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DANNI DA UCCISIONI E DANNI RIFLESSI Avv. Rodolfo Berti

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DANNI DA UCCISIONI E DANNI RIFLESSI

Avv. Rodolfo Berti*

L’ottimo lavoro fatto dalla Commissione del Centro Studi Gennaro Giannini comparando i vari progetti e disegni di legge sulla riforma del danno alla persona, ha tuttavia evidenziato contrasti, anche all’interno del gruppo stesso di lavoro, sull’interpretazione concettuale di alcuni aspetti del danno da uccisione e in particolar modo sulla definizione del danno da perdita della vita. Tali accademici dissidi, peraltro, non hanno impedito che si giungesse comunque alla comune conclusione che il modello ideale di legge debba tener conto dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità (diritto vivente), ed evitare di creare contrasti costituzionali come in occasione del d.l. 70/2000.

DANNO DELLUCCISO E SUA TRASFERIBILITÀ

La maggior difficoltà di comporre la discussione si è avuta proprio in merito all’ambito di applicazione della proponenda norma nel caso di danno biologico e danno morale trasferibile iure successionis in caso di morte della vittima principale. I progetti di legge, che prevedono la risarcibilità di questo danno, si differenziano però tra loro perché il d.d.l. s/3084, che lo definisce “danno da morte”, lo ridurrebbe a mera temporanea, in quanto liquidabile il pregiudizio all’integrità psico-fisica patito

“per il solo periodo intercorso tra il momento della lesione e quello della morte”, con un criterio liquidativo basato su multipli della pensione sociale.

Allo stesso criterio si è inspirato il governativo d.d.l. s/4093, limitando anch’esso la risarcibilità del danno biologico “al tempo trascorso dall’evento dannoso”.

Diversamente dagli altri due, il p.d.l. c/6817 sembra prevedere la trasmissibilità iure successionis del diritto al risarcimento del danno biologico e morale patito dal de cuius, anche se il decesso è stato istantaneo o di poco successivo all’evento lesivo, perché all’art. 1 comma 2 prevede l’introduzione, in tema di danni da morte, di una nuova norma, l’art. 2059 ter, che afferma: “nel caso di morte del danneggiato, il diritto al risarcimento del danno biologico subito dal danneggiato si trasmette agli eredi”. La norma non contiene, quindi, alcun riferimento alla durata della sopravvivenza, ma dispone che la trasmissibilità del diritto al risarcimento ci sia in ogni caso di decesso e quindi anche immediato.

La successiva precisazione contenuta nel II comma, sulla durata ed entità delle sofferenze, riguarda il criterio liquidativo del danno, che deve avvenire in via equitativa, tenendo conto complessivamente di: a - perdita del bene vita; b - età della vittima; c - aspettative di vita; d - durata ed entità delle sofferenze intercorse tra l’evento lesivo ed il decesso.

Comparando le tre proposte di legge, risulta evidente come due rispecchino

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l’indirizzo giurisprudenziale attuale, che è quello di riconoscere la trasmissibilità del danno biologico e morale patito dal de cuius solo quando il decesso, conseguente alla lesione, sia avvenuto dopo un congruo lasso di tempo, tale da far apprezzare la perdita della salute (Cass. Civ. Sez. III 26/10/1998 n. 10629 in Ass. 2000, II-2, 45 n.

Gussoni; Cass. Civ. Sez. III 14/2/2000 n. 1633, in Giust. Civ. Mass. 2000, 331; Cass.

Civ. Sez. III 25/2/2000 n. 2134 Giust. Civ. Mass. 2000, 471), mentre il p.d.l.

presentato dal Sen. Martinat ripropone il principio, elaborato alla fine degli anni ‘80 da quel fine interprete che era Gennaro Giannini, il quale sosteneva, in modo provocatorio, la trasmissibilità in ogni caso del diritto di credito che immediatamente si radica in capo al danneggiato, anche in caso di decesso immediato, posto che inevitabilmente la lesione precede sempre la morte, anche se per un attimo infinitesimale, durante il quale, però il suddetto credito entra a far parte, come partita attiva, dell’asse ereditario del de cuius.

Ricordo che a quei tempi vi fu un ampio dibattito nella dottrina e nella giurisprudenza tra i fautori del “si” e del “no” (G. Giannini “Il danno alla persona come danno biologico” Giuffrè 1986 , 125; “Il risarcimento del danno alla persona nella giurisprudenza” Giuffrè 1991, 99; “Il danno biologico in caso di morte” in Resp. Civ. Prev. 1989, 383; “Lesioni mortali e danno biologico” in Dir. e Prat.

nell’Ass. 1988, 390; G. Giannini e M. Pogliani “Una garbata disputa autorevolmente diretta sul danno biologico da morte” Dir. e Prat. nell’Ass. 1989, 361; M. Pogliani

“Danno biologico non oltre la vita” in Resp. Civ. Prev. 1989, 394; L. Rubini “E’

risarcibile il danno biologico dell’ucciso?” in Dir. e Prat. 1988, 153; F. R. Barberis

“Inesistenza e intrasmissibilità ereditaria di un preteso danno biologico da uccisione” in Dir. e Prat. nell’Ass. 1989, 255), che riguardò anche aspetti religiosi e filosofici sul concetto vita-morte, che poi approdò nella soluzione prospettata dalla Corte di legittimità, ed ora accolta anche dalle Corti di merito, che è appunto quella della trasmissibilità condizionata ad una sopravvivenza medio tempore.

Non per arrogarmi falsi meriti, ma nel 1991 sostenni, in una conferenza ad Ancona i cui atti furono poi pubblicati dalla rivista Circolazione e Trasporti di quell’anno, che il risarcimento del danno biologico doveva essere proporzionale e commisurato al congruo periodo di sopravvivenza, per cui si trattava, in pratica, di una temporanea.

Evidentemente, tale mia soluzione colpì Gennaro Giannini, al quale avevo attribuito la paternità della figura del danno biologico da morte, indicando nel Carnelutti il

“nonno”, in quanto nel 1926 aveva sostenuto la trasmissibilità iure successionis del diritto al risarcimento del danno morale patito dal deceduto (F. Carnelutti “Il danno e il reato” Padova 1926, 17). Infatti, la prima volta che conobbi Gennaro Giannini, credo al congresso di Volterra, con quella acuta ironia che lo caratterizzava, mi disse:

“Guarda che io non sono figlio di Carnelutti!”.

Nell’ottica di cercare una formulazione ideale delle norme di legge che dovranno regolamentare il risarcimento del danno alla persona, a mio giudizio non si deve perdere di vista la concretezza e la certezza del diritto, per il duplice fine di non esasperare i concetti risarcitori a discapito della concretezza ed equità, e di non travalicare il limite della riferibilità del danno al fatto ingiusto.

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Il progetto in esame, tra l’altro, usa la dizione bene-vita, che mi è subito sembrata vaga e in qualche misura inopportuna perché, in riferimento alla lesione, non mi consta che tale bene sia tutelato da norme civilistiche.

Quello che la Carta Costituzionale e il diritto vivente tutelano è la salute dell’individuo, spettando al giudice penale, nell’interesse della società civile, perseguire chi sopprime la vita. Dunque il bene-vita è una figura inesistente che, per quanto suggestiva, può portare ad introdurre nell’ambito del diritto al risarcimento figure di danno non tutelabili.

Non per ripetere quanto è già stato affermato, ma è impossibile ritenere l’esistenza di un diritto al risarcimento per aver perduto la vita in capo a chi la vita non l’abbia più: è invece ammissibile che le conseguenze dell’illegittimo comportamento, di rilevanza penale o meno, che ha determinato il decesso, siano risarcibili in capo a chi da tale evento ferale ha subito un danno. È proprio su questo principio che si è affermata la risarcibilità, invece, del danno alla salute patito nell’intercorso periodo tra lesione e decesso, perché quel danno appartiene a chi l’ha subito, mentre le conseguenze della morte si riverberano non sulla vittima che non c’è più, ma su quelle di riflesso, cioè sui suoi congiunti. Ammettere il contrario significherebbe duplicare il risarcimento, riconoscendolo una volta in capo al già deceduto e una volta in capo ai superstiti. Non caso, infatti, il p.d.l. c/6817 pone a base del calcolo equitativo della liquidazione alcuni elementi da valutare nel loro complesso, che sono appunto gli stessi criteri che vengono posti normalmente a base per la liquidazione del danno patito dai congiunti dell’ucciso. Costoro infatti, proprio per la perdita del bene-vita del loro congiunto, hanno diritto al danno morale che tale perdita ha loro causato, che sarà più elevato se si trattava di una persona giovane che aveva ottime aspettative di vita, le quali, tra l’altro, comportano un diritto al risarcimento di un danno patrimoniale subito dai congiunti per la perdita delle loro legittime aspettative fondate sull’esistenza in vita dell’ucciso.

Peraltro ritengo che gli altri due progetti, l’s/4093 e l’s/3084, limitando la risarcibilità del danno a livello di mera temporanea, cioè un quid per ogni giorno di sopravvivenza, siano troppo restrittivi in quanto, se è vero che il deceduto non ha patito i pregiudizi esistenziali della malattia, perché è intervenuto l’exitus, non può negarsi che la lesione mortale sia più grave di una malattia temporanea che può concludersi o con la guarigione totale, o con una guarigione clinica con postumi permanenti.

Credo dunque giusto che si debba considerare, oltre alla durata della sopravvivenza, l’entità della lesione che può anche essere patibile, in qualche caso, di accertamento e quantificazione medico-legale.

Sarebbe quindi corretto prevedere l’attribuzione, in via equitativa, di una somma per ogni giorno di sopravvivenza, tenendo conto delle sofferenze effettivamente patite, del tipo di lesione subita dalla vittima, qualora sia suscettibile di accertamento medico-legale, come il caso di coma depassè o di amputazione di un arto o di un organo.

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DANNI RIFLESSI DA UCCISIONE

Altro aspetto del danno da uccisione è la conseguenza che di rimbalzo il fatto comporta per alcune categorie di persone legate alla vittima da rapporti familiari: i famosi prossimi congiunti del cui novero tratteremo tra poco.

È inutile ricordare la sentenza della Corte Costituzionale n. 372 del 1994 (Corriere Giuridico n. 12/94, 1455), che, pur non essendo certo un esempio di correttezza interpretativa e di chiarezza, è pur sempre un dettato che ha limitato la risarcibilità del danno biologico patito iure proprio dai congiunti della vittima da uccisione, ai soli casi in cui la malattia costituisca una patologia accertabile secondo i criteri della medicina legale.

Non è tale impostazione che ha suscitato le rimostranze dei giuristi da Ponzanelli a Giannini, Monateri ecc., quanto, invece, l’aver riportato nell’ambito del danno patrimoniale quello che la Corte Costituzionale del 1986 aveva indicato appartenere all’ambito extrapatrimoniale. Comunque, la precisazione della Corte Costituzionale, tutto sommato, era anche evidente dal momento che, secondo il nostro diritto, non esiste risarcimento se non c’è un danno ingiusto che sia conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. È anche vero, però, che tale principio ribadito dal giudice delle leggi è stato poi di fatto superato dalle Corti di merito, che hanno continuato quell’opera di erosione, come l’ha definita Monateri, dell’art. 2059 c.c. riconoscendo in capo ai familiari dell’ucciso anche voci di danno che non fossero vera e propria conseguenza di una patologia. Vedasi Tribunale Milano del 31/5/1999 (Riv. Circ.

Trasp. 2000, 142 nota M. Rossetti) con la quale è stato riconosciuto ai congiunti il diritto al risarcimento di un danno da loro direttamente patito per la perdita “del godimento della compagnia, dell’affetto e del sostegno morale offerti dal congiunto, danno che deve qualificarsi di natura patrimoniale”; o quella del Tribunale di Treviso, del 25/11/1998 (Ivi, 143 n. Rossetti) che ha riconosciuto ai congiunti del deceduto il risarcimento “del danno biologico da morte per la perdita del rapporto parentale”; o, da ultimo, il Tribunale di Firenze con la sentenza 24/1/2000 (Arch.

Giur. Circ. e Sin. 2000, 601) che ha riconosciuto ai congiunti dell’ucciso il “danno edonistico”, figura finora sconosciuta.

Di fronte a queste aperture, alle quali comunque è sensibile la Corte di Cassazione, anche se per altri aspetti di cui poi tratteremo, appare corretto tenerne conto nella formulazione della norma, ma per farlo congruamente, nel rispetto della più volte richiamata esigenza di certezza del diritto, è prioritariamente necessario che il danno biologico venga definito nella sua essenza in modo chiaro e concreto, onde evitare sbavature interpretative che, a cascata, si ripercuoterebbero anche su tutti gli altri aspetti di danno diretti e riflessi. È indubitabile che i parenti dell’ucciso abbiano diritto al risarcimento del danno che la perdita della persona cara ha comportato, ed è ormai accettato che tale risarcimento sia loro riconosciuto in ogni caso, anche al di fuori dei superati limiti dell’attuale formulazione dell’art. 2059 c.c.

Quando si perde una persona cara, il turbamento dell’animo, le modificazioni del modo di vivere la vita, certamente più evidenti e palpabili nell’immediato, comunque rimangono anche per tutto il resto della vita, e tale aspetto costituisce un danno

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ingiusto che deve essere risarcito.

Quando il turbamento o il pregiudizio psicologico diventa patologia, cioè modificazione psichica del modo di essere, dovrà essere risarcito anche il danno biologico, secondo il dettato della sentenza Mengoni.

C’è però il rischio di una duplicazione, perché se il danno morale, nella innovativa previsione, non è più deputato a risarcire le conseguenze del reato o negli altri casi previsti dalla legge, il suo ambito di applicazione riguarderà indubbiamente quello che oggi viene definito danno esistenziale, cioè quel danno che non è patrimoniale, che non è biologico, ma che riguarda il pregiudizio della normale esistenza. Si tratta quindi di un danno conseguenza di un fatto ingiusto. Ma il danno biologico, nella duplice sfera statica e dinamica, comporta che dopo l’accertamento medico-legale della entità della lesione le conseguenze, che pregiudicano o modificano il modo di vivere la quotidianità, vengano risarcite: è il criterio della personalizzazione del danno biologico che riguarda la sfera relazionale, e quindi si tratta indubbiamente del danno esistenziale. Ecco qual è il rischio della duplicazione, rischio che attualmente non c’è in quanto il danno dinamico-esistenziale è risarcito come lesione del diritto alla salute, mentre il danno morale ripaga le offese del reato, cioè di quei turbamenti che il fatto illecito ha causato. Si tratta, quindi, di compenetrare le attuali esigenze espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza con quell’equilibrio che un perfetto modello risarcitorio deve comportare. Se vi è quindi l’esigenza di una norma che preveda il risarcimento del danno ingiustamente subito, anche se non collegato ad una patologia, ma per il solo fatto di ritrovarsi con una vita diversa, dall’altra vi è quella di impedire duplicazioni del danno, il che rende estremamente delicato l’intervento del legislatore.

DANNI RIFLESSI DA MACROLESIONE

Questo discorso vale anche per il danno subito dai congiunti o familiari del macroleso, benché per costoro, che non sono vittime dirette dell’altrui illecito, è necessario superare l’attuale limite dell’art. 2059 c.c..

Di fatto, tale superamento è già da tempo avvenuto da parte delle Corti di merito e di legittimità, quantomeno dal 1998 (Cass. Civ. Sez. III 17/11/1997 n. 11396; Cass.

Civ. Sez. III 17/10/1992 n. 11414; Cass. Civ. Sez. III 16/12/1988 n. 6854), benché la stessa Cassazione, Sezione Lavoro, però, ha – con una recentissima sentenza del 23/2/2000 (Cass. Sez. Lav. 23/2/2000 n. 2037 in Ass. 2000, 144) – negato la risarcibilità di tale danno.

Poiché una rondine non fa primavera, e nella previsione, ormai certa, che il 2059 esca dagli attuali limiti, appare dunque inevitabile che il danno morale sia liquidato anche ai parenti del macroleso, sempre che sussista il nesso causale e sia dimostrato il pregiudizio. Curioso può risultare il fatto che alcuni progetti limitino tale diritto all’entità della lesione patita (50%) dal macroleso, o ne elenchino lo specifico tipo di lesione, non tenendo conto che, qualora una malattia lunghissima e gravissima abbia afflitto il soggetto leso, coinvolgendo quindi nel dramma tutti i familiari, ma si sia poi risolta con completa guarigione, il danno dovrebbe essere ugualmente riconosciuto.

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È dunque difficile poter trovare un giusto equilibrio tra le opposte esigenze che si manifestano nei vari progetti esaminati, ma un buon lavoro di cesello può prendere il meglio da ognuno sempre nel rispetto di quelle priorità alle quali più volte si è fatto riferimento, cioè certezza e concretezza.

PROSSIMI CONGIUNTI

L’aspetto peraltro più rilevante è quello dei c.d. aventi diritto al risarcimento.

Costoro, a seconda dei progetti o disegni di legge, variano da familiari o prossimi congiunti senza ulteriori specificazioni, alla dettagliata elencazione del coniuge, figli, genitori, fratelli, sorelle e parenti entro il secondo grado, sino a comprendere anche la c.d. famiglia di fatto, cioè il convivente more uxorio, con vari criteri per determinarne la legittimazione, relativi alla durata della coabitazione, sino ad arrivare a “chiunque”

sia legato da intenso, stabile, duraturo legame affettivo con il danneggiato principale.

Emerge, quindi, che da una terminologia estremamente vaga come “familiari” o

“prossimi congiunti”, che comunque si riferisce a soggetti facilmente individuabili per i vincoli parentali, si arrivi alla più ampia apertura verso “chiunque” dimostri un rapporto di durevole affetto. Evidente è il riferimento ai fidanzati, alla persona amata che non sia convivente, ma nulla impedirebbe che si possa intendere anche chi sia legato da profonda amicizia, da rapporti di stima, di ammirazione, perduranti nel tempo.

Anche in questo caso, sarà necessaria una certa prudenza proprio per impedire o facili speculazioni, o che persone, che hanno effettivamente patito un danno, non vengano risarcite, come per esempio i nonni o i nipoti.

Particolare attenzione merita l’inserimento, tra gli aventi diritto al danno biologico e morale iure proprio in caso di decesso del danneggiato, dei “figli già concepiti al momento dell’evento lesivo ma nati successivamente”, come prevede il p.d.l. c/6817.

Su questo argomento la dottrina (Navarretta - “Danni da morte e danno alla salute”

Padova 1995, 227; Rescigno “Il danno da procreazione” Riv. Dir. Civ., 1956, 629;

Coviello “La tutela della salute dell’individuo concepito” in Dir. Fam. 1978 , 247;

Bigliazzi Geri “Interessi emergenti, tutela risarcitoria e nozioni di danno” in Riv.

Crit. Dir. Priv. 1996, 45; Zeno Zenchovic “Il danno al nascituro” in Nuova Giur.

Civ. Com. 1994, I, 697; Monateri “Diritto soggettivo” in Dig. Disc. Priv. 1990, 424) e la giurisprudenza (Cass. 28/12/1973 n. 3467 in Foro It. 1974, 667; Cass. 22/11/1993 n. 11503 in Corr. Giur. 1994, 479; App. Torino 8/2/1988 in Giur. It. 1989, I, 2, 690;

Trib. Monza 8/5/1998 in D. e R. 1998, 927) sono divise con contrasti notevoli, perché è imbarazzante dover affrontare un problema che coinvolge, anche questo, aspetti non solo giuridici, ma filosofici e religiosi.

La vita inizia con la gestazione o con il primo vagito? La legge sull’aborto sembrerebbe, anche se entro certi limiti, ritenere che il feto non sia un soggetto giuridico, mentre gli antiabortisti ne tutelano comunque l’esistenza. Però non può negarsi che un figlio nato senza aver mai conosciuto il padre possa crescere con problemi non solo patrimoniali, ma soprattutto morali e psicologici. La Cassazione, con la ormai famosa sentenza 7713 del giugno scorso (Cass. Civ. Sez. I 7/6/2000 n.

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7713 in Giur. It. 2000, 1352 nota Pizzetti), ha riconosciuto il danno esistenziale subìto da un giovane il cui padre lo aveva del tutto abbandonato, ritenendo la violazione dell’art. 2043 del Codice Civile in relazione all’art. 2 della Costituzione.

Questo, più o meno, potrebbe per analogia essere la chiave di lettura del diritto al risarcimento del concepito. Di contro, non può non andare il pensiero a quei casi in cui, per scelta della madre, il figlio nasca senza un padre, sia perché non è stato possibile individuarlo, sia perché la donna è ricorsa all’inseminazione artificiale: in questi casi, comunque, vi sarebbe la violazione del diritto tutelato dall’art. 2 della Costituzione, o meglio dall’art. 30, e quindi responsabili potrebbe essere la madre che per sua esigenza ha scelto l’inseminazione artificiale o di fare una vita allegra, o il padre che è sparito.

In ogni caso, gli strumenti del nostro ordinamento serviranno per regolamentare il risarcimento secondo le previsioni dell’art. 1223 del Codice Civile, e cioè nesso causale e dimostrazione del danno.

La conclusione che ci ha trovato tutti d’accordo è che, data la estrema difficoltà di contemperare le esigenze di tutti, e correlarle al dettato costituzionale e giurisprudenziale, sarà necessario un periodo di prova, durante il quale vedere come gira la ruota della nuova giustizia risarcitoria sul danno alle persone, per poi oliarne gli ingranaggi con correttivi o modifiche che la facciano girare più celermente.

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