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Manifesto «20 di riscossa». Nessuno resti solo Come siete arrivati alla decisione di manifestare il 20 ottobre?

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Academic year: 2022

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Manifesto – 6.10.12

«20 di riscossa». Nessuno resti solo (intervista a Francesca Redavid, Fiom)

Francesco Piccioni

Come siete arrivati alla decisione di manifestare il 20 ottobre? La Cgil ha deciso di proclamare questa come giornata di mobilitazione e riunificazione delle lotte. Troviamo estremamente positivo che si ragioni sulla riunificazione delle vertenze, perché la situazione è drammatica da ogni punto di vista. Oltre alle singole situazioni, c'è un problema di totale assenza di politica industriale in questo paese. Il governo non sta svolgendo alcun ruolo in questo senso.

Ogni volta sembra che cerchino soltanto un compratore, possibilmente straniero... Come si è visto dall'inizio della vicenda Fiat, si limita a dire che le imprese sono «libere di decidere che cosa fare» sulla base degli elementi di concorrenza, con un'assoluta indifferenza alla responsabilità sociale delle imprese, sia rispetto ai territori che all'aspetto produttivo. Credo non ci sia mai stato un governo così indifferente rispetto all'introduzione di elementi di politica industriale e di indirizzo. Da questa crisi non si può uscire senza investimenti importanti, da parte delle imprese e del governo. Voi avete il rapporto con i territori; come vive la gente questa indifferenza? Molto male. Vediamo sempre più spesso atti eclatanti. L'assenza di una politica porta a un'escalation di gesti per richiamare almeno per un po' l'attenzione sulla propria condizione, individuale o collettiva. Accade in Sardegna, dall'Alcoa ai minatori. Ma ogni giorno c'è qualcuno arrampicato da qualche parte, come la Vinyls a S. Marco. Si cerca di «bucare» l'attenzione con l'evidenza della disperazione. La scadenza del 20 è dunque un richiamo per il governo alle sue responsabilità?

Assolutamente sì. Del governo e delle imprese, tengo sempre a precisare. L'ho appena detto: non c'è nessuna politica industriale, ma le imprese mostrano indifferenza ad affrontare la concorrenza sulla base dell'innovazione dei prodotti.

Tutta l'attenzione è puntata sull'abbattimento del costo del lavoro; una follia che ha portato a una riduzione dei diritti mai vista prima. E anche di reddito, quindi della domanda. Anche per questo vanno fatte politiche mirate. Squinzi e gli industriali, per esempio, si lamentano che la tassazione è troppo alta. Per noi la riduzione della tassazione va legata all'investimento in innovazione, oltre che alla stabilizzazione del lavoro attraverso la riduzione degli orari. Il governo qui potrebbe svolgere un ruolo. Gli incentivi sotto forma di detassazione andrebbero vincolati a cosa le imprese fanno. Nel decreto sulle start up, invece, viene incentivato un contratto «tipico» fatto di precarietà a tempo determinato e persino con la possibilità di pagare in «stock option»... È l'idea che il «sostegno» all'impresa va dato in forma di precarizzazione del lavoro, in abbassamento di salari e diritti. Pensiamo invece che debba essere collegato ai processi di innovazione, per un diverso modello di sviluppo. La giornata del 20 è importante come primo momento. Abbiamo l'assemblea dei 5.000 componenti dei direttivi Fiom, il 12 ottobre a Modena, perché nell'unificazione delle lotte vanno tenute insieme diverse questioni: il contratto nazionale che non c'è, la democrazia sotto attacco - per i metalmeccanici e in generale - e le crisi aziendali. Bisogna tener vivo un senso collettivo, altrimenti si passa solo ai gesti di

disperazione individuale. Quando parliamo di contratto non possiamo non parlare di crisi, di occupazione, quindi di riduzione degli orari e di contratti di solidarietà; e di politiche industriali positive su un diverso modello di sviluppo. La defiscalizzazione andrebbe data su questi elementi, non a pioggia, come con i «contratti tipo» delle aziende start up.

Basta una manifestazione, per questo? Pensiamo anche a uno sciopero generale della categoria. C'è un mandato del Comitato centrale che l'assemblea dei delegati potrebbe ratificare. Uno sciopero generale che intervenga sulla

«trattativa separata» di Federmeccanica con Fim e Uilm, che peggiora ulteriormente le condizioni di lavoratrici e lavoratori, ignorando la democrazia e lasciando fuori il sindacato maggiormente rappresentativo. Oltre al problema

«come si affrontano le crisi?». Siete riusciti a tenere il conto? Sulle 180.000 persone coinvolte nei tavoli di crisi aperti soltanto a Roma, al ministero, 110.000 sono metalmeccanici. Quanto vedete delle questioni poste dalla Fiom nel discorso pubblico dei partiti? Molto poco. Vediamo nella proposta di referendum su articolo 18 dello Statuto e art. 8 della «manovra d'agosto» una reazione alla legislazione che - con Berlusconi prima, con Monti poi - hanno varato sulle questioni del lavoro. Pensiamo che la discussione che si aprirà con la raccolta delle firme sia un modo per riportare i temi del lavoro dentro la discussione politica dei partiti, obbligandoli a una chiara presa di posizione. Allo stato attuale, però, tutto il loro dire rimane molto vincolato alle questioni del pareggio di bilancio... Sul clima sociale, in relazione al 20, che tipo di previsioni fate? Sui luoghi di lavoro, se le persone sono lasciate sole, il clima è di depressione. La scadenza deve diventare l'occasione per fare le assemblee, discutere con le persone, far uscire dalla solitudine e dall'immobilismo. Dev'essere una tappa in un percorso di rilancio della mobilitazione sul e per il lavoro; allora ha una possibilità di vero successo. Il 20 saranno soprattutto le aziende in crisi a essere presenti; è positivo che non siano più costrette a manifestare sole, una alla volta, sotto i palazzi del potere.

Tornano gli studenti, la polizia li carica

– Domenico Romano

ROMA - Trascinano il corpo di peso sull'asfalto. 15 anni, jeans e una maglietta rossa, il ragazzo neanche ci prova a reagire. Due poliziotti se lo portano via tirandolo uno per un braccio e l'altro per una gamba. Fino a dietro i blindati e poi in questura per essere identificato. Altri poliziotti puntano i manganelli alla gola di altri ragazzi, anche loro giovanissimi.

E poi cariche, lacrimogeni, manganellate. Scene che si sono viste ieri durante le manifestazioni degli studenti che si sono svolte e Roma, Milano, Bologna, Palermo Napoli e in un'altra mezza dozzina di città. Governo (ex) nuovo e tecnico, vecchie tecniche messe in atto dalla polizia, come se il tempo non passasse mai, e soprattutto non insegnasse niente. Alla fine il bilancio sarà di una trentina di contusi, tre feriti e una quindicina di fermati. Il movimento scende in piazza e la risposta data alle richieste degli studenti è ancora una volta solo repressiva. Sì, i ministri dell'Istruzione Profumo e del Lavoro Fornero si sono detti pronti a incontrare i ragazzi, ma intanto mandano avanti la polizia in tenuta antisommossa. E' stato il primo corteo dell'anno scolastico e a guardare le facce delle migliaia di ragazzi che vi hanno partecipato non è escluso che sia stato anche il loro primo corteo in assoluto. Una protesta che nasce da lontano, dalla contestazione della riforma Gelmini - che Monti ha detto di apprezzare -, ma che ingloba e fa suoi anche tutti i

movimenti di questi anni, da quello No tav al movimento Occupy contro le banche e la finanza fino ad arrivare a

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contestare la spending review con i tagli e i mancati investimenti nel settore e, naturalmente, la politica che si è fatta casta. Ma non è un movimento antipolitico quello che si è visto ieri, tutt'altro. Ed è di sinistra, anche se non sembra tifare molto per i partiti di sinistra. «Né Profumo né Aprea, fuori banche e aziende dalle scuole», recita lo striscione che apre il corteo di Milano, mentre a Roma gli studenti gridano «Contro crisi e austerità riprendiamoci scuola e città». Gli scontri cominciano a metà mattinata. A Roma il corteo di un migliaio di studenti arriva fin sotto il ministero della Pubblica Istruzione dirigendosi poi verso Porta Portese. Qui le prime cariche dopo che, secondo la polizia, gli studenti avrebbero lanciato sassi e altri oggetti verso gli agenti. Sei quelli rimasti contusi . Nel corpo a corpo che ne segue la Digos sequestra alcuni scudi di plexiglass usati dai ragazzi per proteggersi e alcuni sassi. A via Marmorata, a Testaccio, gli studenti allontanano una cronista di Mediaset dal corteo, impedendole così di svolgere il suo lavoro.

Cariche in pieno centro anche a Torino. A scendere in piazza sono gli studenti dei licei e degli istituti tecnici, il Ksa (Kollettivo studenti autorganizzati), i giovani della Val di Susa e gli universitari della Verdi 15 occupata. In corteo

«contro crisi e austerità», ma anche contro la casta e in sintonia con l'Europa delle lotte. Sono partiti da piazza

Arbarello e si sono diretti verso il centro, oltre un migliaio dietro allo striscione "Riprendiamo scuole e città". Un gruppo di ragazzi ha lanciato fumogeni nel cortile del Miur, la sede del ministero dell'Istruzione in via Pietro Micca. Il corteo è proseguito lungo via XX Settembre. «Volevamo andare - racconta Daniele - sotto Palazzo Lascaris (sede del consiglio regionale, ndr), a protestare contro il magna magna della politica, ma la polizia ce l'ha impedito». Il corteo si è fermato perché decine di agenti in tenuta antisommossa si sono piazzati davanti agli studenti, che poco dopo hanno cominciato a lanciare uova con vernice. È partita la carica delle forze dell'ordine. Diversi ragazzi sono rimasti contusi. Una

studentessa ha riportato una ferita lacero-contusa alla testa, per lei è stato necessario l'intervento dell'ambulanza. Un ragazzo di 16 anni si è recato in ospedale con la testa sanguinante. A Milano il corteo si è diviso in due tronconi, uno dei quali si è diretto verso al sede della regione Lombardia dove è stata fermato dalle polizia. Una decina gli studenti feriti. «Ma è possibile che ogni volta che i giovani chiedono una suola per il loro futuro si risponda solo con atti di ordine pubblico?», ha chiesto il leader di Sel Nichi Vendola. Critiche per l'intervento delle forze dell'ordine anche dal

presidente dei Verdi Angelo Bonelli. «Un Paese che taglia sull'istruzione, sulla scuola e sulla ricerca - ha detto - è un paese che taglia sul suo futuro. usare i manganelli contro gli studenti è semplicemente una vergogna».

(da Torino ha collaborato Mauro Ravarino)

«Siamo arrabbiati perché ci stanno rubando il futuro»

- Giorgio Salvetti

MILANO - Ludo ha 18 anni. Studia in un liceo di Lambrate, zona Città Studi, a Milano. Ieri era tra gli studenti che hanno manifestato e che sono stati caricati dalla polizia mentre cercavano di portare la loro protesta sotto il grattacielo della Regione Lombardia. Siamo al solito corteo di inizio dell'anno scolastico con annesse scaramucce con la polizia, o quest'anno c'è qualcosa di diverso? Sono cinque anni che mi muovo nei coordinamenti studenteschi, ma questo è il primo anno che al governo c'è Monti. Questa mattina il mio coordinamento era alla sua prima manifestazione e sono venuti tanti studenti. A Milano ci sono stati tre cortei, uno partito da largo Cairoli, uno, il nostro, da Porta Venezia, e poi uno spezzono che si è staccato dal corteo di Cairoli e ci ha raggiunto per andare in Regione. Protestiamo per la scuola pubblica, certo. Cioè? Per esempio contro la legge Aprea, una legge regionale che apre i consigli d'amministrazione delle scuole ai privati. Ma anche per la possibilità data ai prèsidi di scegliere i professori fuori dalle graduatorie in base a considerazioni che potrebbero essere personali o addirittura politiche. Ma poi per l'atmosfera pessima che si respira a scuola... A cosa ti riferisci? Ho sentito che il governo Monti vuole digitalizzare la scuola. Ma di che parlano? Monti non ha fatto altro che tagliare. Da noi ci sono lavagne multimediali, non funzionano e sono chiuse negli sgabuzzini, ma mancano le stanze, una classe deve fare lezione in corridoio. Vivere in questa situazione quando in tv si vedono Fiorito e le sfilate della Minetti fa davvero arrabbiare. Per questo volevamo protestare sotto la Regione con i lavoratori della Nokia e della Jabil. E invece ce l'hanno impedito. Cosa è successo? Un forte spiegamento di forze dell'ordine ci ha bloccato e ci ha caricato. Per noi è solo il segnale che le istituzioni sanno di avere fallito, hanno paura e si difendono in questo modo. Davvero queste manifestazioni fanno paura? Non siamo nè in Grecia né in Spagna, non ti sembra di esagerare? Sì, è vero da noi non c'è ancora la mobilitazione che c'è in altri paesi. Ma i motivi sono gli stessi. Noi protestiamo per la scuola, ma soprattutto perché abbiamo paura di quello che ci succederà dopo la scuola. Mi viene il magone se penso a quanta strada mi manca per avere un lavoro e una casa, se li avrò mai, e per trovare i soldi per fare l'università. Questo non ha niente a che fare con il rito iniziatico delle proteste studentesche. Queste sono paure fondate che producono una rabbia autentica inconciliabile con gli scandali della politica o con le politiche messe in campo dal governo Monti. Per questo non sottovaluterei queste manifestazioni. Noi ragazzi siamo arrabbiati, ma anche le famiglie e i professori non riescono più a darci torto.

Oggi assemblea a Roma: un appello

Il Coordinamento precari scuola Roma, componente romana del movimento Precari uniti contro i tagli, propone a tutti i movimenti della scuola che operano nel territorio - i collettivi e le organizzazioni degli studenti, i coordinamenti dei genitori e degli insegnanti - di indire collettivamente e partecipare ad un'assemblea cittadina al fine d'intraprendere un percorso comune a partire dai seguenti punti: - Netto rifiuto alle politiche di tagli compiute negli ultimi anni e portate avanti dall'attuale governo - Restituzione delle risorse sottratte alla scuola pubblica. - Decisa opposizione al progetto di privatizzazione della scuola contenuto nella pdl 953 (ex Aprea). - Prosecuzione delle lotte dei precari contro il concorso truffa. - Opposizione al dimensionamento scolastico che accorpa gradi di scuola completamente diversi

- Opposizione alla riforma Fornero che prevede l'allungamento dell'età lavorativa oltre i 67 anni. Consapevoli del fatto che questi punti si arricchiranno nella discussione assembleare, vi invitiamo a costruire collettivamente e a partecipare all'assemblea oggi 6 ottobre alle 15,30 sala rossa del X Municipio (di fronte alla metro A Subaugusta).

Hanno già accolto l'invito: Assemblea permanente degli studenti auto-organizzati di Roma, Uds, Coordinamento scuole secondarie, Coordinamento nazionale per la scuola della Costituzione, Associazione A Sud

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Le aberrazioni di Abravanel

- Giuseppe Caliceti

Ha fatto un concorso dieci anni fa. Non lo ha vinto. Non è stato assunto a tempo indeterminato, ma gli è stato chiesto di lavorare nella scuola entrando in una graduatoria come precario. In attesa di assunzione. Lo Stato, come un buon padrone, ha detto al precario-apprendista: «Lavora qui, mancano docenti, poi ti assumiamo, questione di tempo».

Detto a 250.000 precari. Poi cambia idea: «Senti, faccio un nuovo concorso, tutti partite da zero. Se vinci, ti assumo.

Se non vinci...». «Ehi, ma tu...». Lo Stato: «Comando io. Ho cambiato idea. Fine del discorso». Figura meschina? Fate voi. Ma al governo non importa solo imporre le sue scelte, ma convincere l'opinione pubblica che sono le migliori. Per farlo dispone di mezzi di informazione e prezzolati giornalisti. Roger Abravanel, del Corriere, titolare del blog

Meritocrazia.it: «Quale insegnante preferireste per vostro figlio, una signora 45enne oggi al numero 152 della

graduatoria di merito di un concorso di 10 anni fa, o una giovane trentenne che è risultata tra i primi a un concorso fatto in questi giorni?» Domanda retorica che dovrebbe scagionare il governo dalla figuraccia. Rispondo: un docente

giovane, Roger. Esatto? Detto questo: come mai, allora, l'età di pensionamento dei docenti è aumentata ad oltre i 65 anni? Qui tu e il governo ve ne fregate di studenti e famiglie? Esatto. Sostiene Abravanel: «In Italia negli ultimi 25 anni si è diffusa una mentalità devastante che ha di fatto ucciso la meritocrazia nelle nostre scuole: il pensare sempre e solo ai problemi di chi lavora nella scuola (gli insegnanti) dimenticando le esigenze dei "clienti" del servizio pubblico dell'istruzione (gli studenti)». Altra devastante falsità. Perché non ricorda che la scuola primaria italiana, prima di Abravanel e Gelmini, era la 1ma in Europa e la 5a al mondo per qualità (dati Ocse) e adesso è precipitata in classifica.

Non dice che l'Italia è tra i Paesi che investe meno in formazione e ricerca. E ogni volta che qualcuno parla di difficoltà del sistema scolastico, lo si fa solo per tagliare: vedi l'epocale taglio Gelmini. Non dice che in Italia gli studenti che escono dalle private sono mediamente meno preparati di quelli che escono dalla scuola pubblica (dato Ocse 2008).

Insomma, dice solo ciò che vuole. Parlando di «clienti» al posto di «studenti»(?) di scuola come servizio e magari, presto, a pagamento e privato - e non come istituzione pubblica e gratuita. In sintesi, non parla della scuola della Costituzione, cuore della democrazia - che ha a che fare con l'art. 3, - ma di un'altra. Quale? Ne parla in Meritocrazia.

Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto (Garzanti 2008), un aberrante manifesto dell'ideologia meritocratica. Favorevole a una selezione precoce della specie-studente. «In genere si ritiene che per assicurare eguaglianza di opportunità bisogna dare a tutti la stessa qualità di istruzione. Questo luogo comune è profondamente errato: dando a tutti la stessa educazione non si aumenta la mobilità sociale e il merito muore» (p. 256). Siamo al darwinismo sociale. Ci sono i meritevoli e gli immeritevoli, i furbi e i coglioni. Le differenze avrebbero una giustificazione naturale di tipo parascientifico, razzista. L'antica aristocrazia di nascita è sostituita dall'

«aristocrazia dell'ingegno». La scuola? Fortemente gerarchica, dove non si insegna più la pluralità di culture e valori, ma si inculcano precocemente i valori del sistema produttivo. L'intelligenza? «La capacità di aumentare la produzione, direttamente o indirettamente, si chiama «intelligenza» (p. 173). L'educazione e l'istruzione di bambini e ragazzi?

Sostituita da misurazione e classificazione delle abilità. «A che pro abolire le ineguaglianze nell'istruzione se non per rivelare e rendere più spiccate le ineluttabili ineguaglianze della natura?» (p. 122) E ancora: «Sessant'anni di ricerche psicosometriche e sociologiche hanno portato a ritenere che (le) capacità intellettive e caratteriali siano prevedibili, senza che sia necessario attendere la «selezione naturale» della società» (p. 65). Siamo oltre ogni aberrazione pedagogica. Qui pare che Abravanel abbia già in mente una teoria eugenetica che ha come suo nemico principale la democrazia. Sono queste la scuola e il governo che vogliono gli italiani per i loro figli? Sveglia!

La catastrofe del patrimonio culturale

- Gianfranco Capitta

È fin troppo facile prevedere che il terremoto che scuote la politica italiana, si ripercuoterà a dismisura sulle istituzioni teatrali e culturali italiane, già ridotte in fin di vita dall'invasione e dai tagli berlusconiani di tutti questi anni. Ora che tutti si scandalizzano per le mascherate squallide dei consiglieri regionali del Lazio, bisognerebbe ricordarsi che già qualche anno fa l'amministrazione Alemanno aveva chiuso il centro di Roma per far correre sul Corso bighe e altre carrette d'epoca con figuri e figuranti mascherati, non tanto dissimili dalla festa di Ulisse dove abbiamo visto

immortalata la Polverini. L'idea di spettacolo che hanno è quella evidentemente, più o meno prude, ma con la stessa sfacciataggine di esibirla. Come l'apparizione mitica della «presidente commissione cultura» sui sanitari sporchi che lei e altri sciagurati trovano «una provocazione»: ma a cosa? Solo a chi ce l'ha eletta e a chi ce l'ha nominata presidente.

Ora c'è il problema «strutturale» che avendo i teatranti, gli artisti e gli intellettuali subìto e accettato, nella media, che politici e politicanti mettessero i piedi (e anche tutto il resto, comprese le loro corti dei miracoli, e delle miracolate), nei luoghi decisionali, sarà dura liberarsene. Soldi, nel senso di finanziamenti e garanzie, non ce ne sono più, o sono ridotti al lumicino di pura sopravvivenza. Resta una ingombrante eredità che tra crisi globale, spending review e

comportamenti dissennati, andrà vicino allo zero quanto a possibilità. Con organismi che hanno perso ogni forma pensante, e che andranno ricostruiti pazientemente da capo. Non è catastrofismo questo, ma facile previsione. Le situazioni che restano ancora in piedi, per lo più fanno parlare di sé per motivi assai lontani da quelli istituzionali, e viene sempre il dubbio se certi «avvenimenti» abbiano una occulta regia, o se la stoltezza sia ormai endemica e ineludibile. Tra i teatri stabili, quello più chiacchierato (a cominciare dal giornale principale della città, Il Piccolo) sembra essere quello di Trieste, dopo che ai primi di agosto è rimbalzata da New York la notizia della disavventura occorsa al suo direttore, Antonio Calenda, che essendosi perdutamente innamorato di una ballerina afroamericana reclutata per uno spettacolo con Albertazzi della scorsa stagione, le ha improvvidamente «prestato» quasi un milione di dollari per comprarsi casa a Manhattan. Ma l'ingrata, appena entrata nel Lower East Side, ha disdetto ogni impegno e ogni debito. Lui è ricorso alla giustizia, ma è molto sceso nella attendibilità dell'opinione pubblica triestina. Aprendo, dopo quasi vent'anni, un discorso di successione alla sua carica. Meno «personale» e ben più drammatica la situazione in Sicilia: la regione del governatore Lombardo pronta ad andare a urne travagliate, ha di fatto «azzerato» l'estate, e forse anche le stagioni seguenti. Non solo non ha pagato i contributi promessi e stanziati dal 2010, ma ha fatto svaporare i

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contributi europei, ben sostanziosi, che sarebbero dovuti arrivare attraverso i Por gestiti appunto dall'ente regionale.

Pura incapacità, magari di funzionari assunti per sola raccomandazione, o sindrome di Sansone con tutti i Filistei?

Sempre dal sud arrivano le onde più consistenti dello tsunami prossimo venturo. Gli orchestrali del Petruzzelli di Bari sono arrivati a manifestare fino a Roma: non pare loro possibile neanche la transizione dalla modesta gestione post- ricostruzione verso un rilancio come quello avviato. E gli enti lirici, in certe città sono tra le maggiori fonti di impiego. Ma davvero più eclatante si è fatta ora la situazione dell'opera di Cagliari. Non solo per la situazione paradossale che vedeva l'ente lirico senza sovrintendente da diversi mesi, ma soprattutto perché il sindaco Zedda ha stravinto le elezioni lo scorso anno proprio in nome della speranza e del cambiamento. Per l'occasione, avendo liquidato a caro prezzo l'ex sovrintendente Di Benedetto, ha richiesto che gli interessati alla carica mandassero al comune, cui spetta la nomina, un curriculum. Se ne son viste delle belle, come l'autocandidatura dell'attuale assessore provinciale alla cultura, che anche a questo incarico era stato paracadutato dalla segreteria nazionale dei giovani del medesimo Pd. Il sindaco Zedda non ha ceduto alle sirene della politica, ma ha nominato una giovane organizzatrice teatrale, Marcella Crivellenti. Contro il parere compatto del cda, anche per la scarsa esperienza di gestione di un teatro d'opera, notoriamente molto complessa. Lei era finora organizzatrice di attori solisti di pregio, come Elio Germano e Isabella Ragonese, ma un'opera presuppone le masse in scena, e i rapporti con tutte le singole categorie. Dai giornali locali traspare una insoddisfazione fortissima, e per altro non si trova ora traccia del suo curriculum. Di cui qualcuno ricorda gli esordi: assistente personale di Giorgio Albertazzi direttore del Teatro di Roma. Se Zedda si è cacciato in un pasticcio, chi se l'è trovato già preparato e non riesce a districarlo, è sicuramente il sindaco di Napoli De Magistris. Ma almeno lui non perde occasione per dichiararsi contrario alla esclusività privilegiata per cui Luca De Fusco assomma nelle proprie mani tutte le responsabilità dello spettacolo napoletano, attraverso la direzione di stabile e festival.

Bisognerà aspettare lo scossone elettorale, di segno imprevedibile, per rimuovere quest'altro macigno?

Samaras shock: «Rischio nazismo»

- Yannis Doukas

ATENE - La Grecia è di nuovo sull'orlo del precipizio. A dirlo questa volta non sono gli allarmisti della sinistra radicale di Syriza, i sindacati che continuano a scendere in piazza e nemmeno i comunisti ortodossi del Kke o gli anarchici incendiari. È il primo ministro Antonis Samaras, uomo politico di centrodestra, moderato, europeista, gradito alla cancelleria tedesca e ben accolto tra i banchieri di Francoforte e nei palazzi dell'Europa che conta. L'allarme è serio e, come al solito nell'infinito tira e molla tra Atene e Bruxelles, va interpretato: «Senza gli aiuti europei abbiamo liquidità fino alla fine di novembre. Poi la cassa è vuota», ha detto il premier greco in un'intervista, non a caso, a un giornale tedesco, l'Handelsblatt. Il messaggio è per l'Europa. Alle porte c'è infatti il vertice dei capi di Stato e di governo continentali che si terrà il 18 e 19 ottobre a Bruxelles e nel quale non sarebbe in agenda alcuna decisione su gli aiuti alla Grecia, mentre martedì prossimo Angela Merkel volerà ad Atene per incontrare proprio il primo ministro greco. Il summit di Bruxelles segue quello di fine giugno in cui il capo della Bce Mario Draghi riuscì a incassare la facoltà di aiutare gli Stati in crisi comprando bond e nel quale i leader europei sterzarono decisamente verso una maggiore integrazione fiscale. Non a caso, infatti, nei giorni seguenti emersero indiscrezioni (ancora una volta sui giornali tedeschi) sul fatto che Angela Merkel avesse intenzione di proporre un nuovo Trattato europeo entro dicembre. Nel frattempo, all'ordine del giorno potrebbe balzare la richiesta di aiuti da parte della Spagna, che forse sarà decisa da Madrid nei prossimi giorni. E ora riesplode ancora una volta, non a sorpresa visto che gli emissari della troika (Bce, Fmi, Ue) hanno scartabellato nei conti di Atene per l'intera estate e imposto l'ennesima manovra finanziaria, il bubbone ellenico. Samaras suggerisce anche delle possibili soluzioni: la Bce potrebbe dare un aiuto accettando di diminuire i suoi interessi sul debito greco di cui è in possesso oppure «potrebbe approvare un rinvio delle scadenze». «Potrei anche immaginare - aggiunge Samaras - una ricapitalizzazione delle banche greche come quella presa in

considerazione per la Spagna». Il paese, ha ribadito il primo ministro, «ha bisogno di più tempo per portare avanti il risanamento dei conti». La democrazia greca, ha sottolineato Samaras, «si trova davanti alla sfida più difficile della sua storia». La coesione sociale è in pericolo a causa «del continuo aumento della disoccupazione, così come è successo in Germania verso la fine della repubblica di Weimar». Per Samaras se il suo esecutivo «dovesse fallire, ci sarà il caos». Una mezza verità, quest'ultima, vista l'ascesa dell'estrema destra xenofoba di Alba Dorata, probabilmente la più pericolosa d'Europa insieme allo Jobbik ungherese, che però non tiene conto del sempre più forte radicamento della sinistra di Syriza (che proprio in questi giorni sta tenendo la sua festa ad Atene) e delle lotte sociali di questi ultimi quattro anni che non hanno assunto per niente connotati fascistoidi. Syriza, stando a un sondaggio reso noto nei giorni scorsi e riportato dall'agenzia economica statunitense Bloomberg, avrebbe addirittura acquistato consensi dalle elezioni del giugno scorso, sopravanzando Nea Democratia, il partito del primo ministro Samaras. Secondo la rilevazione il partito guidato da Alexis Tsipras sarebbe al 27,7%, contro il 26,9% del 17 giugno, mentre la maggiore formazione di centrodestra scenderebbe dal 29,7% al 26,1%. In Grecia c'è grande fermento, e questo Samaras non lo dice, contro il nuovo pacchetto di misure di austerità imposte dalla troika: in totale 37 miliardi da trovare tra tagli e nuove tasse. Ieri c'è stata l'ennesima manifestazione sindacale davanti al ministero del Lavoro, a Creta gli agricoltori hanno marciato con i trattori contro il nuovo regime fiscale previsto nella manovra, mentre lunedì pomeriggio

l'appuntamento è davanti al ministero delle Finanze. Le due maggiori centrali sindacali elleniche, la Gsee dei lavoratori privati e l'Adedy degli statali, stanno pensando di proclamare anche un altro sciopero generale nei giorni del summit Ue. Intanto si è registrato il primo suicidio di un politico. Si tratta di Leonidas Tzanis, 57 anni, ex sottosegretario agli Interni del partito socialista greco Pasok nel governo di Costas Simitis, che ha preceduto quello attuale di Samaras.

Tzanis, che era finito in un'inchiesta della Finanza sugli arricchimenti illeciti di chi ricopriva cariche pubbliche insieme ad altri 35 politici, si è impiccato nel garage di casa della sua abitazione a Volos, nella Grecia centrale.

I nuovi indignados tornano in piazza. «Ma non faremo mai un partito»

- G.Grosso

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MADRID - «Il sistema politico è marcio. Bisogna azzerare la partitocrazia e avviare un nuovo processo costituente per uno stato più giusto». Sono parole di José María Ruiz Losa, detto Chema, uno degli organizzatori di «Rodea el congreso» il movimento che - per tre volte, durante la scorsa settimana - ha portato la protesta dei nuovi indignados di Madrid alle porte del parlamento, con il simbolico proposito di accerchiarlo. Una forma di protesta che è quasi costata il carcere a Chema e ad altri sette organizzatori delle manifestazioni, accusati di crimine contro le alte istituzioni dello Stato. L'accusa è poi decaduta in seguito alle dichiarazioni che gli otto imputati hanno rilasciato l'altro ieri davanti al giudice dell'audiencia nacional Santiago Pedraz, che ha ritenuto che i fatti contestati «non costituissero reato». Tutti assolti, dunque, pronti a preparare la «grossa manifestazione» che «Rodea el congreso» convocherà verso fine mese in concomitanza con l'approvazione del bilancio dello Stato, annunciato da nuovi pesanti tagli al welfare. Tre

manifestazioni in una settimana: si può dire che «Rodea el congreso» è stato un successo. Credo di sì. Forse perché le nostre rivendicazioni coincidono con quelle di tante persone nel Paese. Noi chiediamo uno stato sociale democratico e di diritto. Lo Stato in cui viviamo non può dirsi sociale, perché altrimenti non farebbe di scuola e sanità un business. Non è nemmeno del tutto democratico perché l'attuale legge elettorale non consente un'adeguata rappresentazione delle minoranze politiche in parlamento. E non lo si può definire neppure di diritto, perché ora

abbiamo un diritto senza giustizia. Come può essere giusto uno stato che lascia in libertà i banchieri che rubano milioni di euro e punisce chi ruba al supermercato una scatola di sardine? O chi, come te, viene accusato di crimini contro lo stato per aver organizzato una manifestazione... Esattamente. Il mio arresto e quello degli altri sette compagni la dice molto lunga sui metodi repressivi e antidemocratici del governo. Direi, senza mezzi termini, che si è trattato di un vero e proprio attentato alla libertà di espressione e di manifestazione; una vera persecuzione politica. L'accusa, poi, è un'assurdità giuridica che il giudice ha rilevato facendo decadere l'imputazione. In che cosa il vostro movimento si differenzia dai primi indignados? Non c'è una vera soluzione di continuità; semmai un'evoluzione logica. Infatti, molti organizzatori di «Rodea el congreso» - tra cui io stesso - facevano parte del primo movimento degli indignados.

Abbiamo raccolto quell'esperienza e l'abbiamo resa più concreta. Nel 2011, abbiamo pagato molti errori strutturali e organizzativi: non abbiamo saputo unificare e definire le tante proposte politiche che pure erano emerse da quel movimento. Perché «Rodea el congreso» non diventa un partito? Innanzitutto perché il sistema elettorale spagnolo penalizza qualsiasi opzione politica minoritaria e non ci consentirebbe di avere una rappresentanza in parlamento. E poi perché gli altri partiti farebbero di tutto per delegittimarci. Inoltre, per scelta, vogliamo mantenerci al margine delle logiche del potere istituzionale. Ce lo suggerisce anche l'esperienza dei primi indignados, che, dopo lo spontaneismo iniziale, quando ha voluto costituirsi come un'entità definita, ha sofferto dissidi e spaccature. Non c'è bisogno di nuove sigle: c'è bisogno che i partiti e i sindacati esistenti inizino ad agire diversamente in un nuovo contesto socio-

economico. Paura di fare la fine del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo? Infatti: gli esempi sono molti. Se ci si cala nello scenario istituzionale si viene assorbiti dalle sue logiche. Un partito politico, in questo scenario, sarebbe una prostituzione del movimento. Quindi i partiti li salviamo o li buttiamo? Non si può pretendere che i partiti spariscano dall'oggi al domani. Però l'idea sarebbe che - almeno le formazioni anti neoliberiste, più vicine alla nostra linea

ideologica - smettano di rincorrere interessi di palazzo e diventino dei movimenti politici e sociali partecipati dal basso.

Non si tratta, insomma, di sostituire i giocatori in campo. Si tratta proprio di iniziare a giocare a un altro sport. Se questo dovesse succedere si potrà creare una piattaforma democratica trasversale che superi la logica parziale del partito politico e che si faccia per davvero portavoce e mediatore delle istanze della popolazione. Questo è il nostro obiettivo. Alcuni partiti della sinistra radicale dicono di appoggiare il vostro movimento. Si tratta di una concreta sponda politica o di un appoggio solo formale? Abbiamo innegabilmente ricevuto un appoggio formale.

Però non si è andato oltre. Sarebbe ingiusto non riconoscere che, in alcuni frangenti determinati, le simpatie si sono convertite in un aiuto concreto: in occasione dell'arresto mio e degli altri compagni, Izquierda unida, ad esempio, ha messo a disposizione gratuitamente tutta la sua squadra di avvocati. Tuttavia un vero appoggio politico organico e continuativo non c'è e questo lascia trasparire una certa incoerenza tra la linea ideologica dei partiti di sinistra e la loro effettiva condotta. C'è chi dice che gli indignados, potrebbero avere un forte potenziale di contagio anche fuori dalla Spagna. Avete mai pensato ad un'«internazionale indignata»? Sì, certo. Nel movimento molte persone lavorano per tessere contatti e lavorare insieme ad altri movimenti simili al nostro in tutta Europa. Viviamo in una società globale, che ci pone davanti agli stessi problemi. Quanto più la risposta sarà corale e compatta, tanto più sarà efficace.

Solo Marte ci salverà

- Joseph Halevi

Le dichiarazioni del primo ministro greco Samaras al quotidiano economico tedesco Handelsblatt che per dicembre prevede il precipitare della Grecia nel baratro che inghiottì la repubblica di Weimar, hanno impressionato i siti dei maggiori giornali italiani. Ma delle parole del premier greco non c'è da stupirsi. Solo gli zeloti dell'austerità potevano credere che il varo del pacchetto della troika e l'accettazione, da parte del governo Pasok e poi di quello di Samaras, di terrificanti tagli alle pensioni, agli ospedali, alle scuole, agli stipendi avrebbe potuto salvare la il paese. A luglio le stime riguardo ulteriori decurtazioni erano di 11,5 miliardi di euro, ad agosto si parlava di 13,5 miliardi mentre ora i tagli richiesti per usufruire della tranche del pacchetto della Troika sono di 20 miliardi. Non si tratta della scoperta di nuovi deficit bensì della voragine nel bilancio causata dal crollo dei redditi, e quindi del gettito fiscale a seguito dell'austerità attuata fino a oggi. Spagna, Portogallo, Grecia e Italia mostrano che non si esce dal debito (pubblico) imponendo politiche restrittive. Fra breve la Francia cadrà sotto la mannaia di Hollande e confermerà quanto sopra a meno che non ci sia una grande ripresa altrove: è improbabile però che avvenga negli Usa e che la Cina ripeta l'exploit del 2009.

Quindi dovrà avvenire su Marte che, sebbene disabitato, domanderà tanti di quei prodotti dalla Terra da riattivare anche l'eurozona la cui crisi globale sta lambendo ormai Germania. La situazione è talmente grave che è da auspicare qualsiasi spesa, purché sia una spesa effettiva, anche la costruzione di una strada o di un ponte che non verranno mai utilizzati. Sulla fine della repubblica di Weimar circola una leggenda metropolitana alimentata alacremente dai politici

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tedeschi col consenziente silenzio di quelli del resto dell'Europa. La crisi di Weimar e l'ascesa al potere dei nazisti sarebbe dovuta all'iperinflazione che colpì la Germania dopo la prima guerra mondiale. Ma l'inflazione avvenne nei primi anni venti. Furono la deflazione e la disoccupazione della Grande Depressione del decennio successivo, non l'inflazione, a uccidere la Repubblica di Weimar. Così come oggi l'austerità e la conseguente deflazione stanno travolgendo le popolazioni europee.

Primarie, compromesso sulle regole

– Andrea Fabozzi

Un compromesso. Non troppo distante dalle richieste di Matteo Renzi. A prova del fatto che Pierluigi Bersani ha davvero temuto che lo sfidante potesse abbandonare il campo, facendo precipitare il castello delle elezioni primarie.

L'imprevisto è sempre dietro l'angolo quando si riunisce l'affollato parlamentino del Pd - l'ultima volta esplose una semi rissa sui diritti civili che costrinse Bersani ad alzare la voce. Ma l'esito di un lungo confronto tra Salvatore Vassallo, autore dello statuto in epoca veltroniana e oggi rappresentante delle posizioni di Renzi, e i bersaniani Nico Stumpo e Maurizio Migliavacca, autorizza a credere che l'assemblea nazionale che si riunisce stamattina all'Ergife scanserà l'irreparabile rottura. Il compromesso è servito. Ci sarà la registrazione degli elettori, quella che Renzi non avrebbe voluto perché la considera il principale fattore di allontanamento delle masse dai gazebo democratici. Ma la

registrazione potrà avvenire contestualmente all'espressione del voto: dunque non bisognerà più presentarsi prima in una sede del partito (addirittura, secondo la proposta originaria, una settimana prima). Una registrazione contestuale assomiglia molto a una non registrazione. Anche perché la seconda novità che il sindaco di Firenze aborriva, la pubblicazione on line dei votanti, è stata ridimensiona assai: l'elenco non sarà più pubblico ma «consultabile» nelle sedi del Pd. È così tacitata l'obiezione dell'ex sindaco di Piacenza Reggi, organizzatore della campagna di Renzi: «Il mio dentista vorrebbe votare ma non vuole che lo si sappia per non perdere i clienti che votano a destra». A meno che qualcuno per fare un dispetto al dentista di Renzi non decida di copiare la lista online, che è sempre possibile. Terza mediazione: il numero di firme necessarie a sostegno della candidatura è stato abbassato. Ma quello per Renzi non è mai stato un problema, casomai lo è per altri candidati annunciati come Laura Puppato o Sandro Gozi. Salta anche l'esclusione dal secondo turno di quelli che non hanno votato al primo. Una clausola che non esiste in nessun'altra votazione a due turni, di nessun genere, alla quale però Bersani teneva per timore che al momento della sfida a due con Renzi possano pesare gli elettori del centrodestra «infiltrati». Ma Vassallo ha potuto far valere i suoi buoni argomenti, anticipati ieri su l'Unità: «Che facciamo se arrivano 500mila persone in più al secondo turno e chiedono di votare? Le mandiamo a casa perché non avevano preso il biglietto la settimana prima?». Un punto dunque per Renzi, che pure continua a protestare per la modifica «in corsa» delle regole. Glissando sul fatto che la più importante modifica è proprio quella che consentirà a lui di candidarsi, visto che lo statuto veltroniano continua a indicare il

segretario nazionale come candidato automatico alla premiership. Il compromesso è merito delle pressioni che Veltroni giovedì è andato a portare fin dentro la stanza di Bersani. Da quell'incontro a due il passo indietro del segretario e il via libera alla modifica delle modifiche. I bersaniani comunque non si fidano. E infatti hanno organizzato un'assemblea blindata, con ingresso in sala consentito solo ai delegati, liste pulite dai non aventi più diritto (Lusi, Penati) e rigido controllo dei voti. Soprattutto hanno deciso che metteranno in votazione la modifica dello statuto che dà il benvenuto a Renzi nelle primarie solo dopo che sarà stata accettata la versione riveduta e corretta delle regole generali. O meglio:

si tratterà di votare la delega al segretario per accordarsi con il resto della coalizione, perché le forme impongono che siano almeno consultati i candidati extra Pd, Niche Vendola e Bruno Tabacci. Vendola giusto oggi partirà per la sua campagna per le primarie, da Ercolano. «Ho deciso di candidarmi per dare una brutta notizia a tutti coloro che vedono nell'azione dei tecnici l'unica possibilità di governo nel nostro paese - ha detto ieri -, il tavolo si può rovesciare, le previsioni e i sondaggi non contano nulla». Sondaggi che al momento danno il presidente della Puglia in terza posizione e soprattutto prevedono che le chance di Renzi salgono al crescere del numero dei votanti. La soglia del panico per Bersani sarebbe collocata, secondo una rilevazione Swg per Rai3, attorno ai 4milioni di elettori. Se ai gazebo saranno di più, il sindaco di Firenze potrebbe chiudere il primo turno in testa. Sette anni fa, alle precedenti primarie di coalizione a turno unico vinte da Prodi, andarono a votare in 4 milioni e 300mila.

Chávez sì, no, forse. Il Venezuela decide

- Geraldina Colotti

«Vigileremo a che tutto si svolga in pace e con allegria». Con queste parole, Tibisay Lucena, presidente del Consejo Nacional Electoral (Cne), ha ufficialmente chiuso la campagna politica per le elezioni presidenziali in Venezuela, a mezzanotte di giovedì. Domani, 18 milioni e 900.000 aventi diritto potranno decidere se riconfermare per la quarta volta l'attuale capo di stato, Hugo Chávez Frias, o puntare sul candidato di opposizione, Henrique Capriles Radonski, che corre per la coalizione di centrodestra Mesa de la unidad democratica (Mud). In ogni caso, affideranno le loro preferenze a un sistema elettorale automatizzato, unanimemente riconosciuto a prova di brogli. Nella IV Repubblica - prima che Chávez venisse eletto, nel 1998, con il 56% delle preferenze - per votare bastava mostrare la tessera.

Adesso, prima di entrare nell'urna, ogni elettore deve lasciare la propria impronta digitale, che viene confrontata con quella custodita nel database generale, utilizzato per il rilascio della carta d'identità. Poi, per evitare il doppio voto, l'impronta viene registrata nell'archivio telematico il cui software è criptato: prima di installarlo, sono stati convocati gli schieramenti politici, ognuno dei quali ha ricevuto una password. La conta dei voti si fa a riscontro con il calcolo della macchina. Un sistema elettorale maturo. Il sistema elettorale oggi «è sufficientemente maturo da non richiedere osservatori internazionali», ha affermato Tibisay Lucena, e perciò il Cne non ha rivolto inviti in questa forma. In compenso - ha aggiunto - sarà presente l'Unione delle nazioni sudamericane (Unasur) per una «missione di

accompagnamento» che implica «rispetto e considerazione tra pari». In questo quadro, il Partido socialista unido de Venezuela (Psuv) ha accreditato circa 51.000 invitati da ogni parte del mondo. L'opposizione, intorno ai 52.800. Diversi rappresentanti della Mud si sono espressi contro la modalità di voto elettronico perché - dicono - intimorisce gli elettori.

Però hanno scelto di utilizzare il sistema anche per le loro primarie interne. Un'ambivalenza che ha caratterizzato

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anche la campagna elettorale dell'opposizione. In quasi 14 anni, il governo "bolivariano" ha avuto il sostegno del voto popolare: 13 elezioni vinte e solo un referendum perso, per un pugno di voti. Per spazzarlo via, la destra ha giocato un po' su tutti i tavoli: quello del golpe a guida Usa (2002) e della micidiale serrata petrolifera (2002-2003); quella del referendum per revocare Chávez (2004); quella del boicottaggio elettorale e del discredito, basato sul controllo che le deriva dai principali mezzi di informazione. Sui siti della Mud, il modello delle «rivoluzioni arancioni» costruite nelle stanze dei poteri forti e i consigli di Gene Sharp che spiega nei suoi libri come innescarle, spopolano. Per quest'ultima tornata di elezioni (alle presidenziali seguiranno le regionali, a dicembre, e le comunali, ad aprile 2013), il blocco di centrodestra ha però deciso di rifarsi il look: avvalendosi - ha scritto la stampa di San Paolo - dei consigli del

pubblicitario brasiliano Renato Pereira, capo strategia dell'impresa Prole. Il volto presentabile del centro. Capriles - rampollo delle grandi famiglie, attivissimo nel golpe del 2002, uomo di destra proveniente dalle fila del partito Primero Justicia - si è presentato allora come il volto accettabile del moderatismo centrista: appetibile per i mercati

internazionali e per quanti vedono come il fumo negli occhi qualunque tentativo di scalfire i grandi monopoli. Si è ammantato, anche, di un po' di vernice progressista. Così, il programma della Mud («Petroleo para el progresso») che mira a riconsegnare il paese nelle mani dei grandi potentati economici, sostiene anche di voler mantenere (ma in termini assistenziali) alcune delle misure sociali portate avanti dal governo Chávez: non certo la nuova legge sul lavoro, che garantisce ampi diritti ai lavoratori e contro la quale si sono scagliate le imprese. Non la riforma tributaria, che prevede maggiori controlli fiscali e contro la quale i grandi imprenditori hanno già fatto ricorso alla Corte

costituzionale. E tantomeno il piano di edilizia popolare della Mision vivienda. Si parla di un «Plan Hambre Cero», con un richiamo al programma «Fame zero» adottato in Brasile durante la presidenza di Lula da Silva. Capriles è d'altronde arrivato a dichiarare a più riprese la sua simpatia per l'ex presidente del Brasile, cercando di accreditare un presunto sostegno brasiliano alla sua linea politica. Solo che, in diretta dal Foro de São Paulo, dov'erano presenti tutte le sinistre latinoamericane, Lula ha espresso invece il sostegno totale del suo partito e il proprio personale alla candidatura di Hugo Chávez: «La sua vittoria sarà la nostra vittoria», ha dichiarato fra gli applausi Lula. In basso a sinistra. Una politica della confusione, quella della destra, ben sintetizzata dallo slogan elettorale scelto da Radonski, «In basso a sinistra»: una indicazione per la scheda elettorale dov'è situato il suo simbolo, ma anche un richiamo (quantomai incongruo, dato il pedigree del personaggio e dei suoi alleati) alla campagna zapatista contro il verticismo dei governi.

Trasformismi per cacciare voti anche fra i ceti popolari, fidando sull'inevitabile usura del governo Chávez e sulla platea degli indecisi, valutata intorno al 30% dell'elettorato. Un dato enfantizzato oltremisura per delegittimare l'eventuale vittoria chavista, sostiene il campo della sinistra. In estate, persino un sondaggio di Datanalisis (appartenente a Vicente Leon, che sostiene l'opposizione) ha dichiarato che il 62% dei venezuelani considera positivo il bilancio del governo Chávez e lo rivoterebbe. Ma poi, altre inchieste di medesima provenienza hanno registrato una progressiva erosione del vantaggio tra l'attuale presidente e il suo sfidante. Anche il governo bolivariano ha cercato di pescare nel campo avverso, mettendo fortemente l'accento sulle misure erogate a favore della classe media. Chávez ha peraltro condotto una campagna elettorale all'insegna del «Plan 1×10?», ovvero sull'impegno a moltiplicare per dieci ogni attivista bolivariano. E senza trionfalismi: «Vinceremo, ma non abbiamo ancora vinto. Non bisogna abbassare la guardia», ha affermato nell'ultima settimana di comizi. Entusiasmo da stadio. Per il discorso conclusivo di giovedì, Capriles ha scelto l'Avenida Venezuela di Barquisimeto, nello stato Lara, una delle più grandi strade del paese. Il mare di camicie rosse che sostiene «il processo bolivariano» ha invece invaso, simbolicamente, sette vie di Caracas, per affluire infine in Piazza Bolivar ad ascoltare il discorso di Chávez: «Il 7, sarà 7 a zero», dicevano i cartelli in piazza, sintetizzando l'entusiasmo da stadio che investe il paese a ogni tornata elettorale. Di fronte alla folla che lo acclamava sotto una pioggia battente, il "comandante" ha invitato questa «moltitudine bolivariana» a manifestarsi nelle urne: «In questo modo - ha concluso - gli daremo una bella batosta».

Fermata Yoani Sánchez

– Roberto Livi

L’AVANA - Yoani Sánchez, la nota bloguera cubana, è stata fermata giovedì sera a Bayamo, città nell'estremo oriente dell'isola, assieme al marito Reinaldo Escobar, giornalista, e, sembra, ad altri aderenti alla sparuta opposizione che proclama apertamente di voler organizzare a Cuba una rivolta popolare che metta fine al governo socialista guidato da Raúl Castro. La notizia è stata diffusa ieri dal sito (vicino al governo) Cuba encuentro e confermata da fonti della dissidenza. La Sánchez e gli altri oppositori (sembra sei, compreso Guillermo Fariñas) avrebbero avuto in programma di seguire il processo iniziato ieri allo spagnolo Ángel Carromero, accusato di omicidio colposo per la morte, avvenuta in un incidente stradale, di due dei più noti dissidenti storici, il cattolico Osvaldo Payá e Harold Cepero. Carromero, leader giovanile del Partito popolare di Mariano Rajoy, il 22 luglio scorso era alla guida del veicolo che si schiantò contro un albero mentre erano diretti, appunto, a Bayamo per riorganizzare e finanziare una «cellula» locale di dissidenza. Ben pochi all'Avana, avevano dubbi che la Sánchez, e in generale l'opposizione anti-sistema avessero l'intenzione di usare come tribuna il processo a un cittadino straniero impegnato - illegalmente: era entrato nell'isola con un visto turistico e nascondendo il denaro - nel tentativo di organizzare gruppi di giovani per «dar forza alla lotta per la democrazia e per il diritti umani». L'attività del dirigente giovanile del Pp però - come ha scritto a il

corrispondente della Bbc, Ravsberg- «non faceva parte di una campagna mondiale», nonostante «nel pianeta non manchino regimi dittatoriali ... solo che alcuni sono alleati politici (di Usa e Europa), altri controllano il petrolio.

Nonostante siano fortemente oppresse, nessuno finanzia le donne saudite o le aiuta a organizzarsi in difesa dei propri diritti». La scelta di operare unicamente a Cuba, sostiene Ravsberg, ha «una chiara matrice ideologica». Ma la tragica morte di Payá aveva dato rilievo a un dibattito che prende sempre più vigore a Cuba sulla convenienza (politica) di

«finanziare e dare aiuto politico dall'esterno all'opposizione» o lasciare che « si sviluppi con i propri mezzi» una dissidenza che abbia punti di raccordo con chi vuol riformare dall'interno e su un terreno politico, economico e sociale che interessi veramente la popolazione cubana. Un terreno, quello della riforma dell'attuale socialismo, che vede impegnati, in senso critico, anche la chiesa e settori (i cosidetti riformisti) del Pc cubano e intellettuali comunisti. Gli

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stessi Stati uniti, che da anni «assistono» e finanziano massicciamente l'opposizione hanno riconosciuto che i risultati sono assolutamente deficitari. I gruppi dell'opposizione rimangono marginali, con un programma che è lontano le mille miglia dai problemi reali dei cubani. Mentre da più di un anno è in corso un dibattito, che ha come principali protagonisti dirigenti cattolici, su un processo di trasformazione «graduale e ordinata» dell'attuale socialismo cubano. In ballo, dunque, non è il «diritto di informare» della Sánchez e degli altri blogger della dissidenza, che, anche visti i risultati raggiunti fin'ora all'interno di Cuba, non dovrebbe preoccupare il governo. E tantomeno indurlo a gesti repressivi. Come ha scritto Lenier González, vicedirettore della rivista cattolica Espacio Laical, nello scenario cubano «esistono tre tipi di attori. Quelli che vogliono abbattere il socialismo e l'attuale governo, gli inmovilistas , che vogliono mantenere lo status quo a Cuba, e i riformatori che aspirano a una trasformazione ordinata e graduale dell'attuale sistema cubano». Mentre i primi, sono del tutto «marginali», il settore moderato-riformista - secondo González - «è assai ampio nel Paese» visto che «aspira a una graduale democratizzazione senza smantellare il capitale simbolico della rivoluzione cubana, dato che questo capitale tiene radici profonde nel nazionalismo insulare di forte presa popolare». Questo settore, col quale collabora fortemente la chiesa cubana, si augura che lo stesso presidente Raúl Castro, guidi questa fase dei

cambiamenti che «trasformi sostanzialmente» l'attuale stato di cose nell'isola. Questo settore è contrario a che

«determinati settori della destra cubano-americana e il governo degli Stati uniti ... assumano un qualunque ruolo che possa decidere della vita e del destino del paese». In sostanza sulla base di una piattaforma che ponga alla base l'indipendenza di Cuba, la democratizzazione e la difesa della giustizia sociale e la prosperità del paese, sarebbe possibile formare una «convergenza politica» tra vasti settori del governo statale, del Partito comunista, della gerarchia cattolica, della dissidenza moderata e una parte sempre più ampia della popolazione .

Fatto Quotidiano – 6.10.12

Gasparri-2 la vendetta

– Marco Travaglio

Siccome Calderoli, che aveva ben meritato col Porcellum, sta scrivendo la nuova legge elettorale, a chi è stata affidata la riforma della diffamazione? A un altro benemerito della libertà di stampa: naturalmente Gasparri. La nuova norma, firmata anche dall’astuto Vannino Chiti del Pd, dovrebbe passare giovedì in sede deliberante alla commissione Giustizia del Senato, senza passare dall’Aula. Tanta fretta viene giustificata con l’esigenza di salvare dal carcere il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, condannato a 14 mesi senza la condizionale per omesso controllo su un articolo pieno di balle. Ed è una balla anche la giustificazione, perché Sallusti in carcere non ci andrà, salvo che ne faccia espressa richiesta (rifiutando i servizi sociali e i domiciliari). Come la pensiamo sul tema l’abbiamo scritto: la legge attuale è incivile perché la pena detentiva dev’essere l’extrema ratio, riservata ai giornalisti che mentono sapendo di mentire e rifiutano di rettificare le inesattezze o le falsità che hanno scritto. Ma questo punto fondamentale la porcata Gasparri-Chiti neppure lo sfiora. Si limita ad abrogare le pene detentive tout court, anche per i diffamatori professionali e incalliti. E a sostituirle con pene pecuniarie che non potranno essere inferiori ai 30 mila euro. Oggi, se un cronista pubblica una lieve inesattezza causando un piccolo danno, può essere condannato anche a una multa e una riparazione pecuniaria di poche decine di euro: in futuro il giudice non potrà affibbiargliene meno di 30 mila (il massimo non è fissato: teoricamente, anche miliardi). E, come se il primo bavaglio non bastasse, eccone un altro: i direttori responsabili di giornali e testate radio o tv risponderanno di omesso controllo anche per tutto quanto esce sulle edizioni online. Due spade di Damocle che convinceranno molti giornali e siti a chiudere e molti giornalisti a smettere di scrivere o a dedicarsi a rubriche di giardinaggio o gastronomia. E questa schifezza liberticida viene spacciata per un capolavoro di civiltà, solo perché nessun giornalista rischierà più il carcere (peraltro all’italiana, cioè finto). Il risultato è lampante: gli editori miliardari continueranno a scatenare campagne di menzogne contro avversari politici o affaristici tramite i loro killer a mezzo stampa, che saranno disposti a tutto: tanto, se condannati, non rischieranno più una pena detentiva (che, se cumulata più volte, potrebbe anche superare i fatidici tre anni e portarli davvero in cella), ma solo una multa. Che, per quanto salata, non pagheranno di tasca propria, ma accolleranno ai loro mandanti, come incerto del mestiere, anzi come investimento per i loro sporchi interessi. Idem per i giornali che non vendono una copia, ma sono finanziati dai milioni del finanziamento pubblico e ne accantoneranno una parte nel fondo-rischi per campagne di discredito. Invece i giornali piccoli come il nostro, che campano solo grazie ai propri lettori e abbonati, vivranno sotto il perenne ricatto di querele che, ogni volta che finiranno male, sottrarranno al giornalista o alla società da 30 mila euro in su, col rischio di chiudere bottega e senza potersi difendere rettificando eventuali errori commessi in buona fede. Un trionfo per i bugiardi e una disfatta per i giornalisti onesti. Ps. Due anni fa ho fatto causa a Gasparri per aver mentito sapendo di mentire, dicendo in tv che andavo in vacanza a spese di mafiosi quando già avevo documentato

pubblicamente che le ferie in questione me le ero pagate fino all’ultimo euro. Lui, anziché scusarsi e rettificare, si fa scudo dell’insindacabilità parlamentare. Intanto, fra un’udienza e l’altra, riforma la diffamazione. Per competenza specifica.

Cina, “laboratori iPhone5 in sciopero”. Ma l’azienda si affretta a smentire

Simone Pieranni

Ancora la Foxconn, ancora l’iPhone. Secondo quanto riportato dalla ong che si occupa di lavoro in Cina, la China Labour Watch, i lavoratori dell’impianto dell’azienda taiwanese di Zhengzhou, Cina centrale, sarebbero entrati in sciopero per protestare contro l’obbligo di lavorare durante le feste, per assicurare la produzione dell’Iphone 5 da poco lanciato, con successo, sui mercati mondiali. La Foxconn con una nota ha smentito lo sciopero. Se invece lo sciopero fosse confermato, come in realtà si evince da alcuni messaggi e foto postate su Weibo, il twitter cinese, si tratterebbe dell’ennesima protesta dei lavoratori degli stabilimenti della Foxconn, azienda taiwanese che produce per Apple e non solo, già assurta agli onori della cronaca nel 2010 per 13 suicidi di propri dipendenti e poi divenuta ancora più nota per i tanti scioperi nelle sue fabbriche dislocate sul territorio cinese. Nel caso di Zhengzhou, secondo quanto riportato su

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Weibo, il twitter locale, le cause dello sciopero sarebbero le dure condizioni di lavoro, che non avrebbero rispettato le festività della Repubblica Popolare (una settimana di vacanza, definita Golden Week in Cina) per garantire i numeri di produzione necessari. L’azienda taiwanese nel corso degli anni è stata più volte al centro di rivolte, per le condizioni di lavoro, per via di un’organizzazione più volte definita militare e per straordinari non pagati. Un paio di settimane fa, in un’altra fabbrica c’era stata una sorta di rivolta, dopo una presunta rissa tra lavoratori, che aveva finito per provocare scontri tra dipendenti della fabbrica e addetti alla sicurezza. Dopo l’evento una rivista cinese di Canton (21st Century Economic Report), aveva confermato una voce annunciata già tempo fa, ovvero il passaggio ad una forma di automazione, attraverso robot, che entro tre anni dovrebbe coprire il 30% della forza lavoro. Un anno fa la Foxconn aveva annunciato l’impiego di un milione di robot nelle proprie catene di montaggio. Il caso dello sciopero nella fabbrica Foxconn di Zhengzhou conferma due dati emersi nell’ultimo periodo. In primo luogo la vivacità della nuova generazione di lavoratori cinesi, giovani e nati nel boom economico che non accettano condizioni di vita al ribasso nelle catene di montaggio, come invece avevano fatto i propri genitori. In secondo luogo il trend di “protesta” della Cina, specie nelle zone economicamente più colpite dal rallentamento dovuto alla crisi occidentale che ha finito per peggiorare le condizioni di lavoro nelle zone conosciute come “fabbrica del mondo”. Come ha sottolineato Tso Peng Fei, ricercatore presso la Taiwan Topology Research Institute, la maggioranza dei lavoratori della Foxconn sono giovani cresciuti durante il periodo delle Riforme. Si tratta di una novità emersa fin dal 2010 che in Cina ha trovato anche un termine ad hoc: Xinshengdai nongmingong, ovvero la nuova generazione di lavoratori migranti, i nati dopo il 1980. “Si stima che circa due terzi dei lavoratori cinesi appartengano a questa nuova generazione – spiegano quelli del CLB – nel marzo 2010 secondo l’Ufficio nazionale erano il 61,6% del totale”. Un’indagine effettuata dall’Acftu (All-China Federation of Trade Unions) su mille imprese e oltre 4mila lavoratori in 25 città in tutta la Cina, ha rivelato alcune delle principali differenze tra la nuova e la vecchia generazione: “i livelli di istruzione sono più alti”. Il 67,2% dei lavoratori di nuova generazione ha il diploma (si tratta del 18,2% in più rispetto alla precedente generazione); i nuovi migranti cambiato i datori di lavoro in media una volta ogni quattro anni (0,26 volte l’anno), mentre gli immigrati più anziani cambiavano lavoro una volta ogni dieci anni in media. Non solo Foxconn del resto, però nel 2012 sono stati tanti gli scioperi in Cina: oltre 150 – di quelli che in Cina si definiscono “incidenti di massa” – si sono registrati nel settore del

“manifatturiero”: ovvero scioperi o scontri tra operai e aziende, quasi sempre per rivendicazioni salariali. Non si muovono però solo gli operai: ben 43 sono stati gli scioperi nel settore dei trasporti, mentre ha cominciato ad animarsi quello che potremmo definire il moderno cognitariato cinese. Nel 2012 infatti ci sono state numerose proteste espresse anche nel settore dell’educazione, a segnalare cambiamenti storici del gigante asiatico.

La Stampa – 6.10.12

Sbaraccare il partito e ripartire da zero. La tentazione di Berlusconi scuote il Pdl

- Ugo Magri

ROMA - Berlusconi vuole sbaraccare il partito. No, vuole lasciare la politica e nemmeno si candiderà in Parlamento...

In queste ore nel Pdl le voci si rincorrono e tra i dirigenti l’allarme è massimo. Quali siano le reali intenzioni del

Cavaliere, nessuno sa dirlo perché nelle riunioni (sempre più rare) lui ascolta, tace, sbadiglia, al massimo annuisce con scarsissima partecipazione. Da quando è esploso lo scandalo del Lazio, Silvio è diventato ancor più una sfinge. E la fibrillazione dei suoi colonnelli aumenta. Lo avevano convinto (così loro credevano) che al Pdl basterebbe un

rinnovamento serio ma senza rivoluzioni, un cambio di nome e una grande assemblea ai primi di dicembre per darne l’annuncio. Alfano ha pure fatto filtrare, tutto soddisfatto, la svolta su qualche giornale. Invece poi Berlusconi,

incontrando gente, ha detto che non condivide il percorso, di questo partito così com’è lui non sa che farsene, vuole l’azzeramento totale e in fretta, un paio di settimane al massimo per renderlo operativo. Ha vagheggiato una grande alleanza tra tutti i moderati, da Casini a Montezemolo, nell’ambito di un nuovo contenitore politico. E, a quanto pare, ha prospettato in questi suoi colloqui nientemeno che il proprio ritiro dalla politica, se il passo indietro fosse necessario per ottenerne uno in avanti dai possibili alleati. Al momento non si direbbe che Casini, tantomeno Montezemolo, siano minimamente interessati all’offerta del Cavaliere. Però, casomai lo fossero, non c’è ombra di dubbio che l’attuale Pdl con tutte le sue correnti e i personaggi più o meno usurati sarebbe d’impaccio e non di aiuto al parto della nuova alleanza. Per potersi fondere in un nuovo progetto, Berlusconi deve prima disfarsi della sua creatura politica. E ricostituirla a propria immagine e somiglianza. Inutile dire che i vari La Russa, Gasparri, Cicchitto, e lo stesso Alfano, non hanno la minima intenzione di farsi rottamare. Alcuni di loro in privato si dichiarano pronti ad alzare le barricate e addirittura, se occorre, a mandare avanti il Pdl senza il suo Fondatore. Nella speranza che alla fine lui receda e torni a più miti consigli. Ma Silvio tornerà sui suoi passi? Dalle parti di Arcore qualcuno sostiene che nemmeno lui ha deciso, sta vagliando tutte le soluzioni. Al momento l’unica certezza è che il Pdl tra due mesi al massimo chiuderà i battenti. Il resto è nebbia.

Una giornata con i 177 rom sfrattati da Alemanno

- Flavia Amabile

ROMA - Sono stati deportati in 177 all’improvviso la mattina del 28 settembre. L’ordinanza era già scritta, i loro prefabbricati – tutti regolari – dove vivevano da sedici anni, da un istante all’altro declassati da dimore di una vita a scempi da buttare giù con le ruspe. E’ l’epilogo di Tor de’ Cenci, campo nomadi a Roma, il capolinea di una lunga battaglia legale a colpi di ordinanze e ricorsi al Tar. L’ultima sentenza, del 26 settembre, è stata decisiva: via libera allo sgombero. Poco più di 24 ore dopo sono arrivate le ruspe, spianando l’area senza pietà in meno di una mattina, davanti alle famiglie, bambini compresi che non capivano che cosa stesse accadendo. Mezz’ora per radunare le proprie cose e farsi trasportare altrove. Lo racconta una quindicenne, è sua la voce che si sente nei primi 50 secondi del video. Il resto delle immagini mostra dove sono stati condotti i rom, un capannone sulla Cristoforo Colombo fino a

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qualche anno fa utilizzato come Fiera di Roma, ora una sorta di deposito per le emergenze umane di Roma. Perché se lo sgombero è arrivato per motivi igienico sanitari, dopo un provvedimento emesso dall’Asl, la destinazione dei

deportati è uno stanzone con alcune piccole stanze dalle moquette scrostate dove si ammassano ogni notte in 177 persone: difficilmente soddisfa qualche parametro sanitario. Devono dividersi 12 docce e 15 bagni chimici, è già scoppiata un’epidemia di pidocchi. Dei 47 bambini che fino a dieci giorni fa erano iscritti a scuola, questa settimana sono andati solo in 12-13, gli unici ad avere vestiti sufficientemente puliti per presentarsi in una classe e un modo per raggiungere gli istituti a questo punto lontanissimi. I rom sono in sciopero della fame. Non si fidano delle promesse ricevute. Angelo Scozzafava, direttore del Dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della Salute del Campidoglio, ha firmato davanti ai vigili urbani un’assicurazione: entro una settimana dall’Ex-Fiera tutti saranno trasferiti al campo di Castel Romano. Venerdì era ieri, loro sono ancora lì. La seconda promessa se l’è fatta sfuggire Alemanno. Entro lunedì avverrà il trasferimento, ha detto il sindaco. All’Ex-Fiera sono scettici e Andrea Catarci, presidente del XI Municipio, ora chiede un sopralluogo del ministro Riccardi. Per fargli prendere atto della ‘vergogna’ di aver portato 177 persone a vivere in un’area che ‘per metà è una discarica a cielo aperto’. E perché tutti sanno ‘che i lavori a Castel Romano non saranno terminati questa settimana ma tra un mese’ e che in questa zona già così malmessa ‘ci sono già un’altra cinquantina di rom da otto mesi di un’etnia diversa mandati qui in attesa di essere trasferiti altrove’. La verità è che a Roma la campagna elettorale è iniziata come si vede dai manifesti affissi per le strade.

Nella città sul confine si ostenta tranquillità, ma la tensione è alta

- Francesca Paci AKCAKALE - Né Siria né Turchia hanno interesse alla guerra, spiegava ieri sera l’esperto Fawas Gerges osservando che sarebbe una lose-lose situation, tutto da perdere per tutti. Lo si capisce ancora meglio qui al confine, dove i militari turchi non sembrano particolarmente nervosi e quelli siriani, distanti una ventina di chilometri al di là del filo spinato, tacciono. Gli abitanti di Akcakale ostentano normalità e gli uomini s’incontrano come sempre al Bond Barber Salon, chi per farsi la barba e chi solo per parlare. Ma la tensione resta alta. Nelle prime ore del mattino c’è stato un altro

incidente al confine, una bomba mortaio è caduta nella campagna alla periferia di Hatay, a 500 chilometri da qui, e l’esercito turco ha immediatamente risposto al fuoco. Era già successo ieri pomeriggio, botta e risposta. Con quello di oggi, le scaramucce tra le due frontiere salgono a quattro in pochi giorni. Il premier turco Erdogan ripete di non volere la guerra ma insiste nel dire che la Siria non deve commettere l’errore di sottovalutare la reazione turca e in qualche modo sembra parlare a Damasco perché Washington, risolutamente cautissima, intenda. La bomba siriana caduta stamattina nel campo di ulivi nella campagna di Hatay non ha fatto vittime (come neppure quello di ieri) ma è difficile interpretare cosa stia accadendo. Ankara ha mostrato in tutti i modi di non voler tollerare provocazioni, il ripetersi di incidenti come questo potrebbe portare a un’escalation. Nella zona si mormora che potrebbe non trattarsi di mortai appartenenti alle truppe di Assad ma ai ribelli, giacchè il confine siriano a ridosso della provincia di Hatay è da tempo controllato dall’opposizione. E poi le truppe del Free Syrian Army, in difficoltà nonostante i rifornimenti dal Golfo, potrebbero trarre vantaggio da un coinvolgimento turco. Si tratta però solo di chiacchere, fomentate dal malumore per l’esodo dei profughi (che il 50% dei turchi non vede di buon occhio) e da un recente rapporto dei servizi segreti turchi secondo cui un’organizzazione combattente curda starebbe reclutando gli arabi alawiti residenti ad Hatay per battersi con l’esercito di Assad. “Qualcuno sta cercando di trascinare la Turchia in guerra” nota l’analista Ahmet Altan. I ribelli siriani? Un’internazionalizzazione del conflitto però, osservano in molti, gioverebbe anche a Damasco che si sfilerebbe così dal ruolo di massacratore del suo popolo per calarsi in quello meno sanguinario e più politico di membro di un fronte trasversale comprendete l’Iran e la Russia.

L’effetto-birra che fa sperare l’America

- Francesco Guerrera*

Chiamatela «la ripresa della Budweiser». Pochi giorni prima i sorprendenti dati sul calo della disoccupazione Usa usciti ieri, l’americano medio aveva già dato segni di sentirsi più ricco e più contento. Il messaggio era nella bottiglia. Anzi nelle bottiglie di Budweiser, Miller Light e birre artigianali che il grande pubblico di bevitori americani ha ricominciato a consumare in grandi quantità. Martedì è arrivata la notizia che le vendite di birra erano in crescita per la prima volta dall’«annus horribilis» del 2008. Tre giorni dopo, il mercato del lavoro ha confermato il progresso, lento ma certo, dell’economia Usa. Il tasso di disoccupazione per settembre è calato, a sorpresa, dall’8,1% al 7,8%, il punto più basso degli ultimi tre anni e mezzo. La mossa ha fatto piacere ai mercati, agli investitori e a Barack Obama – che tra l’altro è il primo Presidente nella storia degli Stati Uniti ad esseri costruito una mini-fabbrica di birra alla Casa Bianca. Jack Welch, invece, si è arrabbiato. Il leggendario ex-capo della General Electric, repubblicano di ferro, ha sentito il bisogno di esternare su Twitter che, a suo avviso, i dati erano stati manipolati. Manipolati dagli uomini di Obama per aiutare il Presidente, in difficoltà dopo il primo dibattito presidenziale con Mitt Romney. «Incredibili questi dati sulla

disoccupazione», ha scritto Welch alle masse che lo seguono su Twitter. «Questi qui di Chicago: non sanno fare i dibattiti e allora cambiano i numeri». L’accusa di Welch è ridicola e completamente priva di tatto: sembra quasi rammaricarsi che milioni di americani abbiano trovato lavoro negli ultimi mesi. Nonostante ciò, l’uso sconsiderato di 140 battute da parte del grande industriale illustra chiaramente il tono della battaglia sull’economia americana. In questo momento, ad un mese da elezioni presidenziali tiratissime, la guerra non si combatte nei mercati azionari e nemmeno tra i consumatori e i disoccupati Usa. Lo scontro – gladiatorio e all’ultimo sangue - è nell’arena della politica.

Chi dei due candidati può convincere i famosi elettori indecisi – l’ago della bilancia di tutte le presidenziali – che sarà in grado di gestire ed accelerare la ripresa? Welch su una cosa (e su una cosa sola) ha ragione: il grande oratore Obama è stato sconfitto dal robotico Romney nel primo dibattito ed ha un bisogno disperato di riconquistare il ruolo di favorito.

In teoria, un’economia in via di recupero, con un mercato immobiliare che sta uscendo dal coma e milioni di

consumatori che sembrano pronti a ricominciare a spendere (e non solo sulla birra), dovrebbe aiutare il Presidente in carica. Il tasso di disoccupazione è allo stesso livello di quando Obama traslocò nella Casa Bianca nel gennaio del 2009 ed non c’è dubbio che il peggio sia ormai passato. «Questo è progresso vero», ha detto un economista a una

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