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(Footitt 2012a: 239) Si tratta di una situazione in cui la comunicazione diventa necessaria sia fra le varie parti coinvolte nel conflitto.

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C

APITOLO SECONDO

GUERRA E TRADUZIONE

2.1. Tradurre il nemico

―War is the province of uncertainty: three fourths of those things upon which action in War must be calculated, are hidden more or less in the clouds of great uncertainty‖ è una frase di von Clausewitz che Michael Kelly cita per poi rispondere con una sua personale constatazione: ―Languages are a cloud of this sort.‖ (Footitt 2012a: 236) Questa affermazione è valida in senso generale, ma prima di tutto nei contesti di conflitto fra varie nazioni. È ben noto che il legame fra gli individui viene instaurato tramite il mezzo della lingua; è in sostanza un modo per incontrarsi con l‘Altro. In situazioni di conflitto la lingua diventa il presupposto per incontrare l‘Altro e automaticamente una caratteristica intrinseca dell‘Altro. Ancora secondo Kelly: ―In this way, the otherness of language is a fundamental dimension of encounters in conflict.‖

(Footitt 2012a: 239) Si tratta di una situazione in cui la comunicazione diventa necessaria sia fra le varie parti coinvolte nel conflitto.

Sullo sfondo dei contesti di guerra moderni emerge una funzione della lingua che Kelly sintetizza come segue: ―language can be used as a weapon.‖ (Footitt 2012a:

240) Un esempio è rappresentato dall‘invasione italiana della Slovenia nel 1915. La lingua in questo caso viene usata come strumento per imporre l‘italiano come lingua ufficiale non solo negli ambiti dell‘istruzione e dell‘amministrazione, ma anche nel nominare luoghi e persone. Altri contesti simili sono quelli dell‘Erzegovina, Bosnia, Afghanistan e l‘Iraq. Date queste premesse, Hilary Footitt afferma che: ―languages are not separate from military engagement or concentrated solely in the figure of language intermediaries but rather ‗translated‘ into each stage and element of war, part of the overall landscape of war, conflict and peace building.‖ (Footitt 2012a: 4)

Se è vera l‘affermazione di Michael Kelly, il quale sostiene che: ―All conflicts, like all other human activities, are fundamentally conducted in and through language‖

(Footitt 2012a: 242), allora non è possibile non concordare con Maria Tymoczko

quando afferma che le situazioni di conflitto hanno portato non solo all‘affermazione e

allo sviluppo degli studi sulla traduzione, ma anche alla rivalutazione del ruolo dei

traduttori e degli interpreti in questi conflitti. Il primo evento che ha segnato questo

processo è, stando a Tymoczko, la Prima Guerra Mondiale, quando per la prima volta

si avverte l‘urgente necessità della traduzione in quanto strumento per inquadrare il

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nemico, procurarsi informazioni di intelligence e fare propaganda. Il secondo evento è la nascita dell‘Unione Europea, e la decisione di mantenere le lingue ufficiali di ogni paese e la conseguente necessità di capirsi a vicenda. Michael Cronin è convinto che la sempre più pressante esigenza di traduzione nei contesti di guerra contribuisca a mettere in risalto la figura degli interpreti e dei traduttori, trasformandoli in figure indispensabili:

[…] there is every reason to believe that in our century, translators and interpreters will find themselves at the very heart of the new informational or intelligence wars.

They will in a sense become ‗vital‘ players in a new form of risk society where ‗to feel safe in the world‘, it will be necessary to ‗understand that acquiring knowledge in multiple languages is necessary, not just in English. (Cronin 2006: 113)

Anche Emily Apter ha notato questo cambiamento, ed è convinta che grazie alle mansioni svolte in diversi contesti di guerra, le figure quali fixers e stringers

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guadagnano sempre più visibilità:

Clearly the 9/11 tragedy, followed on its heels by the Iraq invasion and occupation, has contributed to the focus on translation in film, fiction, academic search and the media. News stories have homed in on the precarious situation of translators as ‗soft targtes‘, on the paucity of accomplished Arabic translators, and of the dismissal of qualified translators from the military as a result of homophobic policy. (Apter 2009:

195)

Conoscere le lingue straniere non è mai stata una delle principali priorità della politica americana. Si rivela tale dopo l‘evento dell‘undici settembre. Emily Apter utilizza il termine ‗Arabophobia‘ (Apter 2009: 202) in relazione al nuovo aspetto che assume il ruolo della traduzione, ―the need to bolster expertise in ‗national security languages‘ (Arabic, Farsi, Pashto, Dari, etc) has been recognized‖ (Apter 2009: 203) A conferma di questo nuovo aspetto Vincente Rafael

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riporta un famoso discorso del

1Percorrendo la storia dell‘interprete sin da tempi più remoti Emily Apter ricorda che uno dei primi termini in assoluto per riferirsi alla figura dell‘interprete è il termine dragomanno: ―a diplomat/middleman, often Greek, Albanian or Italian, who was charged with translating Arabic, Turkish or Persian for foreign legations in Turkey and the Middle East. The dragoman was often accused of being a spy or depicted as a shady character.‖ (Apter 2009: 199) Secondo Apter la figura del dragomanno moderno è rappresentata dalla categoria dei cosiddetti fixers a stringers. Per fixer, come spiega anche Jerry Palmer, si intende: ―means someone who does a variety of jobs for a journalist‖ (Palmer 2007: 26) La definizione di stringer fornita da Emily Apter è la seguente: ―The stringer‘s duties include not just translation, but also the role of tribal, cultural and religious cultural negotiator, field guide, interview fixer and human shield‖ (Apter 2009: 199)

2 In order to convince people we care about them, we‘ve got to understand their culture and show them we care about their culture. You know, when somebody comes to me and speaks Texan, I know they appreciate Texas culture. When somebody takes time to figure out how to speak Arabic, it means they‘re interested in somebody else‘s culture […]. We

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presidente Bush in cui parla dell‘impatto positivo che può avere conoscere la lingua dell‘altro. Rafael legge nelle parole del presidente americano il desiderio di utilizzare il potenziale della lingua e della traduzione come mezzo per espandere i propri scopi imperialistici:

The strangeness of ―Arabic,‖ ―Farsi,‖ etc., like that of ―Texan‖ can be made to yield to a domesticating power that would render these languages wholly comprehensible to English speakers and available for conveying American meanings and intentions.

As supplements to English, so-called ―critical languages‖ are thought to be transparent and transportable instruments for the insinuation and imposition of America‘s will to power. (Rafael 2009: 38)

L‘urgente necessità di un‘immediata comprensione della lingua araba è connessa non tanto al bisogno di una conoscenza dell‘altra cultura o il desiderio di assimilazione, ma all‘utilizzo della lingua come ‗an essential war fighting skill.‘ L‘orientamento della traduzione in questo caso si dirige verso l‘utilizzo della lingua straniera come mezzo per tenere a bada il nemico, ovvero: ―we do so because ―we‖ want to protect ourselves from them and to insure that they remain safely within our reach whether inside or outside our borders.‖ (Rafael 2009: 39) In questi tempi di emergenza lo stato americano promuove una politica volta allo studio delle lingue critiche, finalizzato a contribuire alla sicurezza della nazione:

In times of emergency, translation is pressed to mobilize foreign languages as parts of a ―complex weapons system‖ with which to secure America‘s borders even as it globalizes the nation‘s influence. Through translation, foreign languages furnish the tools with which to understand and domesticate what is alien and unfamiliar. (Rafael 2009: 40)

Mona Baker definisce l‘importante compito della traduzione in quanto un modo essenziale per raccontare al mondo una (o la propria) versione dei fatti accaduti nel presente momento storico: ―In this conflict-ridden and globalized world, translation is central to the ability of all parties to legitimize their version of events, especially in view of the fact that political and other types of conflict today are played out in the international arena and can no longer be appealing to local constituencies alone.‖

(Baker 2006: 1) Il concetto di conflitto e l‘esercizio del potere, secondo Baker,

need intelligence officers who when somebody says something in Arabic or Farsi, Urdu, know what they‘re talking about […] (Rafael 2009: 38)

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possiedono uno stretto legame con il concetto di traduzione, in quanto: ―translation and interpreting are part of the institution of war and hence play a major role in the management of conflict ‒ by all parties, from warmongers to peace activists. ‖(Baker 2006: 2) Baker afferma che la sola dichiarazione di guerra è di per sé un atto linguistico.

Baker è convinta che una volta dichiarato lo stato di guerra, esso non può procedere nella giusta direzione se non tramite la traduzione: ―once war is declared, the relevant military operations can only begin and continue through verbal activity.‖ (Baker 2006:

2) Quella che secondo Baker è la più importante funzione della traduzione in situazioni di conflitto è riuscire a ‗vendere‘ la guerra sia a livello nazionale che a livello internazionale: ―Contemporary wars have to be sold to an international and not just domestic audiences, and translation is a major variable influencing the circulation and legitimation of the narratives that sustain these activities.‖ (Baker 2006: 2)

La nuova funzione della lingua e della traduzione come un‘arma diventa un mezzo di cui molti drammaturghi si servono per affrontare il tema della guerra. Nel testo di George Packer la traduzione e il ruolo della lingua inglese come lingua franca è orientata verso il desiderio di raggiungere gli scopi imperialistici da parte degli Stati Uniti e diffondere il messaggio della guerra giusta che ha lo scopo di esportare la democrazia nel Medio Oriente. Questo si riflette a livello linguistico, ―Adnan: We have a new vocabulary.‖(Packer 2008: 8). Vicente Rafael la vede come una vera e propria rivoluzione a livello linguistico: ―Speaking the other‘s language means replacing one‘s first with a second idiom, investing the second with the primacy that outstrips the first.‖

(Rafael 2007: 241) L‘inglese non solo veste il ruolo di lingua franca, ma comporta un altro tipo di cambiamento per gli iracheni: loro stessa città viene rinominata. L‘ex palazzo presidenziale di Saddam Hussein si trasforma nel quartiere generale degli uffici americani – la Zona Verde. Questo cambiamento è motivo di un generale obbligo di comunicare in inglese, che diventa non solo la lingua comune, ma anche la lingua dei luoghi, nonostante l‘affermazione di Laith: ―I didn‘t even know these words, Assassins‘

Gate, Green Zone. These were American words.‖ (Packer 2008: 13)

Un caso analogo di traduzione che si fa veicolo degli scopi imperialistici delle

grandi potenze è presente in Translations di Brian Friel. Tra le altre cose, la storia verte

intorno al compito assegnato all‘Ordnance Survey di rinominare i luoghi irlandesi e

creare una nuova mappa. L‘arrivo dei soldati inglesi guidati da Lancey sconvolge

l‘ordine costituito nel paese di Baile Beag. Il protagonista Owen viene incaricato a

svolgere il lavoro traduttivo insieme all‘ufficiale Yolland. Uno dei momenti più

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significativi di questa impresa è l‘episodio in cui Owen e Yolland affrontano la sfida di come tradurre il nome di un luogo nominato ‗Tobair Vree‘, che porta il nome di un vecchio annegato in una sorgente. Owen chiede a Yolland: ―Do we scrap Tobair Vree altoghether and call it – what? ‒ The Cross? Crossroads? Or do we keep piety with a man long dead, long forgotten, his name ‗eroded‘ beyond recognition, whose trivial little story nobody in the parish remembers? (Atto II, scena 1) Yolland inizia ad avere serie difficoltà nel portare a termine il suo compito; lui si innamora sinceramente nei posti incantevoli che descrive come ‗heavenly‘, ai quali però dovrebbe dare un nuovo nome. Owen insiste che il nome della sorgente deriva da un evento che tutti hanno ormai dimenticato. Yolland dal canto suo, insiste che il luogo ha comunque una storia che risale a molto tempo fa, e che ha una sua importanza. Owen controbatte con l‘affermazione che i nomi irlandesi sono fonte di confusione, e con la loro resa in inglese la si eviterebbe. Il paradosso più grande sta nel fatto che sono proprio questi nomi di luoghi incantevoli che per Yolland sono un mezzo di comunicazione con Maire durante il loro incontro amoroso. Questa comunicazione si svolge attraverso la lingua del corpo e la recitazione poetica dei nomi.

Il mezzo della traduzione per raggiungere scopi imperialistici non è tema centrale solo in Translations. David Edgar, nel suo The Prisoner’s Dilemma (2001), trasporta lo spettatore in una nazione fittizia in cui si parla una varietà di lingue inventate. Le lingue parlate dagli abitanti dei due paesi in conflitto, Drozhdania e Kavkhazia, si mescola con altrettante lingue esistenti – francese, tedesco, italiano. Il ruolo di ―impartial mediator‖ (Soncini 2004: 501) in grado di prevenire la violenza e risolvere il conflitto tra le due nazioni è assegnato alla lingua inglese.

Oltre al ruolo assegnato alla traduzione in questi due testi emerge anche la specifica condizione dell‘interprete definita speso con la metafora dell‘in-betweenness.

Posizionata fra le varie parti in conflitto, dalla figura dell‘interprete si esige professionalità e soprattutto neutralità. Quest‘ultima viene considerata una caratteristica principale che va di pari passo con la competenza e la bravura. A questo proposito, Myriam Salama-Carr si esprime nei termini seguenti:

[…] it is widely recognised that translation and interpreting are sited of conflict, the prevailing view of the roles of the translator and the interpreter remain ones of negotiation and ‗neutral‘ mediation, which entail a number of manageable risks, but are performed from a position of ‗in-between‘. ‖(Salama-Carr 2007: 1)

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Per esprimere la stessa idea sulla posizione complessa degli interpreti, Michael Cronin si serve dell‘aggettivo prodigal, sostenedo che:

Interpreters are frequently what we might term prodigal figures in cultures. By this, we mean that they will often leave (voluntarily or through force) their native place, learn the language of another, then return to their place of origin where, in colonial history , they frequently acta s the agent of the other. (Cronin 2006: 77)

Gli interpreti vivono il continuo dilemma dello ‗stare fra‘, cercando di riconciliare due compiti oggettivamente impossibili – soddisfare le esigenze degli occupanti e quelle della popolazione locale. Questa loro ambiguità di posizione finisce per etichettarli come traditori agli occhi dei loro connazionali. Questa considerazione è presente anche in Translations (1980) Il protagonista Owen il figlio ritorna nel paese natale di Baile Beag in veste di interprete assunto da parte dell‘Ordnance Survey: ―Me a soldier? I‘m employed as a part-time, underpaid, civilian interpreter. My job is to translate the quaint, archaic tongue you people persist in speaking into the King‘s good English.‖

La situazione linguistica in Translations è chiara fin da subito; la lingua irlandese è definita arcaica, una lingua del passato, mentre l‘inglese quella del futuro e della modernità. Il ruolo di Owen sta proprio nella sua capacità di fare da mediatore linguistico tra queste due lingue. Michael Cronin è dell‘idea che un‘opera quale è Translations meglio riassume il complesso ruolo svolto dalla figura dell‘interprete.

Cronin riassume che: ―Owen as interpreter is better placed than most in the play to understand the new linguistic dispensation that he is partly responsible for bringing into being. He is an amphibian figure, straddling two cultures and two languages‖

(Cronin 2006: 76) Data questa bipartizione del ruolo dell‘interprete, le conseguenze

possibili si articolano in due possibilità principali: ―Owen‘s linguistic doubleness makes

him a useful tool of empire but a dangerous insider for the guardians of native

language and culture.‖ (Cronin 2006: 77) La figura dell‘interprete si trova così ad

abitare due sfere contemporaneamente. Se si prende per buona questa affermazione di

Cronin, allora non è possibile non ammettere che è vero anche il contrario. Il filosofo

Charles Taylor fa notare che ogni individuo rimane comunque e in ogni caso legato alla

propria cultura e al proprio mondo. Questa affermazione è particolarmente valida

riguardo alla figura dell‘interprete. Stando a Taylor gli individui, interpreti inclusi, non

sono mai completamente disinteressati e sradicati, ma ―engaged, embedded in a culture‖

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(Cronin 2006: 78) Questa affermazione è particolarmente evidente nel caso di Owen in Translations. Il suo legame, ovvero ―embodied agency‖, per dirla con Taylor, non è evidente nel momento in cui partecipa al progetto di dare nomi nuovi ai luoghi locali, ma nel momento in cui si rende conto della sua propria vulnerabilità personale, della sua posizione in quanto interprete, e della sua lealtà divisa in due. Cronin individua questo elemento nel momento in cui alla misteriosa scomparsa di Yolland, il capitano Lancey annuncia una serie di rappresaglie per la popolazione locale. Si tratta dell‘episodio seguente:

Lancey: Commencing twenty-four hours from now we will shoot all livestock in Ballybeg.

[Owen stares at Lancey]

At once.

Owen: Begining this time tomorrow they‘ll kill every animal in Baile Beag – unless they‘re told where George is.

Lancey: If that doesn‘t bear results, commencing forty-eight hours from noww we will embark on a reies of evictions and levelling of abode in the following selected areas –

Owen: You are not!

Lancey: Do your job. Translate. (cit. in Cronin 2006: 78)

David Edgar, dal canto suo, si preoccupa di raffigurare il personaggio dell‘interprete/mediatore come colui non è neutrale, ma serve gli scopi delle grandi potenze, in questo caso gli Stati Uniti. La figura che si muove fra le due culture è impersonata dalla mediatrice finlandese Gina Olsson, che ha il compito di contribuire a stringere un accordo fra le due parti in conflitto. La sua peculiarità è sottolineata dal fatto che lei gode di una competenza linguistica pari a quella posseduta dai parlanti di madrelingua inglese. Il ruolo oggettivo assegnato a Gina Olsson cessa di essere tale nel momento in cui è chiamata a prendere una posizione e non ―stand aside from this.‖

(Edgar 2001: 125) Nella quarta scena del secondo atto, Kelima chiede a Gina se firmare

le carte per un accordo e le ricorda che deve prendere una posizione: ―Kelima: […] So

Gina Olsson once again I ask you. Tell me what to do. Or please, get out of the affairs

of what remain of tourist wonderland Drozhdania, and leave us to the fate that we

deserve.‖ (Edgar 2001: 125) In questo modo Gina Olsson è costretta ad affrontare la

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natura problematica del suo ruolo, e rendersi conto che ―mediation is never an innocent business, but rather one which is likely to involve a cost.‖ (Soncini 2004: 500)

Come è stato dimostrato, la figura dell‘interprete, lungi dall‘essere un mediatore neutrale, si trova a dover fare una scelta. Scelta, che in alcuni casi è tra la vita o la morte. Nel conflitto iracheno, il timore suscitato dalla figura dell‘interprete deriva dalla sua natura ibrida. Cronin descrive questo timore come segue: ― The fear comes from the risk of being misled either by the native interpreter or by the non-native interpreter gone native. The difficulty for the imperial agent is dealing with this monstrous doubleness, the potential duplicity of interpreters.‖ (Cronin 200: 114). È interessante, e credo senz‘altro, doveroso chiedersi da cosa derivi questa duplicità. Stando a Cronin una possibile cause può essere individuata nel fatto che: ―The interpreter is returned to his language and culture of origin, he has retraced the path from his B language to his A language, but the origins have now become uncertain, a potential site of duplicity‖

(Cronin 2006: 115). Emily Apter definisce questa paura in relazione allo sdoppiamento delle loro qualità:

[…]the suspicion that translators naturally arouse given the complex nature of their affective ties; ties of sympathy and reciprocal understanding that hold between speakers communicating in a first or common language in a space outside their nativa land. The translator ‒ with native-speaker levels of skill in at least two languages ‒ is dangerously ‗bi‘ ‒ bilingual, bicultural, binational ‒ and thus assumed to have devided loyalties […] Diglossic skill signals not only the translator‘s allegiance to more than one language, it implies a higher power of discernment, a discretionary sorting of lexemes and expressions into coded social contexts, a play between valences (ironies of idiolect, homonymic puns) not discernible to the monolingual ear. (Apter 2009: 198-199)

Se è vera l‘affermazione di Apter: ―war is the continuation of extreme

mistranslation or disagreement by other means. War is, in other words, a condition of

nontranslatability or translation failure at its most violent peak‖ (Apter 2006: 16), allora

Betrayed è un buon esempio da esplorare. Nel complesso rapporto tra americani e

iracheni in Betrayed si nasconde una delle cause del totale fallimento di questa

collaborazione. Quando Adnan viene assunto a lavorare all‘ambasciata una delle battute

pronunciate in quell‘occasione: ―Adnan: You must change yourself when you come to

Iraq. And we too must change, to understand you, because we can‘t have life without a

common language between us. You must pay and I must pay also.‖(Packer 2008: 28)

sintetizza la necessità di capirsi e adattarsi a vicenda per poter raggiungere lo scopo di

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trasformare l‘Iraq in un paese completamente diverso. Quello che viene poi a mancare in questo rapporto è proprio questo linguaggio comune e la reciproca voglia di conoscersi.

Quello che interessa Packer come giornalista è:

[…]how the Americans and Iraqis saw one another, what kind of relationship was possible in such violent circumstances, the ability or inability of individuals to transcend their ―official‖ roles and maintain a human pulse. In my experience this relationship defied the propaganda of all sides—it was neither that of liberator and liberated nor that of oppressor and oppressed. There was far too mutual need and mutual suspicion, expectation and ignorance, simple affection and simple hatred, desperation and pain, to conform to the slogans of the war‘s far-off judges. ( Packer 2008: ix-x)

Lo spettacolo conferma la teoria dell‘impossibilità di uscire dai canoni dei ruoli prestabiliti e conoscere l‘altro. Tra americani e iracheni non esiste in realtà un vero e proprio rapporto. Gli americani, chiusi nel bunker della Zona Verde non hanno idea di come vive la gente fuori da essa, la loro conoscenza si basa solo su relazioni e sondaggi, mai su un‘esperienza diretta. La gente irachena si aspetta di vedere dei progetti realizzati, ma come si esprime Laith: ―Laith: they hear nothing from Americans, they get nothing from Americans.‖ (Packer 2008: 22)

La mancata predisposizione degli americani di accettare gli iracheni in una maniera diversa da quella dei terroristi: Adnan: We are still terrorists in your eyes.‖(Packer 2008: 88), porta a confermare per l‘ennesima volta l‘abitudine dell‘Occidente di

―fabricat[ing] the Eastern subject in its own image.‖ (Soncini 2009: 377)

L‘unico personaggio in tutta la storia che si lascia ‗tradurre‘ è Bill Prescott.

Nella tredicesima scena questo personaggio avverta la necessità di uscire fuori dalla

Zona Verde e conoscere la vera realtà del paese, ―Prescott: I just feel like…I need to get

out of here. It‘s like a sensory-deprivation tank. I don‘t know what the hell is going on

out there.‖ (Packer 2008: 58) Così Prescott, assunta l‘identità di un operatore umanitario

norvegese, e successivamente dell‘amico con problemi mentali di Laith venuto dal

Kurdistan, visita il ristorante dello zio di Laith a Karrada. Davanti ad un piatto di

pietanze tipiche, Prescott si scontra con la storia dei due interpreti che lo mettono al

corrente della loro disperata situazione.

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È inevitabile a questo proposito, instaurare un confronto con un‘altra opera in cui il compito assegnato alla traduzione si rivela del tutto fallimentare quanto in Betrayed. Si tratta di Homebody/Kabul

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di Tony Kushner (2001), che esplora la questione di incontrarsi con l‘Altro tramite la traduzione. La dimensione conflittuale in queste due opere concretizza la storica affermazione che nel processo traduttivo si perde sempre qualcosa. La perdita in queste due opere si articola nell‘impossibilità di trovare un linguaggio comune e incontrarsi con l‘estraneità dell‘altro. Se è vero che, quanto affermato da Sara Soncini: ―Language difference and its management (or rather mismanagement) have turned out to be strategic weapons in confrontation‖ (Soncini 2009: 368), la ricerca di una lingua comune si rivela contrassegnata da preconcetti sulla diversità dell‘altro che precludono una conoscenza al di là della lingua, della cultura e della nazionalità. La storia raccontata in Homebody/Kabul vede la protagonista nel suo disperato tentativo di raccontare la propria storia, e contemporaneamente entrare in contatto con la diversità del mondo medio-orientale, attraverso la lettura di una guida storica sull‘Afghanistan. Dalla lettura di questa guida la protagonista cerca di tradurre in una lingua più comprensibile il mondo afghano per sé e per il pubblico. La prima tentazione di entrare in contatto con quel mondo estraneo si verifica nel momento in cui la donna si reca in un negozio in cui un uomo afghano vende cappelli tipici, che la donna vorrebbe acquistare per una sua festa. La particolarità che incuriosisce la protagonista è la mano mutilata dell‘uomo. Alla vista della sua mano, la protagonista avverte il bisogno di raccontare la storia della sua mano e del suo popolo, traducendo in parole la sua immagine mentale sul mondo e gli afghani.

Nella seconda parte della pièce viene presentata l‘avventura della figlia e del marito della protagonista, ormai scomparsa per cause sconosciute in Afghanistan. La protagonista, l‘interprete che traduceva il mondo estraneo, dipingendolo in una lingua comprensibile, è ormai sparita. La guida storica, l‘unico mezzo attendibile si rivela in questa parte esattamente l‘opposto. La figlia e il marito sono in balia di una confusione di lingue, una lacuna che neanche la traduzione è in grado di riempire. Nel corso degli eventi, il rapporto sessuale, la fusione tra occidente e oriente iniziale cha la protagonista immaginava con il venditore afghano: ―We kiss, his breath is very bitter, he places his hand inside me, it seems to me his whole hand inside me, and it seems to me a whole hand‖ (cit. in Soncini 2009: 371), si rivela del tutto impossibile, la traduzione è una

3 Per una discussione dettagliata si veda Soncini, Sara: ―The ‗Translation Turn‘ in Contemporary War Plays: Tony Kushner‘s Homebody/Kabul‖, in Ciompi, Fausto (a cura di): One of us. Studi inglesi offerti a Mario Curreli, Edizioni ETS, Pisa 2009, pp.367-384.

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pratica fallimentare e inadeguata per stabilire un rapporto con l‘altro. Contrariamente alla celebre frase di Salman Rushdie in cui afferma che nella traduzione anziché perdere qualcosa, la si può guadagnare, le opere di Packer e Kushner dimostrano che la traduzione è un processo complesso, un percorso tortuoso in cui non basta più una lingua comune, ma è necessario un reciproco desiderio di comprendersi a vicenda.

L‘intenzione packeriana di analizzare il rapporto tra gli americani e gli iracheni si rivela un processo fallimentare che coinvolge la traduzione in quanto estensione del concetto di guerra, ―the contiuation of extreme mistranslation or disagreement by other means‖

(Apter 2006: 16). In questo processo fallimentare, la figura dell‘interprete sembra soffrire le più gravi conseguenze. Finché non sarà raggiunto un compromesso in questo senso, il modo di considerare gli interpreti, come afferma Hilary Footitt, rimarrà ancora suddiviso in due possibilità principali:

To those who do not believe in contacts or ‗fraternization‘ with the enemy, the intepreter perceived to be ‗from their side‘ will perhaps always be considered a traitor if employed by ‗the other side‘. To those who believe that the future can only lie in an understanding of peoples, the interpreter is an aid to mediation, whenever this is possible, between peoples in conflict. (Footitt 2012a: 182)

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