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Quesito in tema di effetti delle dimissioni dall’Ordine giudiziario sull’obbligo della motivazione della sentenza pronunciata anticipatamente.

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Quesito in tema di effetti delle dimissioni dall’Ordine giudiziario sull’obbligo della motivazione della sentenza pronunciata anticipatamente.

(Risposta a quesito del 23 maggio 2001)

Il Consiglio Superiore della Magistratura, nella seduta del 23 maggio 2001, fatte proprie le motivazioni espresse dall'Ufficio Studi nel parere n. 279/01 del 16 maggio 2001 (allegato),

delibera di rispondere al quesito nei termini di cui al citato parere.

ALLEGATO

Parere n. 279/01 dell’Ufficio Studi e Documentazione Premessa.

La richiesta del dott. Massimo Procaccini coinvolge l’esame di una serie di problemi che riassuntivamente possono essere così enunciati:

a) individuazione del temine della decorrenza delle dimissioni presentate dal dott. Massimo Procaccini;

b) effetto dello status di dimissionario sull’obbligo concernente la motivazione delle sentenze pronunciate in epoca antecedente alla presentazione delle dimissioni;

c) incidenza dell’eventuale redazione della motivazione e della sottoscrizione della sentenza in qualità di estensore sul regime dell’incompatibilità previsto dalla l. 154/81.

a) L’individuazione del temine della decorrenza delle dimissioni presentate dal dott. Massimo Procaccini.

Il dott. Massimo Procaccini., magistrato di cassazione, con funzioni di presidente di sezione presso il Tribunale di Latina, in data 19 aprile 2001 ha presentato al Consiglio Superiore della Magistratura una istanza perché venga certificato che la stesura della motivazione delle sentenze penali e la firma di quelle motivate dai giudici “a latere”costituiscono semplici atti di completamento di funzioni espletate prima delle dimissioni, e non già esercizio di funzioni autonome, riconducibili a funzioni giudiziarie poste in essere dopo le dimissioni, presentate con decorrenza 6 aprile 2001.

Un primo problema è dunque quello di accertare il giorno di decorrenza delle dimissioni in quanto il Plenum non ha ancora deliberato sull’istanza.

a 1) la normativa di riferimento, come interpretata dalla giurisprudenza.

L'ordinamento degli impiegati civili dello Stato disciplina l'istituto delle dimissioni negli artt.124 - 126 del gennaio 1957, n. 3, che si applicano, nei limiti della compatibilità con le norme

dell'ordinamento giudiziario, anche ai magistrati.

Dalla citata normativa emerge che il dipendente che non abbia ancora raggiunto l'età e

l'anzianità di servizio per ottenere il collocamento a riposo a domanda non ha un vero e proprio diritto a far cessare, di sua volontà, in un periodo a sua scelta, il rapporto di impiego (cfr. Cons. Stato, sez.

VI, 15 aprile 1989, n. 422); la facoltà riconosciutagli dalla legge di "dimettersi in qualunque tempo"

(art. 124, comma 1, d.P.R. cit.) è, infatti, subordinata al potere discrezionale dell'amministrazione di rifiutare o ritardare l'accettazione delle sue dimissioni per motivi di servizio o in attesa dell'esito di un procedimento disciplinare (art. 124, comma 4, d.P.R. cit.): se l'amministrazione si avvale di tale facoltà, il provvedimento risolutivo del rapporto d'impiego non potrà essere emanato o produrre i suoi effetti se non dalla data in cui siano venute a cessare le cause che hanno imposto il rinvio (necessità di un'ulteriore permanenza in servizio; accertamento di eventuali responsabilità disciplinari).

Nel caso in cui non ricorra alcuna di dette condizioni e, quindi, non vi siano ostacoli per

l'amministrazione all'accettazione delle dimissioni, occorre distinguere, secondo quanto puntualizzato in giurisprudenza, tra le varie ipotesi in cui l'impiegato abbia o meno manifestato l'intenzione di far cessare il rapporto d'impiego ad una data prestabilita, e, in caso affermativo se la stessa sia coeva, anteriore o posteriore alla presentazione delle dimissioni.

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1

(cfr. Cons. Stato, sez.IV, 25 novembre 1969, n. 728; IZZO-FIANDANESE,, Lo stato giuridico dei magistrati ordinari, Roma, 1986, p. 282, esprimono fondate perplessità, peraltro, sulla possibilità per il dipendente di chiedere che il provve- dimento di accettazione abbia un'efficacia retroattiva addirittura rispetto alla presentazione dell'istanza).

2

Il C.S.M. si è determinato nei termini da ultimo descritti sub c) con delibera del 18 luglio 1984, proprio in relazione a due istanze di dimissioni nelle quali erano state indicate per la decorrenza degli effetti delle date collocate in un futuro notevolmente lontano (segnatamente, 31 dicembre 1993 e 1 dicembre 2002), rispetto alle quali, quindi, si è ritenuta "la materiale impossibilità di proiettarsi, con proiezioni statistiche attendibili, in un futuro assai remoto, per valutare, ora per allora, la sussistenza o meno dei presupposti....condizionanti l'esercizio della facoltà di rifiutare o ritardare l'accettazione delle dimissioni..."

Quando il dipendente ha presentato le dimissioni, manifestando l'intenzione di far cessare il rapporto di impiego ad una data prestabilita, l'amministrazione, ove ritenga di far luogo

all'accettazione delle dimissioni, dovrà attribuire al provvedimento la decorrenza richiesta dall'inte- ressato; quando invece dall'atto di dimissioni volontarie non risulti espressamente o per implicito una diversa volontà dell'interessato in ordine alla decorrenza degli effetti, l'accettazione delle dimissioni, per la sua natura di atto costitutivo e non meramente dichiarativo, avrà effetto di regola dalla data in cui viene deliberata ovvero dalla data di comunicazione del provvedimento di accettazione 1

a 2) ammissibilità delle dimissioni postdatate e conseguenti determinazioni dell'amministrazione.

Secondo la giurisprudenza, quindi, deve ammettersi la possibilità per l'interessato di manifestare l'intenzione di far cessare il rapporto di impiego ad una data prestabilita, posteriore a quella della presentazione dell'istanza (in questa sede non è invece necessario approfondire la questione della ammissibilità della richiesta di far decorrere l'effetto da una data anteriore rispetto a quella dell'istanza, sulla quale sono stati avanzati fondati dubbi).

In tale ipotesi, l'amministrazione, nell'esercizio della potestà di valutazione discrezionale attribuitale dalla legge, può:

1) accettare le dimissioni e in tal caso, secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, non potrà non attribuire al relativo provvedimento la decorrenza richiesta dall'interessato; una tale conclusione, del resto, è imposta, secondo i principi generali, dalla necessaria corrispondenza che deve sussistere tra l'atto amministrativo di accettazione e la dichiarazione di volontà dell'interessato che ne costituisce il presupposto;

2) rifiutare o ritardare l'accettazione delle dimissioni, secondo il disposto dell'art. 124, comma 4, d.P.R. cit., per motivi di servizio o quando sia in corso un procedimento disciplinare.

L'amministrazione, peraltro, nel corretto esercizio della potestà discrezionale di cui si è detto, oltre che rifiutare o ritardare l'accettazione delle dimissioni nella ritenuta sussistenza delle condizioni descritte sub 2), può peraltro determinarsi anche a:

3) non accettare le dimissioni postdatate, allorchè la relativa richiesta (ad esempio, perché corredata dalla indicazione di una data per la decorrenza degli effetti collocata in un futuro assai remoto) denoti che queste sono sorrette da uno scopo diverso da quello tipico ed impedisca, in contrasto con il principio generale di buona amministrazione (art. 97 Cost.), una compiuta valutazione della

sussistenza o meno dei presupposti (esigenze di servizio, accertamento di responsabilità disciplinari) condizionanti l'esercizio della potestà di rifiutare o ritardare l'accettazione delle dimissioni.2

Nel caso in esame il Consiglio applicando i principi suesposti al caso concreto, non sussistendo particolari ragioni di servizio o ragioni di natura disciplinare, dovrebbe dare per presupposta l’accettazione delle dimissioni del dott. Procaccini a far data dal 6 aprile 2001.

Da questo momento dunque dovranno decorrere gli effetti della cessazione di appartenenza dell’istante all’Ordine giudiziario, anche se nelle more il dott. Procaccini è ancora formalmente titolare del rapporto di pubblico impiego con la P.A..

b) L’effetto dello status di dimissionario sull’obbligo concernente la motivazione delle sentenze pronunciate in epoca antecedente alla presentazione delle dimissioni.

A questo punto occorre verificare se la richiesta di dimissioni possa considerarsi

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"impedimento" ai sensi e per gli effetti del comma 2 dell'art. 546 c.p.p.,e cioè ai fini della sotto- scrizione della sentenza; e se la disciplina dell'impedimento alla sottoscrizione della sentenza, di cui all'art. 546, comma 2, c.p.p. possa estendersi alla redazione della motivazione della sentenza medesima.

L’Ufficio Studi ha già avuto modo di affrontare gran parte dei problemi posti dal dott, Procaccini con i pareri n. 223/96, n.18/97, n. 455/97,n. 53/98, n. 127/98 e 501/99, sia in sede contenziosa che consultiva.

Questo ufficio ritiene dunque fare riferimento alle conclusioni ormai consolidate per la soluzione delle questioni oggi in esame.

c) La redazione della motivazione della sentenza e la sottoscrizione della stessa; rilevanza di eventuali "impedimenti".

Per rispondere compiutamente ai quesiti sub c1) e c2) occorre distinguere la fase della

pronuncia della sentenza dell'organo giudiziario, monocratico o collegiale da quelle, successive, della redazione della motivazione della sentenza e della sottoscrizione della sentenza-documento.

Al riguardo, la giurisprudenza ha precisato, in linea generale, che è al momento della pronuncia (e della redazione e sottoscrizione del dispositivo ad opera del presidente del collegio o del giudice monocratico) che si manifesta la volontà dello Stato, mentre la motivazione costituisce solo

l'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali la sentenza stessa è fondata: l'accertamento delle condizioni di capacità del giudice deve essere quindi compiuto con riferimento al momento della pronuncia della sentenza (quindi della decisione), mentre il venir meno delle stesse nel momento della redazione della motivazione non può incidere sulla sostanza dell'atto emanato (Cass., sez. I, 24 maggio 1996, Tucci).

c 1) Segue: la redazione della motivazione della sentenza.

In forza del principio dell'immutabilità del giudice, alla deliberazione concorrono, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento (art. 525, comma 2, c.p.p.).

La fase della deliberazione, come si è già accennato, è seguita dalla redazione e sottoscrizione del dispositivo da parte del presidente del collegio o del giudice che ha pronunciato la sentenza (art.

544, comma 1, c.p.p.) e da quella della pubblicazione della sentenza, realizzata dalla lettura del dispositivo in udienza da parte del presidente o da un giudice del collegio o dal giudice monocratico (art. 545, comma 1, c.p.p. e 559 c.p.p.).

Con la pubblicazione l’iter formativo della sentenza si perfeziona giuridicamente prima ed a prescindere dalla redazione della motivazione, nel caso in cui non sia redatta in modo contestuale, nei casi indicati dall'art. 544, commi 2 e 3, c.p.p.

Per la disciplina della motivazione della sentenza penale, ai fini che qui interessano, bisogna avere riguardo agli artt. 544 c.p.p. e 154 disp. att. c.p.p.

Il principio generale fissato dal codice di rito è che, conclusa la fase deliberativa (cfr. artt. 525 ss. c.p.p.e l’art 559, c.4 c.p.p.) e avvenute la redazione e la sottoscrizione del dispositivo da parte del presidente (art. 544, comma 1, c.p.p.), venga subito dopo redatta "una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la sentenza è fondata" (art. 544, comma 1, c.p.p.).

Ove non sia possibile procedervi immediatamente, la motivazione può essere redatta nei quindici giorni dalla pronuncia (art. 544, comma 2, c.p.p.).

Quando poi la stesura della motivazione è particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni, il giudice può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il novantesimo giorno da quello della pronuncia (art. 544, comma 3, c.p.p.).

Nei casi previsti dai commi 2 e 3 dell'art. 544 c.p.p. ( redazione non immediata dei motivi della sentenza), a norma dell'art. 154, comma 1, disp. att. c.p.p., il presidente "provvede personalmente alla redazione o designa un estensore tra i componenti del collegio".

Successivamente, l’art. 154 prevede che l'estensore consegni la minuta al presidente che ne dà lettura al collegio, che può (all'evidenza, in mancanza di accordo sulle motivazioni proposte) designare altro estensore (comma 2).

La minuta, sottoscritta da estensore e presidente, è consegnata alla cancelleria per la

formazione dell'originale che, appena redatto, è sottoscritto da presidente ed estensore (commi 3 e

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4).

E’ stato ritenuto, peraltro, (v. parere Ufficio Studi n. 455/97) che sebbene la disposizione normativa non preveda espressamente l'ammissibilità di una redazione "a più mani" della motivazione della sentenza, la giurisprudenza ritiene tale evenienza pienamente legittima, sul rilievo che detta norma, nel prevedere la designazione di un solo estensore e la sottoscrizione del presidente e dell'estensore stesso, ha (solo) il precipuo scopo di snellire la procedura di redazione della sentenza, ma non impedisce una eventuale motivazione e sottoscrizione collegiale, la quale non è contraria, del resto, alla stessa natura dell'organo da cui promana (per tutti, v.Cass., sez. II, 24 gennaio 1996, Agostino ed altri).

E’ stato anzi puntualizzato, ribadendo l'insussistenza del divieto della compilazione collegiale del provvedimento giurisdizionale, che non è configurabile neppure un interesse delle parti a sapere quale porzione dello scritto sia stata redatta da ciascun componente del collegio (Cass., sez. VI, 8 febbraio 1994, Curinga).

Alla luce di questa interpretazione giurisprudenziale, deve ritenersi quindi legittima la redazione di una sentenza da parte di due o di tutti i componenti del collegio.

In applicazione del principio dell'immutabilità del giudice, deve ritenersi che la motivazione della sentenza possa essere redatta e sottoscritta dal componente del collegio giudicante o dal magistrato giudicante trasferito ad altra sede (anche se tale trasferimento abbia importato l'assunzione di funzioni requirenti), trattandosi di evenienza che non rileva ai fini della sussistenza delle condizioni di capacità del giudice ed attesa la rilevata identità tra collegio giudicante e collegio cui è rimessa la redazione della motivazione (Cass., 22 ottobre 1994, Pregnolato; Cass, sez. I, 24 maggio 1996, Tuc- ci).

In definitiva, l'immutabilità del giudice, monocratico o collegiale, nella diverse fasi della

deliberazione della decisione, della pubblicazione della sentenza e della redazione della motivazione, quando questa non sia contestuale, determina che non può ritenersi impedimento giuridicamente rilevante, ostativo alla materiale redazione della motivazione, l'intervenuto trasferimento ad altro ufficio del magistrato incaricato di tale incombente ovvero il collocamento fuori ruolo dello stesso, o l'eventuale collocamento a riposo (cfr. Cass., sez. I, 23 novembre 1960, Sonnu, e, più recentemente, Cass., sez.I, 24 maggio 1996, Tucci) e/o, più in generale, per l'eventuale cessazione

dall'appartenenza all'ordine giudiziario.

Trattasi di situazioni che non incidono sulle condizioni di capacità del giudice (cfr. art. 33 c.p.p.), la cui sussistenza va verificata al momento della deliberazione della decisione.

Deve rispondersi quindi al quesito nel senso che le evenienze rappresentate non costituiscono impedimento giuridicamente rilevante, e quindi come tali non possono ritenersi ostative alla

redazione della motivazione della sentenza da parte del magistrato interessato.

Per completezza, deve osservarsi che tali evenienze possono semmai essere tenute in considerazione dal presidente del collegio, ai sensi e per gli effetti dell'art. 154 disp. att. c.p.p., nel momento della designazione dell'estensore ovvero per verificare l'opportunità di mutare la primitiva designazione dell'estensore.

c 2) la sottoscrizione della sentenza.

La sottoscrizione della sentenza è disciplinata nell'art. 546, commi 1,lett. g), 2 e 3, c.p.p. e nell'art. 154, commi 3 e 4, disp. att. c.p.p., dove, in estrema sintesi, si limita l'obbligo di sottoscrizione rendendone destinatari soltanto il presidente e l'estensore, si sanziona a pena di nullità la mancanza di sottoscrizione del giudice e, per quanto qui interessa, si dettano le regole per il caso in cui "per morte o altro impedimento" risulti impossibile la sottoscrizione del presidente o dell'estensore.

Al riguardo, il comma 2 dell'art. 546 c.p.p. recita: "se, per morte o altro impedimento, il

presidente non può sottoscrivere, alla sottoscrizione provvede, previa menzione dell'impedimento, il componente più anziano del collegio; se non può sottoscrivere l'estensore, alla sottoscrizione, previa menzione dell'impedimento, provvede il solo presidente".

La previsione normativa recepisce nel sistema del codice di rito le innovazioni apportate in materia dagli artt. 6 e 7 l. 8 agosto 1977, n. 532, che limitò l'obbligo di sottoscrizione della sentenza rendendone destinatari soltanto il presidente e l'estensore e disciplinando l'ipotesi dell'impossibilità

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della sottoscrizione per morte o impedimento.

La disciplina introdotta dall'art. 546, comma 2, c.p.p. non riguarda la redazione della motivazione della sentenza, ma, semplicemente, la sottoscrizione della sentenza stessa.

Essa è ispirata all'esigenza di snellire la procedura della sottoscrizione e di porre rimedio agli inconvenienti pratici (per morte ed impedimento) che possono riguardare, in quella fase, le persone dei componenti del collegio o del magistrato monocratico.

In altri termini, se le situazioni sopra descritte (trasferimento ad altro ufficio, collocamento fuori ruolo, ecc.) non influiscono ex se sulla capacità del giudice dovendosi escludere alcun impedimento giuridicamente rilevante alla redazione della motivazione, pur tuttavia, in relazione alla fase

successiva della sottoscrizione della sentenza, potrebbero, anche se non necessariamente, rientrare tra le condizioni (sub specie di impedimento) che legittimano una surroga da parte di altro

componente del collegio (segnatamente, il componente più anziano al posto del presidente; il solo presidente al posto dell'estensore, come nel caso di impedimento del giudice monocratico ai sensi dell’art. 559 c.p.p.).

In linea con quanto sopra affermato, infatti, in ordine al concetto di "impedimento", è stato affermato, in giurisprudenza, che anche la (semplice) assenza dal servizio per ferie del giudice estensore della sentenza rientra tra gli impedimenti che legittimano il presidente del collegio a firmare da solo il provvedimento, previa annotazione dell'impedimento stesso prima della sottoscrizione (Cass., sez. VI, 30 giugno 1988, Selan): a fortiori, pertanto, la stessa conclusione si impone per il trasferimento ad altro ufficio e/o per il collocamento fuori ruolo o per la cessazione di appartenenza all’ordine giudiziario.

E' evidente, in ogni caso, che il concreto funzionamento del meccanismo previsto dal comma 2 dell'art. 546 c.p.p. non può consentire di eludere la sanzione di nullità prevista dal comma 3 dello stesso articolo, in quanto costituisce condizione imprescindibile di validità della sentenza quella della sottoscrizione del giudice: ove, quindi, i magistrati interessati siano tutti formalmente impediti ai sensi e per gli effetti dell'art. 546, comma 2, c.p.p.), gli stessi dovranno comunque provvedere alla

sottoscrizione dell'elaborato finale, quantomeno nelle forme indicate dal citato comma 2.

Al quesito di cui sub c2) può quindi rispondersi nel senso che le evenienze considerate possono integrare l'impedimento preso in considerazione dal comma 2 dell'art. 546 c.p.p. e dal comma 4 dell’art. 559, salvo quanto verrà di seguito precisato

d) L’incidenza dell’eventuale redazione della motivazione e della sottoscrizione della sentenza in qualità di estensore sul regime dell’incompatibilità previsto dalla l. 154/81, come mod. dal d.lgs. 18 agosto 2000, n . 267.

Per le elezioni dei rappresentanti degli enti locali, comune, provincia, circoscrizione, in parallelo a quanto previsto per le elezioni regionali, l’art. 60 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 contenete il t.u delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, prevede, per l’elezione alle cariche di sindaco,

presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale una speciale causa di ineleggibilità per una serie di funzionari dello Stato e di altri enti pubblici, tra cui “nel territorio nel quale esercitano e loro funzioni”, i magistrati addetti alle Corti d’appello, ai tribunali, ai tribunali amministrativi regionali e ai giudici di pace .

Si è stabilita così una causa di ineleggibilità relativa, in quanto limitata alla circoscrizione elettorale di appartenenza, che non si applica indistintamente a tutti i magistrati, ma soltanto a coloro che intendano candidarsi nell’ambito territoriale che risulta sottoposto alla giurisdizione dell’ufficio presso il quale svolgono le proprie funzioni. In questo caso il magistrato che intenda presentare propria candidatura nella circoscrizione elettorale territorialmente ricompresa nella giurisdizione dell’ufficio deve collocarsi in aspettativa, istituto previsto appunto per depotenziare la prevista causa di ineleggibilità.

Se dunque per eliminare la causa d’incompatibilità è sufficiente collocarsi in aspettativa, istituto che mette in quiescenza il rapporto di pubblico impiego esistente tra lo Stato e il magistrato, a

maggior ragione dovrebbe ritenersi che la causa d’incompatibilità non possa operare nel momento in cui il soggetto interessato abbia fatto domanda di cessazione di appartenenza all’ordine giudiziario, astenendosi dall’esercizio di ogni attività collegata al suo ufficio, anche se formalmente il C.S.M. non ha ancora deciso sul punto. Peraltro nel momento in cui il ritardo in ordine alla deliberazione è

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v. Cass.,,11 giugno 1998, Manfrè, Cass. Pen. 2000, 148.

4

v. Cass., 17 marzo 2000, Cannella, C.E.D. Cass. n. 215836)

5

v. Cass., 22 ottobre 1994, C.E.D. Cass. , n. 200085.

6

Per una articolata ric ostruzione della possibilità di redigere da parte del Presidente del Tribunale la motivazione della sentenza pronunciata da giudice monocratico morto o impedito fisicamente v. G. Santalucia, Gli impedimenti del giudice monocratico nel procedimento di formazione della sentenza penale, in La giustizia penale, 1999, 478.

ascrivibile a meri tempi tecnici e non a questioni di merito, non dovrebbero sussistere impedimenti a considerare operante la situazione, per quanto qui interessa, come se la delibera fosse già

intervenuta.

Peraltro l’attività richiesta al dott. Procaccini è un tipo di attività riconducibile sicuramente ad epoca anteriore alla manifestazione della volontà di presentare le dimissioni, funzionalmente collegata al momento di adozione della decisione e della pronuncia della relativa sentenza, non caratterizzata sotto il profilo della titolarità dei poteri funzionali da un’autonoma collocazione temporale, posizionata solo occasionalmente in un momento posteriore alla presentazione delle dimissioni, ma di fatto priva della possibilità di dare a tale circostanza un’autonoma rilevanza.

E’ ormai pacifico, infatti, anche in giurisprudenza che il potere di redigere personalmente la motivazione trattandosi di una funzione connessa alla qualità di componente del collegio giudicante o alla condizione di giudice monocratico che ha pronunciato la sentenza si cristallizza nel momento della decisione e permane nel soggetto interessato fino al momento del deposito della sentenza3.

Così l’accertamento delle condizioni di capacità del giudice deve essere compiuto con riferimento alla emissione della sentenza decisione, mentre il venir meno delle stesse al momento della redazione della motivazione - ad esempio per morte o collocamento a riposo del magistrato interessato, non incide sulla sostanza dell’atto ormai emanato 4.

Così anche per la sottoscrizione della sentenza sono state ritenute irrilevanti le vicende che hanno interessato il componente del collegio giudicante o il magistrato monocratico che ha pronunciato la sentenza nelle more tra la sua pronuncia e il deposito della stessa.5). 6

Pertanto, nel caso in esame, le sentenze potranno essere comunque sottoscritta dal dott.

Procaccini, anche perché di fatto le dimissioni non sono state formalmente accettate.

Le evenienze di cui sopra, dunque, non incidendo sulla capacità del giudice che ha fatto parte del collegio giudicante e che devono essere valutate al momento della pronuncia della sentenza, non costituiscono impedimenti giuridicamente rilevanti ostativi alla redazione della motivazione della sentenza né alla sua sottoscrizione; per questo sembra che non possano essere qualificati come esercizio di attività giurisdizionale dotata di ultrattività rispetto alla data di decorrenza delle dimissioni dall’ordine giudiziario nel frattempo presentate.

Si tratterà eventualmente di verificare l’incidenza dell’accettazione di una richiesta di dimissione fatta ora per allora. Tale decisione peraltro non potrà certo incidere sulla validità delle sentenze, dovendosi escludere la sussistenza di qualsiasi tipo di nullità assoluta o relativa.

Peraltro è bene sottolineare che queste conclusioni valgono all’interno di un ragionamento che si snoda attraverso il percorso fissato dalle norme processuali penali e di ordinamento giudiziario.

Da ciò deriva l’impossibilità di concepire una applicabilità automatica delle soluzioni prospettate alle questioni concernenti l’eleggibilità di un candidato o la sussistenza in concreto di una situazione di incompatibilità proprio perché competenti a decidere su tali aspetti sono gli organi deputati, tra cui la magistratura ordinaria, a verificare la sussistenza delle condizioni di eleggibilità degli eletti.

In questo senso esula dalla competenza di questo C.S.M. ogni attività interpretativa della disposizione, relativa al regime dell’incompatibilità, contenuta nell’art. 60, comma 6 del T.U. cit., secondo la quale “La cessazione delle funzioni importa la effettiva astensione da ogni atto inerente all’ufficio rivestito”, anche se un principio generale di non contraddizione all’interno dell’ordinamento

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dovrebbe portare l’interprete a ritenere ammissibile l’attività suindicata.

Da ciò consegue, ovviamente , l’impossibilità di aderire ad ogni richiesta di certificazione rispetto alle soluzioni adottate, come richiesto dall’istante.

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