• Non ci sono risultati.

Il diritto al silenzio nel sistema processuale penale

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il diritto al silenzio nel sistema processuale penale"

Copied!
228
0
0

Testo completo

(1)

1

CAPITOLO I:

“NEMO TENETUR SE DETEGERE”:

ORIGINE E SVILUPPO DELL’ISTITUTO:

1.1. PRIMI RIFERIMENTI STORICI DEL DIRITTO AL SILENZIO NEGLI ORDINAMENTI DI COMMON LAW E INTERROGATORIO NEL PROCESSO INQUISITORIO PRE MODERNO:

Il diritto al silenzio dell’imputato, inteso come corollario del privilegio contro l’autoincriminazione, costituisce l’affermazione della prima massima del garantismo processuale accusatorio.1

La disciplina delle modalità acquisitive del contributo conoscitivo alla ricostruzione dei fatti da parte della persona nei cui confronti si procede può considerarsi come la cartina di tornasole attraverso la quale si possono misurare le scelte culturali, ideologiche e politiche sottostanti ai diversi sistemi processuali e, di conseguenza, i rapporti

1 Cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 7°

(2)

2

che intercorrono, in un determinato momento storico, tra Stato e cittadino, tra autorità e libertà.2

E’ necessario rilevare come nel settore del processo penale, a differenza dell’indirizzo prevalso in seno ai sistemi processualcivilistici dove a lungo dominò la regola “nullus idoneus

testis in re sua intelligitur”3, fin dall’epoca del diritto comune si sia

delineata la tendenza all’utilizzazione processuale, in chiave probatoria, del sapere dell’imputato; tendenza poi esasperata con l’adozione del sistema di prove legali tipico del processo inquisitorio e con le degenerazioni che ne seguirono a causa dei mezzi coercitivi utilizzati per “far parlare l’imputato”, cui era imposto l’obbligo di rispondere all’interrogatorio. L’ imputato inquisito veniva concepito come bestia da confessione da sfruttare a fondo ed il giudice inquisitore era il padrone del gioco e che disponeva sulla scacchiera come gli conveniva: tempi, luoghi, cose, persone, eventi, fluttuavano in quadri manipolabili.4 L’inquisitore componeva a mano libera selettivamente attento o sordo ai dati, secondo che convalidassero o no l’ipotesi; ed essendo le parole una materia plastica, ogni conclusione risultava possibile.5

2 Cfr. V. Patanè, Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli Editore,

Torino, 2000, p. 5.

3 Cfr. V. Grevi, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e

diritto al silenzio nel processo italiano, Giuffrè, Milano, 1972, p. 6.

4 Cfr. F. Cordero, “Procedura penale”, Giuffrè, Milano 2006, p. 25

.

5 F. Coredero, Op. cit., p. 25

(3)

3

Il principio dello ius tacendi trovò il suo primo riconoscimento negli ordinamenti anglossassoni con largo anticipo rispetto agli altri sistemi europei ed in particolare nel 1641 Carlo I, nello Statuto con il quale venne prevista l’abolizone della Court of Star Chamber e della Court

of High Commission for Ecclesiastical Causes ossia la Corte regia e

quella ecclesiastica caratterizzate da prassi inquisitorie, sancì il divieto di deferire giuramento ex officio all’accusato davanti alle corti ecclesiastiche per evitare che lo stesso fosse costretto a rilasciare dichiarazioni autoincriminatrici.6 Tale principio, che in Inghilterra veniva originariamente espresso con la massima “nemo tenetur

seipsum prodere”, veniva teorizzato in quegli stessi anni, seppur a

livello meramente filosofico, da T. Hobbes nel Leviatano : “Il patto di accusare sé stesso, senza aver avuto promessa di perdono, è similmente senza valore”, da cui la critica hobbesiana della tortura, ove “tutto ciò che si confessa si fa per alleviare il tormento, non per informare i tormentatori, e perciò non deve tenersi in credito sufficiente di testimonianza, poiché […] ciò si fa per il diritto di preservare la propria vita”.7

In Italia, in Germania, in Spagna, l’amministrazione della giustizia penale segue ancora, negli ultimi decenni del XVII secolo, i topoi del diritto romano e canonico, le citazioni d’autorità. La grazia sovrana e l’arbitrio del giudice dominano i livelli alti della giurisdizione,

6 Cfr. Wighmore, Evidence in Trials at Common Law, vol. VIII, a cura di

McNaugton, Boston 1961, p. 238.

(4)

4

lasciando spazio alle molte transazioni dei conflitti, all’interno delle comunità e delle giurisdizioni signorili.

In Francia nel 1670 vide la luce l’Ordonnance Criminnelle, vero monumento della procedura penale continentale d’antico regime, codificazione criminale che vide al centro le due figure di Henry Pussort, consigliere di Stato e Guillaume Lamoignon, primo presidente del Parlamento parigino, a cui il re Luigi XIV, dette il compito di provvedere all’ordine interno e a una generale codificazione per la Francia. L’ordinanza, nelle sue linee fondamentali, non si discostava profondamente dagli indirizzi della legislazione cinquecentesca salvo la previsione di una sequenza processuale più minutamente regolata nelle differenti fasi ed in particolare una prima indagine istruttoria che si svolgeva all’insaputa del reo, il quale apprendeva di essere inquisito solo al momento del suo interrogatorio da parte dello stesso giudice istruttore con l’ obbligo di rispondere alle domande dell’esaminatore sotto giuramento e senza diritto all’assistenza di un’ avvocato; inoltre vi si regolava in maniera minuziosa l’uso della tortura. Ancora

l’Ordinnance Criminelle del 1670 imponeva, quindi, all’imputato

risposte giurate e considerava la “taciturnitas” uno scacco all’inquisitore.8 Gli interrogatori erano attribuiti in via esclusiva al giudice ed avveniva nei luoghi deputati alla giustizia od in prigione in forma segreta e cominciavano subito: «au plus tard, dans les

(5)

5

quatre heures après l’emprisonnement» (art. 1, tit. 24); all’ inquisito

mancava «le temps et la tranquillité…pour mèditer un systeme», era vulnerabile nei «premiers moments d’agitation et de trouble»9 e giurava (art. 7) e rispondeva senza la presenza del difensore «par sa

bouche…sans le ministére de conseil».10

La precoce invocazione della garanzia del privilegio contro l’autoincriminazione negli ordinamenti anglosassoni, che come anzidetto veniva espresso con la formula “nemo tenetur se ipsum

prodere” dinanzi alle corti ecclesiastiche e, che, già nella prima metà

del XVII secolo, venne recepito come regola fondamentale negli ordinamenti di common law, si deve spiegare alla luce dei profondi mutamenti politici che, oltremanica, seguirono alla stagione di riassetto costituzionale della rivoluzione puritana.

Nella nazione che aveva subito gli eventi traumatici dell’esecuzione del proprio re - Carlo I Stuart era stato decapitato nel 1649 - e dell’esperienza repubblicana di Oliver Cromwell, il Parlamento riuscì a far approvare l’Habeas Corpus Act nel 1679, documento di fondamentale importanza che, inserito all’interno della Magna Charta

Libertatum del 1215, sanciva il diritto di richiedere a un giudice

l’emissione di un ordine (writ) nei confronti di un’autorità pubblica che avesse eseguito un arresto, per rendere ragione della detenzione di

9

Cfr. F. Hélie, “Théorie du code d’istruction criminelle”, ed. belga accresciuta a cura di Nypel, Meline et Cans, Bruxelles 1845, I160.

(6)

6

una determinata persona, efficace sistema di salvaguardia della libertà individuale contro detenzioni arbitrarie ed extra giudiziali. Si compiva in Inghilterra “la finale costruzione di un re responsabile per l’attività di governo come per la giurisdizione, e responsabile non soltanto rispetto a Dio, come era stato prima, ma innanzi alla legge”.11

Intorno all’Habeas Corpus si verrà a costruire nel secolo successivo la tradizione giurisprudenziale angloamericana che darà luogo ad una precoce costituzionalizzazione della fase predibattimentale. Una delle prime e più solenni codificazioni del diritto al silenzio è contenuto, infatti, nel V emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America (1791), là dove è stabilito che «nessuno[…] potrà essere obbligato, in qualsiasi causa penale, a deporre contro sé medesimo». Da notare che il medesimo principio era già stato fissato in diverse “dichiarazioni dei diritti” nordamericane anteriori alla Costituzione degli Stati Uniti come ad esempio: le “dichiarazioni”della Virginia (1776), della Pennsylvania (1776), del Maryland (1776), della Carolina del Nord, del Vermont (1777), del Massachussetts (1780).

Nel rituale accusatorio dei modelli angloamericani il processo viene ad essere pura operazione tecnica: un esito vale l’altro, purché correttamente ottenuto laddove le regole siano tutto e sarebbe un abuso

11 C. H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1947), a cura di

(7)

7

distorcerle seppur a fini buoni. Questo modello ideologicamente neutro riconosce un solo valore: fair play.12

Nell’Europa Continentale d’antico regime l’interrogatorio dell’imputato rappresentava “il cominciamento della guerra forense”, cioè il “primo attacco” dello Stato contro il reo onde ottenerne, con qualunque mezzo, la confessione che aveva il valore di prova legale negativa oltre che positiva ed era non solo sufficiente ma anche necessaria per la condanna, della quale costituiva una sorta di sottoscrizione o accettazione da parte del reo. Di qui l’uso della tortura “ad veritatem eruendam” e l’elaborazione di una sofisticata “ars

interrogandi et examinandi reos” e di una fitta serie di regole sadiche

di slealtà processuale.13

Quando già dall’ultimo scorcio del XVIII secolo, l’ordine dell’Europa continentale dell’antico regime comincerà a vacillare, preso d’assalto su molti fronti, l’esempio inglese, forte di una gloriosa Rivoluzione costituzionale senza spargimento di sangue, e di una giustizia senza torture e segreti, costituirà un punto di riferimento fondamentale ed una sorta di spartiacque tra il Settecento conservatore dei giuristi dottori e quello riformatore dei filosofi dei Lumi.

12

F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano, ed. 2006, pag. 101.

13 L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, 7° edizione,

(8)

8

1.2. PRIME TEORIZZAZIONI ILLUMINISTE SULLA FACULTAS

TACENDI E CODIFICAZIONI “ILLUMINATE”:

Forte fu la critica dei pensatori dell’Illuminismo nei confronti del processo penale d’antico regime, macchina da guerra “offensiva” che faceva del giudice, in ogni caso, un persecutore del reo e dell’imputato, un semplice “oggetto di prova”. S’invocava la sostituzione di poche leggi penali certe alle molte scurissime, rese ancor più tali dall’arbitrio giudiziario. Fu in questo mutato clima ideologico dei paesi dell’Europa continentale della seconda metà del XVIII secolo, che si pensò al processo come ad un’operazione diversa da altri metodi barbari di giustizia sommaria, per il fatto che essa persegue, oltre alla punizione dei colpevoli, anche la tutela degli innocenti; preoccupazione quest’ultima che sta alla base di tutte le garanzie processuali che lo circondano e che variamente condizionano le istanze repressive espresse dalla prima. Merito di questi pensatori fu, quindi, la progressiva configurazione dell’imputato quale “soggetto” del processo penale e protagonista dell’autodifesa, aprendo il varco all’accoglimento del principio “nemo tenetur se detegere”.

La problematica relativa all’esistenza, in capo all’imputato, di un dovere di collaborazione nei confronti dell’autorità giudiziaria ricorre

(9)

9

con frequenza nelle discussioni alimentate dal movimento illuminista intorno ai temi della tortura e del giuramento dell’imputato.14

Così Beccaria scrisse nel 1764, a proposito del giuramento imposto all’imputato, affermando che questo consiste in “una contradizione fralle leggi e i sentimenti naturali all’uomo[…], acciocchè sia un uomo veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso; quasi che l’uomo potesse giurar da dovero di contribuire alla propria distruzione, quasi che la religione non tacesse nella maggior parte degli uomini quando parla l’interesse”15; ed a proposito della tortura affermava “ch’egli è un voler confondere tutti i rapporti, l’esigere che un’ uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato”16. Similmente Pagano parlava del giuramento dell’ imputato come “una tortura dello spirito”, sottolineandosi che, attraverso di esso, l’accusato “viene posto nell’angustia di due doveri:del primo e del più sacro di conservar sé stesso; e dell’altro, di non mentire alla presenza dell’essere eterno, e dei ministri della giustizia”17; e sempre argomentando contro tale istituto affermava “i mostri di errori” che vi sono contenuti “[…]Si crede di aver dritto il giudice di estorcergli da bocca il secreto alla sua vita o alla sua libertà fatale. Si assume come una confessione o col

14 V. Grevi, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto

al silenzio nel processo penale italiano, Giuffrè, Milano, 1972, p. 9.

15 Cfr C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Newton Compton Editori, 2012, p.

53.

16 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Op. cit., 2012, p. 48.

17 Cfr Pagano, Logica de’ probabili applicata a’ giudizi criminali, Milano,

(10)

10

dolore o col timore estorta abbia il valor di una convincente prova. S’immagina una spirituale tortura”.18

Alla base di queste riflessioni si può rintracciare senza dubbio una forte esigenza di garanzia per la spontaneità dei meccanismi di autodeterminazione dell’individuo in sede di interrogatorio penale, come corollario di una sempre più diffusa consapevolezza dei valori di libertà e di dignità della persona umana, anche se non mancavano ancora in quest’epoca forti contraddizioni interne a queste riflessioni. Infatti lo stesso Beccaria, dopo essersi schierato in maniera netta contro l’uso della tortura e del giuramento dell’imputato, affermava a conclusione del proprio trattato che “colui che nell’esame si ostinasse di non rispondere alle interrogazioni fattegli, merita una pena fissata dalle leggi, e pena delle più gravi che siano da quelle intimate, perché gli uomini non deludano così la necessità dell’esempio che devono al pubblico”.19

Il rilievo di questa incongruenza non è soltanto di tipo filosofico dal momento che tale indirizzo fu seguito sul piano politico legislativo: infatti è dimostrato come nella “istruzione” redatta da Caterina di Russia (1767) in vista della stesura di un nuovo “codice delle leggi” fu pressoché integralmente trasfusa la suddetta proposta di Beccaria di prevedere una punizione dell’imputato reticente. Analoga incongruenza può ben riscontrarsi nel “Codice dei delitti austriaco” del

18 Pagano, Considerazioni sul processo criminale, in Opere varie, Milano,

1801.

(11)

11

1803 (esteso nel 1815 a tutto il Regno Lombardo-Veneto), in cui, dopo aver ufficialmente soppresso l’istituto della tortura, continuava a prevedersi l’adozione di severe misure coercitive ed anche l’applicazione di vere e proprie pene corporali a carico dell’imputato che, durante l’interrogatorio, si fosse rifiutato di rispondere (disciplina risultante dal combinato disposto degli articoli 363 e 364 del codice penale austriaco del 1803, e che verrà modificata in senso liberale soltanto nel 1853 per mezzo di un “Regolamento di procedura penale”). Tali disposizioni, infatti, legittimavano, di fatto, l’impiego di una nuova forma di tortura, sia pure sotto differente nome e secondo differenti modalità.

Trattazione ben più coerente, tuttavia, venne sviluppata dal Filangeri, il quale, sempre schierandosi contro la pratica della tortura, venne ad escludere esplicitamente l’esistenza di un dovere dell’imputato di confessare il proprio delitto e quindi con un riconoscimento espresso di un “diritto al silenzio”dell’imputato nella sua opera fondamentale “La scienza della legislazione”; impostazione che, sebbene abbia incontrato numerosi contrasti presso i giuristi dell’epoca come quella del Carmignani e di Bentham che ancora configuravano l’imputato come “oggetto di prova” e l’esistenza un’ “obbligo di verità” in capo allo stesso, veniva a corrispondere pienamente alle istanze di fondo di cui si erano fatti portavoce gli illuministi e che avrebbe caratterizzato l’evoluzione delle varie legislazioni continentali.

(12)

12

Tali legislazioni non rimasero insensibili alla carica ideale espressa dalla Rivoluzione francese e vennero ad abolire le più gravi forme di coazione dell’imputato sottoposto ad interrogatorio e ad introdurre, seppur in tempi e modi differenti a seconda del grado di “liberalizzazione” dell’ordinamento, una espressa facultas tacendi dell’imputato.

Così, istituito dall’Ordonnance criminelle del 1670, il giuramento dell’imputato fu abolito in Francia dalla legge dell’8-9 ottobre del 1789, dopo che era già stato soppresso in Toscana da Pietro Leopoldo nel 1786 insieme al dovere di rispondere.

Sempre nel nostro Paese rivestirono una particolare importanza, sia per la liberalità del contenuto sia per l’influenza sulla successiva legislazione degli Stati preunitari, le disposizioni dettate in tema di interrogatorio dell’imputato nel Codice di procedura penale pel regno

d’Italia del 1807, entrato in vigore durante la dominazione

napoleonica.

Dal combinato disposto degli artt. 204 e 208 dello stesso si venne ad affermare una prospettiva volta a garantire all’imputato l’immunità da ogni forma di costringimento diretta a forzarne il secretum della coscienza e che, nonostante la breve durata del regno napoleonico ed il mutato clima politico seguito alla restaurazione, venne riproposta nella maggior parte delle leggi processuali penali emanate dagli Stati italiani dopo il Congresso di Vienna.

(13)

13

In questa prospettiva si deve quindi menzionare: l’art 159 e 162 del “Codice di processura criminale per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla” (1820); gli artt 199 e 202 del “Codice di procedura criminale per gli stati Estensi” (1855); art 238 nella “Procedura penale nel Regno delle due Sicilie”. Analogo discorso deve essere fatto anche rispetto al “Codice di procedura criminale degli Stati Sardi” del 1847 il cui art. 215 stabiliva che “quando l’imputato ricuserà di rispondere […] il giudice lo avvertirà che, non ostante il suo silenzio o le sue infermità simulate si passerà oltre all’istruttoria del processo”, dopo che l’art. 211 aveva sancito il divieto di “deferire il giuramento all’imputato”; disciplina che fu conservata senza modifiche nel successivo codice penale di rito penale sardo del 1859, per poi passare nel primo codice di procedura penale dell’Italia unita.

(14)

14

1.3. IL DIRITTO AL SILENZIO DELL’IMPUTATO NELLA LEGISLAZIONE ITALIANA PRE-COSTITUZIONALE:

L’imporsi di un vero e proprio diritto di difendersi con il silenzio, le cui tappe evolutive possono essere individuate, come abbiamo visto, “nell’attenuarsi del rigore dell’apparato coercitivo volto ad ottenere il rispetto dell’obbligo di verità cui fa seguito un regime di “silenzio tollerato”, destinato a trovare uno sbocco nel “silenzio protetto”20

, è

stato un processo lento e graduale, che nelle legislazioni dell’Europa continentale è giunto a compimento solo nel XX secolo, in coincidenza con l’adozione delle carte internazionali dei diritti dell’uomo.

Fu merito dei pensatori illuministi, come abbiamo visto, l’elaborazione dei presupposti ideologici che innescarono la reazione contro un modello di processo che perseverava nell’assegnare all’imputato il ruolo di mero “oggetto di prova”. Tuttavia, questa rinnovata sensibilità che comportò sul piano normativo il rifiuto della tortura e delle dichiarazioni confessorie estorte con ogni forma di coercizione fisica e psicologica, non spinsero il pensiero illuminista sino all’individuazione di un vero e proprio diritto dell’interrogato di difendersi tacendo o non rispondendo veridicamente.

Fu la legislazione italiana post-unitaria a presentare aspetti di particolare interesse in rapporto agli schemi normativi predisposti a

20 Cfr E. Amodio, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, Riv. dir.

(15)

15

tutela della libertà dell’imputato di astenersi dal rispondere all’interrogatorio, schemi ricavati da una matrice di volta in volta rimodulata sulle concezioni politiche dominanti all’epoca delle varie codificazioni.

1.3.1. IL CODICE DEL 1865:

Il Codice di procedura penale per il Regno d’Italia, promulgato nel novembre del 1865, presentava una disciplina sullo ius tacendi sostanzialmente analoga a quella stabilita nel Codice di procedura penale sardo del 1847: dopo aver sancito nell’art. 232 il divieto di «deferire giuramento all’imputato», vi si disponeva ex art. 236 comma 1 che, laddove l’imputato si fosse rifiutato di rispondere all’interrogatorio - o avesse dato segni di pazzia «che possano credersi simulati», oppure si fosse finto sordo o muto per esimersi dal rispondere - il giudice avrebbe dovuto avvertirlo che «non ostante il suo silenzio o le sue infermità simulate, si passerà oltre nell’istruttoria del processo». Non solo si sanciva il divieto di considerare l’imputato

testis contra se ipsum, ma si poneva in risalto la funzione

peculiarmente difensiva dell’interrogatorio e, sebbene si trattasse di una norma dettata anche e soprattutto nel senso di porre un limite ai poteri del giudice interrogante, essa viene a rappresentare il segno di

(16)

16

una sia pur timida attuazione legislativa del principio nemo tenetur se

detegere.21

1.3.2. IL CODICE 1913:

Con il nuovo Codice di procedura penale del 1913, il c. d. codice Finocchiaro Aprile, si volle confermare e rafforzare tale principio sull’esempio di varie legislazioni straniere. L’innovazione di questo codice, ispirato ad una visione più genuinamente liberale e garantistica del processo, consisteva nel prevedere un obbligo di avvertimento preventivo da parte del giudice istruttore nei confronti dell’imputato interrogato della suddetta facoltà, e non più, come previsto nel codice previgente, solo dopo che l’imputato si fosse effettivamente astenuto dal rispondere. Questo obbligo di avvertimento veniva previsto nell’art. 261 comma 2 laddove si prevedeva che il giudice istruttore, dopo la contestazione del fatto, invitasse l’imputato ad esporre gli elementi in suo favore, «avvertendolo che, se anche non risponda, si procederà oltre nell’istruzione», e nell’art. 388, comma 1 con riguardo all’interrogatorio dibattimentale laddove si prevedeva che il giudice, dopo aver contestato all’imputato il fatto che gli è attribuito, «lo invita ad esporre le discolpe, e tutto ciò che ritenga utile alla propria difesa,

21 V. Grevi; al Nemo tenetur se detegere; Interrogatorio dell’imputato e

(17)

17

avvertendolo che, anche se non risponda, il dibattimento sarà continuato». Sostanzialmente, quindi, con il codice del 1913 si giungeva alla predisposizione di un meccanismo in grado di garantire all’imputato una forma di tutela “preventiva” da interferenze nella sfera della sua libertà morale e pur senza pervenire ad un vero e proprio riconoscimento del diritto in esame, si forniva all’interrogato un criterio per orientare la propria strategia difensiva di fronte agli inviti e alle eventuali sollecitazioni dell’autorità procedente.

1.3.3. IL CODICE ROCCO DEL 1930:

Le “profonde modificazioni di principi e di struttura” che trovarono “la loro spiegazione nel mutato clima politico”22 determinarono, nel codice Rocco del 1930, la mancata riproposizione di una norma che prevedesse la necessità di un avvertimento, visto ormai come un “obbligo … dannoso e disdicevole”, espressione di una “generica tendenza favorevole per i delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso” 23

. Tale codice, ispirato ai concetti fondamentali

della dottrina fascista dello Stato mostrava palesemente di non voler

22 Cfr G. Delitala, voce Codice di procedura penale, in Enciclopedia dir.,

vol. VII, Milano, 1960, p. 284.

23 Cfr Relazione sul progetto preliminare del codice di proc. Pen., in Lavori

preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. VIII,

Roma, 1929, p. 7;Cfr. Gabrieli, voce Codice di proc. pen., in Nuovo digesto

(18)

18

distinguere tra imputato e delinquente, con un chiaro intento di respingere “in pieno la assurda presunzione d’innocenza, che da alcuni si vorrebbe riconoscere a favore dell’imputato”, giudicandola “una stravaganza, derivante dai quei vieti concetti, germogliati dai principi della rivoluzione francese, per cui si portano ai più esagerati ed incoerenti eccessi le garanzie individuali”24. In questa prospettiva non stupisce, quindi, perché nell’art. 367 comma 2 e nell’art. 444 comma 2 di tale codice sia stata omessa qualunque previsione di un’avvertimento del giudice all’imputato circa la eventualità di una

recusatio respondendi, e sia stato semplicemente disposto che, «se

l’imputato rifiuta di rispondere, ne è fatta menzione nel processo verbale, e si procede oltre nell’istruzione». Si verificò, in sostanza, un arretramento non solo rispetto alla previgente codificazione, ma anche rispetto al codice del 1865, finendo in pratica col ripristinare, almeno sul piano psicologico, l’antica soggezione dell’imputato di fronte all’autorità interrogante.

Pur in presenza di una dottrina favorevole all’introduzione di un vero e proprio “obbligo di verità”- non dissimile dal Wahrheitspficht des

Beschuldigten della Germania nazista- la stessa formula legislativa e la

mancanza di sanzioni (in particolare penali) in presenza di un comportamento menzognero ne esclusero la configurazione. In capo all’imputato sottoposto all’interrogatorio si sarebbe potuto ravvisare al

24

Relazione sul progetto preliminare del codice di proc. Pen., in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. VIII,

(19)

19

più, un “obbligo morale” di rispondere secondo verità, ispirato al principio della lealtà processuale, ma incoercibile sul piano giuridico. La situazione soggettiva dell’imputato era stata ricondotta alla categoria dell’onere di “dichiarare il vero”, volendosi con ciò significare che il medesimo era bensì libero di tacere od anche di mentire dinanzi alle domande che gli venivano poste, col rischio, tuttavia, di fornire al giudice – attraverso la propria condotta processuale- gli elementi di una “prova per presunzione”.25

(20)

20

1.4. LA GARANZIA COSTITUZIONALE:

Con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, seguito alla caduta del regime fascista, si verificava quel recupero dei valori democratici e la configurazione di un nuovo assetto dei rapporti tra Stato e cittadino, maggiormente rispettoso della personalità del singolo e dei suoi essenziali diritti di libertà e quindi in particolare una più viva sensibilità per la questione della posizione processuale dell’imputato, le forme e i limiti della sua autodifesa.

Effettuando una disamina degli articoli della Carta costituzionale, se ne deduce il riconoscimento della tutela del diritto al silenzio che, seppur non esplicita, è stata affermata da un orientamento consolidato della giurisprudenza, costituzionale e ordinaria, nonché dalla dottrina. In primo luogo l’art. 24 comma 2 Cost afferma che «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», formula che viene comunemente intesa in modo da ricomprendere nelle situazioni soggettive ivi garantite non solo la cosiddetta “difesa tecnica”, cioè il diritto del prevenuto all’assistenza da parte di un legale, ma anche la cosiddetta “autodifesa”, comportando questa situazione giuridica ch’ egli, ove sottoposto a procedimento penale, debba intervenirvi come persona consapevole della propria posizione e libera di autodeterminarsi sulle sue opzioni difensive, e quindi anche propendere per un rifiuto preliminare di tacere di fronte a qualsiasi

(21)

21

domanda gli venga rivolta. In questo senso quindi come piena espressione della regola del nemo tenetur se detegere, in forza della quale l’accusato non può essere costretto a rendere dichiarazioni

contra se nel corso del procedimento, che pur essendo ascrivibile

nell’alveo del modello accusatorio si fa, anzitutto, espressione di un principio fondamentale di civiltà giuridica, che esclude l’uso strumentale dell’imputato quale mezzo di prova a proprio stesso carico ponendo l’accento sulla sua incoercibile autodeterminazione negli atteggiamenti processuali sul “fatto proprio” e sull’esigenza che l’accusa sia in grado di provarne la colpevolezza non prevaricandone la dignità di individuo e, anche per ciò, sulla scorta di dati probatori

aliunde acquisiti. In secondo luogo l’art. 27 comma 2 afferma che

«L’imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva», norma che, tra le altre implicazioni, ha quella per cui spetta all’accusa l’onere di dimostrare la responsabilità penale del prevenuto, onde il diritto di questi al silenzio risponde all’esigenza di non capovolgere tale canone probatorio: cioè di non costringere l’imputato a “deporre” né a discolparsi per evitare la condanna. (Si ricorda infatti la possibile alternativa fra la lettura della presunzione di non colpevolezza come regola di trattamento dell’imputato, cui si deve ispirare la disciplina della libertà personale nel corso del processo, oppure come regola probatoria e di giudizio la quale va risolta nel senso che entrambi i significati sono in grado di coesistere specialmente se si interpreta il principio costituzionale alla luce dell’art. 6 n. 2 Conv. eur. -vedi infra-

(22)

22

e art. 14 n. 2 del Patto internazionale26). E’ evidente che la presunzione di non colpevolezza contribuisce a diversificare nettamente la posizione dei due principali antagonisti del processo penale:dal sistema si ricava un obbligo di agire in capo al pubblico ministero(art. 112 Cost.) , ma non un “obbligo di reagire” in capo all’imputato(art. 27 comma 2 Cost.) , a favore del quale gioca il rischio della mancata prova da parte dell’accusa27. Sicché sul piano dell’architettura delle regole decisorie, formulata l’ipotesi di accusa, l’inadempimento dell’onere probatorio che grava sul pubblico ministero condurrà alla prova mancante, insufficiente o contraddittoria, schiudendo perciò la via alla pronuncia di assoluzione28. E poiché l’imputato non è in alcun modo tenuto a collaborare all’accertamento, la sua linea difensiva potrà anche essere completamente passiva (anche se ciò naturalmente non lo esime dal sottostare alla coercizione per il compimento di determinati atti istruttori, come ad es. le ricognizioni e le ispezioni, le perizie e i rilievi segnaletici, casi nei quali comunque la fonte di prova è rappresentata dalla persona fisica dell’imputato al quale non si richiede alcuna iniziativa.).29

26

Cfr. G. Illuminati, “La presunzione d’innocenza”; Zanichelli; Bologna 1979;p. 28.

27 Cfr. P. Paulesu, “La presunzione di non colpevolezza dell’imputato,

Giappichelli Editore, Torino, 2009, p. 74-75.

28 Cfr. Fiandaca-Di Chiara, “Una introduzione al sistema penale per una

lettura costituzionalmente orientata”;Casa editrice Eugenio jovine, Napoli;

2003, P. 316.

(23)

23

Inoltre, in maniera più generale possono ricollegarsi alla facoltà in esame anche l’ art. 2 Cost., il quale nella sua ampiezza si presta non solo a ricomprendere tutte le situazioni giuridiche soggettive qualificate espressamente come “inviolabili”, ma anche fungendo da “clausola aperta” alle ulteriori indicazioni provenienti dall’evoluzione della coscienza etica e sociale della collettività; in questa prospettiva ricomprende anche l’estrinsecazione costituita dal silenzio e dalla non collaborazione del prevenuto alle iniziative dell’autorità inquirente, come “libertà morale” e quindi come “valore” destinato a prevalere, in quanto inviolabile (conformemente all’ impronta personalistica della nostra Costituzione), su ogni istanza contrapposta, anche dal rilievo pubblicistico ed in particolare, sull’interesse collettivo all’accertamento ed alla repressione dei reati. Ed infine, sempre nell’ottica di salvaguardia della libertà morale, l’art. 13 Cost., riconosciuta l’inviolabilità della libertà personale (nel comma 1), recita poi al comma 4 «È punita ogni violenza […] morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà», laddove si tenga presente che lo stesso “interrogatorio” costituisce un incombente ai cui fini la presenza del soggetto imputato può essere procurata coattivamente dall’autorità.

A livello sovranazionale, poi, la “Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, firmata a Roma il 4 novembre del 1950 e resa esecutiva in Italia con la l. 4 agosto 1955 n. 848,

(24)

24

sancisce all’art. 6, num. 2 che «ogni persona accusata di un reato è presunta innocente finchè la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata» e sul punto la Corte di Strasburgo si è pronunciata nel senso di ritenere che “nessun accusato può essere condannato per il solo fatto di essere rimasto silente, durante tutta la procedura, di fronte alla contestazione dei fatti addebitatigli”30. Con una clausola esplicita, invece, tale facoltà, venne riconosciuta dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, in sede Onu e reso escutivo in Italia con la l. n. 881 del 1977, che all’articolo 14 n. 3 lett. g, riconosce ad «Ogni accusato di un reato» il diritto «a non essere costretto a deporre contro se stesso ed a confessarsi colpevole».

Se, per un esplicito riconoscimento normativo del diritto al silenzio a livello codicistico si dovrà attendere la legge 5 dicembre del 1969 n. 932, l’idea di una teorica di onus probandi dell’imputato veniva ad essere in contrasto con il nuovo ordinamento e con la proclamazione dei valori anzidetti; e quindi, almeno inizialmente, si optò per una interpretazione degli articoli 367 comma 2 e articolo 444 comma 2 del codice Rocco non incompatibile con la possibilità per l’imputato di non rispondere e perfino di rilasciare dichiarazioni non veritiere. Sarebbe inesatto pensare, tuttavia, che l’indirizzo in discorso abbia raccolto unanimi consensi: non sono mancate, infatti, diverse voci

30

(25)

25

contrarie ad ammettere che il diritto di difesa dell’imputato potesse estendersi fino a ricomprendere la facoltà di tacere, o, addirittura, di mentire31. Si tratta della nota tesi carneluttiana che, muovendo dalla

concezione c. d. ottimistica della pena, escludeva ogni “sconvenienza

morale” nei mezzi coercitivi rivolti ad ottenere dall’imputato risposte conformi al vero, e considerava ormai superato quell’orientamento che concepiva “la pena un male anziché un bene per chi la subisce”32. Di qui la proposta di costituire un’obbligo di verità in capo all’imputato: obbligo che avrebbe “propriamente il valore di vincere la sua riluttanza a quella narrazione veritiera, la quale a lui sembra, ma non è e non può mai essere in contrasto con il suo reale interesse”33. Simile impostazione era evidentemente incompatibile con i principi del nostro diritto positivo oltreché con le linee di fondo della nostra civiltà giuridica e proprio per questo non ebbe largo seguito ed incontrò decise opposizioni presso gli studiosi più attenti ad evitare preoccupanti ritorni, sia pure in chiave moderna, a metodi di impronta inquisitoria.

Polemiche dottrinali e giurisprudenziali si sono presentate rispetto ad una invocata coincidenza tra il diritto dell’imputato di tacere e di mentire. La conclusione a cui si deve pervenire da un’analisi delle

31 V. Grevi, Nemo tenetur se detegere. Interrogatorio dell’imputato e diritto

alo silenzio nel processo penale italiano., Milano, 1972, pag 50.

32

Cfr. Carnelutti, Lezioni sul proc. Pen., vol. II, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1947, p. 162.

33 Cfr Carnelutti, Lezioni sul proc. Pen., vol. II, Edizioni dell’Ateneo, Roma

(26)

26

norme propende per non ammettere una assimilazione totale della menzogna al silenzio e questo per due ordini di motivi : mentre quest’ultimo è oggetto di un’ espressa tutela sia da parte della Costituzione che dalla normativa internazionale pattizia e quindi risulta tendenzialmente sempre garantita, la prima non lo è; in secondo luogo si prevede nei reati di calunnia e di autocalunnia (368 e 369 c.p.) la punibilità dell’ incolpazione da parte dell’accusato, in sede d’interrogatorio, d’una persona ch’egli sa innocente o di sé medesimo. Quindi tale facoltà potrà talvolta integrare una differente, autonoma, forma di esercizio del diritto di autodifesa (qui estrinsecantesi in una condotta attiva) soltanto nei limiti in cui non costituisca reato(vedi più dettagliatamente infra par. 1. 6. 2. pp 35-39). In questo senso si espresse la giurisprudenza della Suprema Corte che affermò che il diritto di mentire incontrasse un limite nei “divieti di legge desumibili dalla previsione dei delitti contro l’amministrazione della giustizia[…] che inibiscono quelle false attestazioni che possono fuorviare i giudici e gli organi tenuti a riferire ad essi, sì da determinare il pericolo che venga aperto altro procedimento penale per un fatto diverso inesistente od a carico di persone innocenti”34.

Ultima problematica relativa agli effetti della reticenza e del mendacio dell’imputato sul piano strettamente penalistico riguardava la possibilità di ricondurre tali comportamenti all’ambito dell’art. 133

(27)

27

comma 2 num. 1 e 3 sotto il profilo del “carattere del reo” e della “condotta susseguente al reato”, quali fattori assunti dal giudice per incidere in senso sfavorevole sul quantum della pena a norma dell’art. 132 c.p.

(28)

28

1.5. IL RICONOSCIMENTO NORMATIVO DEL DIRITTO AL SILENZIO CON LA L. 932/1969:

Con un ribaltamento dei criteri di valutazione cui si erano ispirati i codificatori del 1930, la legge n. 932 del 1969 formalizzava a livello normativo il riconoscimento esplicito dello ius tacendi dell’imputato, che si era reso necessario di fronte alla proclamazione dei diritti inviolabili di libertà individuali sanciti dalla nostra Carta costituzionale e che costituiva l’esito di un lento ma tangibile processo di emancipazione dalle logiche del passato.

La legge 5 dicembre 1969, n. 932 (recante “Modificazioni al codice di procedura penale in merito alle indagini preliminari, al diritto di difesa, all’avviso di procedimento ed alla nomina del difensore”) previde, infatti, la sostituzione dell’art. 78 del codice (allora vigente) mediante l’aggiunta di un “nuovo” comma 3 stabilendo che «L’autorità giudiziaria o l’ufficiale di polizia giudiziaria», prima d’iniziare l’interrogatorio, dovesse «in qualsiasi fase del procedimento, […] avvertire l’imputato, dandone atto nel verbale, della sua facoltà di non rispondere». Si prevedeva inoltre all’ art. 304 c.p.p. (sostituito dalla predetta legge) che gli organi inquirenti dovessero: a) interrompere l’audizione della persona «sentita a chiarimenti» che, durante l’attività preistruttoria od istruttoria, si fosse “auto indiziata”, b) avvertire la medesima circa l’utilizzabilità a suo carico d’ogni ulteriore parola da lei proferita, c) invitare lo stesso soggetto a nominare un difensore di

(29)

29

fiducia, d) rinviare “ad altra seduta” l’espletamento dell’interrogatorio vero e proprio. Ed infine all’art. 225 1 e 2 comma è stato stabilito che durante il “sommario interrogatorio dell’indiziato” ad opera degli ufficiali di polizia giudiziaria “si osservano le norme sull’istruzione formale”.

La ratio di fondo rinvenibile in questa legge evidenziava, sul piano delle scelte di politica legislativa, l’opzione in favore di un sempre più accentuato distacco dai moduli propri della procedura inquisitoria assolvendo a quelle esigenze difensive predisposte dal sistema al fine di consentire una effettiva realizzazione in sede processuale dei principi propri di uno Stato di diritto, privilegiando, nella ricerca di un contemperamento tra l’interesse pubblico all’accertamento della verità in sede processuale e l’interesse alla salvaguardia della libertà morale dell’interrogato, un approccio teorico fondato sull’idea che il perseguimento del primo interesse dovesse rinvenire un limite nell’esigenza di rispettare la libertà di autodeterminazione del soggetto, non solo non obbligandolo a rilasciare dichiarazioni suscettibili di essere impiegate contra se, ma, soprattutto, informandolo, ab initio, della possibilità di far valere in concreto quel “diritto al segreto e al silenzio” che l’ordinamento gli riconosceva. Nonostante già anteriormente alla legge 932 del 1969 il sistema non sembrasse offrire alcun aggancio normativo in grado di legittimare una valutazione della condotta silente dell’interrogato quale elemento di prova a suo carico (poiché in contrasto con i principi costituzionali ed in particolare con il

(30)

30

principio di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. e il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.), il pericolo che si poneva era quello che, in assenza di tale avvertimento dell’autorità inquirente, si venisse di fatto a “speculare” sull’eventuale ignoranza, da parte dell’imputato, di una facoltà riconosciutagli ex lege. Il risultato era quello di vanificare, sul piano dell’ operatività concreta della garanzia, la ratio posta a fondamento dell’attribuzione di questo diritto di parlare o di tacere.35 La portata innovativa della legge in esame si percepisce sottolineando come l’ambito di operatività della stessa si estendesse a qualsiasi fase del procedimento, ivi compresa la fase delle indagini di polizia giudiziaria e questo anche nel caso del sommario interrogatorio dell’indiziato (in forza dell’art. 225 comma 1 c.p.p. riformato); novità rispetto anche alla disciplina garantista prevista dal previgente codice del 1913 e che si poneva perfettamente in linea con la costatazione della stessa Corte costituzionale “del progressivo arretramento del processo penale verso il campo molto più trincerato, rispetto al diritto della difesa, rappresentato dalle indagini preliminari”36. Tale orientamento si proponeva una lettura più realistica del termine “procedimento” di cui all’art. 24 comma 2 Cost. in forza del quale si riteneva che “tutte le garanzie predisposte per la difesa dell’imputato in relazione ai vari atti istruttori dovessero essere anticipate agli atti corrispondenti dell’istruzione preliminare, non esclusi gli atti di polizia

35 V. Patanè; Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli Editore, Torino,

2006, p. 21.

(31)

31

giudiziaria che pure appartengono all’iter preparatorio del procedimento”, poiché “rientrano in indagini preordinate ad una pronuncia penale, e si traducono in processi verbali di cui è consentita la lettura in dibattimento”.37

Tale riconoscimento normativo si era reso necessario inoltre per un adeguamento del legislatore al contesto normativo sovranazionale: infatti tale principio, dopo essere stato sancito, da tempo risalente nell’ordinamento inglese e statunitense, era stato riprodotto in maniera esplicita, come abbiamo visto, nell’art. 14 n. 3 lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici approvato dall’Assemblea generale Onu il 16 dicembre 1966 (anche se la relativa ratifica avverrà successivamente nell’ottobre del 1977).

(32)

32

1.6. IL CODICE DI PROCEDURA PENALE DEL1988:

Dopo un lungo dibattito parlamentare, si ebbe l’approvazione della seconda e definitiva legge delega 16 febbraio 1987 n. 81; una Commissione nominata dal Ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e presieduta dal Prof. Gian Domenico Pisapia ha redatto il progetto preliminare. Questo ha avuto il parere favorevole di una Commissione parlamentare ed il 22 settembre 1988 il Governo ha approvato il nuovo codice, che è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 24 ottobre 1988 ed è entrato in vigore il 24 ottobre 1989.

Rompendo una tradizione plurisecolare, il nuovo codice ha per di più adottato il sistema accusatorio, di per sé non espressamente previsto dalla Costituzione, configurando il nuovo processo come una relazione triadica tra giudice, accusa e difesa, in antitesi non solo al processo medievale di tipo interamente “inquisitorio” ma anche a quello “misto” del vecchio codice Rocco che era fondato, nella fase istruttoria, sulla confusione tra giudice e accusa e sulla relazione diadica inquisitore – inquisito. La prova si sarebbe dovuta formare soltanto in dibattimento nel contraddittorio delle parti. Prima di tale momento non si sarebbe dovuta svolgere un’istruzione, bensì una fase di indagini preliminari, nella quale il pubblico ministero doveva compiere investigazioni. Era eliminata la figura del giudice istruttore; al suo posto si prevedeva l’intervento, ai fini di garanzia, di un giudice senza poteri di iniziativa probatoria. Stando infatti al preambolo

(33)

33

dell’art. 2 della delega si sarebbe dovuto condurre il nuovo codice ad attuare «non solo i principi della Costituzione ad adeguarsi alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale, ma anche i caratteri del processo accusatorio (secondo i principi e criteri di: a) massima semplificazione nello svolgimento del processo, b) l’adozione del metodo orale, c) la partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento»). Principi e criteri questi che, a causa anche di formulazioni non sempre coincidenti appieno con quelle delle fonti costituzionali ed internazionali, non hanno potuto evitare di rimanere coinvolti, più o meno ripetutamente o più o meno fortemente, dal vortice di modificazioni apportate ora dal legislatore ora dalla Corte costituzionale, per tacere delle incessanti oscillazioni della giurisprudenza ordinaria.

Sulla connotazione ontologico-funzionale dell’interrogatorio la legge-delega non poteva essere più esplicita, imponendo al legislatore delegato una “disciplina delle modalità dell’interrogatorio in funzione della sua natura di strumento di difesa”38, scelta ideologico politica forte, tanto che l’iter per l’affermazione dell’interrogatorio quale mezzo di difesa si è rilevato a livello legislativo e dogmatico non poco tortuoso.

Non altrettanto esplicito è stato, invece, il legislatore delegante circa il diritto al silenzio. Probabilmente ribadire a chiare lettere le coordinate

(34)

34

del diritto al silenzio è stato considerato superfluo, tenuto conto della sottolineatura di una funzione prettamente difensiva dell’interrogatorio e del fatto che nel “preambolo” dell’art. 2 legge-delega veniva fissato l’obbligo di adeguare la normativa delegata “alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale”, tra cui si colloca a pieno titolo l’art. 14 lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici.39

1.6.1. L’INTERROGATORIO DELL’IMPUTATO NEL CODICE DEL

1988:

Se già con la legge del 1969 si era avuta una c. d. “parabola di trasformazione dell’interrogatorio” con un avvicinamento ai canoni propri del modello accusatorio che aveva attribuito allo stesso una preponderante valenza difensiva, il codice di rito del 1988 sembra approdare ad una soluzione univoca supportata anche da un più chiaro inquadramento sistematico.

Esso ha infatti individuato due strumenti idonei ad introdurre nel processo il contributo conoscitivo dell’imputato: da una parte l’interrogatorio, come mezzo di difesa, dall’altro l’esame, come mezzo di prova. Al primo atto tipico della fase predibattimentale, infatti, l’art.

39 Cfr. L. Marafioti; “Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al

(35)

35

2 n. 5 della legge delega ha esplicitamente riconosciuto la natura di “strumento di difesa” e viene ad essere disciplinato nel primo libro del codice, tra le norme sull’imputato, anziché nell’ambito di quelle sulle prove come nella sistematica del codice Rocco, e ad essere sostituito, quanto a modalità assuntive, in fase dibattimentale, dall’esame dell’imputato, classificato quale mezzo di prova, species del genus “esame delle parti”. In realtà non appare così semplice operare una distinzione soprattutto se si considera che entrambi possono svolgere una duplicità di funzioni e di ruoli, tanto in chiave difensiva, quanto in relazione ad una eventuale potenzialità probatoria. La possibilità che attraverso l’interrogatorio si possa venire a conoscenza di notizie utili ai fini di una decisione non consente comunque di collocarlo tra i mezzi di prova. 40 In conclusione, risulta opportuno classificare l’interrogatorio come fattispecie a formazione progressiva multifunzionale: “sempre mezzo di difesa, eventualmente fonte di prova, potenzialmente mezzo di prova41

”.

La condizione necessaria affinché l’istituto in parola possa costituire un valido strumento di difesa, in quanto consenta all’accusato “di contestare l’accusa, in fatto e in diritto, in tutto o in parte 42”, è la garanzia della sua libertà fisica e morale.

40 Cfr Relazione sul progetto preliminare del codice di proc. Pen., in Lavori

preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, cit. p. 71.

41 Cfr. G. Rinaldi, Commento all’art. 64 c.p.p., in A. Gaito (a cura di), Codice

di procedura penale ipertestuale, cit. p. 221.

(36)

36

La garanzia della libertà fisica dell’interrogato va propriamente letta come presupposto indispensabile per assicurarne la libertà sul piano morale e psicologico ed è sancita in maniera chiara e precisa dall’art. 64 comma 1 c.p.p. «La persona sottoposta alle indagini, anche se in stato di custodia cautelare o se detenuta per altra causa, interviene libera all’interrogatorio, salve le cautele necessarie per pervenire il pericolo di fuga o di violenze» (Se la libertà fisica dell’interrogato è la regola, l’imposizione di misure restrittive finalizzate a scongiurare il pericolo di fuga o di violenze costituisce l’eccezione. Tant’è che viene demandato all’autorità procedente il compito di stabilire se e in che misura siano necessarie eventuali cautele, operando una scelta calibrata sul reale pericolo di fuga o di violenze e sul ricorso alla forma meno afflittiva di limitazione della libertà fisica dell’interrogato, in grado di scongiurare i suddetti pericoli43). Per quanto riguarda la libertà morale e psicologica si tratta del pieno riconoscimento, a livello di legislazione ordinaria, del diritto fondamentale dell’imputato di autodeterminarsi liberamente nella scelta della strategia difensiva ritenuta più appropriata, senza subire alcuna forma di coazione. L’art. 64 comma 2 statuisce infatti che «Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o valutare i fatti», divieto dalla cui violazione

43 Cfr. O. Mazza, L’ interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo

(37)

37

discende l’inutilizzabilità delle prove eventualmente acquisite con forme di intervento sul soggetto che ne modifichino i meccanismi volitivi e mentali. La ratio del divieto – indisponibile per lo stesso soggetto interrogato, in quanto operante a prescindere da un suo eventuale consenso e che si riteneva, sotto la vigenza del codice Rocco, un principio generale implicito nel sistema- non va rintracciata in un assunto di inaffidabilità scientifica di tali metodi o tecniche (per es. ipnosi, narcoanalisi, o lie detector) ma va piuttosto rintracciata in una scelta di carattere etico, operata dal legislatore, rispetto alla quale è indifferente il grado di attendibilità dei risultati cui si possa pervenire attraverso simili apporti tecnico-scientifici44. Nel rapporto con l’autorità l’imputato non deve subire alcuna coartazione, a conferma di un chiaro intento garantistico, riconducibile ad una precisa esigenza di tutela della personalità, di non trascurabile importanza sul piano della “civiltà del processo” 45. Il divieto in parola- riprodotto nell’art. 188 c.p.p. in sede di disposizioni generali sulla prova – si pone chiaramente come attuazione legislativa del precetto consacrato nell’art. 13 comma 4 Cost., ai sensi del quale «è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». Tale divieto si pone in contrasto con la previsione dell’istituto dell’accompagnamento coattivo e quindi l’impiego di uno strumento comunque incidente sulla

44 V. Patanè, Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli Editore, Torino,

2006, p. 32.

45 Cfr. Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in

(38)

38

libertà personale, finalizzato ad ottenere, appunto, «se occorre, anche con la forza» (art. 132 c.p.p.) la presenza del soggetto al compimento di un atto, quale l’interrogatorio, di natura prevalentemente difensiva, nel corso del quale il medesimo può legittimamente avvalersi della facoltà di non rispondere, motivo per cui lo stesso “accompagnamento andrebbe ammesso, ed avrebbe giustificazione, solo laddove la persona fisica dell’accusato occorra per un atto probatorio che non si risolva in sue dichiarazioni46”.

1.6.2. LA GARANZIA DEL DIRITTO AL SILENZIO SUL FATTO PROPRIO NEL CODICE DEL 1988:

La polivalenza, sul piano semantico, del diritto al silenzio ne consente l’operatività in rapporto ad una gamma estremamente diversificata di situazioni (configurabili quali esplicazioni del principio del nemo

tenetur se detegere) : dal diritto ad essere avvisato della facoltà di non

rispondere, a quello di non essere obbligato a rendere dichiarazioni auto incriminanti con possibilità di tacere in toto o di non rispondere a singole domande ed addirittura, entro determinati limiti, della possibilità di fornire risposte mendaci.

46 Cfr. M. Nobili, La nuova procedura penale. Lezioni agli studenti, Clueb,

(39)

39

Con la previsione di cui all’art. 64 comma 3 (nella versione antecedente alla riforma attuativa del “giusto processo”di cui si parlerà oltre) il diritto al silenzio appare sancito in termini sostanzialmente analoghi a quelli di cui all’art. 78 comma 3c.p.p. abr., riconoscendo all’imputato, oltreché alla persona sottoposta alle indagini preliminari (cui l’art. 61 c.p.p. estende i diritti e le garanzie spettanti al primo), la facoltà di non rispondere all’autorità procedente, della cui sussistenza lo stesso deve essere informato, salva l’ulteriore precisazione che, in ogni caso, il procedimento seguirà il suo corso. L’esigenza di una tutela effettiva del diritto implica, inoltre, che l’avvertimento circa la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere debba essere rivolto all’interessato in relazione ad ogni interrogatorio od atto assimilato tanto che lo stesso legislatore delegato ha chiarito che tale garanzia debba ritenersi operante in rapporto “ad ogni atto…che, per quanto non tecnicamente denominabile interrogatorio, comporti domande 47”. Si parla a tal proposito della c. d. “portata pan processuale”48 del diritto al silenzio per indicare l’operatività delle regole dettate dall’art. 64 c.p.p. oltre che nell’ipotesi di sommarie informazioni di garanzia di cui all’art. 350 c.p.p., anche ad ogni specie di interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e, successivamente dell’imputato: sia di fronte al pubblico ministero (art.

47 Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, cit. p.

72.

48 V. Patanè Il diritto al silenzio dell’imputato, Giappichelli Editore2006, p.

(40)

40

370 c.p.p. e 388c.p.p.) , sia di fronte al giudice per le indagini preliminari, sia in sede di udienza preliminare. Inoltre tale garanzia è riconosciuta anche all’imputato nel corso dell’esame dibattimentale- effettuabile solo dietro sua richiesta o consenso- sia nell’accezione di diritto a non essere interrogato, proprio in ragione della volontarietà dell’atto, sia nell’accezione di diritto al silenzio, per quanto “parziale” (art. 209 comma 2 c.p.p.) , essendo prevista la possibilità che, una volta consentito o richiesto l’esame, l’imputato possa non rispondere ad una o più domande, seppur debba esserne fatta menzione nel verbale. Tale garanzia di c. d. silenzio “parziale” (negando la necessità di un suo esercizio in toto) si ricollega ad una maggiore libertà di scelta della strategia difensiva, in base alla quale può ritenersi utile selezionare soltanto alcune informazioni (e non altre) da veicolare nel processo rifiutando di rispondere a determinate domande.

Inoltre, sempre nell’ottica di estendere la portata della garanzia, il diritto di non rendere dichiarazioni auto incriminanti viene così garantito a prescindere dall’instaurazione delle indagini preliminari in senso proprio nei confronti di un determinato soggetto(che quindi non abbia ancora formalmente assunto la qualità di imputato né di persona sottoposta alle indagini), prevedendosi all’art. 63 comma1 “Se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergano indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a

(41)

41

seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese” con una formula sostanzialmente analoga a quella contenuta nell’art. 304 commi 3 e 4 c.p.p. abr.

Questo obbligo in capo alle autorità procedenti e la regola dell’inutilizzabilità sono sintomatiche di un chiaro intento legislativo di precludere qualunque tentativo di aggiramento della garanzia in parola da parte della polizia e magistratura e che mira ad impedire ogni svolgimento o prosecuzione di indagini informali nei confronti di un soggetto raggiunto da indizi di reità, di per sé idonei a far scattare l’attribuzione della qualifica di cui all’art. 61 c.p.p. ma più o meno artatamente ignorati49. Infatti “la tutela aprrestata dall’art. 24comma 2 Cost. sarebbe vanificata da una disposizione di legge che prescrivesse a taluno di rendere, prima dell’inizio del processo penale, una confessione di reato poi utilizzabile come prova di reato a suo carico nel processo, nel quale gli fosse riconosciuto, siccome indiziato o imputato, il diritto al silenzio50”. Inoltre l’art. 63 comma 2 afferma”Se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate” sancendo la assoluta inutilizzabilità delle

49 Cfr. R. E. Kastoris, Commento all’art. 63c.p.p., in M. Chiavario

(coordinato da), Commento al codice di procedura penale, vol. I, cit., p. 321ss.

50 Cfr. Scaparone, Elementi di procedura penale, Giuffrè, Milano, 1999, p.

(42)

42

dichiarazioni rese (mentre nel comma 1 esse sono inutilizzabili contro chi le ha rese, ma sono utilizzabili nei confronti di terzi). La interpretazione di tale comma è stata inizialmente controversa in quanto la giurisprudenza più risalente tendeva ad operare una

interpretatio abrogans del comma in esame, ritenendo, nonostante la littera legis, che anche nell’ipotesi contemplata dall’art. 63, co. 2

c.p.p., l’esclusione probatoria dovesse valere soltanto contra se51

. Tale

impostazione privava di qualsivoglia significato la norma in parola configurando la ipotesi de qua come completamente assorbita dal comma precedente, ragione per cui finalmente le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno riconosciuto che la regola di esclusione probatoria dell’art. 63, co. 2, c.p.p. ha valore erga alios52

. Lo scopo

precipuo della norma sarebbe, quindi, quello di “moralizzare” l’autorità giudiziaria e la polizia giudiziaria, sottraendo loro la tentazione di sentire informalmente soggetti già sospettati, al fine di ottenere dichiarazioni sul fatto altrui facendo leva la giurisprudenza sullo stato di soggezione psicologica dell’esaminando che ha ricadute pericolose sul piano dell’attendibilità di quanto dichiarato53. La norma avrebbe quindi anche una utilità “oggettiva”, ovvero costituirebbe una garanzia di attendibilità dell’accertamento, poiché eserciterebbe un

51 Cass., Sez. VI, 23 maggio 1995, Gatto, in Arch. n. proc. pen., 1996, 141. 52 Cass. Sez. Un., 13 febbraio 1997, Carpanelli e altri, in Dir. proc. pen.,

1997, 602.

(43)

43

filtro sulle fonti decisorie, espungendo gli elementi verosimilmente “compiacenti o negoziati” e quindi inquinanti54.

Se la ratio dell’art. 63, co. 2 c.p.p. è quella di fronte avanzato di tutela delle incompatibilità a testimoniare, sembra chiaro che la stessa non debba operare nei confronti di quei soggetti che incompatibili non sono.

Quindi, qualora l’escusso sia sentito nell’ambito di un procedimento dal quale è totalmente estraneo, il dovere di collaborazione riemerge, essendo espressione del dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., facendo sì che non possa sottrarsi all’obbligo di deporre, ferma la garanzia dell’art. 198, comma 2, c.p.p.

In una prospettiva di tutela anticipatoria del principio del “nemo

tenetur se detegere”, può collocarsi, infatti, la previsione contenuta

nell’art. 198 comma 2c.p.p. che riconosce a chi venga invitato a rendere dichiarazioni in veste di testimone (e quindi soggette all’obbligo di verità), la garanzia a non poter essere obbligato a deporre “su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale”. La previsione, pur sembrando indirizzata principalmente al giudice, ha una portata precettiva che si estende a chiunque proceda ad un esame o ad un atto di assunzione di informazioni nei confronti di un potenziale testimone(art. 351 comma 1 e 362 c.p.p.) . Per poter legittimamente avvalersi della “clausola di esonero” dall’obbligo di

54 Cfr. Sanna, Ristretto l’uso delle dichiarazioni auto indizianti, in Dir. .

(44)

44

deporre occorre che il soggetto dichiarante sia in grado di rappresentare al giudice quanto necessario e sufficiente per rendere obiettivamente ragionevole- alla luce delle circostanze ricavabili altrove –l’eventualità di una propria compromissione in fatti di reato e sul piano delle conseguenze applicabili in caso di inosservanza del divieto si prevede la sanzione dell’inutilizzabilità (delle dichiarazioni eventualmente rese) ex art. 191 comma 1 c.p.p.

Per quanto riguarda le regole dell’interrogatorio sul “merito” sono contenute nell’art. 65 del codice che recita «L’autorità giudiziaria contesta alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito, le rende noti gli elementi di prova esistenti contro di lei e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, gliene comunica le fonti».

Invita, quindi, la persona ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa e le pone direttamente le domande”.

A questo punto tre sono le possibilità che si presentano a quest’ultimo: a) innanzitutto l’indagato può rifiutare di rispondere a tutte le domande o ad alcune soltanto di esse ed in tal caso l’autorità procedente ai sensi del comma 3 dell’art. 65 “ne fa menzione nel verbale”; b)l’indagato può rispondere dicendo il vero (e se i fatti che egli ammette sono a lui sfavorevoli si ha una “confessione”); c) l’indagato può rispondere dicendo il falso.

Occorre a questo punto procedere ad una delucidazione circa la facoltà di mentire dell’imputato che se deve ritenersi logicamente vigente nel

(45)

45

nostro ordinamento dalla adozione nostra Carta Costituzionale e per la copertura che a questa attribuisce il nostro diritto penale sostanziale; la dottrina e giurisprudenza ne hanno a più riprese ribadito e circoscritto la sussistenza negli ultimi anni.

La sussistenza di un vero e proprio diritto al mendacio dell’interrogato si colloca nell’ambito delle possibili estrinsecazioni della c. d. autodifesa sotto il profilo “attivo” (che si distingue dalla “pacifica” mera possibilità di non rispondere c. d. autodifesa passiva) e si tratta di una scelta di rilievo politico e sistematico coerente con una visione del processo quale strumento di libertà: “il processo deve servire[…]soprattutto all’imputato, alle sue ragioni, e alla sua causa. Non è immaginabile una condotta processuale dell’imputato in termini di doverosità; non è concepibile[…] scolorire la distinzione tra imputato e testimonio: solo a quest’ultimo inerisce il dovere di parlare e di dire la verità[…] Nel che è tutta la valenza del principio nemo

tenetur se detegere, che, prima di ogni cosa, consacra la inesistenza di

qualunque dovere di collaborazione da parte dell’inquisito: nel che è la spia luminosa della effettività della difesa e della presunzione di non colpevolezza dell’imputato55”. Si sarebbe fatta derivare questa facoltà di mentire dai principi costituzionali sanciti in particolare negli artt. 13 comma 4, 24 comma 2 e 27 comma 2 ed in generale dall’impianto c. d. personalistico del nostro ordinamento (come corollario del più ampio diritto costituzionale di difesa) con la sola riserva dell’obbligo di

Riferimenti

Documenti correlati

In particolare, egli avrà piena conoscenza dei principi costituzionali, visti anche alla luce delle fonti europee, dei protagonisti del processo e degli atti processuali, del

"trovandosi in condizione di minorata difesa o in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo, commette il fatto per la salvaguardia della propria

• «nell’udienza preliminare la richiesta di giudizio abbreviato può essere presentata dopo la formulazione delle conclusioni da parte del pubblico ministero.. • e deve

Organizzato da CAMERA PENALE REGIONALE LIGURE, SCUOLA SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI GENOVA. CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI

La pubblicazione di questo volume, pur curato con scrupolosa attenzione dagli Autori e dalla redazione, non comporta alcuna assunzione di responsabilità da parte degli stessi e

1 Contro le operazioni e le omissioni del funzionario inquirente, non impugnabili giusta l’articolo 26, può essere interposto reclamo presso il direttore o capo

(e che vanno, piu` o meno correttamente, sotto lo sgraziato appellativo di nomofilachia) sono complementari rispetto alla funzione primaria della Corte di stabilire comunque per

PARTE QUARTA IL PROCESSO DI COGNIZIONE Capitolo Primo: Il procedimento di cognizione innanzi al Tribunale Sezione Prima Il procedimento di cognizione davanti al Tribunale