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La linea del Piave e il duca di Mantova L Z C

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Academic year: 2022

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ONFRONTO DI IDEE

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ORENZO

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ILLETTI

La linea del Piave e il duca di Mantova

Lo scritto evidenzia criticamente come la pronuncia della Corte costituzionale n. 132 del 2019 voglia sacrificare il principio di immediatezza-oralità, stabilito dal combinato disposto degli artt. 525 co. 2, 526 co. 1 e 511 C.p.p., in nome dei principi di effettività e ragionevole durata del processo.

The Piave line and the Duke of Mantova

The paper critically highlights how the decision of the Constitutional Court n. 132 of 2019 wants to sacrifice the principle of immediacy-orality, stablished by the combined disposition of the articles. 525 co. 2, 526 co. 1 and 511 C.p.p., in the name of the principles of effectiveness and reasonable duration of the process.

Da decenni, nelle aule di giustizia, è in corso una dura battaglia contro il prin- cipio di immediatezza-oralità stabilito dal combinato disposto degli artt. 525 co. 2, 526 co. 1 e 511 C.p.p.

Inviso al potere togato è l’obbligo di ripetere l’assunzione della prova dichia- rativa ogniqualvolta, in dibattimento, muti la persona del giudice e manchi il consenso delle parti all’utilizzazione, mediante lettura, delle dichiarazioni formate dinanzi al precedente giudicante.

La rinnovazione è osteggiata come inutile perdita di tempo, quasi non contas- sero – per valutare l’attendibilità di una deposizione – i suoi tratti prosodici e paralinguistici; in altre parole, il contegno espressivo dell’interrogato.

La fascinazione, tutta inquisitoria, per i verbali e il processo di carta, derubri- ca a fastidioso accidente la naturale aspirazione di esser penalmente giudicati da chi abbia guardato in faccia persone vive, anziché righe d’inchiostro. Un sentimento raramente condiviso da chi, pure, dovrebbe avvertire lo iusdicere in criminalibus come un macigno.

La difesa viene sollecitata a esprimere consensi alla lettura perfino prima dell’assunzione della prova, per l’ipotesi che un domani muti il giudice: si chiede, insomma, all’avvocato di declinare dalla propria professionalità, mani- festando approvazioni al buio. I tenaci non incontrano eccessive simpatie e alimentano l’insofferenza per la funzione, già così marcata nell’epoca del pro- cesso postmoderno.

Quando le blandizie, più o meno soavi, falliscono l’effetto di cartolarizzare le deposizioni orali, ci si attrezza per depotenziare la ripetizione: prassi solerti liquidano l’atto nella secca e generica richiesta, al teste, di una conferma mo- nosillabica. E ammettono esclusivamente domande nuove e mai poste, in una stravolta semantica dei lemmi ‘ripetere’ o ‘rinnovare’.

L’importante è far presto, sbarazzarsi dell’incomodo, neutralizzare la brutta

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ARCHIVIO PENALE 2019, n. 2

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arpìa della prescrizione, presunto obiettivo degli abusatori del processo.

Ciclicamente, si invocano definitive amputazioni da parte della Consulta.

L’ultimo a provarci, il Tribunale di Siracusa, in nome dei principi di effettività e ragionevole durata del processo. L’apparente insuccesso – Corte cost. n.

132/2019 è infatti declaratoria di inammissibilità- costituisce, viceversa, un altro vulnus inferto al già scricchiolante principio di immediatezza-oralità.

Lasciamo agli studiosi di procedura penale, intervenuti su questa Rivista, il commento tecnico alla recentissima pronuncia costituzionale.

E aggiungiamo qualche riflessione, da avvocato penalista, alla preoccupata nota della Giunta UCPI e del Centro studi Aldo Marongiu.

Sorprende che la Consulta ometta di interrogarsi sul perché un collegio giudi- cante subisca i mutamenti di composizione elencati nell’ordinanza di rinvio:

nove, salvo errori, ivi compreso quello che ha generato l’incidente di costitu- zionalità. Il dato fa trasalire e ridimensiona anche la poco commendevole scelta difensiva di sollecitare la rinnovazione per poi non formulare alcun quesito ai testi “di ritorno”.

Fuori da iatture ed eventi calamitosi (che per buona sorte non paiono essersi verificati nel caso concreto) o da limiti di permanenza ultradecennale, i com- ponenti di un tribunale -magistrati costituzionalmente inamovibili- cambiano perché volontariamente traslati ad altre funzioni o sedi. Data la premessa, può un simulacro di efficienza del sistema esser garantito scaricando sugli im- putati le conseguenze di (pur legittime) scelte di carriera dei giudicanti?

Non è comprimendo il principio di immediatezza-oralità che può rimediarsi alla incapacità della macchina di funzionare come imporrebbe la legge (art.

477, co. 1 e 2, C.p.p.). Si stabilisca, piuttosto, nell’interesse del buon anda- mento dell’amministrazione della giustizia, che il magistrato, prima di aver esaurito il proprio ruolo, non possa abbandonare il lavoro iniziato: l’identità tra giudice della decisione e quello dell’assunzione della prova verrebbe così salvaguardata al pari della durata ragionevole dei processi.

Delude, invece, constatare quanto la Corte sia poco affezionata al valore sot- teso alla regola dell’identità. La prospettata importazione delle malleabili ga- ranzie plasmate a Strasburgo è poco rassicurante per il diritto di difesa dell’imputato. Anziché trovare tutela e disciplina nella legge, il suo destino sarà consegnato nelle mani del giudice, idealizzato come dominus benevolen- te delle cd. misure compensative.

All’indomani della sentenza n. 132 del 2019, la battaglia evocata nell’incipit sembra spengersi sulla linea del Piave, inteso come Francesco Maria, il libret- tista del Rigoletto che al Duca di Mantova fa cantare, riguardo alle donne,

“questa o quella per me pari sono”.

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ARCHIVIO PENALE 2019, n. 2

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