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IL DANNO DA PERDITA DEL CONGIUNTO Avv. Rodolfo Berti

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IL DANNO DA PERDITA DEL CONGIUNTO Avv. Rodolfo Berti

1. DANNO PATRIMONIALE E NON PATRIMONIALE IURE PROPRIO DEI PROSSIMI CONGIUNTI

Il danno da perdita del congiunto è per diversi aspetti il danno più grave che l’illecito possa causare perché si riverbera non solo nell'ambito patrimoniale, quando per esempio venga a mancare il produttore di reddito, presente o futuro, ma anche, e soprattutto, nell'ambito non patrimoniale e, in questo caso, produce tutta una serie di pregiudizi in merito ai quali, e non a caso, la Corte Costituzionale si è pronunciata più volte.

E infatti sia la sentenza Del Andro, in Repetto contro AMT Genova (14/7/1986 n. 184 in Foro It. 1986, I, 2976), sia la sentenza Mengoni in Sgrilli contro Colzi (27/10/1994 n. 372 in Giur. It.

1995, I, 406), sia infine la sentenza Marini (11/7/2003 n. 233 in Foro It. 2003, I, 2201), riguardavano casi di perdita di congiunto e in modo precipuo la risarcibilità degli altri aspetti non patrimoniali dei pregiudizi che tale perdita causa ai superstiti.

D’altronde è evidente che l’interruzione di quel vincolo interpersonale che lega i componenti di una stessa famiglia determini una profonda modificazione nel modo di vivere la vita, cambiando le abitudini perché sono venuti a mancare gli scopi di quelle abitudini, perdendosi l’interesse in certe attività che tutti insieme prima si facevano, scompaginandosi dunque l’unitaria armonia fondamentale nella famiglia.

Prima che la Corte Costituzionale nel luglio del 2003, recepita dalla Cassazione l’interpretazione “costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 c.c. pur anche in un obiter dictum, ammettesse nell'ambito dell’art. 2059 c.c., oltre al danno morale soggettivo, anche il danno biologico in senso stretto e il danno derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona, ai familiari del deceduto sarebbe spettato solo il danno patrimoniale, se provato, e il danno morale subiettivo limitatamente a quei

Avvocato, Ancona

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patimenti d’animo transeunti che la morte della persona cara poteva aver causato e, nel caso di prova medico-legale, il danno biologico iure proprio consistente in una patologia psichica indotta dalla sofferenza o dall’aggravamento di pregresse patologie (Corte Cost.

372/94 cit.).

Tale tutela risarcitoria del danno alla persona non avrebbe consentito la riparazione per equivalente di tutti quei pregiudizi che indubbiamente vengono causati dalla perdita di quelle abitudini quotidiane sicché, per non lasciare irrisarciti questi pur evidenti aspetti, si ricorreva ai più vari escamotage attraverso i quali ripagare concretamente ed equamente le perdite subite.

Attraverso quel “fenomeno della propagazione intersoggettiva delle conseguenze di un medesimo fatto illecito” (Cass. Civ. Sez. III 31/5/2003 n. 8828), la giurisprudenza ammetteva a risarcimento il danno morale soggettivo subito dai congiunti a causa delle lesioni gravissime sofferte da un componente della famiglia, il danno subito per non poter più intrattenere rapporti sessuali con il coniuge a causa delle di lui gravissime lesioni di natura andrologica, il danno subito dalla moglie e dai figli di un infortunato rimasto in coma profondo ecc., adeguando il valore risarcitorio del danno morale subiettivo alle peculiarità del caso concreto, attraverso la personalizzazione del danno stesso.

È del maggio 2003 la sentenza della Suprema Corte n. 8169 che ha ritenuto la “autonomia ontologica del danno morale che non è un minus rispetto al danno biologico, trattandosi di un danno diverso che lede beni diversi della persona umana e dunque è possibile, nella dolorosa esperienza, che sofferenza e dolore abbiano una valenza di gran lunga superiore ad una malattia o ad una invalidità” (Cass. Civ. Sez. III 23/5/2003 n. 8169 in Giust. Civ. Mass.

2003) e l’altra, sempre del maggio 2003, la n. 7632 che in tema di danno da lesione terminale ha ritenuto che il “fattore tempo di durata” del danno morale sia cosa diversa dal “patema d’amino” subito per qualche giorno o mese, sicché il conseguente risarcimento deve essere commisurato alla durata dei patimenti e dunque valutato in misura maggiore per chi abbia più a lungo patito rispetto a chi ha limitato le sofferenze solo per qualche giorno (Cass. Civ. Sez. III, 16/5/2003 n. 7632 in D&G, f. 23, 66).

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Ne consegue che fino a pochissimo tempo prima del revirement della Cassazione (sentenze 8827 e 8828), recepito appunto dalla Consulta, l’unico danno non patrimoniale, quello morale soggettivo, veniva utilizzato anche per comprendervi ulteriori aspetti del medesimo danno che sarebbero dovuti rimanere irrisarciti laddove si fosse rigorosamente rispettato il principio enunciato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 372 del 1994 che aveva ristretto l’art. 2059 c.c. a risarcire solo il “patema d’animo o lo stato di angoscia transeunte”, fenomeno ben diverso dal trauma fisico o psichico permanente accertabile attraverso un’indagine medico-legale.

È proprio a causa di questa incompletezza, o meglio carenza organizzativa, che è stato facile utilizzare il grimaldello del danno esistenziale per convincere i giudici di legittimità e delle leggi a riorganizzare il sistema del risarcimento del danno non patrimoniale alla persona.

Non spetta a me parlare dello specifico argomento degli altri danni non patrimoniali da lesione di interessi della persona costituzionalmente protetti, se essi siano a giusta ragione definibili esistenziali o meno, dovendomi limitare solo a parlare del danno da perdita di congiunto, cioè di quella specifica figura di pregiudizio che però, per quello che diremo, risulterebbe essere l’unica figura di danno non patrimoniale ad essere tutelato dalla Carta Costituzionale con gli artt. 2, 29 e 30.

La morte di un familiare, moglie, marito, figlio o fratello, può causare due diversi danni:, quello iure proprio subito dai superstiti che, come già detto, può essere patrimoniale e non patrimoniale, soprattutto ora che il sistema risarcitorio è stato ricondotto nell'ambito del bipolarismo, e quello iure successionis, cioè il danno subito dal deceduto nel periodo di sopravvivenza e trasmissibile ai suoi eredi.

Quanto al primo aspetto, al di là delle perdite economiche che il decesso del percettore di reddito può causare o causerà in futuro, come per esempio nel caso del legittimo affidamento da parte dei genitori di un aiuto economico del figlio già avviato ad una attività lavorativa, quello più rilevante è in che cosa consista il danno non patrimoniale, o meglio se seguendo letteralmente l’impostazione data dalla Consulta con la sentenza 233,

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agli aventi diritto spetti il loro danno biologico, se accertato attraverso indagine medico- legale, il danno morale subiettivo e in che misura, e gli altri danni da lesione dell’interesse costituzionalmente protetto ad avere una famiglia integra.

Per quello che riguarda il danno patrimoniale, credo che non vi siano argomenti nuovi da trattare se non richiamare l’attenzione sulla recente sentenza della Cassazione n. 11003 (Cass. Civ. Sez. III 14/7/2003 n. 11003 in D&G 2003, f. 38, 48) che ha sostanzialmente affermato che anche ai figli maggiorenni ed economicamente autonomi spetta il danno patrimoniale subito per la perdita del genitori qualora sia provato che costui provvedeva

“durevolmente e spontaneamente” ad una elargizione economica in loro favore, o l’altro principio enunciato con la sentenza 12124 del 19/8/2003 (Cass. Civ. Sez. III, 19/8/03 n.

12124 in Giust. Civ. Mass. 2003, f. 7-8) che da direttive per il calcolo del danno patrimoniale futuro e cioè su come liquidare il danno anche applicando le tabelle delle rendite vitalizie 1922, apportando però correttivi per adeguare la attuale durata media della vita a quella calcolata nelle tabelle, o in riferimento all’applicabilità dei criteri contenuti nell’art 4 della legge n. 39 del 1977.

Ma il danno patrimoniale è un danno da lucro cessante e quindi deve essere provato dal danneggiato ancorché il giudice possa, secondo l’id quod plerumque accidit o il notorio al quale è abilitato a ricorrere dall’art. 115 c.p.c. o anche con le presunzioni semplici, adottare il principio equitativo.

Diverso è certamente il puro danno alla persona, non di natura economica né patrimoniale, perché attiene a quell’evanescente ambito che è la psiche umana essendo appunto un danno immateriale che colpisce il modo di vivere e l’esistenza del soggetto.

Non a caso la sentenza Mengoni ha posto in rilievo che il giudice nell’indagine che deve fare per determinare se l’evento lesivo ha causato solo turbamenti d’animo transeunti o un trauma fisico o psichico permanente, deve tenere però conto anche delle condizioni particolari della persona del danneggiato, della sua predisposizione dovuta a debolezza cardiaca, fragilità nervosa ecc. proprio perché l’analisi è indirizzata alla sfera interna e intima del soggetto.

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Psicologia dunque e non medicina legale, e sul punto la Cassazione e la Consulta concordano differenziando appunto l’ambito delle indagini da compiere per individuare l’esistenza di un danno biologico o quella di un danno non patrimoniale che, essendo una conseguenza, va quantomeno allegato dal danneggiato che deve fornire gli elementi di valutazione attraverso i quali il giudice esprime in forma monetaria l’equivalente riparatorio adeguato alla concreta situazione.

Nelle sentenze siamesi 8827 e 8828 si fa espresso richiamo alla prova sia sul nesso causale, secondo quel criterio ormai accolto pacificamente dalla giurisprudenza di legittimità che applica per analogia il principio penalistico di cui agli artt. 40 e 41 c.p. per integrare l’art. 1223 c.c., per arrivare a quella attenuazione rigorosa del principio della conditio sine qua non attraverso il correttivo della causalità efficiente e del criterio della regolarità causale, e all’onere probatorio che comunque fa carico al danneggiato al fine di dimostrare l’esistenza di quei pregiudizi che la lesione del suo interesse ha comportato.

D’altra parte è proprio dal 1994 che il danno non patrimoniale biologico non è più un danno evento bensì una conseguenza della lesione di tal che, pur sussistendo questa, si dovrà dare la prova delle perdite da essa causate per ottenerne il risarcimento, e lo stesso principio trova applicazione anche ora dato che il danno non patrimoniale da perdita di congiunto non è in re ipsa ma va appunto dimostrato sebbene nel modo più ampio possibile anche attraverso l’utilizzo delle presunzioni (Cass. 8827, 8828/03).

Che cosa dunque va risarcito o meglio quali sono i pregiudizi che possono essere risarciti attraverso la figura del danno non patrimoniale?

Se si esclude l’ipotesi del danno biologico che non sempre consegue alla perdita di congiunto, rimangono secondo la Consulta le altre due figure di danno morale subiettivo quale contingente conseguenza dei patimenti transeunti indotti dall’offesa arrecata dal reato, e gli altri danni da lesione di interessi primari della persona, ed è qui che si deve fare chiarezza.

La Cassazione, nelle sopra richiamate sentenze ratificate dalla Consulta, sottolinea proprio questa genetica differenza che vi sarebbe nell'ambito del danno non patrimoniale da

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uccisione di congiunto “consistente nella definitiva perdita del rapporto parentale”, che gran parte della giurisprudenza di merito chiama esistenziale. La Corte ritiene che si tratti della “incisione di un interesse giuridico diverso dal bene salute”, e cioè dell’“interesse all’integrità morale la cui tutela, agevolmente ricollegabile all’art. 2 Cost. dove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo”.

Dunque secondo la Corte di Cassazione il danno morale soggettivo sarebbe una conseguenza della lesione dell’interesse all’integrità morale, tutelato dall’art. 2 Cost., sicché apparirebbe un danno diverso da quello che tradizionalmente risulta essere per il combinato disposto dell’art. 2059 c.c. e 185 c.p., cioè conseguenza delle offese che il reato, pur astrattamente provato (Cass. 7283/03 in Foro It. 2003, I, 2273), può aver causato.

Se il danno morale è la lesione dell’interesse all’integrità morale e se è tutelato dall’art. 2 Cost., tale danno può esser risarcito in ogni caso che vi sia tale lesione e non nei limiti dell’art. 185 c.p., cosicché appare inutile lo sforzo ermeneutico compiuto dalla stessa Corte di Cassazione nelle tre precedenti sentenze 7281, 7282, 7283 tutte del 12/5/2003 per decretare, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, la risarcibiltà del danno morale ancorché la responsabilità sia presunta ex lege, confermando implicitamente che tale danno è comunque collegato al reato.

E questo punto della motivazione della sentenza appare peraltro in netto contrasto con tutto il resto della stessa motivazione laddove a più riprese si richiama il concetto del danno morale subiettivo costringendolo in un ambito minoritario (minus) rispetto agli altri danni da lesione di interessi costituzionali e ciò al fine di colmare la lacuna che aveva in passato costretto i giudici a liquidare sotto tale specie anche quegli altri aspetti di danno che invece ora, dopo la rivisitazione costituzionale, hanno una loro specifica definizione.

Oltre al danno morale soggettivo, quale lesione dell’interesse all’integrità morale tutelata dall’art. 2 Cost., vi è anche un altro aspetto di danno non patrimoniale che è quello da lesione dell’interesse alla “intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività

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realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.”.

Tale ulteriore danno da lesione di un interesse costituzionale (artt. 29 e 30 Cost.), si dovrebbe affiancare all’altro conseguente alla lesione dell’intangibilità morale e ancora a quella dipendente dalla lesione dell’intangibilità della salute (art. 32 Cost.), sicché ne conseguirebbe un sostanziale svuotamento dell’art. 2059, non solo rispetto ai limiti dovuti alla riserva di legge, ma anche alle sue finalità che secondo l’impianto logico giuridico della sentenza sono quelle della riparazione senza limiti del danno non patrimoniale, ritenendo invece che al risarcimento di quello patrimoniale sia preposto l’art. 2043 .

“Il danno non patrimoniale da uccisione dei congiunti, consistente nella perdita del rapporto parentale, si colloca quindi nell’area dell’art. 2059 in raccordo con le suindicate norme della Costituzione”.

E allora a mio giudizio è necessario un chiarimento perché potrebbe apparire una sovrapposizione tra quelli che la Suprema Corte definisce “danni ontologicamente diversi”:

correlando l’art. 2059 con la Carta Costituzionale, se il danno morale subiettivo è la lesione dell’interesse all’integrità morale di cui all’art. 2 Cost., e può concorrere con quello ontologicamente diverso dovuto alla lesione della intangibilità della sfera degli affetti familiari, tutelata dagli art. 2 , 29 e 30 Cost., sostanzialmente parliamo dello stesso aspetto di danno e non di danni ontologicamente diversi.

L’interesse all’integrità morale è né più e né meno che l’interesse all’integrità della famiglia perché la personalità dell’individuo, tutelata dall’art. 2 Cost., quale componente della famiglia è indubbiamente offesa dalla sofferenza che la perdita del congiunto ha indotto sopprimendo quelle relazioni interpersonali e affettive che legano i membri della stessa famiglia che unitariamente la compongono. Di sofferenza dunque si tratta e non può che essere così, e la conferma la traiamo proprio dalla stessa motivazione delle coeve sentenze 8827 e 8828, laddove si parla di “godimento del congiunto… preclusione delle reciproche relazioni interpersonali… sconvolgimento delle abitudini di vita”.

D’altra parte la morte di un figlio, di un fratello, di un marito, di un genitore causa

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sofferenza e su questo non v’è dubbio, e su questo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità più volte si è espressa riconoscendo quella figura di danno da sofferenza temporanea e transeunte che se può adattarsi ad altre ipotesi, come per esempio l’ingiuria, la diffamazione, la percossa o la lesione lieve, che con il passare del tempo attenuano, fino a farle scomparire, le conseguenze pregiudizievoli dovute al fatto dell’offesa, certamente non possono ricorrere nell’ipotesi di una macrolesione, essendo indubitabile che il macroleso e i suoi parenti, titolari come vittime dirette del fatto plurioffensivo, e non più di rimbalzo, di un proprio diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, ogni giorno rinnoveranno il dolore e le sofferenze per quella condizione gravissima nella quale si trova il congiunto, così come è inevitabile che i genitori continuamente rimpiangano e soffrano per la perdita del figlio, rinnovandosi il dolore ad ogni anniversario, per ogni ricordo, per ogni occasione e tale dolore impedirà loro di svolgere quelle abitudini di vita che prima insieme svolgevano.

Non si gioca più a tennis ma non perché si è nell’impossibilità fisica di farlo, ma solo perché non se ne ha più voglia, perché è difficile giocare e tennis quando si soffre e dunque è solo la sofferenza che induce le emozioni esistenziali e tale sofferenza, pur se ha una fase acuta nell’immediatezza del drammatico evento, ancorché si impari a convivere con essa, mai si sopisce.

D’altra parte vi sono dei casi, e ne ho diretta esperienza professionale, e chissà quanti di voi ne avranno avute, in cui tale sofferenza non esiste o non é giustificabile né giustificata, come per esempio nel caso in cui un padre abbandoni la famiglia e dopo 20 anni, alla notizia della morte del figlio, pretenda il proprio danno morale ed esistenziale per perdita del congiunto.

È la stessa Corte infatti a pretendere la prova di questo danno-conseguenza, non essendo un danno in re ipsa.

Pura sofferenza dunque, sicché sarà ben arduo poter distinguere quanta di questa sia transeunte e quanta di questa sia permanente, o meglio sarà impossibile ritenere che laddove sussiste una sofferenza permanente duratura nel tempo tale da comportare una

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profonda modifica del vivere la vita, causare rinunce alle abitudini quotidiane, modificare le aspettative future, vi sia stato un periodo di sofferenza transeunte, sicché il danno non patrimoniale indotto dalla sofferenza è uno ed unico e non è possibile distinguere al suo interno l’aspetto morale soggettivo da quello non patrimoniale da lesione dell’integrità della famiglia o da interruzione del rapporto parentale.

Senza contare che se tale sofferenza incide nella psiche, diventa patologia e dunque danno biologico che sotto l’aspetto dinamico (come una volta si definiva l’aspetto relativo alle perdite relazionali, affettive ecc.), già comprende il ristoro del danno da sofferenza e privazioni.

Di questo è ben conscia la Corte di legittimità che si raccomanda al Giudice della liquidazione di “tener conto di quanto già eventualmente riconosciuto per il risarcimento del danno morale soggettivo” per evitare duplicazioni o sovrapposizioni assolutamente inammissibili, ma tale raccomandazione non è sufficiente perché va prima chiarito il punto fondamentale che, a mio giudizio, ingenera ulteriore confusione.

La Suprema Corte riconosce che il danno biologico va valutato nel modo più personalizzato possibile e liquidato “in precipua considerazione di quanto il soggetto non potrà più fare;

che il dolore psichico ha spesso ripercussioni sul modus vivendi di chi lo patisce nel senso di attenuarne il desiderio di attività; che alcuni tipi di patemi d’animo hanno una intrinseca attitudine ad essere inevitabilmente permanenti piuttosto che meramente transeunti”

sicché è la stessa Cassazione a considerare il rischio di quella sovrapponibilità dei vari aspetti del danno non patrimoniale che si potrebbero risarcire per tre volte, sia personalizzando il danno biologico, comprendendovi anche quel non facere che eminentemente è di natura esistenziale, sia sotto l’aspetto del danno morale subiettivo che, comprendendo le ripercussioni sul modus vivendi, impedisce le attività realizzatrici della persona, sia sotto l’aspetto degli “altri” danni non patrimoniali che ugualmente, per quelle sofferenze protratte nel tempo e durature, impediscono il fare quotidiano e le attività realizzatrici, cosicché si affretta ad avvertire che la “lettura costituzionalmente orientata dall’art. 2059 c.c.” non costituisce un “incremento generalizzato delle poste di

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danno”, né una possibilità di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi, ma è solo

“un mezzo per colmare la lacuna” in modo da ricondurre “nel sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale” la tutela risarcitoria dalla persona, comprendendo nel danno non patrimoniale il “danno biologico in senso stretto, il danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso, e i pregiudizi diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto”.

Però questo chiarimento del principio enunciato, in realtà contiene delle definizioni che invece confondono: pur essendo conscia la Corte del rischio di sovrapposizione dei vari aspetti risarcitori, e nonostante le raccomandazioni ai giudici anche di esprimere in un unico valore economico l’intero risarcimento purché si tenga conto di tutte le componenti del danno, usa il termine “danno” per indicare quelli che invece sono tre aspetti diversi dello stesso danno non patrimoniale, sicché potrebbe apparire che esistono tre danni ontologicamente diversi, così come ha infatti impropriamente affermato nell’obiter dictum l’ossequiente Consulta, di cui uno di valenza tecnica, in quanto acclarabile scientificamente, quello biologico, mentre gli altri due valutabili secondo quanto allegato e liquidabili ad equità.

È su questo punto che credo si debba fare chiarezza, risultando altrimenti una stridente contraddizione tra le premesse del ragionamento logico-giuridico e le conclusioni dello stesso.

La possibilità di equivoci sul principio enunciato dalle Corti di Legittimità e Costituzionale è stato avvertito anche da Castronuovo secondo il quale: “Se il danno non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente garantiti non è altro che il danno patrimoniale che si è liberato dai limiti previsti dall’art. 2059, ne consegue che nel caso di lesione di tali diritti una questione autonoma di danno morale non si pone più”, per cui ricondurre “la tutela risarcitoria al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale” fa comprendere come “la stessa Cassazione non si avvede che in quest’ultimo non possono concorrere contemporaneamente un “danno morale oggettivo come tradizionalmente inteso” e “pregiudizi diversi … costituenti conseguenza della lesione di un interesse

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costituzionalmente protetto, perché questa è proprio una duplicazione dello stesso pregiudizio” (C. Castronuovo in Danno e Resp. N. 3/2004, 237).

Anche Gazzoni ha rilevato l’esigenza di chiarezza e una certa contraddittorietà in alcuni passi delle decisioni in commento (F. Gazzoni “L’art. 2059 c.c. e la Corte Costituzionale: la maledizione colpisce ancora” in Resp. Civ. e Prev. 2003,1292), come l’ha rilevata Peccenini (F.

Peccenini “Al bando i risarcimenti bislacchi” in D&G 2003-29,38), come l’ha evidenziata la Navarretta (E. Navarretta “La Corte Costituzionale e il danno alla persona in fieri” in Foro It. 2003, I, 2201), come l’ha in parte rilevata anche Cendon nella comparazione tra le cose buone e le cose meno buone della sentenza 8828 (P. Cendon “Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà”), per non parlare di Busnelli e di Ponzanelli.

A ben vedere però, prescindendo delle definizioni usate nelle motivazioni delle sentenze, appare evidente che lo scopo sia stato quello di riorganizzare il sistema risarcitorio del danno alla persona per impedire “di ritagliare all’interno di tale generale categoria [danno non patrimoniale] specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo”, sicché colmando quella “lacuna” che prima induceva “alla dilatazione degli spazi propri di altre voci di danno” per non lasciarli irrisarcite, di fatto la Corte ha soltanto razionalizzato il sistema senza introdurre un nuovo e diverso danno rispetto alle precedenti categorie evidenziando un ulteriore aspetto del danno non patrimoniale che prima veniva liquidato abusivamente come danno morale.

Come bene ha affermato Franzoni al Congresso di Vicenza nell’ottobre 2003, tanto hanno guadagnato i giuristi da queste sentenza, perché intorno ad esse se ne discuterà ancora e per tanto, ma nulla di diverso è avvenuto invece per i danneggiati, perché se il danno non patrimoniale prima valeva 100 anche oggi, nonostante la individuazione dei due diversi aspetti di morale-subiettivo e di non patrimoniale da lesione di interesse primari della persona, il danno vale sempre 100.

Già le prime applicazioni pratiche dei giudici di merito denotano la impossibilità concreta di utilizzare il sistema indotto dalle correlate sentenze della Cassazione e della Consulta.

Il Tribunale di Roma ha infatti liquidato nell’unico ambito del danno non patrimoniale

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entrambe gli aspetti diversi del morale subiettivo e della lesione di altri interessi protetti della persona causati da compromissione del legame familiare perché “appaiono strettamente connessi tra loro, giacché la compromissione della vita della famiglia, segnata dal lutto subito sino a perdere o vedere grandemente scemare il proprio carattere di comunità serena basata sullo scambio di affetti, nella quale poter nutrire ed esprimere la propria personalità, scaturisce sia dalla morte di uno dei componenti, con il quale i congiunti non potranno più avere rapporti, sia dal dolore di ciascuno dei superstiti, che trasforma la loro reciproca relazione. Appare conseguentemente equo liquidare tali pregiudizi in un’unica voce di danno, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza di questo Tribunale per il risarcimento del danno morale subito dai congiunti della persona deceduta, che tengono conto nella quantificazione del danno del tipo di legame parentale, dell’esistenza di altri congiunti conviventi nonché dell’età della vittima”(Trib. Roma 4/12/03 in G. al D. 2004, n. 7, p. 57).

Quanto alla “aestimatio” del danno il giudice romano ha ritenuto che non sia sostanzialmente possibile una distinzione tra “transeunte patema d’animo e gli altri danni non patrimoniali” che potrà avere rilievo solo per la liquidazione del globale risarcimento

“nel senso che di un eventuale sconvolgimento delle abitudini della vittima si dovrà tener conto, […..] al fine di variare in più o in meno la liquidazione standard del (unico) danno morale, non certo al fine di affiancare a quest’ultimo una ulteriore posta risarcitoria”, risolvendosi il danno da risarcire nella sofferenza, poiché “qualsiasi perdita di tipo personale… non può che tradursi sempre e comunque in una sofferenza: […..]. Il danno alla persona di natura non patrimoniale, di qualsiasi tipo essa sia, è rappresentato non già dalla perdita in sé, ma dalla sofferenza che questa ingenera nella vittima”(Trib. Roma 23/1/04 D&G on line 11/2/04).

Dunque nulla è cambiato nel panorama risarcitorio del danno non patrimoniale.

2 . DANNO NON PATRIMONIALE DA LESIONE TERMINALE IURE HEREDITARIO

“In caso di evento mortale è innegabile il diritto al risarcimento del danno biologico da

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parte della stessa vittima ove il decesso sia avvenuto dopo un apprezzabile lasso di tempo dal momento del sinistro; il relativo e dipendente diritto di credito può e deve essere ritenuto trasmissibile agli eredi ma va valutato entro il limite temporale e di fatto e della effettiva e concreta compromissione del godimento della vita dal momento del sinistro a quello della morte ed ha come indispensabile presupposto il permanere in vita della persona lesa per un lasso apprezzabile di tempo, altrimenti tale danno cessa di essere danno emergente futuro ed il diritto al suo risarcimento cessa di essere un diritto giuridicamente apprezzabile e protetto”.

In questa massima non vi è nulla di particolare rispetto al principio ormai pacificamente riconosciuto dalla Corte di legittimità, mentre è particolare il fatto che ad enunciarla sia stato il Tribunale di Ancona nel lontanissimo 24/5/1991.

Mi sia concessa una divagazione commemorativa: proprio a seguito di questa sentenza, con il Consiglio dell’Ordine anconetano organizzammo un incontro-dibattito sulla questione, ancora abbastanza nuova, del danno biologico e io parlai di quello che allora si chiamava “danno biologico da morte” concludendo che si trattava di un danno di natura temporanea.

Quella mia relazione fu pubblicata sulla rivista “Circolazione e Trasporti” (R. Berti “Il danno biologico da morte” in Riv. Circ. e Trasp. nell’Ass. 1992, 39).

Sostenni allora che recentissima era la nascita di questa figura di danno biologico da morte e indicai in Gennaro Giannini il padre che lo avrebbe concepito benché dall’albero genealogico si poteva comprendere come in realtà il gene gli fosse stato trasmesso dal Carnelutti che nel 1925 aveva trattato della trasmissibilità iure hereditario del danno morale patito dalla vittima di lesioni deceduta poi in conseguenza di queste, tesi respinta dalle Sezioni Unite della Cassazione con la storica sentenza del 22/12/1925.

Di lì a tre anni conobbi Gennaro Giannini ad un congresso della Melchiorre Gioia e la prima cosa che mi disse fu: “Guarda che io non sono figlio di Carnelutti!”.

Tanta era la sagacia ed ironia di Gennaro Giannini.

Chiusa la divagazione, ma non il rimpianto per la perdita di cotanta mente giuridica,

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ritorno sul punto per dire che quello che nel 1991, quando ancora si discuteva da corte a corte, da giurista a giurista, se il risarcimento del cd. danno biologico da morte poteva essere risarcito anche in caso di exitus istantaneo, già il Tribunale anconetano, grazie alla perspicacia giuridica di quel giudice, aveva enunciato quello stesso principio che nel 1994 fu poi sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 372 nella causa Grilli contro Scolzi.

Di lì si è poi radicata tutta la giurisprudenza di legittimità che, limitandomi ad enunciare la più espressiva, si può individuare in Cass. Sez. III 12/11/1999 n. 12756 (in D. & R. 2000, n.

10, 995); in Cass. Sez. III 16/5/2003 n. 7632 (cit.) e nell’attualissima Cass. Sez. III 23/2/2004 n. 3549 (in D & G marzo 2004).

È ormai definitivo che il danno non patrimoniale, del quale oggi dopo la riorganizzazione dell’art. 2059 c.c. fa parte anche il danno biologico, può essere risarcito alla persona deceduta in conseguenza delle lesioni, e quindi trasmesso iure hereditario ai suoi eredi legittimi, sol che il deceduto sia rimasto in vita per un apprezzabile lasso di tempo, ancorché di pochi giorni, e limitatamente alle perdite subite durante quel periodo, non potendosi ritenere sussistente in capo a chi non c’è più un diritto al risarcimento per la massima lesione della salute che è la morte.

Il problema dunque non si pone più sotto questo aspetto bensì sotto quello del quantum risarcitorio.

Come avevo già sostenuto nel 1991, sulla scorta di quella sentenza anconetana, si tratta dunque di un danno di natura temporanea posto che comunque ogni danno va risarcito in relazione alla durata delle conseguenze che il danno ha indotto nella persona offesa, ma è evidente che nel caso di una lesione così grave da sopprimere completamente la salute tanto da causare il decesso, il danno non potrà essere liquidato applicando quei criteri automatici tratti dalle medie nazionali o dalle tabelle di più comune uso, perché si dovrà tener conto dei patimenti e delle sofferenze che il soggetto leso ha patito in quel pur breve arco di tempo, percependo l’approssimarsi della sua morte, e poiché il danno non patrimoniale è comune un danno di durata, è in relaziona alla durata che va proporzionato

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il risarcimento: una sopravvivenza che si protrae per lungo tempo induce indubbiamente maggiori sofferenze rispetto ad una breve sopravvivenza; una sopravvivenza in stato di lucidità con completa percezione della propria drammatica sorte, varrà certamente di più di quella di una sofferenza in stato di semi-incoscienza.

La Corte di Cassazione nella sentenza 7632 (cit.) ha infatti ritenuto congruo, perché motivato adeguatamente, il valore risarcitorio espresso nella impugnata sentenza della Corte di merito in oltre € 3.000,00 per ogni giorno di sopravvivenza, ma questa non costituisce una prassi consolidata, posto che la Corte di legittimità può intervenire solo per vizio logico-giuridico nella motivazione, ma non entrare nel merito della valutazione discrezionale del giudice quando sia supportata da idonea giustificazione motivazionale.

Il problema che si pone però è un altro e cioè quello della cd. “apprezzabilità”.

Con questo termine si è inteso di volta in volta riferirsi alla sola apprezzabilità della lesione sotto l’aspetto medico-legale, in quanto una malattia che si evolve sino all’exitus non ha comportato un perfezionamento di postumi permanenti quantizzabili attraverso indagine medico-legale, oppure nell’apprezzamento da parte della vittima della gravità della sua situazione.

In quest'ultimo caso è infatti di rilevanza il principio, di cui abbiamo già parlato nella prima parte, secondo il quale quella che viene risarcita è la conseguenza delle sofferenze indotte dalla lesione per cui non essendo il danno non patrimoniale un danno in re ipsa ma danno- conseguenza, va comunque dimostrato.

E quindi la Corte di legittimità ha sostanzialmente escluso che il danno non patrimoniale possa essere risarcito a chi non lo ha apprezzato perché non era in condizioni di lucidità.

Vedasi tra tutte la sentenza, ormai famosa, sul danno cd. “catastrofico” (Cass. Civ. Sez. III 2/4/01 n. 4783 in D. e R. 2001, 820) che ha riconosciuto ad un giovane sopravvissuto per poche ore alle lesioni, ma in stato vigile, il danno indotto dallo shock psichico subito nel comprendere che la sua vita si stava pian piano spegnendo.

Ma sul punto c’è contrasto perché la stessa III^ Sezione ha invece sostenuto esattamente il contrario e cioè che “il turbamento ingiusto dello stato d’animo che da luogo al danno

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[morale], comprende anche le sofferenze fisiche e morali sopportate dalle vittime in stato di incoscienza” (Cass. Civ. Sez. III 1/12/03 n. 18305 in D. e R. 2004, 143 che richiama Cass.

8177/94 e 7075/01).

È qui si potrebbe discutere perché nella rigorosa applicazione del principio del danno- conseguenza, si rischia allora di lasciare irrisarciti dei danni che, pur non essendo avvertiti psicologicamente dal soggetto leso, tuttavia sono indubbiamente latenti e connaturali alla situazione psicofisica in cui egli verte, ma del resto sostenere che sia risarcibile il danno dovuto alle sofferenze patite in stato di incoscienza, si risolve nel riconoscere un danno presunto e quindi un danno-evento contrariamente al principio da Cass. 8827 e 8828 enunciato.

Ne conseguirebbe l’aberrante conclusione che è preferibile causare lesioni che inducano in coma profondo piuttosto che lasciare in vita vigile il soggetto leso.

Su questo punto ancora si dovrà fare chiarezza.

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