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IL CONSENSO INFORMATO Avv. Rodolfo Berti

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Academic year: 2022

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IL CONSENSO INFORMATO

Avv. Rodolfo Berti*

Parlare dopo Virginia Zambrano di uno degli aspetti più rilevanti della responsabilità sanitaria potrebbe apparire difficile soprattutto per chi, come me, deve gran parte del proprio bagaglio culturale alla lettura delle sue opere, che hanno lasciato un’orma indelebile nel panorama dottrinario delle problematiche relative alla colpa del medico.

In realtà, però, l’impegno è semplificato, perché eviterò di parlare dell’aspetto eminentemente giuridico dell’istituto del “consenso informato”, delle sue origini, delle varie interpretazioni sugli ambiti di appartenenza contrattuale, precontrattuale o extracontrattuale, per risolvere tutto il mio impegno nella esposizione di casi concreti, dei quali mi sono professionalmente occupato, o di arresti giurisprudenziali attraverso i quali potremo poi comprendere come in pratica oggi il consenso sia valutato dalle Corti penali e civili come elemento essenziale per l’esame della responsabilità del medico.

La rilevanza giuridica del consenso nell’ambito del rapporto medico paziente spiega i suoi effetti più gravi ed immediati in sede penale per le ormai note connotazioni delittuose che dall’omissione dell’informazione derivano, ma anche in civile vi sono delle rilevanti conseguenze dovute all’opera della giurisprudenza, che ha allargato i confini della responsabilità del medico per una più ampia tutela del paziente danneggiato.

Ho notato che indubbiamente il legislatore ha anticipato il giudice inserendo l’obbligo dell’informazione, e quindi del consenso, in varie leggi – come l’art. 33 della L. 23/12/1978 n. 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, il quale afferma la volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari; come, ancora, la legge 1/4/1999 n. 91 sui prelievi e trapianti di organi e tessuti, il cui art. 4 prevede una dichiarazione di volontà in ordine alla donazione degli organi. In modo ancor più specifico, la Legge sulla trasfusione di sangue e degli emoderivati – di cui al D.M.

15/1/1991 – il cui art. 19 non solo prevede che il paziente da trasfondere dia il proprio consenso, previa ampia informazione dei rischi, ma che esprima detto consenso in un modulo prestampato addirittura pubblicato sulla G.U. con la quale è stata pubblicata la legge stessa. È quindi evidente come il legislatore abbia tenuto doveroso conto del disposto costituzionale dettato dagli artt. 13-32, e dall’art. 5 del Codice Civile.

Normalmente avviene al contrario, perché pur essendo la figura della quale parliamo ormai vecchia di decenni (proprio la Zambrano riferisce una Cassazione Penale del 1934 in un caso di “ablazione della ghiandola sessuale”), in realtà il problema del consenso informato è sorto nei primi anni novanta, quando la giurisprudenza di

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merito e di legittimità, in modo sempre più pressante, ne prese coscienza ricorrendo ad istituti propri di altri fattispecie per maggiormente sanzionare il mancato rispetto dell’autodeterminazione del paziente da parte del medico curante.

In precedenza, solo sporadiche decisioni avevano trattato della violazione del consenso come presupposto della responsabilità del medico, molte però senza porne in rilievo la essenziale rilevanza giuridica, preferendo in ogni caso seguire la strada del generale principio del neminen laedere, e quindi la responsabilità da fatto illecito (Cass. Civ. 12/6/1982 n. 3604 in Arch. Civ. 1982, 1124; Tribunale Latina 4/12/1990 in Foro It. 1992, I, 3149 con nota di N. Cosentino; Cass. 8/8/1985 n. 4394 in Giur. It.

1987, I, 1136 con nota di M. Romano; Cass. 25/11/1994 n. 10014 in Foro It. 1995, I, 2913 con note di E. Scoditti e E. Ronchi; Cass. 21/121978 n. 6141 in Foro It. 1978 I, 1, 4; Cass. 24/3/1979 n. 1716 in Giust. Civ. 1979, I, 1440).

Credo opportuno mettere a confronto quei pochi casi trattati dalle Corti che stanno caratterizzando il dibattito sulla qualificazione del delitto di lesioni od omicidio commesso da sanitari in caso di mancato consenso.

La prima rilevante decisione è quella relativa al noto caso Massimo: la Cassazione Penale V Sezione con sentenza 21/4/1992, ha definitivamente condannato un medico per omicidio preterintenzionale, affermando: “Il consenso del paziente deve esser manifestato preventivamente al trattamento medico-chirurgico da eseguire. Il chirurgo non è abilitato ad eseguire un altro intervento,non preventivato né consentito ed al di fuori di una condizione di necessità ed urgenza per la salute del paziente. Le lesioni derivanti da un intervento chirurgico eseguito senza il consenso del malato configurano il delitto di lesioni personali volontarie. Si delinea il delitto ex art. 584 c.p. qualora dalle lesioni consegua, come evento non voluto, la morte del paziente”(Cass. Pen. Sez. V, 21/4/1992 – Cass. Pen. 1993,63).

Da questa massima risulta una formula giuridica di terrificante perfezione per quella sorta di sillogismo per il quale, premesso che la lesione chirurgica è sempre volontaria; che viene scriminata solo dalla necessità o dal consenso informato del paziente, ne consegue che se alla lesione non consentita succede la morte quale evento non voluto, il reato commesso è quello di omicidio preterintenzionale di cui all’art. 584 c.p.

Il ragionamento è, sotto il profilo eminentemente giuridico, perfetto – benché possa ripugnare applicarlo nei confronti di un medico che, quand’anche negligente o irrispettoso dei diritti del proprio paziente, comunque abbia effettuato la sua prestazione nel di lui interesse. E’ forse per questo disagio che la stessa Corte di Cassazione, a distanza di 6 anni, durante i quali sulla fattispecie non si è più pronunciata, in un’altra sentenza inedita, relativa ad un caso del quale mi sto ancora occupando (Cass. Pen. Sez. IV 23/2/1998 n. 2181), ha poi mitigato il rigore interpretativo affermando: “L’ambito dell’informazione che il medico deve fornire al paziente per ottenerne un consenso ampio ed informato, si estende per tutta l’area necessaria ad evitare l’errore essenziale in concreto, quello cioè che abbia costituito

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conditio sine qua non della prestazione del consenso, fermo restando che l’elemento psicologico deve caratterizzarsi in senso doloso, anche eventuale e generico ma pur sempre con animus laedendi, potendosi altrimenti configurare il reato di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, quale ad esempio la violenza privata”.

Richiama, quindi, la Corte, con questa difficile motivazione che mostra tutta la prudenza con la quale ha affrontato l’argomento, la necessità di una specifica indagine sull’elemento psicologico dell’agente al fine di stabilire se il consenso sia affetto da errore essenziale per omessa o inadeguata informazione, cosicché la lesione costituisca evento voluto dal quale deve emergere la consapevolezza, indicativa di dolo eventuale o generico, che ne poteva conseguire l’evento più grave della morte.

Questa motivazione è in perfetta sintonia con il principio precedentemente espresso nel caso Carmigniani dalla stessa Corte (Cass. Pen. Sez. V 12/5/1992 n. 5544 in Giur.

It. 1993, II, 123 con nota di M. Pedrotta) che aveva ritenuto, in un caso di cessione di droga ad un soggetto tossico-dipendente e malato, la sussistenza dell’omicidio preterintenzionale a carico dello spacciatore, il quale aveva direttamente iniettato nelle vene del cliente una quantità di eroina che, in quella contingente situazione, aveva determinato l’overdose e quindi il decesso. Nel caso di specie, la Cassazione, giudicando sussistente il dolo eventuale, cioè la previsione dell’evento maggiore, anche se non voluto, ha ritenuto applicabile al fatto l’ipotesi dell’omicidio preterintenzionale, in sintonia con la sentenza delle Sezioni Unite del 6/12/1991 (Cass. Pen. 1993, 3) che aveva appunto chiarito il discrimen tra dolo eventuale e dolo alternativo, proprio al fine della individuazione del reato di omicidio preterintenzionale rispetto al volontario, affermando la antiteticità delle due proposizioni, essendo il primo caratterizzato dalla mancanza del proposito di cagionare l’evento delittuoso pur con la consapevolezza della sua probabilità o possibilità, mentre nel secondo è indifferente per l’agente quale evento, se il minore o il maggiore, si possa realizzare. In pratica, proprio per questo più ampio panorama di indagine sull’elemento psicologico, a differenza del caso Massimo dove il sillogismo rendeva inutile tale ricerca, la Suprema Corte mitiga le drammatiche conseguenze della violazione del consenso informato richiamando in alternativa, qualora non vi sia il dolo generico od eventuale, e cioè solo la prospettazione dell’evento maggiore, altre figure meno gravi di reato del tipo omicidio o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.), che ipotizza nella violenza privata, che comunque rappresenta un aggravamento rispetto alle lesioni o all’omicidio colposo, sia per la competenza che prima dell’introduzione del Giudice Unico spettava al Tribunale, sia per l’aumento della pena.

Recentissimamente, il G.I.P. presso il Tribunale di Ancona ha rimesso gli atti al P.M., perché ai tre componenti di un’equipe chirurgica, già imputati del reato di lesioni colpose gravissime, venisse contestato anche il reato di violenza privata, in relazione al fatto che il giovane paziente era stato sottoposto all’anestesia e all’intubazione orotracheale senza richiedere ai genitori il consenso, per cui ha

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ritenuto il Giudice la sussistenza del reato di cui all’art. 610 c.p., in quanto la sottoposizione per unilaterale decisione ad anestesia intensificata, con l’intubazione orotracheale, rappresenta appunto un atto di violenza. Ad ulteriore conferma di quanto il problema sia affrontato con travaglio dalla giurisprudenza, c’è la recentissima ordinanza del G.I.P. di Palermo, che ha addirittura disposto l’archiviazione per infondatezza della notizia criminis del procedimento per omicidio preterintenzionale contro un chirurgo che, ottenuto il consenso della paziente ad un tipo di intervento, ne aveva poi effettuato un altro, a seguito del quale la donna era deceduta, per imprevedibili complicanze postoperatorie non addebitabili al medico, affermando un principio che, se può condividersi sotto l’aspetto morale, giuridicamente lascia alquanto perplessi: “De iure condito, e fino a quando non verrà introdotta nel nostro sistema penale una norma che sanzioni specificamente l’intervento medico senza previo consenso del paziente, in ossequio ai principi di stretta legalità e tassatività della fattispecie penale, non può considerarsi integrata la fattispecie di cui all’art. 584 c.p. (o di cui all’art. 582 c.p.), ogni qualvolta il medico abbia eseguito l’intervento chirurgico (ovviamente fuori dei casi in cui sia operante lo stato di necessità) in assenza del consenso del paziente e ne sia derivato un esito infausto, pur essendo stato l’intervento condotto e portato a termine secondo le regole dell’arte” (Trib. Palermo ord. 31/1/2000 – Foro It. 2000, II, 441).

Infatti, non credo che competa al giudice presumere una vacatio legis circa la disciplina di un’ipotesi delittuosa e pertanto non procedere contro il colpevole, qualora ne sussistano gli estremi di responsabilità penale secondo la previsione di altre norme. Comunque, la lettura dell’ordinanza fa comprendere come quel G.I.P.

abbia voluto in qualche misura rappresentare il grave disagio in cui si trova chi deve giudicare un medico perché ha effettuato un intervento chirurgico senza il dovuto consenso.

A sgombrare il campo da ogni dubbio interpretativo c’è, però, la inedita sentenza della Corte di Appello di Torino, che, il 10/5 scorso, ha ritenuto colpevole un medico del reato di omicidio preterintenzionale, riformando la sentenza di I grado con la quale il G.I.P. lo aveva invece condannato in forza degli artt. 610 e 586 c.p..

Il ragionamento logico giuridico della Corte torinese è, se ci si astrae dalla realtà fattuale, assolutamente preciso nell’escludere che, in simili fattispecie di morte per atto chirurgico privo di consenso, sia ipotizzabile la violenza privata e quindi l’omicidio come conseguenza di altro reato. Seguiamone la motivazione:“Il comportamento violento deve in ogni caso essere esplicazione di energia fisica o manifestarsi anche attraverso mezzi anomali diretti comunque a realizzare pressioni sulla volontà altrui………l’art. 610 c.p. necessita della violenza, propria o impropria che sia. Il “non aver detto” può ritenersi atto di violenza? Avremo, in caso di risposta positiva, una “violenza” muta, senza azione. La conclusione è che

…………nel gesto medico non esiste un atto di violenza autonomo ma un divenire che ha in sé aggressione fisica in senso naturale”. Esclusa la sussistenza del reato più

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favorevole di violenza privata, la Corte affronta con lucida chiarezza la problematica del consenso informato al fine di individuare la violazione che la omissione di tale dovere comporta: “se si legge l’art. 32 Cost. attraverso tutte le interpretazioni date dalla stessa Corte Costituzionale, se ne deduce che la “salute” è espressione della persona e del suo modo di essere contro tutte le imposizioni. Ecco perché esiste il diritto ad essere curati e non il dovere di curarsi………La salute, che non è un concetto astratto ma va inteso come integrità fisica e psichica, è bene del paziente.

Ma anche la malattia ne fa parte. Si può decidere di vivere con la malattia. Lo “star bene” per un soggetto può essere quello di tenersi la malattia”. Per dimostrare poi che la lesione chirurgia è dolosa in ogni caso, anche se finalizzata al bene e caratterizzata non dall’animus necandi, bensì iuvandi, afferma: “non è sostenibile la posizione di chi ritiene che chi agisce a fin di bene agisce sempre in modo lecito, perché in tal caso sarebbe lecita anche l’eutanasia. Il medico deve sapere che non è legibus solutus, solo perché il fine è buono, senza il consenso vengono meno le guarentigie dell’ordinamento. Egli pone in essere un atto solo formalmente terapeutico ma che potrà avere rilevanza penale”. La Corte, poi, esclude che in quel caso l’omissione della informazione fosse dovuta ad errore per imperizia del medico, e quindi elimina la colpa e lo condanna per omicidio preterintenzionale a 2 anni 11 mesi e giorni 10 di reclusione. Pur in tutta la sua drammaticità, il discorso giuridico è ineccepibile, e ciò lo rende più terrificante.

Vedremo ora cosa dirà la prudente Corte di legittimità alla quale quel medico è ricorso.

A dimostrazione di come la violazione del diritto a disporre liberamente del proprio corpo costituisca comunque per la giurisprudenza di legittimità un’ipotesi grave che va perseguita in proporzione, prescindendo dalla sussistenza dei reati tipici di lesioni o di omicidio colposo, si deve annotare la sentenza della IV Sezione Penale della Cassazione del 21/3/1997 ( Foro It. 1997, II, 761) con la quale è stato condannato un aiuto primario ospedaliero per rifiuto di atti di ufficio (art. 328 c.p.):

costui aveva taciuto alla gestante informazioni riguardanti la salute del nascituro, affetto da gravissime anomalie genetiche, cosicché costei era stata posta nell’impossibilità di optare per l’interruzione volontaria della gravidanza.

Questo è un caso scolastico, nel senso che la legge 194 del 1978 prevede appunto la volontarietà, dinnanzi a determinati requisiti, della interruzione della gestazione, e per farlo il medico deve informare la paziente delle condizioni in cui il feto si trova.

La violazione di tale dovere imposto dalla legge configura a carico del medico, quando sia dipendente del Servizio Sanitario Nazionale, la sussistenza dell’ipotesi di reato, anche se non vi sia stato un danno per la persona del paziente e quindi, forse con estremo rigore interpretativo, i giudici penali lo hanno ritenuto colpevole di omissione di un dovere che gli era imposto dalla legge in virtù dell’incarico pubblico dal medico ricoperto.

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Quello che emerge da questa rapida disamina delle poche decisioni pronunciate dalle Corti nei pochi casi giunti al loro esame, è che il consenso costituisce il presupposto fondamentale perché l’attività medico-chirurgica possa essere effettuata senza rappresentare ipotesi di illecito. La considerazione per la rilevanza giuridica del consenso dell’avente diritto la si ricava soprattutto da alcuni casi diversi dalla responsabilità dei sanitari di cui la Corte in passato si è occupata, in quanto a regolare l’istituto della scriminante in oggetto è sempre quel gruppetto di norme di cui fanno parte l’art. 5 c.c. e 13 e 32 Cost.

La Cassazione ha ritenuto sussistente il reato di lesioni volontarie in un caso di pratiche di sadomasochismo, cui la vittima si era volontariamente sottoposta prestando però solo il consenso per alcune di esse, e non per quelle più violente e lesive (Cass. Pen. Sez. I 16/6/1998 n. 9326 in Cass. Pen. 1999, 2514). Questo è un caso limite, perché non so quanto sia stato tenuto in considerazione l’art. 5 del Codice Civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando siano contrari al buon costume, ma forse la Corte, che qualche volta si è dimostrata sensibile all’evoluzione del costume, ha ritenuto quelle estreme pratiche erotiche non contrarie al buon costume, rispettando di più il principio della libertà sessuale: viene però da chiedersi se un vero masochista, che prova piacere nel dolore, si possa poi lamentare di averne provato….. troppo!

Comunque, l’altalenanza delle decisioni, che di volta in volta si barcamenano tra le ipotesi più gravi, sino ad arrivare alla totale esimente perché il fatto non è previsto come reato dalla legge penale, dimostra come a tutt’oggi il problema non sia risolto, e forse ha ragione quel G.I.P. di Palermo ad auspicare un’apposita normativa, anche perché si arriva al paradosso che, quand’anche l’intervento chirurgico abbia determinato la guarigione del paziente, il medico può essere ritenuto colpevole di lesioni volontarie se il consenso prestatogli per quell’intervento non era ampio ed informato.

Se per il giudice penale il consenso è un atto obbligatorio e necessario per scriminare la colpa dell’agente, dalla cui mancanza derivano conseguenze gravi e ipotesi di delitto maggiori, per qualità, rispetto a quelle tradizionali dell’omicidio o della lesione colposa, anche per il giudice civile l’istituto in esame gioca un ruolo determinante, e lo sarà sempre di più – da quello che si può intendere da alcune recenti sentenze. Che la giurisprudenza civile sia ormai da tempo votata ad allargare i confini della responsabilità del medico oltre quelli ristretti dalle norme codificate e in particolar modo dall’art. 2236 c.c., lo si comprende chiaramente leggendo le più recenti decisioni delle Corti di merito e di legittimità.

Non a caso Marco Rossetti ha definito “sconfinati” i limiti della responsabilità medica dopo l’ulteriore passo in avanti della Cassazione che, con la sentenza n.

12103 del 13/9/2000, ha dilatato il concetto del nesso causale fino a farlo presumere – quando non sia possibile, per incompletezza della cartella clinica, stabilire se la morte di un paziente sia stata causata da incuria del medico o da altre cause – stabilendo il

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principio che “per escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma occorre dimostrare che il danno si sarebbe ugualmente verificato senza quell’antecedente” (D.G. n. 34/2000, 37). In pratica, anche il c.d.

nesso causale civile, di cui all’art. 1223 c.c., viene interpretato secondo i principi penalistici contenuti negli artt. 40 e 41 c.p., compiendo un ulteriore passo in avanti nella sistematica demolizione di quella posizione privilegiata, nella quale una volta si trovava la responsabilità professionale dei medici.

In particolar modo interessa, per quanto contiene e lascia intendere, la sentenza 589 del 22/01/1999 con la quale la III Sezione Civile della Cassazione ha stabilito che “L’obbligazione del medico dipendente del servizio sanitario per responsabilità professionale nei confronti del paziente, ancorché non fondata su contratto ma sul contatto sociale connotato dall’affidamento che il malato pone nella professionalità dell’esercente una professione protetta, ha natura contrattuale, individuata non con riferimento alla fonte dell’obbligazione, ma al contenuto del rapporto” (Cass. Civ.

sez. III 22/01/1999 n. 589 – D. e R. n. 3/1999, 294).

Questa sentenza, immediatamente seguita da un’altra, di poco successiva, edita dallo stesso relatore Dott. Segreto (Cass. Civ. Sez. III, 19/5/1999 n. 4852 in G.D. n.

30/99 pag. 63), è indubbiamente mirata, come poi si legge chiaramente nelle conclusioni della motivazione, a offrire maggior tutela al danneggiato che nell’azione da fatto illecito avrebbe l’onere di provare la colpa, mentre in quella contrattuale la prova è invertita, essendo onere del medico dimostrare di aver agito con la diligenza proporzionale alla natura dell’attività prestata (1176 c.c.); o che il danno ingiusto è stato causato da evento imprevedibile; o che, pur avendo agito con perizia e diligenza, data la particolarità del caso, l’evento dannoso non era evitabile né ascrivibile a colpa grave. Tale impostazione, peraltro, favorisce il danneggiato anche sotto l’aspetto della prescrizione, che nell’ambito contrattuale è di 10 anni, rispetto a quella della responsabilità civile, che è di soli 5.

E qui devo inevitabilmente rifarmi a quello che è stato detto in precedenza da Virginia Zambrano sulla natura comunque contrattuale del consenso, per mettere in luce una conseguenza che può creare ulteriore problemi nel già agitato panorama della responsabilità sanitaria.

Secondo la Zambrano (Stanzione, Zambrano - Attività Sanitaria e Responsabilità Civile - Giuffrè Ed. 1998, 16), il fine dell’obbligazione contrattuale assunta dal medico nei confronti del paziente è quello della diligenza, per cui è indubitabile che rientri nell’ambito di questa anche quel dovere di informazione che fa carico al medico, essendo per di più specifico oggetto dell’obbligazione assunta. È quindi possibile, anche se può apparire suggestivo ed improbabile, che si possa ritenere tutelabile chi sia stato sottoposto, contro la propria volontà per mancanza di un idoneo consenso, ad un intervento chirurgico, anche se riuscito o non riuscito senza colpa del medico. Le due recenti sentenze della Cassazione sopraindicate contengono

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già il germe di questo principio, laddove affermano che è riduttivo, per i diritti del danneggiato, limitare la responsabilità del medico all’ambito extracontrattuale da fatto illecito, perché tale responsabilità in questo caso non sarebbe azionabile qualora mancasse il danno ingiusto, cioè un evento peggiorativo. Non deve sorprendere quanto detto, perché la Cassazione ci ha abituato a ben altro, e poi, leggendo la motivazione della sentenza 589/99, non sarà difficile comprendere come si possa arrivare a una simile conclusione.

Se è vero che il rapporto tra medico e paziente è di natura contrattuale, da

“contatto sociale”, qualora si tratti di un medico dipendente di struttura pubblica ospedaliera, o da contratto di prestazione d’opera professionale, qualora si tratti di medico privato, è evidente che ne discendono delle conseguenze non solo in relazione al danno ingiustamente causato, ma anche all’inadempienza dell’obbligo di informare il paziente.

Vorrei prescindere dal fatto se il consenso informato appartenga all’ambito della responsabilità pre-contrattuale o contrattuale, se dalla sua inosservanza si determini la nullità o l’annullamento del contratto, perché tutto sommato poco rileva ai fini pratici del problema, in quanto è di tutta evidenza che, seguendo il ragionamento logico- giuridico delle sentenze Segreto, quel contatto sociale per il quale si instaura l’obbligazione di terapia, deve necessariamente essere preceduto, quale fonte del rapporto obbligazionario tra medico e paziente, da uno scambio di informazioni tra le parti, per il quale l’operatore deve erudire il paziente circa la sua situazione clinica, le prospettive, le probabilità di successo, i rischi e le alternative, fornendogli quindi una informazione completa, che lo metta in condizione di poter decidere, secondo piena coscienza, se sottoporsi o meno alla pratica medica consigliata. Personalmente, ritengo che questa fase preceda necessariamente il perfezionamento del contratto, così come avviene in tutti i contratti a prestazioni corrispettive dove alla proposta- informazione segue l’accettazione-consenso, per cui saremmo in un ambito precontrattuale, e cioè in quella fase dove la buona fede nelle trattative rende operante ed efficace il contratto che ne deriva. D’altra parte, tra i requisiti del contratto tassativamente indicati dall’art. 1325 c.c., il primo è l’accordo delle parti, che non può avvenire se non previa discussione, e quindi dopo una proposta ed un’accettazione. La stessa Suprema Corte di Cassazione, Sezione III, con la sentenza 25/11/1994 n. 10014 (Foro It. 1995, I, 2913) ha richiamato il principio della buona fede, di cui all’art. 1337 c.c., che deve caratterizzare la trattativa precontrattuale, nell’ambito di un caso di responsabilità di un chirurgo estetico per violazione del dovere di informazione affermando: “Occorre inoltre rilevare che il consenso, oltre che legittimare l’intervento sanitario, costituisce, sotto altro profilo, uno degli elementi del contratto tra il paziente ed il professionista (art. 1325 c.c.), avente ad oggetto la prestazione professionale, sicché l’obbligo dell’informazione deriva anche dal comportamento secondo buona fede cui si è tenuti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.)” .

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Con sentenza 24/9/1997 n. 9374, la III Sezione Civile della Cassazione (in Riv. It.

Med. Leg., 1998, 821 con nota di Introna) ha ritenuto responsabile l’ente ospedaliero del danno ingiusto subito dal paziente sottoposto ad un intervento chirurgico, ancorché eseguito in modo prudente, diligente e tecnicamente corretto, ma senza che i medici lo avessero informato dei gravi rischi cui poteva andare incontro e quindi impedendo in tal modo che il suo consenso fosse ampio ed informato.

Il Tribunale di Napoli, con una inedita sentenza del 1998, ha ritenuto mai venuto ad esistenza il contratto instaurato tra medico e paziente, perché l’intervento terapeutico, cioè la prestazione sanitaria, era avvenuto senza un cosciente consenso ampio ed informato, inquadrando l’obbligo di informazione, che deve precedere il consenso, nell’ambito della responsabilità precontrattuale e quindi, qualora risulti la malafede nell’incontro della volontà delle parti, il contratto non è giuridicamente valido, con la conseguenza che sussiste responsabilità professionale per il solo fatto che vi sia violazione del diritto costituzionalmente garantito dell’autodeterminazione

“il danno alla salute del paziente derivato casualmente dall’intervento, pur necessario e correttamente eseguito e non derivante da ipotesi di colpa professionale, deve essere risarcito”.

D’altra parte, se manca la causa lecita, cioè il consenso del paziente, l’intervento medico è illecito ed illegittimo, e quindi l’obbligazione contrattuale è nulla ai sensi dell’art. 1343 del c.c., perché in violazione degli artt. 5 c.c., 13 comma 1 e 32 comma 2 della Costituzione, norme imperative che tutelano l’inviolabilità della persona e il diritto all’autodeterminazione.

E allora non potremo stupirci se, come sta già avvenendo, qualcuno chiede il risarcimento del danno per essere stato sottoposto ad un necessario intervento chirurgico, che magari non ha sortito gli effetti sperati, non per responsabilità del medico, ma per eventi a lui non imputabili, qualora il trattamento terapeutico sia avvenuto senza consenso: si esercita in pratica la tutela del diritto a disporre liberamente del proprio corpo che risulta violato dal non autorizzato intervento chirurgico. Si tratterà solo di stabilire il quantum, ma questo è un altro problema.

Non possiamo non concludere, quindi, che anche in ambito civilistico il consenso costituisce un elemento fondamentale, che legittima l’attività del medico, la cui violazione può determinare conseguenze gravissime che, come vedremo, riguardano anche gli aspetti patrimoniali dei quali il medico rischia di rispondere personalmente, quand’anche ritenga di essere garantito per la propria attività professionale da apposito contratto assicurativo.

Infatti, come è ben noto, le polizze assicurative garantiscono la responsabilità civile dei professionisti medici con esclusione dei fatti dovuti a dolo. Se, dunque, verrà contestato ad un medico un delitto doloso quale l’omicidio preterintenzionale, le lesioni volontarie, o anche le lesioni o la morte come conseguenza di altro reato doloso o addirittura la semplice violenza privata o l’abuso di atti d’ufficio, ben potrebbe l’assicuratore negare la propria prestazione. È indubitabile che ciò

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avverrebbe senz’altro in caso di condanna per omicidio preterintenzionale o per lesioni volontarie, mentre è solo probabile e possibile, invece, nell’ipotesi di condanna per il reato di cui all’art. 586 c.p. che è la figura tipica di reato aberrante o complesso, caratterizzato cioè dalla presenza del reato base, che è doloso, e dal reato conseguente, che è meramente colposo.

La matrice comunque dolosa del reato di cui all’art. 586 può consentire l’eccezione di inoperatività della garanzia assicurativa, anche se si può sostenere a contrario che il danno subito dal paziente è stato causato dal reato colposo di lesioni o omicidio, e non da quello doloso di violenza privata. Mi risulta che alcune compagnie di assicurazioni stanno studiando delle forme di garanzia professionale ove sia compreso anche il rischio dei reati teoricamente dolosi, cioè frutto di un costrutto astratto e non di uno specifico comportamento. Ma anche nell’ambito civilistico il rischio di eccezioni da parte dell’assicuratore c’è, dal momento che viene garantita la responsabilità civile, che è sempre e solo da fatto illecito, e non quella contrattuale, che è, come detto, più ampia dell’altra. Proprio per il principio dell’onere probatorio, per il maggior decorso della prescrizione, per la presunzione di colpa per negligenza ex art. 1176 II comma c.c., il rischio assicurativo è aumentato rispetto a quello da fatto illecito. Anche in questo caso, le compagnie di assicurazioni stanno adeguando i loro contratti per comprendervi questo genere di rischio. Ma forse l’aspetto più grave è per i medici di strutture pubbliche, che nel caso di condanna per reati dolosi sarebbero inevitabilmente oggetto di rivalsa dell’ente datoriale, senza possibilità di copertura da parte della loro assicurazione. Questo terrificante quadro, che emerge dalla disamina dal consenso, deve farci comprendere come quel “sì” che si chiede al paziente sia davvero importante e quindi oggetto di eccezionale attenzione da parte del medico.

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"dal disposto degli artt. 13 e 39 della Costituzione discende che al centro dell’attività medico-chirurgica si colloca il principio del consenso, il quale esprime una

sotto l’influenza di droghe, sicché il fenomeno ha assunto una giusta dimensione di pericolo sociale finalmente meritevole di maggior rigore sanzionatorio anche ai fini dissuasivi.

Per poter rispondere alla prima domanda sugli oneri di allegazione e prova del danno, credo sia necessario prima discutere dei c.d. pregiudizi standardizzabili per vedere se e