprime, pur essendo distinguibili e pur presentando dei profili di netta separazione, pure si caratterizzano per una generale sincronia di movimenti20.
20 Possiamo citare, a proposito, il lavoro di L.R. Glosten, “Components of the bid-ask spread and
the statistical properties of transaction prices”, Journal of Finance, 42 (1987) (pp. 1293-1307), che Price Quantities Sale 0 Purchase Breadth/Tightness Depth Depth Resilience Resilience Bp (Bid price) Ap (Ask price)
Figura 1 Il Bid e l’Ask Price sono definiti per quantità standard, la loro differenza rappresenta l’ampiezza del mercato, mentre la quantità per la quale la curva di prezzo non è inclinata positivamente riflette la profondità del mercato stesso. La resilienza si riferisce alla velocità con la quale il mercato si muove una volta che ha raggiunto un punto della curva con inclinazione positiva.
Quando parla delle dimensioni della liquidità di mercato (ma egualmente potremmo dire per il singolo asset), la letteratura si esprime tradizionalmente con riferimento a tre criteri base, più uno, che però alcuni considerano insito nei precedenti:
1. L’ampiezza del bid-ask spread (tightness), che misura il costo di cambiare la propria posizione per quantità modeste in tempi brevi.
2. La profondità del mercato (depht), che corrisponde al volume di transazioni che può essere eseguito immediatamente senza alcun cambiamento del prezzo di mercato osservato.
3. La resilienza del mercato (resilience), che è la velocità con la quale i prezzi ritornano al loro livello di equilibrio in seguito a shock stocastici nel normale andamento delle contrattazioni.
4. L’immediatezza (immediacy)
Il primo aspetto è, per molti versi, una misura diretta dei costi di transazione. Il bid price, com’è noto, è il più alto prezzo che il market maker è disposto a pagare ad un determinato momento per un certo quantitativo del bene in questione. Simmetricamente, l’ask price è la somma più bassa che lo stesso soggetto richiede per cedere la stessa entità del medesimo bene. La differenza21 fra i due valori misura il compenso richiesto dal market maker in cambio della sua prestazione, che consiste nel garantire l’immediatezza dell’esecuzione degli ordini della controparti sul mercato. La letteratura finanziaria classica, che considera i mercati perfettamente liquidi, trascura quest’aspetto, prendendo in considerazione un valore, il cosiddetto mid-price, che non si osserva sul mercato in nessuna contrattazione. Coloro che invece sono interessati all’assessment della liquidità, considerando una doppia transazione, composta da una vendita e dal successivo riacquisto della medesima posizione (o, analogamente, da un acquisto e dalla successiva rivendita del medesimo quantitativo di bene), attribuiscono alla singola negoziazione il solo half spread, che assurge a misura efficace seppur rozza della tightness.
individua due componenti della liquidità nella mancanza di informazione perfetta sui mercati, che crea selezione avversa, e nel ruolo dei costi di transazione. I due elementi sarebbero correlati.
21 In gerenale, lo spread quotato è espresso come rapporto con il mid price teorico. In tal caso, si
L’ampiezza del mercato dipende, fra le altre cose, dal costo per il market maker di processare gli ordini, dall’entità e dalla volatilità degli ordini accumulati e dal grado di asimmetria informativa. In ogni caso lo spread osservato non è sempre una misura consistente ed esaustiva dei costi transattivi reali, perché alcune transazioni possono essere effettuate non precisamente ai prezzi quotati ma all’interno del bid-ask o addirittura al di fuori dello stesso, per particolari tipologie di contratti standard per pezzatura o condizioni. L’ampiezza, è spesso considerata la più importante misura della liquidità generale presente nel mercato in un determinato momento. Inoltre essa, per la relativa semplicità del calcolo, è massivamente utilizzata anche in contesti di misurazione del rischio. Per quanto importante, tuttavia, non bisogna dimenticare che essa è solamente una delle dimensioni del fenomeno preso in considerazione e di certo non lo esaurisce.
La seconda caratteristica da prendere in considerazione è infatti la profondità, che, insieme alla resilienza, descrive la capacità del mercato di assorbire volumi significativi di ordini senza effetti avversi sui prezzi. In particolare, nell’ambito della teoria della downward sloping demand curve per i titoli, che, come si è visto, giunge a confutare l’assunto classico della perfetta sostituibilità dei rendimenti, si osserva che il bid ask si allarga per quantità di ordini più elevate. In caso di vendita, per esempio, l’impatto negativo del volume di ordini è dovuto all’inclinazione della curva di domanda aggregata di mercato per un certo titolo, che a sua volta è legata all’imperfetta elasticità, cui sopra si accennava. Tale elasticità imperfetta può essere dovuta a diversi fattori, fra i quali un posto di rilievo merita l’asimmetria informativa fra gli agenti che partecipano agli scambi. Un flusso imponente di vendite può far sorgere il dubbio22 che colui che ha dato inizio alla transazione sia in possesso di informazioni privilegiate (negative, in questo caso, ma lo stesso sarebbe nel caso di grossi ordini di acquisto) circa la qualità dei titoli che tratta. Ciò conduce il potenziale compratore a richiedere uno sconto sul prezzo tanto più grande quanto maggiori saranno la quantità domandata e la discrepanza informativa sofferta. Bisogna poi tenere in considerazione il fatto che la profondità del mercato è spesso soggetta a influenza da parte della presenza
22 Il riferimento classico di questa teoria è al fondamentale articolo di G. Akerlof, “The market for
lemons: quality uncertainty and the merket mechanism”, Quarterly Journal of Economics, vol 84 no. 3 (1970), ripreso nello specifico dei mercati finanziari, tra gli altri, da G. Genette, H. Leland, “Market liquidity, hedging and crashes”, American Economic Review, vol. 80, no. 5 (1990).
del cosiddetto execution risk, ovvero del rischio di errori o ritardi specifici della gestione di grosse partite di titoli.
La misurazione della sensitività dei prezzi alle cosiddette block transactions è affidata molto spesso al cosiddetto
λ
di Kyle23, che risulta dal coefficiente dell’equazione econometrica: t t t NVOL P =α
+λ
+ε
∆che esprime il cambiamento del prezzo come funzione lineare del volume netto degli ordini (NVOLt cioè la differenza fra il volume degli ordini di acquisto e quello degli ordini di vendita nel periodo t), con
ε
t pari all’errore stocastico dotato delle usuali caratteristiche in termini di distribuzione. Così computato, il coefficiente di Kyle vale a rappresentare la capacità del mercato di assorbire shock di ordini, dovuti a transazioni di dimensioni rilevanti. Se tale coefficiente assume valori molto elevati, la capacità di assorbimento del mercato è bassa e, di conseguenza bassa sarà anche la sua profondità.Oltre alla capacità di assorbimento, un altro elemento fondamentale è la velocità con la quale il mercato riesce a riportarsi sui livelli di equilibrio precedenti a shock della domanda. Tale velocità si associa al concetto di resilienza ed è spesso espressa in unità temporali necessarie per ristabilire la situazione iniziale.
A proposito, esiste una corposa letteratura, che indaga il cosiddetto fenomeno di price pressure24, ovvero il verificarsi di rendimenti anomali, destinati però a scomparire nel giro di alcune settimane25 dall’evento scatenante, in seguito ad improvvisi spostamenti della domanda,.
23 A. Kyle, “Continuous auctions and insider trading”, Econometrica vol 53 no. 6, November
1985.
24
Il fenomeno fu indagato per la prima volta agli inizi degli anni ’70, e subito la sua esistenza fu messa in discussione da un contributo di M. Scholes, “The market for Securities, Substitution versus Price Pressure and the effect of Information on Share Prices”, The Journal of Business, April 1972 (pp. 179-211). Tale articolo valse ad infiammare il dibattito in questione, ma per avere la prima conferma empirica dell’esistenza del fenomeno bisogna aspettare L. Harris e E. Gurel, “Price and Volume Effects Associated with Changes in the S&P 500 List: New Evidence for the Existence of Price Pressure”, The Journal of Finance, vol. XLI no. 4, September 1986 (pp.815-829). Successivi sono numerosi studi empirici volti, a seconda dei casi, a confermare o sconfessare quest’intuizione.
25 Questa caratteristica differenzia tale ipotesi da quelle basate sull’assunzione di imperfetta
sostituibilità dei titoli o di presenza di “premi informativi” nella vendita di grossi blocchi di titoli. Mentre infatti, queste due ultime costruzioni teoriche affermano che l’evento in questione porta ad un vero e proprio mutamento dei flussi finanziari attesi, e dunque ad una modifica del valore
La price pressure hypothesis, fin dall’origine (Kraus, Stroll26 1972), ha spiegato il temporaneo shock dei prezzi in presenza di grossi ordini di vendita/acquisto con la necessità di compensare le controparti per i costi della transazione e per il rischio che sopportano nel negoziare immediatamente titoli, che altrimenti non avrebbero dovuto smobilizzare. Questi agenti, che dunque svolgono la funzione di fornire liquidità al sistema, devono essere compensati per aver accettato di partecipare a transazioni motivate da informazioni che essi non possiedono. Tale intuizione si trova poi confermata e specificata nel lavoro di Grossman e Miller (1988)27, che sottolineano con forza l’importanza che la immediacy, ovvero una quanto più pronta risposta all’ordine, riveste per gli operatori. Tale caratteristica può essere assicurata, soprattutto nel caso di un evento di forte illiquidità del mercato, ovvero di transazioni di mole ingente, solo dall’azione dei market makers, che per loro natura detengono il titolo per brevi periodi, e pretendono dunque un rendimento più alto, che si osserverà temporaneamente28 sul mercato come contropartita del servizio prestato. Viene dunque in evidenza l’importanza dei costi di transazione che sorgono durante la liquidazione di una qualsiasi posizione in titoli. Tali costi coprono quelli che il mercato sostiene per operare i trasferimenti dei diritti di proprietà legati alle transazioni in parola e quelli legati al rischio che la transazione debba essere ritardata29.
Il modello in questione, che pure è specificatamente pensato per le situazioni di forti vendite in seguito a notizie “negative” sui mercati, offre anche una
fondamentale del titolo, l’ipotesi di price pressure si discosta sostenendo che turbolenze passeggere del mercato sono in grado, seppur per periodi limitati, di cambiare il prezzo di un asset senza che alcuno dei valori “fondamentali” sia soggetto a cambiamento.
26
A.Kraus, H. R. Stoll, “Price Impacts of Block Trading on the New York Stock Exchange”, Journal of Finance 27, June 1972 (pp. 569-588).
27 S.J.Grossman, M. H. Miller, “Liquidity and Market Structure”, The Journal of Finance July
1988 (pp. 617-633).
28
In realtà, larga parte della letteratura più recente in tema di price pressure mostra di confondere o almeno di non distinguere fra price pressure vera e propria e imperfetta sostituibilità dei titoli, ammettendo dunque la possibilità che i due effetti siano entrambi presenti e attribuendo ai primi effetti temporanei e ai secondi effetti di lungo periodo sui prezzi osservati. Ad es. vedi Richard W. Sias, “Price Pressure and the Role of Institutional Investors in closed-end Funds”, The Journal of Financial Research, vol. XX no. 2, Summer 1997 (p. 212). Anthony W. Linch e Richard R. Mendenhall, “New Evidence on Stock Price Effects Associated with S&P 500 Index”, Journal of Business, vol. 70 no. 3, 1997 (pp.351-383), concludono in favore di una compresenza dei due effetti sul mercato.
29 A. F. Perold, “The implementation shortfall, paper versus reality”, The Journal of Portfolio
Management, spring 1988 propone di calcolare questi costi come la differenza fra il valore degli ordini non eseguiti alla data t e il corrispondente valore degli ordini al momento della loro liquidazione al tempo T (entrambi i valori calcolati al mid price osservato alla data T).
rappresentazione della struttura dei mercati, in presenza di asincronia degli ordini e dunque ben si attaglia al caso di shock della domanda/offerta causati, per lo più da cessione di blocchi di titoli da parte di investitori istituzionali30, per esempio in concomitanza del cambio degli indici azionari.
Bisogna infine ricordare che se i costi di liquidità, così come proposti da quella parte della letteratura che rifiuta l’impostazione tradizionale della perfetta sostituibilità dei titoli e immagina la curva di domanda per questi ultimi inclinata, sono relativamente semplici da stimare in periodi di tranquillità finanziaria31, lo stesso non si può dire in tempi di crisi. E, se pensiamo che anche i periodi di calma apparente mascherano sovente lo sviluppo di elementi di vulnerabilità del mercato, e che la liquidità è spesso uno degli elementi più fragili dell’equilibrio degli scambi, possiamo ben immaginare quanto difficile sia la stima e la gestione di questa tipologia di rischio, soprattutto laddove si tratti di prevedere l’impatto di situazioni di grave instabilità.
Qualche parola, in conclusione di questa breve disamina delle dimensioni attribuite alla liquidità, e che in qualche modo cercano di dare sostanza ad un concetto, come si è avuto modo di vedere, spesse volte ambiguo, merita poi la definizione della quarta componente, ovvero l’immediacy. Introdotta da Black32 (1971), essa incorpora il tempo di esecuzione (il tempo di cui si ha bisogno affinché gli ordini di vendita/acquisto siano evasi) nelle considerazioni riguardanti la liquidità. Secondo alcuni, questa caratteristica sarebbe assumibile nelle precedenti, tuttavia una certa scuola di pensiero, volta alla ricerca di nuovi modelli
30 La verifica dell’effetto di price pressure evidenzia da sempre la preoccupazione di prendere in
considerazione eventi osservabili privi di valenza informativa. Mentre la maggior parte della letteratura in materia si concentra sui cambiamenti degli indici di mercato, non mancano numerosi contributi che invece prendono in considerazione le deviazioni dai valori fondamentali dei prezzi delle quote di fondi comuni chiusi, laddove la normativa americana impone stringenti obblighi informativi settimanali in grado di minimizzare l’asimmetria informativa. In questo senso J. Peavy, “Returns on initial public offerings of closed-end funds”, Review of Financial Studies 3, 1990 (pp. 695-708), C. Lee, A. Shleifer, R. Thaler, “Anomalies- Closed-end mutual funds”, Journal of Economic Perspectives 4, 1990 (pp. 153-164) e R. Neal, S. Wheatley, “How reliable are adverse selection models of the bid-ask spread”, Working paper Federal Reserve Bank of Kansas City 1995.
31 In questo caso, basta infatti avere un’idea della profondità del mercato e disporre di stime
attendibili dell’inclinazione della curva di domanda per i titoli in questione.
32 F. Black, “Towards a fully automated exchange: Part 1”, Financial Analyst Journal 27 (1971)
di equilibrio dei mercati33, ne sottolinea l’importanza e si pone piuttosto il problema di definire dei metodi di computo che ne garantiscano la compatibilità con i modelli di pricing tradizionali, ed in particolare di quelli multifattoriali.
33 R.J. Ibbotson, J.J. Diermeier, L.B. Siegel, “The Demand for Capital Market Returns: a New
c. Inventory theory e information theory, meccanismi alla base del rischio di liquidità.
La liquidità del mercato dipende essenzialmente dalla presenza di una certa quantità di controparti desiderose di concludere determinate transazioni. Tale desiderio dipende dalle aspettative dei singoli investitori rispetto la dinamica dei prezzi che si attendono e il profilo di rischio che li caratterizza in un preciso momento, oltre che dal grado di informazione disponibile (per esempio circa il merito di credito degli emittenti).
Un equilibrio “buono”, ovvero un equilibrio che presenta una liquidità abbondante e soggetta a scarsa volatilità, presuppone dunque aspettative eterogenee, tali da garantire l’esecuzione degli ordini senza riguardo al loro segno. In questo senso, è essenziale il ruolo svolto dalle grandi istituzioni, che sono presenti sul mercato in veste di market makers e garantiscono l’evasione degli ordini anche in condizioni di massicce vendite/acquisti.
Nello stesso modo, è naturale aspettarsi che la liquidità goda della proprietà di cumulatività34, ovvero che aprendo il mercato a nuovi partecipanti, è molto probabile che essa aumenti, a causa delle esternalità positive che l’allargamento della base di investitori produce sul livello complessivo di liquidità riscontrabile sul mercato.
Partendo da queste comuni considerazioni, il fenomeno della liquidità è stato inquadrato, nella letteratura in materia, all’interno di due framework fra loro distinti:
1. Il primo parte dalla constatazione che nei mercati reali esiste un numero finito di controparti che, per essere indotti alla negoziazione, devono vedere un motivo valido per deviare dalla propria posizione di portafoglio (che si presume ottimale date le condizioni presenti fino ad allora sul mercato). La
34
necessità di questo motivo implica la presenza di un liquidity discount. Quest’effetto è chiamato in letteratura inventory motive35.
2. La seconda prospettiva considera alla base del rischio di liquidità l’asimmetria dell’informazione privata (information asimmetry). Grosse vendite o grossi acquisti sono eventi rivelatori di informazioni private in grado di influenzare il prezzo pagato/ricevuto. I sostenitori di questa posizione, tra i quali è bene citare almeno Glosten e Milgrom36 (1985) e Kyle37 (1985), affermano che la negoziazione da parte di individui in possesso di particolari informazioni riflette la natura inclinata negativamente della curva di domanda delle securities e il costo di transazione, tradotto nello spread misura il rischio di liquidità.
Ovviamente, nei mercati, entrambe le prospettive prese in considerazione sono corrette e non mancano gli studi38 che dimostrano la coesistenza dei due effetti e tentano una decomposizione degli spread osservati per fattori omogenei. Tuttavia, almeno a livello teorico, le due prospettive appaiono dotate di una certa indipendenza e si dimostrano, all’interno della cornice degli studi di market microstructure, parimenti in grado di fornire spiegazioni valide per i fenomeni di convergenza ai prezzi di equilibrio Warlasiano che si osservano sui mercati. Per presentare i due approcci, si può seguire il lavoro di Bias, Glosten e Spatt39 (2005), i quali considerano il mercato per un titolo rischioso, in cui operano N prestatori di liquidità (i market makers), ognuno dei quali si caratterizza per una funzione di utilità del tipo Ui, un insieme di informazioni Hi, una posizione in numerario pari a Ci, e una posizione sul titolo rischioso pari a Ii. In un contesto con market makers in competizione fra di loro, posto v il valore fondamentale del titolo in questione, per ogni prezzo p che osserva sul mercato, sceglierà di offrire/domandare la quantità qi(p) per la quale si verifica la seguente massimizzazione:
35 M.Garman “Market Microstructure”, Journal of Financial Economy 3 1976 (pp. 257-275) e
S.Grossman e M. Miller, “Liquidity and Market Structure”, Journal of Finance, vol. XLIII, no. 3 (1988) (pp. 617-637).
36 L. Glosten, P. Milgrom, “Bid, Ask and Transaction Prices in a Specialist Market with
Heterogeneously Informed Traders” Journal of Financial Economy 14 March 1985 (pp. 71-100).
37
A. Kyle, “Continuous Auctions and Insider Trading, Econometrica 53 1985 (pp. 1315-1336).
38 Ad esempio, si può vedere R. Huang, H. Stoll, “The Components of the Bid Ask Spread: A
general Approach”, Review of Financial Studies (1997)
39 B. Bias, L. Glosten, C. Spatt, “Market microstructure: A survey of microfoundations, empirical
) ) ( ) ( ( maxEUi Ci +Iiv+ v− p qi p Hi ∀p
Tale massimizzazione sarà vincolata al fatto che l’unico prezzo presente sul mercato, cioè p, assicuri che la quantità domandata sia pari a quella offerta, ovvero tale che non rimangano ordini inevasi.
Se, però, secondo la riflessione di Roll40 (1984), si suppone che gli N agenti presenti, che per ipotesi sono risk neutral, incorrono in un costo pari a (c/2)q2 per negoziare una quantità di titoli pari a q, il risultato cambia ed in particolare non si osserva più un solo prezzo di mercato, bensì due, venendosi così a creare lo spread che, abbiamo visto caratterizza i mercati finanziari reali. Tale spread è dovuto unicamente ai costi di transazione, ovvero, considerando che in perfetta concorrenzialità ogni agente non in possesso di informazioni particolari negozierà una quantità pari a Q/N, al costo marginale (c/N)Q. Per quanto detto, il prezzo ask di mercato sarà pari a:
Q N c v
A= +( / ) mentre il bid osservabile sarà pari a:
Q N c v
B= −( / )
da cui, lo spread osservato sarà pari a 2(c/N)Q. Il modello così costruito, tuttavia prende in considerazione solo una delle componenti dello spread di mercato e, in particolare, attribuendo l’intera responsabilità dell’esistenza dei liquidity premium ai costi transattivi, non fornisce una spiegazione convincente di come mai gli spread di mercato siano particolarmente elevati in caso di vendite in blocco (in quanto i costi di transazione dovrebbero diminuire all’aumentare della pezzatura e non viceversa) e volutamente tralascia di attribuire alcun valore all’elemento informativo postulando l’efficienza forte del contesto.
Partendo da riflessioni di questo tenore, Ho e Stoll41 (1981) complicano l’analisi introducendo alcune considerazioni rispetto all’avversione al rischio degli agenti. Infatti, si ipotizzano, avvicinandosi alla realtà, dei soggetti dotati di funzione di
40 R. Roll, “A simple implicit measure of the effective bid-ask spread in efficient markets”,
Journal of Finance 53 (1984), (pp. 1127-1139).
41 T. Ho, H. Stoll, “Optimal dealer pricing under transactions and return uncertainty”, Journal of
utilità Van Neumann Morgestein del tipo CARA (constant absolute risk adversion) e si indica con k l’indice costante di avversione al rischio. Se con σ2 indichiamo la varianza del flusso di cassa finale V(v) relativo all’asset in questione e con I la posizione media nel titolo rischioso (average inventory position) del singolo individuo =
∑
N=i Ii N
I
1 / )
( , ferma restando Q l’entità
dell’ordine ricevuto dal mercato, il nuovo ask sarà:
Q N k c I k v A + + − = 2 2 ] [
σ
σ
mentre il bid, simmetricamente, assumerà la forma:
Q N k c I k v B + − − = 2 2 ] [
σ
σ
E’ interessante osservare come, in questo caso, nemmeno il mid price costituisce una misura esatta del valore “vero” del titolo, in quanto ad esso bisogna sottrarre il termine kσ2I, che è il premio che gli individui avversi al rischio riterranno sufficiente a compensarli del rischio di detenere all’inizio del periodo un certo quantitativo I del titolo. Accade così che, mentre gli investitori con posizioni già molto consistenti saranno alquanto riluttanti a venire in possesso di quantità aggiuntive di titoli e preferiranno disfarsene, coloro che hanno bassi livelli di inventory pregresso saranno più inclini all’acquisto, in quanto il loro premio al rischio decresce in termini assoluti.
In modelli del tipo di quello appena esposto, gli spread riflettono i costi relativi all’assunzione di rischi aggiuntivi da parte dei prestatori di liquidità (i market makers) in risposta agli ordini del pubblico. Come è facile notare, l’impatto sul prezzo (o sarebbe meglio dire, sullo spread, che è pari, questa volta, a
Q N k
c / )
(
2 +
σ
2 ) cresce al crescere dell’entità dell’ordine da metabolizzare, come pure all’incrementarsi dell’avversione degli investitori e della varianza del valore finale dell’asset. Per completezza, si può poi aggiungere che la relazione fraprezzo e inventory level può essere anche non lineare, sotto specificazioni differenti42.
Tra le critiche più frequenti all’approccio degli inventory levels si devono citare soprattutto quelle legate all’ipotesi di avversione al rischio. In particolare, coloro che considerano il rischio di liquidità come interamente idiosincratico, stentano a comprendere perché si debbano considerare avversi al rischio i market makers, che, essendo imprese finanziarie di grandi dimensioni, dovrebbero essere generalmente in grado di diversificare questa tipologia di rischio. Sebbene, come si è visto, non tutta la letteratura concordi nell’assegnare natura asistematica al rischio di liquidità, alcuni ricorrono all’ipotesi dell’esistenza di uno sforzo costoso ma non osservabile da parte delle istituzioni finanziarie per garantire l’efficienza e la profittabilità delle inventory position assunte. Tale sforzo, che comprende anche lo sforzo di diversificazione, é remunerato in termini di maggiore profitto (attraverso un maggiore spread) proprio nella misura del premio di rischio che va ad abbattere.
Il secondo approccio considerato, detto dell’information theory, parte dall’ipotesi, secondo la quale gli investitori sono spinti alla negoziazione dal possesso di determinate informazioni. In particolare, tali informazioni non sono comuni a tutti e ciò porta al formarsi di perdite da parte delle controparti che ne sono prive. Il mercato previene queste perdite, o meglio le compensa fissando degli spread che aumentano all’aumentare della gravità dell’asimmetria presente.
Seguendo lo schema suggerito da Subrahmanyam43, il quale estende la formalizzazione esposta precedentemente al caso di asimmetria informativa proposto, tra gli altri, da Grossman e Stiglitz44, Kyle45 e Glosten e Milgrom46, si
42
Per esempio, Y. Amihud e H. Mendelson, “Dealership Market”, Journal of Financial Economics 8 (1980) (pp. 31-53) considerano il caso di agenti risk neutral con vincoli alla entità massima di inventory che possono detenere. Si tratta di un modello dinamico, ben più complicato di quello esposto sopra, che evidenzia una relazione non lineare fra prezzo di mercato e quantità di bene detenuta dai market makers. Peraltro, le conclusioni cui gli autori pervengono non si discostano troppo da quelle consentite dalla modellizzazione lineare riportata.
43 A. Subrahmanyam, “Risk adversion, market liquidity and price efficiency”. Review of Financial
Studies 4 (1991) (pp. 417-441) .
44
S. Grossman, J. Stiglitz, “On the impossibility of informationally efficient markets”, American Economic Review 70 (1980) (pp.393-408).
45 A.Kyle, op. cit. (1985).
46 L. Glosten, P. Milgrom, “Bid, ask and transaction prices in a specialist market with