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Community Development n.35-36 1976. International issue of Centro Sociale (ed. italiana: Centro sociale A.23 n.127-129)

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new series

35-36

community development

International issue of

(2)

International Review of Community Development

International E d i t i o n o f « C e n t r o S o c i a l e »

Sponsored by the «Adriano Olivetti» Foundation

A d v i s o r y B o a r d

A. Ardigò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna - G. Balandler, Sorbonne, Ecole Pratique des

Hautes Etudes, Paris • R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - M. Berry, International Federation of Settlements, New York - F. Bolts, FAO, Roma - G. Calogero. Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandìni. CEPAS, Roma - V. Casaro, Esperta Educazione degli Adulti, Roma - G. Cigliano, Esperto Servizi Sociali, Roma - E. Clunies-Ross. lnstitute of Education, University of London - H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - /. Dumazedier, Centre National de la Rccherche Scicntifique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan - M. Fichera, Fondazione « A. Olivetti », Roma - E. Hytlen, Div. Social Affairs, UN, Geneva - F. Lombardi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - G. Molino, Esperto Servizi Sociali, Roma - G. Motta, Fondazione « A. Olivetti », Roma • R. Nisbet, Dept. of Socìology, University of California - C. Pellizzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - E. Quaroni, Facoltà di Architet-tura, Università di Roma - M. G. Ross, University of Toronto - M. Rossi-Doria, Osserva-torio di Economia Agraria, Università di Napoli - U. Sera/ini, Presidenza Consiglio Comuni d'Europa, Roma - M. Smith, Home Office, London - /. Spencer, Dept. of Social Work, University of Edinburgh - A. Todisco, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Fondazione « A. Olivetti », Roma - E. de Vries, lnstitute of Social Studies (Emeritus), The Hague - A. Zucconi, CEPAS, Roma.

E d i t o r : A n n a M . Levi - E d i t o r i a ! A s s i s t a n t : E r n e s t a R o g e r s V a c c a E d i t o r i a l a n d B u s i n e s s O f f i c e s : Piazza C a v a l i e r i di M a l t a , 2

00153 R o m a

P u b l i s h e r : C e n t r o di E d u c a z i o n e P r o f e s s i o n a l e p e r Assistenti Sociali, R o m a

Manuscripts, books and bulietins for review, announcements and communications should be addressed to the Editor. The annual double-issue subscription rate — $ U.S. 12 (Lit. 8.000) — may be paid by cheque, through the Exchange Ofllcc, and on Postai Account 1/20100, Roma. Les manuscrits, lìvres et revues pour recension, informations et communications doivent étre addressés au dirccteur. L'abonnement annuel (un volume doublé) — $ U.S. 12 (Lit. 8.000) — peut étre réglé par chèque bancaire, remise de l'OfFice des changes, et virement au C. C. postai, Rome, 1/20100.

Manoscritti, libri e riviste per recensione, notizie e informazioni devono essere indirizzati al direttore. Questo fascicolo internazionale è spedito in conto abbonamento agli abbonati di Centro

Sociale.

Ali rights r e s e r v e d . T h e E d i t o r e d o not h o l d t h e m s e l v e s r e s p o n s i b l e f o r t h e v i e w s e x p r e s s e d b y c o n t r i b u t o r s .

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International Review

of Community Development, N. 35-36

Fall 1976

International Issue of «Centro Sociale", XXIII, n. 127-129

Contents - Sommaire - Indice

C. Geneletti R. Bano Ahumada E. Faletto R. Franco P. T. Knight

Latin American Problems

3 Partecipazione e distribuzione del reddito in America Latina. 21 La crisi dello Stato in America Latina.

51 E1 problema della dependencia y lo nacional-popular. 65 Uruguay: surgimiento, auge y calda del Welfare State. 87 La proprietà sociale nel Perii: l'economia politica del

pre-dominio.

Politics and Community Efforts

R. N. Ottaway 119 Developing the White Moderate Leadership of a Community

in Racial Conflict.

B. Chetkow 137 Interrelations between Community Workers and Politicians: and J. Katan An Israeli Example.

Af. L. Kaul 157 Delhi Urban Community Development: A Case Study in Community Organization.

P. K. Chatterjee 167 Social Work and Community Development in India.

M. Wolfe 189 Sviluppo: immagini, criteri, agenti, scelte.

A. Meister 209 Self-management et autogestion dans l'industrie et la

forma-tion.

R. Cavallaro 217 Aspetti e problemi dell'aggregazione sociale in ambiente

urbano.

K. St. Crunberg 253 Le chómage intellectuel en Europe occidentale.

275 Riassunti italiani - English Summaries

Indici - Index 1974-1975

The section on " Latin American Problems " (with the exception of the article by P. T. Knight) has been edited by Carlo Geneletti, ECLA, Santiago (Chile).

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Partecipazione e distribuzione del reddito

in America Latina

di Carlo Geneletti

Premessa

Da alcuni anni il tema degli effetti dello sviluppo economico sulla

distribu-zione del reddito è oggetto di attendistribu-zione.1 Il motivo di questo interesse va

cercato nel fatto che il reddito, invece di distribuirsi in forma più egalitaria, come l'economia classica e neoclassica conducevano a prevedere nei paesi che sperimentano una crescita economica, al contrario si concentra. Il caso più evidente è forse il Brasile.

Ciò ha dato nuova credibilità a due concetti che erano un po' marginali alla teoria economica, specialmente nordamericana: che le forze di mercato lasciate a se stesse provochino la concentrazione delle risorse economiche, sia individualmente che regionalmente; e che lo Stato sia l'unica istituzione capace di — e perciò chiamata a — ridurre e, se possibile, ribaltare, gli effetti negativi dello sviluppo economico sulle classi e regioni più povere.

È così che il tema dello Stato, del potere, e dei processi politici viene alla ribalta della ricerca sociale e, senza soverchio entusiasmo, di quella econo-mica. Infatti, è una questione puramente empirica se uno Stato storicamente definito sia capace di assumersi la responsabilità cui lo chiamano economisti e sociologi. Una cosa è certa: che solo nell'utopia di alcuni economisti utili-taristi lo Stato prende invariabilmente il cammino che conduce al maggior benessere del maggior numero di cittadini. In realtà, le motivazioni e le cause della politica statale sono altre: ma quali sono? qual'è la funzione dello Stato? in quali condizioni lo Stato, cioè quale Stato è capace di ridistribuire ricchezza alle classi più povere? c'è un rapporto tra la natura dello Stato e la distribuzione del reddito?

Il presente articolo vuol essere un modesto contributo a questo tema: cer-cherò di dimostrare che esiste una relazione tra il grado di partecipazione politica vigente in un paese e il grado di concentrazione del reddito: paesi che permettono un alto grado di partecipazione popolare godono di una distribuzione del reddito più giusta, e viceversa.

Le opinioni espresse dall'A. sono a titolo personale e non coinvolgono l'organiz-zazione (CEPAL) presso la quale egli lavora.

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Come ho detto, questo fine è modesto. Il discorso che mi propongo di sostenere, però, non è ovvio e richiede spiegazioni. Infatti, perché l'accesso al potere politico, dominio dello Stato, possa influire sull'accesso ai beni sociali, e perciò la distribuzione del potere (il grado di partecipazione politica ammesso in un sistema politico)2 sulla distribuzione del reddito, è necessario che:

1) la distribuzione del reddito sia determinata totalmente o in parte dalla politica pubblica; dove per politica pubblica non si intende solo la politica fiscale (tassazione e spesa), ma anche l'attività più propriamente istituzionale dello Stato, indirizzata alla difesa della proprietà privata e al mantenimento dell'ordine pubblico, e alla politica economica anche quando essa non appaia nel bilancio pubblico: concessione selettiva di licenze, controllo dell'attività economica, politico-sindacale, ecc.;

2) che l'attività statale e la politica pubblica siano determinate dalla pressione che le classi e i gruppi sociali esercitano sullo Stato. Perciò, dove k pressione esercitata dalle classi popolari è irrilevante, dove cioè la par-tecipazione politica popolare è ristretta, la distribuzione del reddito sarà più diseguale che non dove questa pressione sia forte. Ciò perché si assume che il fine dell'attività politica sia principalmente la spartizione del prodotto nazionale.3

Ne deriva l'ipotesi importante che un cambio fondamentale nella distribu-zione del reddito deve essere preceduto da un cambio nella distribudistribu-zione del potere, qualunque sia la forma che questa ridistribuzione possa prendere: la formazione di movimenti sociali, la canalizzazione della pressione in organiz-zazioni attive, la capacità di veto — se non di iniziativa — che possiedono queste organizzazioni.

Una critica può essere rivolta all'ipotesi-base sulla covarianza di reddito e potere: che cioè tale covarianza sia dovuta al fatto che il potere politico è l'epifenomeno dello status economico. La lotta per il potere politico, perciò, si combatterebbe in campo economico. Senza voler rovesciare la linea di causa-lità, io invece credo che l'accesso al potere politico, diventi analiticamente prece-dente al potere economico quanto più lo Stato interviene nell'attività econo-mica. Prova ne sia che, come ho detto prima, l'effetto ridistributivo di poli-tiche pubbliche è determinato dalla intensità della pressione che i possibili bene-ficiari di tale politica esercitano sullo Stato.4

Non pretendo dimostrare, invece, che il grado di partecipazione sia l'unica proprietà del sistema politico che influisca sulla politica pubblica: esistono studi che sottolineano ad esempio l'importanza dell'ideologia dell'élite al

po-tere.5 Mi basterà in questa sede poter sostenere l'ipotesi che il grado in cui

le classi partecipano nel processo politico è causa di una parte della varia-zione esistente nella distribuvaria-zione del reddito; e che, se questa ipotesi è vera.

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ne risulta moderatamente sostenuta una teoria dello Stato che definisce nel potere relativo delle classi e gruppi la oausa principale del grado ridistribu-tivo delle politiche pubbliche.

A un lettore marxista questo sforzo può sembrare inutile, tanto ovvio ne è l'argomento principale. Eppure in vari ambienti intellettuali, solitamente legati con centri di pianificazione economica e istituzioni internazionali, è tuttora in voga la teoria dello Stato arbitro degli interessi contrapposti e, in

definitiva, intento al bene pubblico.6 È importante invece sottolineare, col

sostegno di dati, che la distribuzione del reddito dipende dal potere che le classi esercitano e che, perciò, ogni cambio nella distribuzione del reddito debba essere preceduto da un cambio nel rapporto di forza delle classi.

Naturalmente, poi, si dovrebbe indicare come questo rapporto di forza può cambiare, quali mediazioni esercita lo Stato, e in quali forme le diverse classi esercitano la loro pressione. Ma ciò richiederebbe un'analisi storica di caso che è al di fuori dei limiti di questo articolo. Solo nel caso del Brasile cer-cherò, alla fine del presente lavoro, di analizzare queste relazioni.

In concreto, l'organizzazione dell'articolo sarà la seguente: innanzitutto, una breve rassegna della letteratura esistente su distribuzione, ridistribuz'one e partecipazione politica; poi un'analisi di dati di distribuzione del reddito a mia disposizione, previa una descrizione del metodo adottato e della natura dei dati stessi.

Distribuzione e ridistribuzione del reddito e partecipazione politica: analisi della letteratura

In analisi recenti sulla distribuzione del reddito, molti autori — spesso eco-nomisti — hanno mostrato insoddisfazione nei confronti di teorie che cercano fattori causali solo tra variabili economiche, e hanno indicato, al contrario, l'importanza di variabili politiche.7 Berry,8 per esempio, sostiene che « in ge-nerale, quanto maggiore è il potere politico e sociale di un gruppo, tanto maggiore il reddito che percepisce », e che « dato un livello di reddito e di urbanizzazione, l'ampiezza del bilancio pubblico dipende dal grado di parte-cipazione popolare ». Ugualmente, una delle asserzioni più importanti conte-nuta in una recente pubblicazione della Banca Mondiale e sosteconte-nuta dal Sussex Development lnstitute, è che ogni ridistribuzione del reddito è impossibile, sia che vi s'opponga l'élite nazionale, sia che non la appoggino organizzazioni popolari. « Infatti, ogni strategia contro la povertà può risultare vuota o inapplicabile se i poveri non sviluppano coscienza e organizzazione sufficienti a sostenere dal basso programmi di lotta alla miseria per un periodo di anni ».' Quando, però, si va al di là di vaghe generalizzazioni e propositi di ricerca

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per reperire lavori sistematici, la situazione si rivela piuttosto squallida. Il contributo della sociologia classica in materia consiste in affermazioni di buon senso, spesso rivestite di retorica, ma prive di analisi teoriche ed empiriche. Le due aree — sulla congruenza degli indicatori di status e sulla teoria dello Stato — che si sono maggiormente interessate del tema dimostrano questi limiti.10

Ci sono, però, alcuni lavori dove il tema che ci interessa ha ricevuto atten-zione, quelli, oioè, dove si pone l'interrogativo su quali fattori della politica pubblica determinino il grado di ridistribuzione. Si tratta in generale di analisi empiriche della politica pubblica che tentano di individuare i fattori (o i gruppi di fattori) che danno la previsione migliore dei livelli di spesa pubblica, in tutte le voci del bilancio o in alcune di esse soltanto. Quasi sempre, i gruppi di fattori in competizione sono l'economico e il politico, e quindi l'analisi statistica cerca di vedere se i fattori economici sono più importanti di quelli politici, o viceversa.

Gli studi esistenti possono essere classificati in tre categorie: studi sul-l'incidenza fiscale globale (tassazione e spesa), sulsul-l'incidenza di alcune poli-tiche (previdenza sociale, istruzione, salute), e alcuni studi di caso, solitamente storici, su politiche chiave quali riforma agraria, edilizia, ecc.

Analizziamo brevemente i primi due tipi.

1. Gli studi sull'incidenza fiscale globale sono ormai standard in econo-mia, da quando Gillespie11 aprì la strada colla sua analisi degli effetti ridi-stributivi dell'attività fiscale degli Stati Uniti. Gli studi dedicati all'America Latina, però, sono pochi: io conosco i lavori di Bhatia su Portorico, di Adler su E1 Salvador e Guatemala, della CEPAL sull'Argentina, e di Urrutia e

Sandoval sulla Colombia.12 Questi lavori, in generale, non si propongono di

porre in relazione il grado di ridistribuzione dovuto alla regressività dell'in-cidenza fiscale con la participazione politica, ma si accontentano di misurare tale grado: è ovvio che, disponendo di casi sufficientemente numerosi e di metodi comparabili, potremmo usare i dati per i nostri propositi.

I coeffioienti di Gini calcolati da questi studi sono i seguenti:

Tab. 1. Coefficienti di Gini di concentrazione del reddito, per paesi ed anni

Diminuzione

Prima Dopo Dopo la spesa in % del

delle tasse le tasse pubblica coell. di Gini

E1 Salvador - 1946 .403 .398 .397 1,5 Guatemala - 1947 .475 .460 .448 5,7 Argentina - 1971 .418 .414 .397 5,0 Porto Rico - 1958 .410 — .329 19,8 Colombia I - 1960-70 .580 .571 .560 3,5 Colombia II .580 .571 .505 12,0

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Si nota che non c'è nessuna relazione né tra il grado di distribuzione del reddito pre-tasse e la participazione politica (altrimenti come spiegare il fatto che E1 Salvador abbia una concentrazione del reddito minore dell'Argentina?), né tra il grado di ridistribuzione e la participazione politica.

Ovviamente, i dati usati non sono affidabili e i metodi non sono compara-bili. Ma queste sono critiche secondarie; la critica fondamentale è che la misu-razione del grado ridistributivo dell'attività fiscale è un esercizio sterile. L'in-cidenza fiscale totale è infatti misurabile solo introducendo postulati total-mente arbitrari che annullano il grado di affidabilità della stima. Se è facile attribuire a gruppi di reddito i benefici derivanti da spese per l'istruzione, la salute, o la previdenza sociale, come stimare i benefici derivanti dai fondi spesi per la difesa, la diplomazia, o l'ordine pubblico? Se applichiamo metodi di attribuzione che sono proporzionali al reddito medio percepito, o alla grandezza numerica della classe, otteniamo stime totalmente differenti, come provano Urrutia e Sandoval nel caso della Colombia.

Si deve concludere di questi studi, con Bird e De Wulf,13 che « La

misu-razione a priori che caratterizza la maggior parte degli studi sull'incidenza fiscale non dice nient'altro che ciò che era stato postulato ».

2. I lavori che si concentrano solo su alcune voci del bilancio statale e solo sulla spesa sono metodologicamente più validi degli studi sull'incidenza fiscale globale, se non altro perché i dati disponibili sono più affidabili, e le poche manipolazioni che sono necessarie non riducono che di poco la validità degli indicatori.

Sfortunatamente, solo uno studio 14 è dedicato all'America Latina. Dato che

però applica una tecnica già sperimentata, può essere utile riassumere i me-todi e le ipotesi principali emerse dalle analisi precedenti. Il tema centrale di questi lavori è, come avevo anticipato, la previsione del livello assoluto o relativo della spesa pubblica in alcuni settori. L'indicatore di ridistribuzione più comune è la frazione della spesa pubblica totale dedicata alla previdenza sociale. La scelta di questo indicatore si giustifica con la convinzione che quella della previdenza è la politica più chiaramente ridistributiva.

Le variabili causali comunemente introdotte nel modello di previsione sono classificate in due gruppi: variabili economiche e sociali quali il PNL, il tasso di disoccupazione, l'industrializzazione, l'istruzione, l'urbanizzazione; e variabili politiche: la rappresentatività, la modernizzazione, la sindacalizza-zione, il tasso di votanti, ecc.

Le conclusioni cui gli autori citati giungono sono divergenti: Cutright, Stone e Wilensky attribuiscono maggior importanza alle variabili economiche; Peters alle variabili politiche, anche se con manipolazioni dei dati di dubbia validità. Questa divergenza non è sorprendente se si pone attenzione ai metodi appli-cati nelle differenti ricerche: Peters adotta un'analisi longitudinale, e un indice

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del grado di ridistribuzione che si basa su una stima del grado di regressi-vità del sistema fiscale e sulla frazione del bilancio statale dedicato a non meglio specificate spese sociali. Cutright e Stone, invece, fanno un'analisi comparativa (cross-sectional); mentre però il primo costruisce un indice di ridistribuzione esclusivamente sulla previdenza sociale, il secondo lo amplia ad alcuni « welfare indicators », la cui selezione non viene giustificata.

Varie critiche di ordine metodologico — sulla natura degli indicatori dipen-denti e indipendipen-denti, sulla costruzione degli indici — potrebbero essere rivolte a questi lavori. Mi sembra però che la critica essenziale riguardi piuttosto il fine esplicito di tali ricerche: l'importanza relativa dei fattori. Dato che per misurare l'importanza relativa dei fattori si adottano tecniche statistiche, ciò che si misura è appunto l'importanza statistica, a scapito di un'analisi causale che mi pare molto più utile a questo punto della ricerca. In altre parole, si dovrebbero innanzitutto costruire teorie che spieghino la ragione dell'esi-stenza di relazioni tra strutture economiche, strutture politiche e ridistribu-zione, o tra due di queste variabili, l'economia, la politica e il grado di ridi-stribuzione; e poi, alla fine, usare una tecnica statistica per determinare se queste relazioni sono statisticamente significative. L'analisi statistica segue, non precede la costruzione teorica.

Una critica simile si può rivolgere al libro di Adelman e Morris1 5 sullo

sviluppo e l'eguaglianza. Disponendo di dati sulla distribuzione del reddito raccolti in tutto il mondo, le autrici cercano di identificare, tra molte, le variabili che prevedono meglio gli indicatori di concentrazione del reddito scelti, cioè la percentuale di persone che si collocano nella fascia inferiore (60%), nella fascia intermedia (20%), nella fascia superiore (20%). Tra le variabili introdotte nell'elenco c'è anche la partecipazione politica, che, però, non si qualifica per entrare nel modello esplicativo. Esso si costituisce delle variabili seguenti: dualismo socio-economico, potenziale economico, PNL e risorse umane.

La differente natura delle variabili presenti nel modello mi conforta nella convinzione che tali esercizi sono inutili quando manchi una teoria che giu-stifichi la selezione di variabili esplicative e la esistenza di legami di inter-mediazioni tra le variabili principali e gli effetti. I risultati di un'analisi esplorativa come quella di Adelman e Morris sono, perciò, irrilevanti.

Il giudizio conclusivo sui lavori esaminati non è dunque positivo: da un lato gli studi sull'incidenza fiscale totale non conducono ad una misura-zione affidabile del grado di regressività delle politiche fiscali e di spesa perché i postulati necessari per tale misurazione sono totalmente arbitrari. Gli studi sull'incidenza di alcune voci di spesa, che avrebbero potuto indivi-duare almeno alcune delle cause dell'attività statale — in relazione, natural-mente, alle politiche scelte — dall'altro lato si concentrano sull'importanza statistica invece che sull'analisi teorica. E l'unico studio a mia conoscenza

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che, come il presente, si propone di analizzare la distribuzione del reddito, limita il suo interesse, come sopra affermato, alla previsione — invece che spiegazione — del fenomeno.

Come ho detto, mi pare molto più importante chiarire prima teoricamente la relazione tra partecipazione e reddito, per provare poi la sua validità em-pirica. E' ciò che mi propongo di fare nel paragrafo che segue.

Partecipazione politica e distribuzione del reddito in America Latina: analisi empirica

Metodologia

I due indicatori che intendo definire e misurare sono, naturalmente, la par-tecipazione politica e il grado di concentrazione nella distribuzione del reddito.

L'indicatore di maggior difficoltà è senz'altro quello della partecipazione politica. È importante ricordare a questo fine, che nel presente articolo essa si riferisce a una proprietà del sistema politico e non a una proprietà di individui o di gruppi, come spesso si considera. È ovvio che le due proprietà sono colle-gate, dal momento che un alto grado di partecipazione politica da parte delle classi meno potenti indica un alto grado di partecipazione politica nel sistema considerato, e viceversa.

Il concetto di partecipazione politica è molto ambiguo: da un lato chiun-que abbia conoscenze anche minime di scienza politica, sa di cosa si tratta; ma d'altra parte è difficile a misurarsi. Ovviamente il grado di partecipazione dipende da quelle strutture in cui si è tradizionalmente identificato l'ideale della democrazia: l'esistenza di diversi partiti politici, di ideologie contra-stanti, di mezzi di espressione intellettuale liberi, di organizzazioni di classe capaci di mobilitarsi in difesa dei propri interessi, ecc. Ma, inoltre, si riferisce a un'atmosfera che in parte riassume e in parte oltrepassa queste proprietà formali, e che permette di differenziare regimi politici che formalmente ap-paiono simili, come l'Argentina di Ongania e il Brasile di Medici.

A causa di questo dualismo nel significato di partecipazione politica, due metodi differenti sono stati usati per una stima preliminare del concetto: uno, fondamentalmente qualitativo, anche se poi si potrebbe, come s'è fatto, trasformarlo in quantitativo, poggia sul giudizio di esperti; l'altro, quantita-tivo, adotta tecniche statistiche diverse, solitamente — mi si scusi il

bistic-cio — varianti dell'analisi di varianza: recentemente, Stone1 6 ha usato una

analisi fattoriale di diverse variabili che vanno da anni di regime militare, a tasso di sindacalizzazione. Entrambe i lavori che considererò — quello di

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(1940-1960 il primo e 1957-1962 il secondo) e misurano la partecipazione su una scala d'intervallo.

Poiché, però, non credo che una sofisticazione tale sia giustificata dalla affidabilità minima dei dati, ho trasferito queste stime a una scala ordinale tricotomica, composta, quindi, di tre classi: paesi a partecipazione politica bassa, media e alta. I risultati sono riassunti nella tabella 2. La terza colonna riporta la mia stima, limitata, però, a quei paesi di cui abbiamo anche dati di distribuzione del reddito.

Si può notare che le tre stime sono molto simili; le differenze tra le prime due sono più dovute alla differenza nei tempi di riferimento dell'osservazione che a differenza di giudizio. La mia stima poi si basa sulle altre due, distac-candosi da una nei casi dell'Argentina, Panama, Perù, Venezuela, e da entrambe nel caso del Messico e Honduras. Vediamo brevemente i casi principali. Messico e Venezuela hanno un sistema formalmente democratico, ma entrambi esclu-dono dalla partecipazione alcune classi o settori, in particolare, nel caso mes-sicano, i contadini; l'Argentina di Perón è a partecipazione alta; e il Brasile del 1972 va assegnato senza alcun dubbio alla categoria inferiore.

Tab. 2. Partecipazione politica in alcuni paesi dell'America Latina

Stima adottata Stone Adelman e Morris nel presente lavoro 1940-1960 1957-1962 (anno di riferimento) Argentina Bolivia Brasile Cile Colombia Costarica Rep. Dominicana Ecuador E1 Salvador Guatemala Haiti Honduras Messico Nicaragua Panama Paraguay Perù Uruguay Venezuela

Fonte: Per le prime due colonne STONE,

stima dell'autore.

media alta alta (1953)

media media

media bassa bassa (1972)

alta alta alta (1967)

media media media (1970)

alta alta alta (1966)

bassa bassa

media bassa

bassa bassa bassa (1966)

bassa bassa bassa (1968)

bassa — _ (1968)

media media bassa (1972)

alta alta media (1963)

bassa bassa bassa (1966)

media bassa media (1972)

bassa bassa

media bassa bassa (1961)

alta alta alta (1967)

bassa alta media (1971)

op. cit. e ADELMAN e M O R R I S , op. cit. P e r l a t e r z a ,

Per ciò che riguarda la distribuzione del reddtio, prenderò come indicatori del grado di concentrazione il reddito percepito dal 20% e dal 40% della popolazione più povera. La scelta del reddito inferiore invece che, per

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esem-pio, del 20% più ricco della popolazione si deve al fatto che qui interessa in particolare la partecipazione popolare al processo politico, e che essa trova come controparte logica il reddito inferiore. La selezione di due indicatori invece si giustifica colla necessità di aumentare l'affidabilità della stima. Potrebbe darsi, infatti, che una delle due misurazioni del reddito inferiore, fosse tanto incorretta da rendere vacua ogni inferenza teorica.

I dati a mia disposizione vengono da varie fonti, e sono stati raccolti con metodi e popolazioni diverse. Ciò va detto perché non si supponga che i dati sono interamente affidabili. Sarebbe inutile, perché non esistono dati alternativi, discutere se le tendenze che si possono individuare sono dovute a errori di stima, ma sembra che questo non sia il caso, soprattutto perché alcuni schemi di relazioni sono evidenti.

Analisi

I dati raccolti nelle tabelle 3 e 4 permettono due linee di analisi: una com-parazione tra paesi, selezionando per i paesi su cui abbiamo dati a più riprese un caso tipico; e un'analisi longitudinale dei paesi in cui la distribuzione del reddito è misurata in tempi diversi. Iniziamo con l'analisi comparativa.

A. Anche un osservatore superficiale noterà immediatamente tre fatti: 1) che esistono indubbiamente errori di misurazione nella distribuzione del reddito. Basti paragonare i due dati del Brasile 1970, calcolati dalla stessa fonte applicando due metodi diversi. Si sa, d'altra parte, che il reddito è sistematicamente sottodichiarato dai percettori di reddito maggiore come da quelli di reddito minore, che non dichiarano il reddito in natura. In paesi sottosviluppati entrambi gli errori possono essere notevoli.18

2) Che esiste covariazione tra il grado di partecipazione politica e lo sviluppo economico, anche se tale correlazione è molto imperfetta: basti con-siderare il Brasile, il Messico e il Venezuela, dove lo sviluppo economico •— misurato, però da indicatori aggregati — è più grande di quanto la parte-cipazione politica ci farebbe supporre, e, viceversa, il caso di Costarica. In ogni caso, vale la pena notare che le ipotesi di relazione lineare tra moder-nizzazione politica — che prende a modello il sistema politico statunitense — e sviluppo economico è ampiamente smentita dai fatti.

3) Soprattutto, che la frazione di reddito personale percepito dagli intervalli di reddito più basso è in relazione con il grado di partecipazione politica che essi possiedono. I paesi a più alta partecipazione, infatti, sono anche i paesi dove la percentuale di reddito acquisito dalle classi più povere è più alta. La relazione non è perfetta: in Panama, il 40% più povero guadagna meno

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del 40% più povero in Costarica; ma in generale, la relazione sussiste sia per il 20% che per il 40% della popolazione.

Tale relazione è anche statisticamente significativa: se applichiamo un'analisi di varianza, otteniamo, per il 20% un F di 11,4, significativo al livello .01, e, per il 4 0 % , un F di 18,1, significativo al .001 (tabella 5). La partecipazione politica spiega il 67% della variazione totale nel reddito del 20% inferiore, mentre spiega il 77% in quella del reddito del 40%. Il grado di partecipazione politica e il grado di concentrazione del reddito sono fortemente legati.

B. La relazione causale tra le due variabili appare più evidente nel-l'analisi longitudinale di quei paesi in cui la distribuzione del reddito è stata misurata in tempi diversi: Argentina, Brasile, Messico e Costarica (tabella 6). L'analisi longitudinale, vai la pena ricordare, è metodologicamente più valida dell'analisi comparativa (cross-sectional), perché si avvicina maggiormente alle condizioni di laboratorio, dove variabili intermedie (caratteristiche culturali, strutture sociali particolari, ecc.) sono mantenute costanti, e le variabili in cui siamo interessati, partecipazione politica e distribuzione del reddito, invece sono manipolate.

Tab. 5. Percentuale del reddito personale totale acquisito dai primi due e quattro decili, per grado di partecipazione politica

Part. poi. alta media bassa

20% 40% paese 20% 40% paese 20% 40% paese

6,3 18,4 Uruguay '67 4,3 14,7 Panama '72 1,6 6,5 Guatemala '68

7,5 18,1 Argent. '53 3,0 10,7 Colombia '70 2,3 Argent. '53 7,3 Honduras '72

3,6 13,0 Venez. '71 2,5 9,2 Brasile '72

4,4 13,4 Cile '67 4,2 11,1 Messico '63 2,5 8,0 Perù '61

4.5 13,9 Costarica '66 3,5 9,5 E1 Salvad. '66

3,5 10,2 Nicaragua '66

Z 22,7 63,8 15,1 49,5 15,9 50,7

N 4 4 4 4 6 6

M 5,7 16,0 3,8 12,4 2,7 8,5

Tab. 6. Cambiamento relativo nella percentuale di reddito personale totale acquisito da gruppi di popolazione, per alcuni paesi

Paese Argentina Brasile Costarica Messico

Gruppo di reddito 1955-1961 1960-1970 1960-1971 1950-1965 1963-1973 20% — 6,7 — 8,6

__

— 1,2 — 11,9 20% — 1,9 — 32,0 34,6 — 2,7 14,5 30% — 4,0 — 20,7 38,5 — 3,6 22,7 20% — 2,6 2,0 29,2 5,3 19,4 10% 6,0 17,1 — 35,0 4 2 — 17,2 (5%) — 7,5 — — — (5%) — 26,0 — — — Fonte: Tabella 3.

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Escludiamo innanzitutto il caso dell'Argentina, dove la distribuzione del reddito ha subito mutamenti irrilevanti nel periodo considerato: risulterebbe infatti che l'unico effetto della caduta del peronismo sia stato il trasferimento di reddito dalle classi più povere alle classi più ricche, in linea con l'ipotesi nostra, ma in valori assoluti così modesti da ridurre la validità empirica.

Esaminiamo gli altri tre paesi: in tutti, si deve notare che il gruppo di reddito inferiore ha perduto in termini relativi; esso è d'altra parte costituito dai disoccupati e sottoccupati urbani e rurali che sono notoriamente incapaci di organizzarsi in difesa degli interessi propri collettivi.

Se però consideriamo come gli altri gruppi di reddito si sono comportati nei tre paesi considerati, possiamo individuare tre diversi tipi di cambiamento: 1) in Costarica tutti i gruppi di reddito con l'eccezione degli estremi 20% e 10% si avvantaggiano nel decennio.

2) In Messico i miglioramenti sono concentrati nell'ultimo decennio e nelle categorie di reddito medie-alte. Dal 1950 al 1963 i mutamenti sono stati modesti e concentrati nelle categorie alte (il 30% più ricco). Va notato che il 10% più ricco migliora poco negli anni '50, per perdere più considerevolmente negli anni '60.

3) In Brasile, invece, il cambiamento è negativo per tutte le categorie di reddito, con l'eccezione del 30% più ricco. Però, se si nota che il 20% immediatamente inferiore alla cupola migliora solo del 2 % , si deve conclu-dere che solo il 10% più ricco trae vantaggio dallo sviluppo economico del paese. Ancor più, è nella cupola del 5 % più alto che si registrano i migliora-menti più consistenti: 26% del reddito rispetto al 1960.

In conclusione, ci sono tre tipi di cambiamento nella distribuzione del red-dito: uno che ha privilegiato le classi medio-basse (Costarica), uno le classi medio-alte (Messico), e uno le classi alte (Brasile).

L'analisi della distribuzione del reddito di alcuni paesi dell'America Latina ci aveva portato a sostenere che esiste una relazione tra il grado di partecipa-zione politica e il grado di concentrapartecipa-zione del reddito. L'analisi del cambia-mento conferma questa ipotesi.

Se si pone attenzione al sistema politico che questi tre paesi possiedono nel periodo considerato, o, meglio, alle tendenze di cambiamento nella par-tecipazione politica che essi permettono, si nota una covariazione tra il grado di « apertura » o « inclusione » del sistema e il grado di concentrazione del reddito.

Graciarena, che ha discusso questo punto in un recente lavoro,19, suggerisce di classificare i cambiamenti nella distribuzione del reddito in America Latina

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in due tipi, che chiama « elitocratico » e « mesocratico ». Come si può facil-mente capire dai nomi, il primo identifica un processo di concentrazione del reddito al vertice, cioè nel 5, 10% più ricco delle popolazioni; il secondo invece, una tendenza che favorisce la classe media, a scapito, solitamente, delle categorie più alte. Ad esempio del primo tipo egli cita il Brasile, e del secondo Venezuela, Messico e Costarica.

Pur essendo in disaccordo sul numero di tipi e sulla collocazione del Costa-rica, ritengo che l'analisi di Graciarena sia particolarmente interessante, soprat-tutto perché suggerisce che a ciascuno di questi tipi di distribuzione del red-dito corrisponde un tipo di sistema politico: « La concentración del ingreso en la cumbre depende siempre de un componente de coerción, latente o abierta, que debe ser impuesta vigorosa e implacablemente ». E « La concentración mesocratica del ingreso se caracteriza por un régimen politico mas abierto y pluralista. La participatión politica efectiva es mayor, y tanto la sucesión politica corno la continuidad y legitimación del gobierno dependen de eleccio-nes populares, en que se confrontan alternativas politicas ».

In conclusione, il tipo di concentrazione del reddito dipende dall'accesso al potere politico che le classi possiedono. Dove il potere è concentrato nella cuspide della popolazione, costituita da grandi industriali, tecnocrati nazionali e internazionali, il reddito verrà distribuito in forma molto concentrata. Dove le classi più povere si organizzano in difesa degli interessi comuni, la distri-buzione del reddito è, invece, più egalitaria. Val la pena notare che di solito il primo tipo di sistema politico, che si basa sia sull'uso della forza che sulla manipolazione ideologica, è un regime militare autoritario. Se si pensa che il processo di cambiamento delle strutture politiche nell'America Latina ha visto l'estendersi di tali regimi nella maggior parte del continente, non si può non essere pessimisti per ciò che riguarda la sorte di politiche ridistributive.

Conclusione ed un esempio

In tutto il corso dell'articolo ho sostenuto che la distribuzione del reddito e il grado di partecipazione politica sono fenomeni collegati. Ho anche però detto, nell'introduzione, che questa relazione sarebbe di interesse teorico limi-tato se non desse appoggio, per quanto moderato, ad una teoria dello Slimi-tato i cui fondamenti sono due: che la distribuzione del reddito sia determinata dall'insieme delle politiche pubbliche, di bilancio e istituzionali; e che la distribuzione del potere determini appunto l'insieme delle politiche decise e, soprattutto, applicate.

I dati disponibili, però, hanno permesso soltanto di provare l'esistenza della relazione tra i due estremi; non hanno invece consentito di identificare

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i meccanismi intermedi, cioè i canali di pressione sullo Stato, e il processo di determinazione delle politiche cui affidare il compito di distribuire il red-dito come la distribuzione del potere domanda. Esiste a tale riguardo una

letteratura modesta, centrata sull'analisi di alcune politiche specifiche (ho già ricordato quella della riforma agraria), di natura storica e non comparativa. Questa situazione è dovuta alla difficoltà della materia, specialmente alla difficoltà di misurare l'effetto ridistributivo totale delle politiche pubbliche. Ci sono, però, nella storia di alcuni paesi, alcuni momenti di crisi istituzionale, dove si danno le condizioni di base per esaminare, anche se superficialmente, il meccanismo in opera.

Quali politiche adotterà uno Stato quando la distribuzione del potere sia stata violentemente mutata? Qual'è il loro effetto ridistributivo? Dato che numerose crisi istituzionali hanno avuto luogo, recentemente e in paesi con-siderati di tradizione democratica (Uruguay, Cile e Argentina), l'America Latina è un laboratorio perfetto.

Mentre, però, un'analisi comparativa delle politiche intraprese dai nuovi re-gimi militari richiederebbe un articolo a parte (non va dimenticato, inoltre, che tali regimi sono restii a fornire informazioni), un caso, quello del Brasile, può essere esaminato qui. Il Brasile è forse il paese che ha ricevuto maggior attenzione, in parte perché è il prototipo di un regime autoritario burocratico

e in parte per il modello di sviluppo economico che costituisce.20

Quest'analisi non si propone scopi esplicativi, ma soltanto esemplificativi: mi si vorrà perdonare, quindi, se è per forza superficiale.

I dati di fondo sono noti: la distribuzione del reddito peggiora dal 1960 al 1970, con coefficienti di Gini del .49 nel 1960 e .56 nel 1970. In termini più qualitativi, basta vedere i dati raccolti nella tabella 3 per rendersi conto di tale fenomeno. Nel decennio, si sono avvicendati quattro presidenti, e si possono identificare almeno tre regimi differenti e cicli economici: fino al 1964 il governo populista di Goulart e una crisi economica causata, si argo-menta, dalla fine del ciclo « facile » di sostituzione delle importazioni; dal

1964 al 1967 il regime militare di Castelo Branco, e un periodo di recessione accompagnato da una politica violentemente anti inflazionistica; dall'ottobre del '67 un regime militare e una politica economica più chiaramente orientati allo sviluppo. Fino al 1962 il tasso di crescita del PNL è del 9 % , scendendo al 2,5% del 1962 al 1967, per alzarsi poi ai tassi del 9 o 10%.

Di fronte a questi fatti, economisti e sociologi si sono divisi, grosso modo, in due gruppi. I difensori del regime, tra cui spicca Langoni, formatosi a Chicago, sostengono che il peggioramento nella distribuzione del reddito si deve al fatto che lo sviluppo economico ha aumentato drasticamente la do-manda per una manodopera altamente specializzata, mentre l'offerta era ine-lastica. In condizioni privilegiate, questa manodopera richiedeva e otteneva

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aumenti salariali considerevoli, mentre i salari delle altre occupazioni, sempre per la legge della domanda e dell'offerta, rimanevano costanti. In definitiva, il deus ex machina di questa ipotesi è lo sviluppo economico.

Gli oppositori del regime, invece, accusano la politica economica del go-verno militare di aver provocato una sensibile concentrazione del reddito. Tale politica aveva come suo cardine la politica salariale: sull'aumento dei salari, infatti, si scaricava la responsabilità dell'aumento dei costi da un lato e della domanda dall'altro, con le conseguenze prevedibili sull'aumento dei prezzi. Mentre, però, i salari dei lavoratori dell'industria si comprimevano, c'erano categorie previlegiate (non ultima quella dei militari) che si conce-devano aumenti salariali non indifferenti.

Per esempio: il colpo di stato ha luogo in aprile; in maggio le Forze Armate ricevono un aumento di stipendio del 100%; in giugno lo sciopero è dichiarato illegale, e in luglio si approva una legge secondo la quale i contratti di lavoro sono fissati per un anno, e gli aumenti che si possono concedere alla fine di questo periodo non devono superare l'indice dell'aumento del costo della vita, che è mantenuto artificialmente basso. Ne risulta, ovviamente, che il potere acquisitivo dei salari diminuisce. Contemporaneamente, la disoccupa-zione aumenta, anche se è difficile sapere di quanto per la politica disinfor-mativa del governo: si sa che in San Paolo la disoccupazione ha raggiunto il tasso del 12,3% nel marzo del 1965. Questa, dunque, è la prima conse-guenza della politica stabilizzatrice del governo militare: la dispersione dei salari.

Inoltre, mentre la produttività aumenta notevolmente — dal 1962 al 1968 aumento del 33%, secondo i dati presentati da Wells — i salari medi degli impiegati e lavoratori dell'industria aumentano di poco: nello stesso periodo solo del 19%. Si produce, perciò, un trasferimento di reddito dal lavoro al profitto: questo è il secondo effetto della politica economica del governo militare.

Di fronte a queste ragioni, la ipotesi difesa da Langoni si sfalda. Ancor più

se si nota, come Wells2 1 suggerisce, che la concentrazione del reddito è

peggiore nel periodo di stabilizzazione (1964-67) che nel periodo di sviluppo economico (1968-70).

Da quest'analisi pare dunque possibile trarre alcune conclusioni:

1) la distribuzione del reddito e il grado di partecipazione politica sono collegati;

2) ciò perché la distribuzione del reddito è determinata dall'insieme delle politiche pubbliche, e, a loro volta, tali politiche sono determinate dal grado di partecipazione vigente nel sistema politico;

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3) e, con minor grado di certezza, che la politica salariale pare lo strumento più comunemente usato da Stati a partecipazione bassa per influire sulla distribuzione dei redditi; ciò però richiede l'uso di strumenti repressivi dell'attività sindacale e impone ai militari di giocare un ruolo centrale nello Stato.

C A R L O G E N E L E T T I

Comisión Econòmica para América Latina, Santiago, Cile

Note

1 W I L L I A M C L I N E , « Distribution and Development, A Survey of the Literature »,

Journal of Development Economics, 1, 1975, pp. 359-400.

2 In questa sede considererò il grado di partecipazione politica vigente in un paese come sinonimo del grado di eguaglianza nella distribuzione del potere. Infatti, consi-dero che l'accezione più significativa di partecipazione è quella di potere politico effettivo.

3 V . G U I L L E R M O O ' D O N N E L e O S C A R O S Z L A K , « Politicas publicas y estado en America Latina. Algunas sugerencias para su estudio», Ponencia a la conferencia sobre politicas publicas y sus empactos en America Latina, Buenos Aires, 1974- vedi anche JORGE GRACIARENA, « Estructura de poder y distribución del ingreso en America Latina », Revista latinoamericana de ciencia politica, 2, 1 9 7 1 , pp. 1 7 1 - 2 1 9 .

4 Ci sono alcuni studi sull'effetto ridistributivo di alcune politiche pubbliche spe-cifiche: per esempio, sulla riforma agraria vedi C. e W. G E N E L E T T I , « The Agrarian Reform in Mexico and Bolivia: A Comparison », International Review of Community

Development, 3 1 - 3 2 , 1 9 7 4 , pp. 3 - 2 2 ; E R N E S T FEDER, « Poverty and Unemployment in Latin America », in STAVENIIAGEN e FEDER, The Rural Society of Latin America Today, lnstitute of Latin America Studies, Stockholm, 1973.

5 Due lavori interessanti in questo rispetto sono: E N R I G U E BAYLORA, « Oil Policies and Oil Budgets in Venezuela, 1 9 3 8 - 1 9 6 8 » , Latin American Research Review, summer 1 9 7 4 , pp. 2 8 - 7 2 ; K . C O L E M A N e J. W A N A T , « On Measuring Mexican Presi-dential Ideology through Budgets: A Reappraisal of the Wilkie Approach », Latin

American Research Review, 1 0 , 1 9 7 5 , pp. 7 7 - 8 8 .

6 Questa ipotesi è generalmente considerata per lo meno ingenua. Lo Stato però non è neppure un epifenomeno della società: le componenti dello Stato, governo, amministrazione pubblica, potere legislativo, ecc., esercitano un potere in certa misura indipendente dalle forze che rappresentano; Weber, in ciò, aveva ragione. 7 L'elenco di questi autori sarebbe molto lungo: basti ricordare A L B E R T BERRY « Some Implications of the Elitist Rule for Economie Development in Colombia », in G. R A N I S , Government and Economie Development, Yale University Press, Yale, 1 9 7 3 , pp. 3 - 2 6 ; SHANE H U N T , «Distribution, Growth, and Government Economie Behavior in Perù », ibidem, pp. 3 7 5 - 4 1 5 ; CHARLES E L L I O T , « Income Distribution and Social Stratification: Some Notes on Theory and Practice », in N. B A S T E R , Measuring

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8 A. BERRY, op. cit. La traduzione dall'inglese di questa come delle successive cita-zioni è mia.

9 H O L L I S CHENERY et al., Distribution with Growth, Oxford University Press, Oxford, 1974, p. 54.

10 Per ciò che riguarda il primo punto è noto, e non vai la pena di sottolinearlo, il dibattito tra chi dice che il potere politico è l'epifenomeno del potere economico e chi considera analiticamente differenti i tre indicatori di status. Entrambe le affer-mazioni non hanno fondamento empirico. Il tema della teoria dello Stato è, al con-trario, molto più complesso. In generale, però, la mancanza di fondamento empirico ed affermazioni teoriche si nota anche in questo campo.

1 1 I R W I N G I L L E S P I E , « Effect of Public Expenditures on the Distribution of Income », in M U S G R A V E , Essays in Fiscal Federalism, 1965.

1 2 MOHINDER BHATIA, Redistribution of Income Through the Fiscal System of

Puertorico, Planning Board, Puertorico, n.d.; JACOB M E E R M A N , « Fiscal Incidence in Empirical Studies of Income Distribution in Poor Countries », AID Discussion Paper, No. 2 5 , 1 9 7 2 ; E C O N O M I C C O M M I S S I O N FOR L A T I N A M E R I C A , El Desarollo

Economico y la Distribucion del Ingreso en la Argentina, Nueva York, Naciones

Unidas, 1968; M I G U E L U R R U T I A e CLARA DE SANDOVAL, « Politica Fiscal y Distribucion del Ingreso en Colombia», in A. FOXLEY, Distribucion del Ingreso, Mexico, Fondo de Cultura Economica, 1 9 7 4 , pp. 4 7 8 - 5 1 0 .

1 3 RICHARD BIRD e Lue DE W U L F , « Taxation and Income Distribution in Latin America: A Criticai Review of Empirical Studies», International Monetary Pund

Staff Papers, 20, 1973, pp. 639-682.

14 II solo lavoro a mia conoscenza dedicato all'America Latina è quello di CARL STONE, « Politicai Determinants of Social Policy Allocations in Latin America »,

Comparative Studies in Society and History, 1 7 , 1 9 7 5 , pp. 2 8 6 - 3 0 8 . Gli altri, dedicati principalmente agli Stati Uniti, o a comparazioni internazionali, sono i seguenti: G U Y P E T E R S , « Income Redistribution: A Longitudinal Analysis of France, Sweden and the United Kingdom », Politicai Studies, 2 2 , 1 9 7 4 , pp. 3 1 1 - 3 2 3 ; P H I L L I P S C U T R I G H T , « Politicai Structure, Economic Development, and National Social Security Programs »,

American Journal of Sociology, 7 0 , 1 9 6 5 , pp. 5 3 7 - 5 5 0 ; idem, « Income Redistribution: A Cross-Sectional Comparison », Social Forces, 4 6 , 1 9 6 7 , pp. 1 8 0 - 1 9 3 ; HAROLD W I L E N S K Y ,

The Welfare State and Equality. Structural and Ideological Roots of Public Expen-ditures, University of California Press, Berkeley, 1975.

1 5 I R M A A D E L M A N e CYNTHIA M O R R I S , Economic Growth and Social Equity in

Developing Countries, Stanford University Press, Stanford, 1973.

1 6 S T O N E , op. cit.

1 7 A D E L M A N e M O R R I S , op. cit.

1 8 O S C A R A L T I M I R , Estimaciones de la distribución del ingreso en America Latina

por medio de encuestas de hogares y censos de la población. Una evaluación de confiabilidad, E C L A e B I R F , 1 9 7 5 .

1 9 JORGE GRACIARENA, Tipos de Concentración del Ingreso y Estilos Politicos en

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20 La letteratura sul Brasile, la sua politica economica e la distribuzione del reddito

è abbastanza vasta: CARLOS LANGONI, Distribucào da Renda e Desenvolvimiento

Economico do Brasil, Ed. Expresao e Cultura, Rio de Janeiro, 1973; A L B E R T F I S H L O W , « Algumas Reflexóes sobre a Politica Economica Brasileira apos 1964 », Estudos Cebrap 7, Jan.-Fev.-Mar. 1974, pp. 5-25; JOSÉ SERRA, « A Reconcentracao da Renda: Critica a Algumas Interpretacòes », Estudos Cebrap 6, Jul.-Ago.-Set. 1973, pp. 131-156; JOHN W E L L S , « Distribution of Earnings, Growth and the Structure of Demand in Brasil During the 1960's », World Development, 2, 1974, pp. 9-24.

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La crisi dello Stato in America Latina

di R o d r i g o Bano A h u m a d a

Introduzione

Spesso accade che si abusi in tale misura nell'uso di astrazioni e di concetti e di proposizioni generali, da perdere in parte le basi sulle quali si imposta una problematica. In questo senso, il dilemma democrazia-autoritarismo, posto come asse centrale dei problemi politici attuali, nell'intento di chiarire certe situa-zioni potrebbe, in qualche caso, contribuire a confonderle. Certamente in Ame-rica Latina l'accento eccessivo posto su questo aspetto dipende dall'emergere di regimi autoritari in paesi che sembravano avanzare verso la fase della « par-tecipazione totale ».' Comunque, non precisando quello che succede, come, quando e dove succede, si perde il senso dell'analisi e la « crisi dello Stato in America Latina » diventa una conclusione tautologica.

Uno dei tratti caratteristici dell'America Latina è che i suoi sistemi hanno preteso, quasi sempre, di legittimarsi sulla base della utopia democratica. Ovvia-mente, ciò non significa che siano stati paesi democratici, ma che, con qual-siasi regime politico, « l'idea » democratica veniva presentata come giustificatrice. Il senso dei nuovi regimi autoritari è diametralmente opposto a questo. Si pretende creare un regime di dominazione stabile e permanente, dove non entra l'idea di democrazia, così come è stata comunemente intesa. Di fronte a questa situazione, gli studi si sono centrati sul rapporto democrazia-auto-ritarismo come forma per focalizzare, descrivere e spiegare questa « crisi dello Stato in America Latina ».

Intendiamo qui descrivere, a grandi linee, il panorama politico latinoameri-cano come un modo per sottolineare alcuni aspetti che potrebbero contribuire a chiarire in cosa consiste quella che viene definita « la crisi dello Stato ». A questo scopo cominceremo con il segnalare le caratteristiche più generali dei sistemi politici di alcuni paesi dell'area per avere così una visione relativa-mente ampia delle alternative politiche che in essa si danno. Nello stesso tem-po, cercheremo di mostrare le difficoltà che presentano i tentativi di definire la unità dello specifico latinoamericano nell'aspetto che ci interessa.

Nel secondo capitolo cercheremo di indicare le forme in cui si organizza e partecipa politicamente la popolazione nei rapporti di lotta per il potere. Lo

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studio comprenderà fondamentalmente i sistemi dei partiti politici, dato che

questi apparivano, fino a poco tempo fa (e forse ancora oggi),2 come le

orga-nizzazioni più espressive della partecipazione politica. Si faranno anche alcuni riferimenti al corporativismo politico, in quanto si configura come una forma alternativa di partecipazione politica in alcuni paesi della regione.

Infine, ci sembra indispensabile analizzare quale sia lo stato di una delle condizioni fondamentali al funzionamento dei regimi politici democratici, cioè la partecipazione politica formale. Senza pensare che questa sia l'unica forma di partecipazione e neppure la più importante, abbiamo ritenuto che un rapido sguardo alla quantità della partecipazione elettorale e alle comparazioni che potrebbero farsi tra i diversi paesi, possa essere molto utile alla comprensione del problema che ci interessa. La misura in cui funzionano o non funzionano la istituzione giuridica democratica e il sistema dei partiti, non solo può darci alcuni elementi per comprendere 1'« autoritarismo latinoamericano », ma può anche indicarci, in certo modo, i limiti della legittimazione democratica nei sistemi di dominazione propri del capitalismo dipendente e mal sviluppato.

I sistemi di dominazione in America Latina

Una delle prime difficoltà che si incontrano quando si studiano i problemi politici dell'America Latina è quella di determinare se si deve parlare del siste-ma o dei sistemi di dominazione nell'area. Nella letteratura si trova sempre questa doppia scelta tra lo studio della generalità dei processi e l'analisi parti-colareggiata di paesi, regioni o gruppi. E, apparentemente, entrambe le scelte sono valide. Da un lato abbiamo il lungo processo di cambiamento politico che va dall'indipendenza dalla Spagna fino ai nostri giorni, che può essere descritto in termini generali per tutta la America Latina, alla maniera di un Germani, (per quanto oggi ci sentiremmo tentati di cambiare questo schema di continuo ampliamento democratico con qualcosa d'altro che meglio

riflet-tesse il continuo flusso e riflusso che ha avuto la vita politica in questi paesi) e che può essere illustrato con quanto avvenne in ciascun paese. Dall'altro, abbiamo caratteristiche tanto profondamente diverse in ciascun paese che il non considerarle sembrerebbe togliere ogni senso ai processi politici.

Malgrado la esistenza di queste due strade, crediamo che, lasciando da parte le analisi concettuali e astratte, ciò che appare in modo più definito è la distin-zione per paesi o regioni. Ciò anche quando si facciano tentativi generalizzanti; infatti, anche in questo caso è possibile percepire che si è avuto in mente uno dei paesi dell'area in particolare, così che ne vengono esclusi altri che

riman-gono senza spiegazione. Così, nella analisi che fa Graciarena3 della tendenza

all'autoritarismo militare tecnocratico, si capisce chiaramente che il riferimento fondamentale è al Brasile, che oggi potrebbe anche estendersi alla Bolivia, Cile,

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Perù, Uruguay e perfino Argentina, ma che difficilmente però potrebbe abbrac-ciare paesi come il Venezuela, il Paraguay e il Centro-America.

Senza proseguire su questa strada, il nostro intento di caratterizzare i siste-mi di dosiste-minazione dell'America Latina sembrerebbe comportare implicitamente la formulazione di una tipologia di tali sistemi e, quindi, di raggruppare i paesi dell'area secondo la loro prossimità ai tipi. Immediatamente, si pensa alla clas-sificazione secondo il sistema weberiano, in paesi di dominazione non legittima (paesi minori), di dominazione tramite leaders (Brasile di Vargas, Argentina di Perón, Ecuador di Velasco Ibarra), di dominazione legale (il Cile fino al 1973, Uruguay), di dominazione tradizionale (Colombia), ecc. E così perderemmo di nuovo la pretesa unità latinoamericana per introdurci nelle differenziazioni. Infine si tende alla identificazione di « modelli » (modello brasiliano, mo-dello peruviano, momo-dello cubano) e si pretende di collocare il resto dei paesi in rapporto a tale modello. Questa tendenza può condurre a varie distorsioni. Poiché l'interesse attuale riguarda paesi che hanno sofferto grandi trasfor-mazioni nel loro regime politico e che tendono oggi all'autoritarismo, ci sembra conveniente cercare di segnalare alcuni aspetti che sembrano descriverli nei loro tratti essenziali. In ogni caso si tratta non tanto di vedere le somiglianze, bensì le differenze che presentano tra loro, come un modo per ricostruire la configurazione delle loro rispettive situazioni. Al di là delle somiglianze che presentano attualmente i regimi politici del Brasile, Cile, Uruguay e Bolivia, vi è il fatto che i processi che hanno condotto alla loro instaurazione non sono stati uguali e che neppure il loro punto d'arrivo dovrà essere necessariamente lo stesso.

Due situazioni apparentemente simili, come quelle del Brasile del 1964 e del Cile nel 1973, sembrano essersi sviluppate con caratteristiche molto differen-ziate dal punto di vista della razionalità istituzionale e dello stile politico. Il Cile (dal 1925 fino al 1973) porta avanti un profondo processo di riforme, accelerando la razionalizzazione, principalmente giuridica, del sistema in modo tale da approssimarsi all'utopia democratica. Nel 1973, il Cile già superava i limiti della pura razionalizzazione formale e si trovava di fronte al problema della realizzazione dei valori che tale utopia contempla. Per fare ciò, mette in pericolo tutto il sistema di dominazione che aveva utilizzato imprudentemente (ma per necessità) come fondamento di legittimazione. Il Brasile, al contrario, conosce scarsamente questo tipo di razionalizzazione, e nel 1964 esce da un largo processo semi-populista, diretto dagli eredi di Vargas, che riesce appena a mobilitare i settori urbani, carenti di organizzazioni politiche indipendenti e rappresentative; ciò si esprime nel fatto che nel 1960 vota soltanto un po' più di un terzo degli elettori potenziali (in Cile, dal 1964, il numero dei votanti è circa dei due terzi). Nel 1964 il Brasile non è al culmine di un lungo processo che sistematicamente pone il sistema politico di dominazione di fronte alle sue

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contraddizioni interne, bensì in una situazione insurrezionale. Il golpe bra siliano si realizza per cercare una riformulazione della politica economica in termini delle esigenze poste dalla nuova economia monopolistica e transnazio-nale, e permesse dalle caratteristiche dei gruppi economici brasiliani. Non si tratta di un freno al processo o di un passo indietro (malgrado le prime im-posizioni fiscali democratizzanti che son solo espressione della vasta gamma di oppositori di Goulart e che vengono rapidamente eliminate), ma di una pro-fonda modificazione della società nei termini di un progetto economico al quale si subordina il progetto politico. E' la previsione del « miracolo brasi-liano » e del « modello » politico che lo renderà possibile, che porta all'abbat-timento di Goulart da parte della frazione dominante della borghesia brasi-liana in alleanza con il capitale internazionale. In Cile non esistevano le condi-zioni per la previsione di un « miracolo economico », se non il semplice sche-ma di realizzare rapidamente buoni affari, e ciò che il golpe pretende di fare è di fermare il processo politico e di tornare indietro. Ma questo tornare in-dietro è privo di senso (giacché il grado di sviluppo giuridico e politico non può essere rovesciato in breve tempo e la presenza militare diviene così impre-scindibile), e quindi si inizia la ricerca di un « modello » inesistente, che dà luogo a vari tentativi, al frazionamento dei gruppi che avevano spinto al golpe militare, a pressioni civili eterogenee sulle Forze Armate e al consolidamento in queste di un potere che non riesce ancora a strutturare un progetto politico coerente né una linea economica di efficienza indiscutibile.

Sembra, dunque, che sebbene ambedue i sistemi politici possano definirsi genericamente come autoritari di destra, una loro interpretazione non può fon-darsi sulle medesime basi, né le loro prospettive sono simili.

Allo stesso modo, il caso uruguaiano deriva da un altro processo, simile al cileno in alcuni aspetti, ma diverso nelle questioni di fondo. Anche l'Uruguay porta a termine un profondo processo di razionalizzazione giuridica, che però è molto più formale che nel caso cileno, a causa del fatto che tale razionaliz-zazione giuridica non viene accompagnata da una razionalizrazionaliz-zazione politica, specialmente a livello di partiti. Nonostante l'alta partecipazione elettorale, l'Uru-guay sembra sommerso da lungo tempo in uno stato di ibernazione politica. Mentre in Cile troviamo un sistema di partiti con ideologie chiare e rappre-sentatività definita, in Uruguay abbiamo un sistema di partiti fossilizzato e che la legislazione ha aiutato a mantenere inalterabile,4 nonostante i cambiamenti operatisi nella società uruguayana; invece, è l'emergere di una nuova forza politica, il Frente Amplio, che accelera l'arrivo della dittatura. In realtà, non c'è un golpe militare, ma il cerchio autoritario si va chiudendo lentamente a partire dal governo di Gestido (1967) fino alla abolizione delle ultime vestigia democratiche da parte di J. M. Bordaberry (1973). Non c'è stato nemmeno populismo aggressivo, come in Brasile, né mobilitazione di massa, come in

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Cile. Si tratta di un autogolpe realizzato sia per frenare la nascita politica di nuove forme come per riorganizzare l'economia a vantaggio del settore do-minante. Qui nessuno può aspettarsi un miracolo, al massimo la scomparsa del paese.

Insomma, le situazioni del Cile, del Brasile e dell'Uruguay appaiono diverse se vengono esaminate nei loro precedenti politici ed economici, però è inne-gabile che in questi paesi si sono instaurati sistemi politici la cui orga-nizzazione ed ideologia si somigliano troppo per pensare a una coincidenza. La presenza militare, l'idea dell'organizzazione sociale gerarchica, il rifiuto violento e spietato delle posizioni di sinistra, la « sicurezza nazionale », l'esal-tazione della patria, la repressione aperta, l'economia di mercato e l'adesione incondizionata al capitalismo, sono alcuni dei caratteri comuni a questi siste-mi. Da questo modo di vedere l'attuale situazione dei tre paesi nasce la ten-tazione di cercare un unico fattore causale e prevedere un futuro comune a tutti.

In questo senso, si è detto che il nuovo sistema politico corrisponderebbe alle necessità della riorganizzazione mondiale dell'economia, alla tendenza auto-ritaria della tecnocrazia, ad una forma per assicurare la divisione politica del mondo, alla urgenza dello sviluppo economico, ecc., ecc. Ognuna di queste interpretazioni può essere tentata e dare risultati più o meno buoni, però ci sembra che le condizioni in cui si sviluppano paesi che giungono, apparente-mente, ad una stessa situazione, non sono necessariamente simili e che il fatto di non esserlo conferisce un senso ed una direzione diversi a questa somi-glianza apparente. Questa distinzione appare chiara nei tre paesi ricordati e risulta difficile ricondurli ad uno stesso « modello », a meno di non risalire a tali generalizzazioni da non sapere più di quali paesi stiamo parlando.

Accanto a questi tre paesi che presentano in forma esagerata le caratteri-stiche di questo « modello di autoritarismo militare tecnocratico di destra », troviamo situazioni meno drastiche, sebbene si possano scorgere in esse ten-denze simili. Tale è il caso dell'Argentina, dove si accentuano tanto la poli-tica economica di destra quanto la repressione ed il controllo militare, fino a sboccare nel recente golpe militare. Si può dire ancora poco sulle caratteri-stiche del nuovo regime militare argentino che non sembra ancora sufficiente-mente definito. Per il momento ed a livello giornalistico, si nota il tentativo di costruire un sistema stabile che non considera le elezioni come qualcosa di essenziale e dove i partiti politici sono proibiti o sospesi. Tuttavia, cerca di differenziarsi dal regime cileno non esasperando la repressione, limitata a situazioni di estremismo combattente, e non creandosi problemi a livello inter-nazionale.

In quanto all'economia, propone la linea economica cui danno impulso i gruppi dominanti in Brasile ed in Cile, cioè, impresa privata, economia di mercato, alleanza con il capitale internazionale, restrizione della spesa

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pub-blica e altre misure che contribuiscono ad una accumulazione economica che dia impulso allo sviluppo capitalista. Tuttavia, crediamo che per comprendere l'importanza dell'attuale situazione argentina e le sue prospettive, non ci si debba fare indurre nell'errore di pensare che qui ci troviamo davanti all'ab-battimento di una democrazia matura. Al contrario, la storia argentina non conosce altra esperienza di democrazia politica, almeno apparente, che l'Iri-goyenismo e il Peronismo, dal 1916 al 1929 e dal 1946 al 1955. Dal golpe contro Irigoyen nel 1929 l'Argentina non conosce la continuità dell'accesso costituzionale al potere. Una successione di golpe militari e la « frode patriot-tica » conducono al peronismo, e dall'abbattimento di questo tornano a ve-rificarsi gli interventi militari con i falliti esperimenti elettorali di Frondizi nel 1958 (deposto nel 1962) e quello di lilla nel 1963 (deposto nel 1966). Il pe-sante appoggio che porta al ritorno di Perón segna una breve parentesi di partecipazione politica di massa, per poi cadere nell'attuale crisi, il cui sbocco non sembra condurre ad un rafforzamento della democrazia.

Già prima c'era stato in Argentina un tentativo serio di applicare il « mo-dello brasiliano», partendo dal colpo di Stato del 1966; però esso incontrò ostacoli e falli strepitosamente nel 1970.5 La tesi dei « tre tempi » che diede impulso al governo di Ongania, viene ad essere alterata e la fase politica, che doveva essere l'ultima (dopo quella economica di accumulazione e quella sociale di ridistribuzione selettiva), passa al primo posto come l'unico modo di ottenere quel consenso minimo che permetta l'attività economica. Nemmeno nel caso argentino troviamo molte somiglianze con il Brasile, l'Uruguay o il Cile, particolarmente nella sfera che ci preoccupa: l'organizzazione istituzio-nale dello Stato. In Argentina è praticamente sconosciuto il processo di am-pliamento democratico della partecipazione politica, come in Cile, nonostante abbia una precoce partecipazione di massa, mentre il livello della sua razio-nalizzazione giuridica non è paragonabile a quello uruguayano. Si potrebbe, forse, equiparare al Brasile per quanto riguarda la persistenza di una

leader-ship di tipo carismatico come fonte di legittimazione, però si dovrebbero

regi-strare anche forti differenze, quanto alla costituzione e organizzazione dello Stato. Lo Stato argentino è decisamente debole di fronte alla società civile; nonostante il primato del potere esecutivo su quello legislativo, giudiziario é federale, tale primato non è espressione di uno Stato forte, poiché, al con-trario, è all'interno dello stesso esecutivo che avviene lo scontro diretto dei differenti interessi della società civile: gli industriali, l'esercito, i sindacati, gli esportatori, ecc. Invece il Brasile è caratterizzato da uno Stato forte, con una accentuata tradizione di autoritarismo politico che, a partire dal 1964, si è ulte-riormente rafforzata. In tale situazione il populismo di Vargas e quello di Perón differiscono nel loro significato; così, ad esempio, il carisma di Vargas è assimilabile a quello di altri leaders (Kubitschek, Quadros, Goulart), mentre il carisma di Perón è assolutamente personale; non trova leaders che possano

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