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LE CREATURE SELVAGGE Traduzione di Gianni Pannofino

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Academic year: 2022

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Dave Eggers

LE CREATURE SELVAGGE Traduzione di Gianni Pannofino

MONDADORI

Copyright © 2009 by Dave Eggers, Maurice Sendak

& Warner Bros Entertainment Inc.

All rights reserved

© 2009 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell’opera originale

The Wild Things COPERTINA

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO GRAPHIC DESIGNER: MANUELE SCALIA

ILLUSTRAZIONE DI RACHELL SUMPTER

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle

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Ebook ISBN 9788852017100 www.librimondadori.it

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LE CREATURE SELVAGGE

ROMANZO DI DAVE EGGERS

________________________

ADATTAMENTO DEL LIBRO ILLUSTRATO

“NEL PAESE DEI MOSTRI SELVAGGI”

di

MAURICE SENDAK

____________________

BASATO SULLA SCENEGGIATURA DEL FILM

“NEL PAESE DELLE CREATURE SELVAGGE”

scritta in collaborazione da D.E. e SPIKE JONZE

A Maurice Sendak, un uomo indicibilmente coraggioso e bello

1

Ribattendo sbuffo su sbuffo, Max inseguì Stumpy, il suo cane bianco-nuvola, lungo il corridoio del piano superiore e giù per le scale di legno, fino alla fredda

anticamera aperta sul salotto. Capitava spesso che Max e Stumpy si rincorressero facendo la lotta per tutta la casa, nonostante la madre e la sorella di Max, che abitavano con lui, non apprezzassero l’effetto audio e la violenza di quel gioco. Il papà di Max abitava in città e telefonava di mercoledì e di domenica, anche se non sempre.

Max si avventò su Stumpy, ma lo mancò e finì di slancio contro la porta

d’ingresso, facendo cadere il cestino appeso alla maniglia. Si trattava di un piccolo contenitore di vimini che Max trovava stupido; la madre di Max, però, pretendeva che restasse lì appeso come portafortuna. La funzione principale di quel cestino sembrava quella di essere gettato a terra, dove finiva spesso calpestato. Max, insomma, fece cadere il cestino, e Stumpy ci camminò sopra, infilandoci una zampa fino in fondo, con uno spiacevole rumore di vimini lacerati. Max ebbe un attimo di preoccupazione, ma questa fu subito eclissata dalla vista di Stumpy che

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si aggirava per casa con un cesto infilato su una zampa. Max si mise a ridere a crepapelle. Qualunque persona ragionevole l’avrebbe trovato buffo.

«Hai intenzione di fare il pazzoide per tutto il giorno?» domandò Claire, incombendo all’improvviso su Max. «Sei a casa da dieci minuti appena.»

Sua sorella Claire aveva quattordici anni, quasi quindici, e non nutriva più alcun interesse per Max, o ne nutriva poco e molto di rado. Claire era una primina, ormai, e tutti i giochi che avevano sempre fatto insieme con gran divertimento – per esempio, Lupo e Padrone, che a Max continuava a piacere – non erano più tanto attraenti per lei. Claire aveva assunto un’aria di insoddisfazione e fastidio perpetui per tutto quello che lui faceva e per gran parte dell’esistente.

Max si guardò bene dal risponderle: non c’era una risposta priva di

inconvenienti. Se avesse detto di no, avrebbe implicitamente ammesso di aver fatto il pazzoide; se avesse risposto di sì, avrebbe non solo ammesso di averlo fatto, bensì anche sottinteso che avrebbe continuato a farlo.

«Ti conviene sparire» disse Claire, ricorrendo a una delle espressioni preferite dal loro papà. «Viene gente a trovarmi.»

Se Claire ci avesse riflettuto meglio, avrebbe capito che dicendo a Max di spariresarebbe riuscita soltanto a fargli venir voglia di essere più visibile, e aggiungendo che sarebbe arrivata gente lo avrebbe spinto a moltiplicare gli sforzi per essere presente. «Viene anche Meika?» domandò Max. Meika era la sua preferita tra tutti gli amici di Claire; gli altri erano degli imbecilli. Meika gli dava retta, gli parlava addirittura, gli faceva delle domande, una volta era persino andata nella stanza di Max a giocare con i Lego e aveva ammirato il costume da lupo che lui teneva appeso all’anta del suo armadio. Lei non si era dimenticata delle cose divertenti.

«Non sono affari tuoi» disse Claire. «Lasciaci in pace, okay? Non venire a chiedere di giocare con i tuoi mattoncini o altre cagate del genere.»

Max sapeva che per guardare e infastidire Claire e i suoi amici sarebbe stato meglio avere un complice, perciò uscì, inforcò la bicicletta e andò da Clay, un ragazzino che era arrivato da poco in zona e abitava in una delle case appena costruite in fondo alla strada. Nonostante Clay avesse la faccia pallidissima e la testa troppo grossa, Max aveva deciso di concedergli una chance.

Max percorse il marciapiede a zigzag, con la testa piena di idee su quel che lui e Clay avrebbero potuto fare con o, altrimenti, agli amici di Claire. Era dicembre, e la neve, che solo pochi giorni prima era secca e polverosa, stava ormai

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sciogliendosi, lasciando sulla strada e sul marciapiede una poltiglia acquosa e sui prati una copertura a chiazze.

Stava accadendo qualcosa nel quartiere di Max. Le vecchie case venivano abbattute, e al loro posto sorgevano case nuove, più grandi e più vistose. C’erano quattordici case nel suo isolato e negli ultimi due anni ne erano state rase al suolo sei, tutte piccolette, tipo ranch a un unico piano. Era accaduta ogni volta la stessa cosa: i precedenti proprietari se n’erano andati o erano morti di vecchiaia, e i nuovi arrivati avevano deciso che la posizione andava bene, ma che avrebbero costruito una casa molto più grande. Ciò aveva segnato, nel quartiere, l’inizio di un ininterrotto rumore di cantieri al lavoro e – fortunatamente per Max – di una pressoché infinita disponibilità di materiali di scarto: chiodi, legno, filo metallico, isolanti, tegole e piastrelle. Con questa roba aveva cominciato a mettere insieme una specie di casa tutta sua, su un albero, nei boschi vicino al lago.

Max si fermò, abbandonò la bici a terra e bussò alla porta di Clay Mahoney. Si chinò ad allacciarsi le scarpe, e quando ebbe finito di fare il secondo nodo alla scarpa sinistra la porta si spalancò.

«Max!» esclamò la madre di Clay, torreggiando su di lui, con i suoi pantaloncini neri aderenti e una minuscola maglietta bianca – OGGI! SÌ!, c’era scritto – su un top di lycra nero; era vestita come una professionista dello sci alpino. Alle sue spalle, in TV, il fotogramma bloccato di una videocassetta di esercizi ginnici: tre donne muscolose si protendevano a destra verso l’alto, con smorfie disperate, come per afferrare qualcosa che stava fuori dall'inquadratura.

«Clay è in casa?» domandò Max, rialzandosi.

«No, mi dispiace. Clay non c’è.»

La signora aveva in mano un grosso recipiente argentato dal manico nero – una specie di grossa tazza da caffè – da cui bevve un sorso gettando, al contempo, un’occhiata in veranda.

«Sei qui da solo?» domandò.

Max rifletté un attimo sulla domanda, in cerca di eventuali sottintesi. Ovvio che era lì da solo.

«Sì» rispose.

Quella donna aveva una faccia, notò Max, che pareva sempre sorpresa. Con la postura e la voce voleva far credere di saperla lunga, ma i suoi occhi dicevano:

“Davvero? Che cosa? Com’è possibile?”.

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«Come ci sei arrivato, qui?» gli domandò.

Altra domanda strana. La bici di Max era lì a terra alle sue spalle, in bella vista, a un metro di distanza o poco più. Possibile che non la vedesse?

«In bicicletta» rispose Max, indicando dietro di sé con un pollice.

«Da solo?» domandò la mamma di Clay.

«Sì» ribadì lui. “Questa donna...” pensò.

«Da solo?» ripeté lei. Aveva spalancato gli occhi. Povero Clay... Sua madre era una svitata. Max sapeva che bisogna fare attenzione a quel che si dice, con i matti.

Non si dice sempre che vanno trattati con grande cautela? Decise di essere il più gentile possibile.

«Sì, signora Mahoney. Io... sono... venuto qui... da solo.» Scandì le parole lentamente, con molta cura, senza mai smettere di guardarla negli occhi.

«I tuoi genitori ti lasciano andare in giro in bicicletta da solo? A dicembre?

Senza casco?»

Quella donna aveva chiare difficoltà a capire le cose più evidenti. Era ovvio che Max fosse da solo, e altrettanto ovvio che fosse arrivato lì in bici. Inoltre, aveva il capo scoperto. Perché, dunque, domandargli del casco? Aveva le traveggole, oltretutto. O era solo cecità funzionale?

«Sì, signora Mahoney. Non c’era bisogno del casco. Abito in questo stesso isolato. Sono rimasto sul marciapiede.»

Indicò la propria casa, visibile dalla porta di casa Mahoney. La signora si portò una mano alla fronte e socchiuse gli occhi, come un naufrago che scruti l’orizzonte in cerca della nave dei soccorsi. Lasciò ricadere la mano, tornò a guardare Max negli occhi e sospirò.

«Be’, Clay è al corso di quilting» disse la signora. Max non aveva idea di che cosa fosse un corso di quilting, ma gli suonava molto meno divertente che andare a preparare pezzi di ghiaccio appuntiti da tirare agli uccelli, che era quanto Max si riproponeva di fare.

«Be’, okay. Grazie, signora Mahoney. Gli dica che sono passato.» Fece un cenno di saluto a quella pazza della mamma di Clay, si voltò e risalì in bici.

Allontanandosi, sentì richiudersi la porta di casa Mahoney. Quando però svoltò sul marciapiede, diretto a casa, scoprì che la signora Mahoney gli stava accanto e camminava ad ampie falcate, sempre con la tazza argentata in mano.

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«Non posso lasciarti andare da solo» disse, muovendosi speditamente accanto a lui.

«La ringrazio, signora Mahoney, ma io vado in bici da solo tutti i giorni» disse Max, pedalando con prudenza e tornando a guardarla negli occhi. La stranezza di quella donna era triplicata, mentre la pulsazione cardiaca di Max era raddoppiata.

«Oggi non lo farai» disse lei, allungando una mano per afferrare il sellino della bici di Max.

Lui cominciava ad avere paura. Quella donna non solo era pazza, ma lo stava seguendo, e cercava di prenderlo. Lui provò ad accelerare. Era convinto di poterla seminare e aveva proprio intenzione di farlo. Si alzò sui pedali.

Lei aumentò l’andatura... e stava ancora solo camminando! I gomiti le volavano a destra e a sinistra; la sua bocca, con quell’espressione decisa, sembrava un colpo di rasoio sul suo viso. Stava forse sorridendo?

«Ah! Ah!» ridacchiò lei. «Che divertente!»

Sono sempre le persone più matte quelle che sorridono mentre fanno le cose più assurde. Quella donna era completamente fuori di testa.

«La prego» disse lui, pedalando più forte che poteva. Andò quasi a sbattere contro la cassetta della posta dei Chung, quella con il grosso simbolo della pace che aveva suscitato grandi polemiche in quartiere. «Mi lasci andare» la implorò.

«Non preoccuparti» ansimò lei, che ormai stava proprio correndo. «Ti accompagno fino a casa.»

Come fare per scrollarsela di dosso? Lo avrebbe seguito fin dentro casa? Di certo, non aspettava altro che di trovarsi con lui da solo, al chiuso, per fargli chissà che cosa. Avrebbe potuto stenderlo con un colpo di quella tazza da caffè. O lo avrebbe piuttosto bloccato a terra e soffocato con un cuscino? Questo sembrava più nel suo stile. Aveva gli occhi chiari, lo sguardo efficiente da infermiera

assassina.

Un cane si mise ad abbaiare. Max si voltò e vide che si era unito a loro il cane degli Scola: abbaiava alla signora Mahoney, cercando di morderle le caviglie. La signora non ci faceva molto caso. Aveva gli occhi più spalancati che mai. Lo sforzo sembrava renderla sempre più allegra.

«Endorfine!» intonò. «Grazie, Max!»

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«La prego» disse lui, «che cosa vuole farmi?» C’era ancora una decina di case a separarlo dalla sua.

«Voglio proteggerti» rispose lei «da tutto questo.»

Fece un gesto ampio a indicare il quartiere in cui Max era nato e cresciuto. Era una strada tranquilla e senza uscita, fiancheggiata da querce e olmi imponenti.

Alla fine della strada si estendevano alcuni acri di terreno boscoso oltre i quali c’era un lago. Nulla di brutto o anche di semplicemente degno di nota era mai accaduto in quella via, nella loro cittadina o, se era solo per questo, nel raggio di oltre seicento chilometri.

Max scartò bruscamente di lato e con un salto scese dal marciapiede sulla carreggiata.

«La strada!» gridò la signora Mahoney, come se lui si fosse buttato con la bici in un fiume di lava fusa. La strada era deserta, come sempre. Subito, però, lei gli fu alle calcagna e, correndo, cercò nuovamente di afferrare il sellino della bici.

Max pensò che sarebbe stato da sciocchi andare a casa: era proprio lì che lei lo voleva. Così lo avrebbe messo in trappola e l’avrebbe ucciso di sicuro. La sua unica speranza di fuga era il bosco.

Accelerò, guadagnando abbastanza spazio da cambiare direzione. Fece una rapida inversione a U e partì verso il fondo cieco della via, nella speranza di raggiungere gli alberi.

«Dove stai andando?» piagnucolò la signora.

Max scoppiò quasi a ridere. Di certo, non lo avrebbe seguito nel bosco! Si voltò a guardare e lei, pur avendo perso qualche metro, si era rimessa rapidamente a inseguirlo. Cavoli, se correva veloce! Max era ormai prossimo alla fine della strada, a poca distanza dal bosco.

«Non ti perderò di vista» strillò lei in falsetto. «Non preoccuparti!»

Max con un altro salto abbandonò la strada – suscitando nella signora Mahoney un urlo di terrore – per atterrare sullo sconnesso terreno erboso chiazzato di neve. Max si chinò per passare sotto i primi rami degli alti pini dai baffi bianchi, facendo lo slalom fra i tronchi.

«MAAAAAX!» ululò la signora. «Nel bosco no!»

Max vi si addentrò, invece, diretto verso il burrone.

«Molestatori! Droga! Barboni! Siringhe!» gridò lei, ansante.

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Il burrone era ormai vicinissimo, profondo sei o sette metri e largo quattro. Un mese prima, lui stesso aveva unito le due sponde con un’ampia passerella di compensato. Se avesse raggiunto il burrone, attraversato la passerella e fatto in tempo a rimuovere il compensato, forse sarebbe stato finalmente in salvo.

«Fermati!» strillò la signora.

Lui faceva oscillare la bicicletta da un lato all’altro. Non aveva mai pedalato così veloce. Persino il cane degli Scola faceva fatica a stargli dietro; stava ancora

cercando di addentare i calcagni della signora.

«Fa’ attenzione!» strepitò lei. «C’è – come si dice? – il dirupo!»

Bah, pensò lui. Raggiunse il ponte e di nuovo si levò un urlo di incommensurabile terrore. «Nooooooo!»

Max salì rumoreggiando sull’asse di legno. Giunto sull’altra sponda, mollò la bici e afferrò il compensato. La signora stava quasi per salirci a sua volta, quando lui tolse di mezzo l’asse. Il ponte cadde nel burrone e andò a sfracellarsi contro le rocce sottostanti.

Lei si bloccò all’ultimo momento. «Maledizione!» esclamò. Restò lì per un attimo, le mani sui fianchi, a corto di fiato. «Come farò a proteggerti se sei fuori dalla mia portata?»

Max pensò ad alcune risposte intelligenti, ma decise di tacere. Risalì in bici, nel caso la signora Mahoney avesse deciso di provare a saltare a sua volta. Era molto più forte e veloce di quel che lui aveva immaginato, e quindi non c’era da

escluderlo.

In quel momento, il cane degli Scola, sempre correndo a tutta velocità, scelse di lasciar perdere la signora Mahoney, scavalcò con un balzo il burrone, senza fatica, e atterrò accanto a Max. Si voltò a guardare la signora e poi rivolse lo sguardo verso Max, con i denti in mostra a mo’ di sorriso e gli occhi felici, come se loro due, insieme, avessero sconfitto un comune nemico. Max scoppiò a ridere, e quando il cane cominciò ad abbaiare alla donna piegata in due sul bordo del burrone anche Max prese ad abbaiare. E andarono avanti ad abbaiare, a lungo.

2

«Ehi, Claire!» gridò Max entrando in casa. Nessuna risposta.

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Non vedeva l’ora di raccontarle di quell’esaurita della signora Mahoney. Non sempre Claire era interessata a ciò che per Max era interessante; ma le storie di matti le piacevano, di solito. Questa l’avrebbe lasciata di stucco.

«C’è nessuno?» domandò, sperando che ci fosse solo sua sorella. A volte c’era Gary, il fidanzato della mamma, un tizio dal mento molle come una tortina, che arrivava lì subito dopo il lavoro e si metteva a ronfare sul divano. Dovunque si riversasse, lasciava delle macchie.

«Claire...?»

Max guardò in cucina, in soggiorno, in cantina. Nessuna traccia di Claire. Andò al piano superiore e finalmente sentì la voce della sorella.

«Io non gliel’ho mostrato: è questo il punto» stava dicendo.

Era al telefono quando Max entrò nella stanza, con le prime parole della sua storia già a fior di labbra. Prima che potesse parlare, però, lei lo fissò con un’occhiata velenosa, e lui, in punta di piedi, si ritirò alla svelta.

«Non capisco, però, perché lei va in giro a dire certe cose! È una bugia enorme!»

Max attese fuori dalla porta. Al termine della telefonata le avrebbe raccontato della signora Mahoney, del proprio trionfo, e insieme avrebbero architettato qualche scherzo ai danni di quella squilibrata.

Ma... perché aspettare? Max ne era certo: Claire sarebbe stata felice di sentire subito quella storia, dopo di che l’avrebbe addirittura ringraziato per averla

salvata da quella conversazione spiacevole e per averle raccontato cose molto più interessanti. Rientrò nella stanza di Claire e...

«Vattene, accidenti a te!» sbottò la sorella.

Lui restò lì per un attimo, così scioccato da non riuscire a muoversi né a parlare.

Non era andata affatto come lui aveva immaginato.

«Vattene!» ripeté Claire, furibonda, con voce due volte più forte, e richiuse la porta con un calcio, sbattendogliela in faccia.

Max provava una rabbia infinita, tutta rivolta con la sua massima intensità contro Claire. Che cosa le aveva fatto, in fondo? Era entrato nella sua stanza. Voleva parlare con lei. Non era stata né corretta né gentile trattandolo in quel modo, e lo sapeva bene anche lei.

Ora Claire ne avrebbe pagato le conseguenze.

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C’era ancora neve a sufficienza per costruire qualcosa di solido, e così Max decise di erigere un fortino a regola d’arte con la neve ammucchiata sull’altro lato della strada. All’arrivo degli amici di Claire, Max si sarebbe fatto trovare pronto, e ogni offesa sarebbe stata vendicata. Non sarebbe stata una bella scena, ma l’aveva voluto lei.

Indossò la sua tenuta da neve e attraversò di corsa la strada. Servendosi della cazzuola da giardinaggio di sua madre, si diede a scavare in quella massa di neve, portando ben presto a termine il vano principale del fortino. Era grande

abbastanza da accogliere lui e, probabilmente, un’altra persona della sua taglia, e aveva un soffitto abbastanza alto da poterci stare seduti. Con la cazzuola, sulla parete opposta all’entrata di quella cavità, scolpì una lunga e profonda mensola per disporvi le palle di neve e magari cibo o qualche libro. Se fosse riuscito a procurarsi una prolunga adatta, pensò, avrebbe potuto metterci persino un televisore. Di questo, però, si sarebbe occupato un’altra volta.

Nella parete rivolta verso la casa ricavò una stretta feritoia che gli garantiva una visuale perfetta sul vialetto e sulla porta d’ingresso. Era pronto ad accoglierli, gli amici di Claire. Si fermavano sempre lì a chiacchierare e facevano finta di sapere come si mastica il tabacco, sputacchiando e sbavando quel succo marrone nella neve grigia.

Max consultò l’orologio e vide che erano le quattro e un quarto: mancava almeno un quarto d’ora. Gli amici di Claire arrivavano – quando arrivavano, perché a volte non si facevano vedere pur avendo assicurato il contrario – più o meno alle quattro e mezzo: uno dei ragazzi della compagnia, un certo Finn, perennemente scarruffato, era sempre costretto a restare a scuola più a lungo degli altri, per punizione. A chi verrebbe in mente di far entrare un tipo del genere nella propria compagnia? A Claire e a quegli idioti dei suoi amici. Stavano tutti a scuola ad aspettare quel casinista di Finn, dopo di che, per qualche ragione, si presentavano tutti a casa di Max.

Max utilizzò il tempo che gli rimaneva per ammassare un enorme arsenale. La neve era di una consistenza perfetta, umida e compatta al punto giusto. Non doveva far altro che prenderne una manciata, e la palla era già pronta: palle di neve che si facevano quasi da sole. Le comprimeva per bene da ogni lato, le lisciava, tornava a comprimerle, le lisciava una seconda volta e infine le posava sulla mensola. Dieci minuti dopo aveva già preparato trentuno proiettili,

occupando tutto lo spazio sulla mensola.

Si dedicò, allora, a costruire un’altra mensola.

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Negli ultimi cinque minuti, Max stabilì che gli sarebbe servita una bandiera da far sventolare sul suo fortino e uscì dalla caverna. Si raddrizzò e andò in cerca di un bastone nei boschi circostanti, trovandone uno più lungo di un metro e dritto come un’asta di bandiera. Lo conficcò nel tetto del fortino e vi legò il proprio berretto. Si allontanò di qualche passo e notò con soddisfazione che sembrava davvero quasi una bandiera, innalzata per una grande nazione, prima di una battaglia gloriosa e moralmente indispensabile.

Alle quattro e mezzo era di nuovo avvolto dalla fredda comodità del suo fortino, intento a sbirciare dalla feritoia per vedere se c’era movimento davanti a casa sua. No, non aveva freddo. Si potrebbe supporre che un ragazzino rimasto tanto a lungo all’aperto tra la neve abbia freddo, ma Max non ne aveva. Era al calduccio, invece, un po’ perché era coperto da molti strati e un po’ perché un bambino che è per metà lupo e per metà vento non può aver freddo.

Alle 16.38, una station wagon imboccò il vialetto della casa di Max. Era un’auto che lui conosceva bene, una vecchissima station wagon rossa guidata da uno dei ragazzi della compagnia. Ne scesero due ragazzi e una ragazza. Uno era lo

scapigliato di nome Finn. L’altro, sempre vestito di nero, era Carlos. La ragazza invece si chiamava Meika, e Max la amava immensamente.

Mentre i ragazzi si avviavano verso l’ingresso, Max riuscì a cogliere qualche brandello della loro conversazione.

«Te l’ha detto Tonya che non è stata lei?» domandò Meika.

«Sì» rispose Carlos.

«Questo non significa che dobbiamo crederle» disse Finn.

La porta d’ingresso si aprì, e Claire fece la sua comparsa.

«Parli del diavolo...» disse Carlos.

«Cosa?» fece Claire, e gli altri scoppiarono a ridere.

Anche Claire si sforzò di ridere, e i tre le passarono davanti infilandosi in casa.

Un minuto dopo ricomparvero. Probabilmente avevano voglia di masticare tabacco, e Claire sapeva che non era il caso di farlo in casa: la mamma se ne sarebbe accorta, prima o poi. Quando i ragazzi, e Claire, cominciarono

schifosamente a tossicchiare e sputacchiare, Max capì che le condizioni erano adatte all’azione. Sapeva lui come fare. «Okay, okay» disse a se stesso. «Okay.»

Strisciò come un serpente fuori dal fortino, facendo attenzione a non farsi scorgere dalle sue vittime predestinate ferme sul lato opposto della via. Si rialzò

(13)

in piedi e osservò meglio Claire e i suoi amici, per accertarsi che non l’avessero individuato. Tornò nella sua fortezza per recuperare le munizioni. Infilò con cura palle di neve in tutte le tasche disponibili. Quando le tasche furono colme, mise altre palle di neve nel cappotto rialzato sul davanti a mo’ di marsupio. Lasciò venti proiettili all’interno del forte, di scorta, per eventuali rifornimenti successivi.

Ora bisognava avvicinarsi. Doveva attraversare la strada e appostarsi nel giardino dei vicini. Lì lo steccato lo avrebbe protetto dal fuoco nemico. Per

arrivarci però si sarebbe dovuto esporre e loro, distanti poco più di dieci metri, lo avrebbero senz’altro visto.

A quel punto gli venne un’idea.

Prese una delle palle di neve più piccole e la scagliò il più lontano possibile. Lui era bravo in questo – sapeva lanciare una palla da baseball a settanta chilometri all’ora, stando al radar del box di battuta – e il suo proietto, di dimensioni ridotte, sorvolò Claire e i suoi amici, finendo nel giardino della più lontana tra le case che affiancavano la sua. Atterrò con uno schiocco, e i quattro adolescenti si voltarono per capire da dove giungesse quel rumore. Approfittando della loro distrazione, Max attraversò la via come una freccia e si tuffò dietro lo steccato prescelto come nascondiglio.

Il piano funzionò. Max era di una furbizia intollerabile. Avanzò alla svelta.

Si trovava ormai a soli sei o sette metri dal nemico, ora invisibile per via dello steccato. I quattro adolescenti erano tutti presi dal tabacco: i ragazzi a metterselo in bocca, le ragazze a dire: «Che roba schifosa» per poi aggiungere altre

stupidaggini che non valeva la pena di dire. E così facendo non immaginavano quale attacco devastante stavano per subire.

Max lasciò cadere tutte le palle di neve sul terreno ai propri piedi e sistemò una fila di proiettili sull’assicella orizzontale più bassa dello steccato. Conservò sette palle di neve nelle tasche, nel caso ci fosse stato bisogno di avanzare allo scoperto per dare il colpo di grazia al nemico.

Era pronto. Inspirò a fondo, esalando poi un vapore da drago, e diede inizio all’attacco.

Fece partire una serie di cinque palle, in rapida successione, più rapida di quel che lui stesso credeva possibile. Il suo braccio era una specie di macchina, come quelle che sparano palline da tennis.

Bum!

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Bum!

Bum!

Una palla centrò al petto lo spettinato, e sul giubbotto imbottito fece un rumore incredibile, come uno schiocco sordo.

«Che cavolo...?» gridò.

Un’altra palla colpì Meika alla coscia.

«Ah! Cosa...?» boccheggiò la ragazza.

Un terzo proietto prese il parabrezza della station wagon; anche in questo caso, il rumore fu stupendo. Le altre due palle mancarono completamente il bersaglio, ma non aveva importanza: Max stava già sparando una nuova raffica. Dal suo braccio-cannone partirono altri quattro colpi, e ne fecero le spese la spalla di Claire, il tettuccio e una portiera dell’auto, e Carlos che, colpito in pieno nelle parti basse, si piegò in avanti. Fantastico.

«Chi è che tira?» strillò Claire.

Max si nascose dietro lo steccato, ma i ragazzi fecero in tempo a dedurre che proprio lui era stato l’autore di quell’attacco. Avevano individuato la sua

posizione. Max aveva pronta un’altra fila di munizioni, ma quando tornò a sbirciare al di là dello steccato – «Eccolo qui, lo stronzetto!» disse uno – fu travolto da una valanga di neve, che gli cadde sulla testa con grande forza e velocità. I ragazzi si erano mossi alla svelta e avevano issato un ammasso di neve compatta sullo steccato, facendolo ricadere addosso a Max. Lo scontro, dallo scambio di colpi d’artiglieria, stava passando al corpo a corpo più rapidamente del previsto.

«Allora, che te ne pare, adesso, deficiente?»

«Mi hai preso nei coglioni, idiota!»

Se fosse riuscito ad attraversare la strada, Max sarebbe stato in salvo. Se anche l’avessero seguito, non sarebbero mai riusciti a scoprire il suo fortino ben

nascosto e, tantomeno, a espugnarlo. Partì di scatto.

«Corri, corri, pivello!» gli gridarono dietro.

«Ehi, guardate come fila, con quelle gambette!»

Al momento dello scatto, Max lanciò un’ultima palla di neve che, tracciando una parabola altissima, scomparve nel sole prima di consentirgli di vedere dove sarebbe atterrata.

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Raggiunse correndo l’altro lato della strada, e a quel punto i ragazzi ancora non si erano decisi a inseguirlo. Si mise a fare lo slalom tra i pini per confondere le tracce e udì, infine, atterrare l’ultima palla di neve con uno schiocco ghiacciato.

«Max, sei impazzito?» stava gridando Claire. «Hai colpito Meika in faccia!»

Che peccato... Meika era l’unica fra tutti che lui non avrebbe mai voluto colpire.

Magari adesso lei lo avrebbe considerato più forte, proprio perché l’aveva colpita in faccia... Possibile? Magari era così che funzionava... Imbucandosi nel suo

fortino, Max sogghignò. Magari Meika gli avrebbe dato un bacio e accarezzato il collo, per quella palla di neve in faccia.

Guardò fuori dalla feritoia e vide Claire che stava soccorrendo Meika, la quale piangeva e aveva la faccia rossa e segnata. Che senso ha piangere per una palla di ghiaccio e di neve che, dopo aver quasi colpito il sole, cade dal cielo e ti prende in faccia?

Meika l’aveva deluso. Le ragazze erano proprio delle ragazze. Ben presto Meika avrebbe cominciato a piagnucolare tutto il tempo, per ogni cosa, proprio come faceva la madre di Max. Anni addietro Max le aveva detto: «Che cosa c’è che non va?» e «Non piangere, mamma» ma ormai gli pareva decisamente inutile.

«Dove si è cacciato?» disse uno dei ragazzi. Max aveva sentito la voce, ma dalla feritoia non riusciva a vederli.

«Ehi, guarda quella specie di bandiera» disse l’altro.

Max prese mentalmente nota: la prossima volta, niente bandiera.

Sentì i passi dei ragazzi nelle immediate vicinanze del fortino. Cavoli, se erano svelti. Erano alle sue spalle. Si voltò e vide i loro piedi appena fuori dal suo nascondiglio.

«È lì dentro» disse uno. «Si vedono i suoi ridicoli scarponi.»

«Ehi, bambino, sei lì dentro?» domandò l’altro.

«È lì» ripeté il primo. «Gli scarponi, guarda.»

«Se non esci, ti tiriamo fuori noi.»

Max cominciava a preoccuparsi. Sembrava proprio che sapessero bene dov’era il suo fortino, e sapevano anche che lui ci si era nascosto dentro. Se rimaneva lì, era fregato; se fosse uscito, però, quelli l’avrebbero quasi certamente massacrato.

Le alternative scarseggiavano.

(16)

Una mano fece capolino all’interno del nascondiglio. Uno dei ragazzi si era aperto un varco nel tetto. Com’era possibile? Max sferrò un calcione alla mano, che si ritrasse.

«Ah! Sei morto, pischello» disse una voce.

Per un attimo regnò il silenzio.

E Max non vedeva più i loro piedi.

Sentì delle risatine, poi qualcuno fece “Sst!”. Poi di nuovo silenzio, per un bel po’.

Rumore di passi sul tetto. Dal soffitto cadde un po’ di polvere di neve. Max si sentiva al sicuro, però, vista la quantità di neve compatta che isolava il suo nascondiglio. Quelli continuavano a camminare. Chissenefrega, pensò Max.

Continuate pure finché vi pare.

Poi saltarono.

Il rumore era come di colpi di tosse cupi e profondi. Saltarono di nuovo.

Altra polvere di neve cadde dal soffitto, che era sempre più vicino alla sua testa.

Max si rannicchiò e poi si distese, ma il soffitto sembrava sul punto di cedere.

Il crepitio della terra che inghiotte la terra.

Saltarono una terza volta.

E tutto diventò bianco.

E poi il freddo, e che freddo! Ce l’aveva dentro la giacca, negli occhi, nel naso, nelle mutande. Non riusciva a respirare. Non udiva quasi più nulla. Stava

soffocando.

Poi sentì delle risate. I ragazzi se la ridevano.

«Bel fortino» disse uno.

«Vieni fuori» disse l’altro.

Max non riusciva a muoversi. Non era sicuro di essere ancora vivo.

«Alzati, pivello» disse una voce.

Max non riusciva a muoversi. Ma... era vivo?

«Oh, merda» disse una voce.

Rumore di scavi. Un raspare furioso sopra di lui.

(17)

Il peso sulla schiena di Max si alleggerì, e in un attimo fu riesumato da tutto quel bianco. I ragazzi lo stavano rimettendo in piedi, ed eccolo di nuovo all’aperto, a respirare l’aria fina. Era senza forze, però. Non riusciva a stare in piedi. Ricadde a terra come una marionetta.

Steso sulla neve, attaccò a tossire. Aveva gli occhi allagati, la pelle scorticata. Gli occhi non gli funzionavano. La bocca non gli si apriva. I polmoni sussultavano. La gola gli bruciava.

«Tutto bene?» gli domandò uno dei due.

Max si rialzò in ginocchio, ma non riusciva a parlare. Era intasato di neve e di catarro. Gli pareva che il cuore gli si fosse spezzato in due, per poi migrare verso nord e andare a pulsargli negli orecchi.

Dov’era Claire? Sarebbe stato suo dovere trovarsi accanto a lui, in quel

momento. A cingergli le spalle. A massaggiargli la collottola. A soffiargli aria negli orecchi, tra le mani a coppa, per riscaldarlo, come aveva fatto un anno prima, quando lui era finito nel torrente ghiacciato dopo la tormenta.

Claire invece era altrove. Max si rialzò e la neve che aveva dentro la giacca cominciò a colargli lungo la schiena. Fu scosso da un brivido. Guardò verso sua sorella, ma lei stava assistendo Meika e pareva determinata a lasciarlo morire, lui, suo fratello, nel bel mezzo di quell’incolore pomeriggio di dicembre.

«Ehi, pischello, ti sei fatto male?» disse uno dei ragazzi. L’altro era già tornato verso l’auto.

Il clacson suonò. Il ragazzo si strinse nelle spalle, lasciò Max da solo e raggiunse gli altri. Claire indugiò per un attimo sul vialetto di casa, gettando uno sguardo dalla parte di Max. Per un breve istante Max coltivò la speranza che lei andasse a prenderlo e lo portasse in casa, per poi preparargli un bagno caldo e fargli

compagnia e maledire quei ragazzi, giurando di non rivederli mai più. Allora sì che sarebbe stata di nuovo sua sorella.

«Tuo fratello è delicato, eh?» disse una faccia, visibile attraverso il finestrino aperto dell’auto. Era Finn, il tipo dai capelli selvaggi.

«Tu non hai idea...» rispose Claire. Distolse l’attenzione dal fratello, si infilò sul sedile posteriore dell’auto e chiuse la portiera. Uscirono in retromarcia dal vialetto e se ne andarono.

3

(18)

Max non aveva più una sorella.

Rientrò a casa e, senza sapere esattamente quel che faceva, si ritrovò in cucina.

Frugò sotto il lavandino e prese un grosso secchio. Lo capovolse, rovesciando a terra gli stracci, i detergenti e le spazzole che conteneva. Portò il secchio al piano di sopra, nel bagno che condivideva con Claire.

Aprì il rubinetto della vasca e vi sistemò sotto il secchio. Mentre questo si riempiva, Max scorse la propria immagine allo specchio. Era fradicio: non c’era una sola parte del suo corpo che non fosse impregnata di umidità; aveva la faccia rossa, un’aria ferina. Si compiacque del proprio aspetto.

Il secchio si era riempito. Max si chinò per sollevarlo, ma era troppo pesante. Lo svuotò di un terzo, lo sollevò, facendolo un po’ oscillare, e lo portò nella stanza di Claire.

Era una stanza in piena fase di transizione. C’era sempre stato un letto rosa e azzurro pastello, con tanto di baldacchino, ma ora su quel letto c’era una orribile coperta fatta all’uncinetto, che Claire aveva comprato uscendo da un concerto, in città.

Senza riflettere sui pro e i contro, Max scaricò il contenuto del secchio sul letto della sorella, dove l’acqua, con gran sciabordio, inzuppò all’istante il materasso.

Tornò in bagno. Il rubinetto era ancora aperto. Riempì nuovamente il secchio e tornò nella stanza di Claire, vuotando questa volta l’acqua sulla moquette, che se ne impregnò immediatamente. Un ottimo lavoro, che però servì soltanto a

stuzzicare il suo appetito. Tornò molte altre volte a riempire il secchio,

accanendosi di volta in volta sui cassetti, sul guardaroba, su ogni angolo della stanza. Per sette volte ripeté l’operazione, inondando la sedia su cui Claire gettava abitualmente i vestiti; la collezione di bambole e animali di peluche che teneva nell’armadio; l’equipaggiamento da hockey; la bacheca su cui aveva incollato le foto sue e dei suoi insulsi amici.

Un lavoro duro, quello di trasportare l’acqua e di versarla per tutta la stanza, ma Max sentiva che doveva esser fatto. Era compito suo, in quel momento, punire Claire per aver lasciato che lo schiacciassero sotto cinquanta chili di neve, per averlo ignorato, per aver permesso che i suoi amici gli facessero quasi la pelle.

Quello di allagarle la stanza era sicuramente il primo di una lunga serie di passi che avrebbero segnato la fine della loro fratellanza. Lei avrebbe probabilmente preteso di andarsene a vivere da Meika o si sarebbe sposata con uno dei suoi amici sballati per poi andarsene a vivere in una fattoria nel Vermont, come spesso aveva detto di voler fare, un giorno o l’altro. Voleva la sua fattoria, diceva;

(19)

avrebbe fatto il gelato e venduto bambole fatte a mano e certi segnalibri che aveva da poco imparato a fare all’uncinetto.

Sarebbe bello, pensò Max. Che se ne andasse pure dove le pareva, purché se ne andasse. Così lui non avrebbe più dovuto vivere con una persona capace di

tradirlo in quella maniera. Se ne sarebbe stato felice con la sua mamma,

soprattutto quando lei si sarebbe sbarazzata del suo fidanzato, Gary, a cui Max, in quel momento, non aveva tanta voglia di pensare.

Restò lì per un po’ sulla moquette fradicia punteggiata di tanti laghetti. Si era finalmente calmato e, osservando i danni causati, cominciò ad avere pensieri contrastanti su quel che aveva appena fatto.

4

La notte imminente aveva colorato la sua stanza di un blu ovattato e senz’aria.

Dalla branda inferiore del suo letto a castello, accese entrambi i mappamondi compratigli dal padre: oggetti antichi, di un’altra epoca, illuminati dall’interno per mezzo di una lampadina. Le lampadine al centro dei globi, là dove la Terra

nascondeva il suo nucleo fluido, conferivano a oceani e continenti una tonalità burrosa.

Fine dell'estratto Kindle.

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