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Essenza e valenza del danno estetico Avv. Rodolfo Berti

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Academic year: 2022

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Essenza e valenza del danno estetico

Avv. Rodolfo Berti*

In un mondo nel quale l’aspetto esteriore è tutto, dove ognuno vuol essere di più di quello che è, dove termini di paragone sono i testimonial pubblicitari, inevitabilmente il danno estetico acquista un valore mai avuto prima.

I giusti valori di una volta sono mutati e più che l’io pensante si cura l’io apparente. Oggi il patrimonio più importante del quale ognuno di noi naturalmente dispone è la “facciata”, cioè il modo di presentarsi, come appariamo agli occhi della gente.

Il look è il nostro biglietto da visita: tutto ci induce, ci invoglia e ci sollecita ad essere migliori, più belli, cioè diversi da come madre natura ci ha fatti.

“Toglietemi tutto, ma non il mio Breil!” allude quella bellissima ragazza in uno spot televisivo ed il messaggio per richiamare il prodotto è la sua bellezza: e allora compriamo quell’orologio piuttosto che un altro, magari più pregevole, ma che non rappresenta un modo di essere. La griffe, il look, il top sono gli slogans ai quali i più fanno riferimento.

Si comprano gli abiti di quella determinata griffe perché altrimenti sei out ed invece tutti vogliamo essere in.

E chi non ha questo patrimonio naturale di bellezza, chi ha avuto una “natura matrigna”, magari non fino al punto del Leopardi, si fa rifare!

Mai come oggi vengono pubblicizzate cure dimagranti, di bellezza, liposuzioni, lifting e vari interventi chirurgici per ridurre lo stomaco e l’intestino e quindi dimagrire; si rischia anche la vita pur di essere più belli, per diventare quello che le stereotipate immagini televisive o le patinate fotografie nei settimanali ci propinano.

Ci si gonfia e ci si sgonfia con diete e con ipocalorici; gli anabolizzanti sono il cibo dei culturisti.

L’anoressia e la bulimia sono diventate malattie di moda.

Le labbra sono troppo sottili? Un pò di silicone e si diventa come Alba Parietti!

Il seno è grosso: si riduce; è piccolo: si aumenta! I glutei sono cadenti, come minimo si comprano i collant che li sostengono. Il Wonderbra, che una volta si chiamava reggiseno, è diventato essenziale per tutte le donne, pettorute o meno, al solo scopo di avere “un bel seno” come Ornella Muti. Quasi tutti fanno jogging; molti l’aerobica; gli altri, quelli che non possono, li invidiano; i più fortunati si accontentano di come sono, i più prudenti non azzardano interventi migliorativi.

Gli uomini si mettono i parrucchini, o si reimpiantano i capelli; quelli che li hanno se li tingono per apparire più giovani; qualcuno si corregge “i cascami” che la vecchiaia causa nel viso, ma in ogni modo non rinunciano al loro aspetto esteriore e se i giovani si confondono nelle uniformi variopinte, che vanno dallo zainetto agli scarponi da rap, i più grandi, secondo la categoria di appartenenza, si insaccano nel casual o nel look imprenditoriale.

Tutto ciò perché l’aspetto esteriore è la cosa più importante che ci distingue: ma in questa smania di essere diversi da quello che siamo, finiamo poi per essere un pò tutti uguali!

Questo sconfortante ma provocatorio spaccato di vita moderna ci introduce in ogni caso all’esame del tipo di danno in argomento sotto un angolo di vista più attuale di quello sino ad oggi esplorato.

Una volta, il danno estetico era inevitabilmente inquadrato nel danno patrimoniale dai ristretti limiti del bipolarismo risarcitorio. D’altra parte il valore uomo fu introdotto solo con la creazione, o meglio con il riconoscimento, del già vagheggiato danno biologico.

* Avvocato Giurista, Ancona.

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Se il danno biologico è il danno base, o puro danno alla persona, destinato cioè a risarcire, con utilità economiche sostitutive, i benefici vitali perduti, se il suo scopo è quello di ripagarci di quelle perdite di valore vitale, non altrimenti quantificabili né valutabili perché non correlate a valori mercantili o proporzionate a perdite reddituali o di produttività, non può non condividersi la certezza che l’aspetto esteriore, il modo di presentarsi, la soggettiva idea di bellezza, facciano parte del diritto alla salute la cui lesione genera il danno biologico, anzi ne è la pura essenza, perché assolutamente non inquadrabile in una scala di valutazioni percentuali che attengono più al corporeo che al danno alla persona come concezione del modo di essere.

Marco Rossetti ha scritto un’interessantissima (come sempre) nota alla sentenza della IIIª Civile della Suprema Corte dell’8.5.1998 n.4677 (Assicurazioni 1998, Sez. II, 36) intitolata “Vita, splendore e morte di una (ormai inutile) nozione: IL DANNO ESTETICO” nella quale, dopo aver ripercorso la storia di questo danno, dagli inizi del secolo ad oggi, pone in rilievo il fatto che per molti il danno estetico non comporta un aggravamento del danno biologico o una sua diversa valutazione.

Peraltro, la sentenza affermava già una distinzione tra il danno estetico, quale componente del danno biologico, e la compromissione alla integrità psico-fisica, avvertendo che del primo si deve tener adeguato conto nella liquidazione del danno biologico, attraverso un'idonea personalizzazione del parametro monetario di base adottato per il risarcimento. Quindi, pur essendo una componente del danno biologico, il danno estetico va valutato per quello che effettivamente comporta nel soggetto leso, con specifico riferimento agli aspetti soggettivi che la menomazione fisiognomica determina.

Quindi è vero, proprio per la sua storia, che questo danno non può essere misconosciuto ed anzi va valutato per la grave incidenza che ha nel modo di vivere quotidiano. Però la stessa IIIª Civile il 12.1.1999, con la sentenza n.256 (Gazzetta Giuridica, Giuffrè, Italia Oggi n.7, pag. 15), precisava che nella liquidazione del danno biologico il giudice deve tener conto sia delle componenti estetiche sia di quelle della vita relazionale che risultano offese dalla lesione, ma non è tenuto all’analitica indicazione delle somme, che secondo la sua discrezionalità e secondo equità, costituiscono l’indennizzo di ciascuno dei definiti pregiudizi nei quali la lesione del bene salute si risolve.

In pratica, la Cassazione da una parte ritiene l’autonoma configurazione del danno estetico e delle ripercussioni che inevitabilmente tale danno causano nella vita relazionale, ma dall’altro, quale componente del danno alla salute, ne prevede la valutazione globale senza distinzione dalle altre ipotesi. Non sono d’accordo con questa banalizzazione perché la lesione può pregiudicare molti aspetti del vivere quotidiano dell’individuo, tipo le attività ricreative, la capacità lavorativa generica, le attività sportive praticate da dilettanti, che non avendo un’autonoma configurazione perché non incidendo in modo evidente nel modo di essere dell’individuo né comportando un pregiudizio sostanziale, possono essere patibili di valutazioni autonome, ma quando la lesione comporta una modificazione nel modo di essere, anche se non gravissima ma che comunque determina un riflesso psichico e comportamentale, allora il danno va autonomamente considerato e della sua liquidazione se ne dovrà non solo tener conto ai fini della liquidazione del complessivo danno alla salute, ma anche darne atto dettagliato.

Ha quindi ragione Rossetti quando descrive la parabola discendente del danno estetico.

In passato, come si diceva, il danno estetico c’era soltanto come danno patrimoniale, cioè come danno patibile di produrre pregiudizi nell’attività lavorativa, presente o futura, ma comunque pregiudizi economici anche se, come vedremo, a livello di capacità lavorativa generica, che è poi un’altra componente del danno biologico.

Il Tribunale di Milano nel 1946 risolse il caso di un’operaia della Borletti di 36 anni che aveva subito ferite lacero-contuse alla faccia con esiti deturpanti (“Valutazione del danno alla persona

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nella responsabilità civile” - P. Ciolla - Ed. Giuffrè 1957, pag. 295). Costei non aveva perso il posto di lavoro, quindi non aveva subito un danno patrimoniale da lucro cessante, ma gli acuti giudici milanesi, rifacendosi ai principi pronunciati dal Cazzaniga (“Le basi medico-legali per la stima del danno alla persona da delitto e da quasi delitto”, S.A. Ist. Edit. Scient., Milano 1938 – pag. 38), riconobbero l’esistenza di un danno alla capacità lavorativa generica, cioè a quella riserva potenziale di cui l’individuo comunque dispone quand’anche mantenga intatta la capacità specifica lavorativa.

Il problema era quello però di riconoscere alla giovane donna un risarcimento che non fosse satisfattivo soltanto dei nocumenti morali patiti per le lesioni, ma che andasse a compensarla di quelle diminuite probabilità di trovare un altro posto di lavoro, a causa del suo deturpato aspetto, e anche delle diminuite probabilità di trovare marito!

Si trattava quindi di ripagarla di quelle perdite vitali che il modificato aspetto esteriore indubbiamente le comportavano: dunque si trattava di liquidare un danno biologico che però al tempo non veniva ancora considerato come tale.

Invece i criteri liquidativi adottati dai giudici di quel tempo partivano da un gradiente invalidante, che era poi quello del Cazzaniga, di 30 punti percentuali che però diminuivano sino a 20 poiché la donna non aveva subito perdite economiche (è importante rilevare il costante riferimento mercantile) e ciò quindi le riduceva il danno.

La monetizzazione veniva poi fatta sulla scorta della media nazionale del reddito femminile, trattandosi appunto di una diminuzione di capacità lavorativa generica, ma sottolineava la sentenza che se si fosse preso a parametro il reddito effettivo della donna, la diminuzione doveva essere ancor più abbondante, fino a 15 punti, essendo più alto il suo reddito, del quale ancora godeva, rispetto alla media nazionale. Se da una parte quindi questa sentenza, come molte altre, accettava l’idea che il danno estetico appartenesse non solo all’ambito patrimoniale, ma riguardasse anche il danno alla persona rispetto alle sue diminuite capacità vitali, inevitabile era comunque che la liquidazione avvenisse secondo i ferrei parametri di riferimento reddituale.

Il disagio dei giudici nell’enunciare il principio logico-giuridico fu evidente, perché la giurisprudenza si doveva arrabattare a colmare quel vuoto istituzionale che inevitabilmente si avvertiva laddove si doveva considerare un danno che colpiva la persona, come essenza individuale, senza avere quegli strumenti interpretativi che solo la concezione del danno biologico ha fornito.

Ho parlato di danno al modo di essere, cioè di un pregiudizio che l’individuo subisce indubbiamente nella sua fisicità, cioè nel suo aspetto esteriore, ma le cui ripercussioni non incidono soltanto nella sua capacità lavorativa, ma soprattutto e sempre nel suo intimo, cioè nella sua psiche.

Senza dubbio Naomi Campbell, sfregiata e deturpata, subirà un danno psichico, oltre quello enorme economico, ma non si può negare che anche un comune individuo che si sia accettato con tutti i suoi difetti fisici, subisca un trauma che lo può modificare nel suo modo di essere per la perduta integrità e per la perduta immagine che di sé offriva agli altri.

La mattina davanti allo specchio ci guardiamo, controlliamo che il nostro aspetto sia quello di sempre; ci preoccupiamo dei brufoli o di nuove rughe, ma cosa succederebbe se di fronte allo specchio trovassimo il nostro viso, al quale comunque eravamo affezionati, devastato o deformato nella sua euritmia?

Quali complessi ci creerebbe assumere un aspetto diverso da quello che abbiamo?

Oggi come non mai è possibile modificare il nostro aspetto; il silicone, per esempio, è uno degli strumenti correttivi più usati dalle donne, ma è comunque una libera scelta di chi non si piace.

E’ quindi certo che il danno estetico, quale componente prevalente del danno biologico, ha in sé connotazioni cliniche di eminente valenza psicologica perché riguarda non solo l’aspetto fisico ma anche quello interiore di ogni individuo.

D’altra parte non a caso il nostro danno si definisce anche “fisiognomico” perché in esso sono

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presenti anche componenti psicologiche. La fisiognomica è infatti una disciplina parascentifica che si propone di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico e dai suoi lineamenti: già il Lombroso riconosceva i criminali dai tratti somatici del viso!

Se l’aspetto quindi è lo specchio dell’anima, la sua modifica si riverbera sull’animo stesso.

Pensate che la deturpata Naomi Campbell potrebbe ancora presentarsi al pubblico con quella superbia ed alterigia con la quale, come una pantera, sfila sulle passerelle di mezzo mondo? Pensate che una massaia, magari oggettivamente bruttina, non si vergognerebbe degli sfregi, delle ferite con le quali per sempre si dovrà presentare al fruttivendolo od al supermercato?

Pensate che un giovane, uomo o donna, non si preoccupi del suo futuro, sia lavorativo, sia sentimentale sia relazionale, dovendo portare come fardello per tutto il resto della vita un aspetto deformato?

L’aspetto patrimoniale sovente è indubbio, perché oggi come non mai “l’abito fa il monaco”, e quindi a parità di capacità, viene preferito chi ha un bell’aspetto.

Ma è altrettanto indubbio l’aspetto psichico del danno biologico perché è quello che nel tempo indubbiamente crea più pregiudizi: la profonda modificazione del modo di comportarsi, l’inevitabile insicurezza che discende dal complesso di inferiorità che affligge il diverso, non possono non valere ai fini risarcitori. Non sempre si è in grado di accettare il proprio handicap: è più facile che a farlo siano gli altri.

Il Bonvicini (“Il danno a persona” – Giuffrè 1958 – pag. 282) tutto ciò l’aveva capito ed affermava: “il pregiudizio fisiognomico incide sulla sfera psichica del soggetto. Può costituire un danno morale puro in quanto lo si veda come mero attentato alla integrità della persona che arrechi dolore fisico e psichico; ma acquista valore anche come danno patrimoniale soggettivo ed obiettivo.

Sussiste indubbiamente un danno psicologico in quanto ingeneri nel soggetto un complesso di inferiorità che menoma le funzioni di lavoro e le attività sociali ed in tal caso si traduce in danno patrimoniale, ma può nel frattempo rappresentare un danno extra patrimoniale per la sofferenza che determina il riconosciuto proprio complesso di inferiorità”. Egli era tuttavia ancora schiavo del limitato orizzonte bipolarista del danno, ma nel suo criterio emerge già il concetto di danno psichico come puro danno alla persona che quand’anche non abbia riflessi negativi nel reddito, pur tuttavia non può non costituire un danno al modo di essere dell’individuo e, come tale, oggi che il danno biologico esiste, va risarcito.

D’altra parte se il danno fisiognomico costituisce una patologia accertata con le metodiche della medicina legale, andrà risarcito come danno psichico e come tale valutato per l’incidenza negativa che avrà sulla vita, lavorativa e non, del danneggiato. Ma se si tratta solo di un complesso afflittivo che pur modificando il modo di essere, non limita le altre esplicazioni vitali, non potrà avere una valutazione autonoma ma solo un maggior peso nella liquidazione del complessivo danno biologico.

Nel nostro ordinamento civile, soprattutto nell’ambito della responsabilità civile da fatto illecito, non vi è una sola disposizione di legge, né alcuna previsione, che riguardi in modo determinato il danno estetico. Esso è una creazione giuridica elaborata dalla medicina legale, o meglio adattata alle esigenze della medicina-legale, ma si avverte la mancanza di un’adeguata considerazione di tale danno.

A ben vedere, però, nel nostro ordinamento giuridico il danno estetico è sempre stato considerato quale aggravante del reato di lesioni. L’art. 372 del vecchio codice penale prevedeva, più o meno come l’attuale 583, che la lesione risultasse aggravata sia dallo “sfregio permanente del viso” che dalla sua “deformazione permanente”, comunque più grave la deformazione dello sfregio.

Quindi, sin dai tempi passati si è data rilevanza all’aspetto esteriore, tanto che si è concessa una particolare tutela punitiva nel caso che la lesione avesse comportato un danno estetico, perché indubbiamente si era compresa la gravità che per l’individuo tale conseguenza poteva comportare.

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Si tratta invero di un antico retaggio dei tempi in cui l’offesa maggiore consisteva proprio nello sfregio o nel deturpamento con il vetriolo, che rappresentavano il massimo del disprezzo o della punizione per l’infedeltà o l’infamia. Era indubbiamente un fenomeno sociale che oggi non ha più ragione di tutela ma che tuttavia, restando nel nostro ordinamento penale, comporta l’applicazione di un’aggravante al reato di lesioni. Se si era compreso il pericolo sociale che tale tipo di reato comportava, non si capisce perché, oggi soprattutto, non siano curate adeguatamente le conseguenze civilistiche che tale reato determina.

Gennaro Giannini, di cui sentiamo sempre di più la mancanza e ne rimpiangiamo l’arguzia e la profondità delle sue invenzioni giuridiche, nella sua prima opera sul danno biologico (“Il danno alla persona come danno biologico” – G. Giannini – Giuffrè 1986, pag. 107), nel breve capitolo destinato a trattare il danno estetico, non ne mette in risalto la portata, e pur riconoscendo che “il danno estetico, quale menomazione della integrità psico-fisica della persona, è un danno biologico e va risarcito come tale, venendo in questo assorbito”, conclude frettolosamente dicendo che “quanto alla eventuale afflizione psichica, si tratta di una conseguenza non patrimoniale, da risarcirsi nell’ambito del danno morale”.

Nel 1986 Gennaro non aveva ancora valutato l’importanza dell’aspetto psichico del danno estetico, ritenendolo solo uno stato d’animo transeunte, senza tener conto che spesso assurge a patologia permanente. Però nella sua ultima opera, scritta a due mani con Pogliani (“Il danno da illecito civile”, Giuffrè 1997), riprende il discorso mettendo più in rilievo l’aspetto psichico che costituisce danno non patrimoniale (ricordiamoci che per Giannini il danno biologico aveva connotazioni non patrimoniali) e che può concorrere anche con il danno patrimoniale che tale lesione psichica può determinare.

A questo punto ritengo che, da quanto sinora detto, si possa trarre una conclusione e cioè che il danno estetico, quale componente essenziale del danno biologico, si traduce inevitabilmente in danno alla salute come lesione all’integrità psichica e/o fisica, al di là ed al di fuori di quegli aspetti che più marcatamente connotano i danni fisici per menomazioni permanenti, le cui valutazioni appartengono indubbiamente ai medici-legali che con le tabelle di riferimento possono valutarne le conseguenze.

Ma se possiamo determinare quanto sia diminuita la funzione di un organo, di un arto, o di un’attività rispetto alla totale integrità, perché vi è un'innumerevole casistica e perché la medicina legale, pur sempre empirica, è basata sugli analoghi ed in questo senso esatta, altrettanto non possiamo fare con certezza per ciò che riguarda il riflesso negativo che un danno estetico comporta per il modo di essere dell’individuo.

Si tratta indubbiamente per gran parte di una valutazione soggettiva che quindi sfugge a qualsiasi determinazione basata su precedenti o di riferimento ad altri criteri valutativi. Quello che il mio aspetto vale per me, non vale certo per un altro; quanto posso soffrire io perché non sono più quello che ero, è di impossibile determinazione medico-legale. L’armonia del viso, il modo di camminare, l’aspetto insomma, hanno un valore diverso per ogni individuo perché riguardano il suo modo di essere, attengono alle sue legittime aspettative di diventare quello che si vorrebbe.

Non possiamo quindi riferirci a criteri predeterminati e contenuti in aride tabelle perché non renderebbero assolutamente congruo ed equo il risarcimento.

Prendiamo per esempio la “Guida alla valutazione medico legale della invalidità permanente” di Luvoni-Bernardi-Mangili, che è poi la guida più nota e di più costante riferimento dei medici-legali.

In essa si trattano alcune ipotesi di danno estetico, come lo “scotennamento completo o quasi”, oppure la “gravissima deformazione del viso” e si danno valutazioni percentuali, nel primo caso di 20 punti e nel secondo di 30, ma con un’espressa avvertenza che “trattasi di voce, come tutte quelle relative al pregiudizio estetico che sono state introdotte nella tabella per la valutazione medico-

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legale del danno biologico di rilevanza patrimoniale, soggetta alle maggiori variazioni quando applicata al caso concreto, potendo tale menomazione da sola determinare la perdita della capacità specifica del lavoro in determinate professioni per le quali il requisito estetico è essenziale, così come variare in riferimento all’età ed al sesso”.

E’ quindi certo che la valutazione percentuale del danno estetico è oggettivamente impossibile come valutazione del riflesso che tale danno ha sulla persona, perché inevitabile è il riferimento al patrimonio e quindi alla capacità lavorativa specifica. Le tabelle infatti, sia questa che le altre, devono, per percentualizzare il danno, far riferimento a casi in cui simili ipotesi hanno determinato una perdita di lavoro, o siano patibili, secondo la comune nozione, di determinarla.

Non ci siamo ancora liberati dei preconcetti del bipolarismo, della valutazione mercantile, peraltro inevitabile, cui il danno alla persona è comunque assoggettato.

Io credo che questo danno, proprio perché rappresenta un tipo particolare di danno alla persona, forse il più eclatante perché da tutti avvertito e quindi di sociale rilevanza e con incidenza soprattutto nell’ambito relazionale, debba essere valutato autonomamente e quindi aggiunto alle altre conseguenze che la lesione ha comportato alla persona nell’ambito del danno biologico.

Appartiene quindi senz’altro all’aspetto dinamico del danno biologico anche sotto l’ambito relazionale e dunque sarà la parte a dover fornire, anche con il supporto medico-legale e sotto il profilo psicologico, la prova dell’incidenza negativa che il danno ha portato nel modo di essere; per mezzo di testimoni potrà provare il cambiamento nel modo di vivere, le rinunce che l’accertato complesso psichico ha determinato.

Spetterà al giudice, anche a mezzo delle presunzioni, del notorio e dell’id quod plerunque accidit, valutare il materiale probatorio ed appesantire il valore risarcitorio già riconosciuto per le componenti fisiche da cui è determinato il danno estetico.

Il compito non è certamente facile, ma in certi particolari casi il danno estetico si somma ad un danno fisico già rilevante, e allora si tratterà di dargli quella valutazione aggiuntiva di cui si parlava prima. Ma è più difficile laddove il danno estetico sia l’unico subito, come lo sfregio o cicatrice in un braccio o comunque in un punto non visibile che non comporta perdite funzionali o conseguenze collaterali ma che modifica l’armonia del corpo e limita le relazioni sociali. Per esempio una cicatrice in una gamba o sul busto, creano certamente difficoltà ad esporre il proprio corpo alla vista degli altri, come avviene sulla spiaggia.

Prescindendo dalle ovvie conseguenze patrimoniali, se provate ed esistenti, si dovrà valutare che incidenza ha per l’individuo la perdita estetica.

Sembrerebbe ovvio partire da una valutazione che tenga conto dell’età, del sesso e dell’originario aspetto, perché sembra logico che più si è giovani, belli e soprattutto donne, maggiori siano le conseguenze pregiudizievoli del danno estetico, e non soltanto perché una giovane donna con il viso sfregiato ha difficoltà a trovar marito, non essendo più oggi il matrimonio lo scopo principale della vita delle donne, ma perché si ritiene che un viso oggettivamente bello subisca un maggior danno da uno sfregio.

In realtà si deve tener conto invece che il corpo ed il viso in particolare, sono il nostro biglietto di presentazione e rappresentano ciò che siamo, soprattutto ciò che siamo abituati a vedere e a mostrare, per cui qualsiasi modificazione peggiorativa non può che costituire una perdita di funzioni vitali che determina indubbiamente il diritto al risarcimento del danno personalizzato valutato in modo soggettivo.

Il danno estetico in una persona anziana deve essere indubbiamente valutato meno che un danno estetico in un giovane, perché la sua “facciata” servirà per poco tempo ancora, come il danno estetico per il barbone avrà minor valore rispetto a quello di un manager pubblico.

A volte il danno estetico potrebbe essere eliminato da un intervento di chirurgia plastica.

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Prescindendo dalla considerazione che nessuno può essere costretto a subire un’operazione chirurgica e dal fatto che i risultati non possono essere garantiti, in questi casi però il danno potrebbe essere valutato in modo proporzionale al costo dell’intervento riparatore anche per il fatto che il creditore non può comunque aggravare la posizione del debitore.

Invece, nel caso in cui il danno invece riguarda tutta la persona per deformazione di arti od evidenti limitazioni funzionali, la valutazione allora sarà paradossalmente più semplice perché il medico-legale dovrà calcolare le diminuzioni di capacità fisica che il soggetto leso ha patito riferendosi anche ai parametri comuni, ma comunque si dovrà ricorrere al criterio dell’appesantimento del valore a punto qualora non si instauri quella patologia psichica di cui prima parlavamo che va valutata per quello che è.

Si tratta quindi non solo di inquadrare il danno nell’ambito della vita sociale con riferimento agli aspetti personalizzati di cui il danneggiato offra le prove o gli elementi di valutazione, ma anche di valutare in modo diverso, a seconda di dove effettivamente colpisce il danno estetico, i vari aspetti che la menomazione fisiognomica può comportare.

Un unico criterio quindi non è utilizzabile perché questo danno varia da persona a persona, da caso a caso a seconda della gravità, delle conseguenze che determina, della connotazione e della tipologia ed in relazione agli ambiti di vita normale che risultano pregiudicati.

E’ dunque certamente un danno per sua natura evanescente e comunque non riconducibile in una tabellazione che si ridurrebbe ad un'incongrua e fredda elencazione di misure di cicatrici, di dati clinici di riferimento, senza tener conto di quell’intimo aspetto psichico che è invece fondamentale in tale tipo di danno.

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