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MOBBING: IL PUNTO DI VISTA DELL’INDUSTRIA

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MOBBING: IL PUNTO DI VISTA DELL’INDUSTRIA

Avv. Savino Figurati

Nel mio breve intervento mi limiterò ad alcune considerazioni sulla materia del mobbing e della sua repressione, fin qui approfonditamente trattata.

Il primo problema in materia di mobbing, a mio avviso, e quello definitorio: ci si chiede, per citare il titolo di un recente intervento di dottrina, (1) di cosa parliamo quando parliamo di mobbing.

Questa esigenza di chiarezza nell’individuazione del concetto di mobbing è acuita dal fatto che, stando ai primi tentativi definitori che si possono desumere dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ci troviamo in realtà di fronte non ad un fenomeno nuovo, ma ad una definizione di un complesso, piuttosto eterogeneo, di fattispecie esistenti e note da sempre, spesso già disciplinate dal legislatore o da preesistenti orientamenti giurisprudenziali, che trovano ora, nel termine mobbing un’unificazione concettuale, peraltro non facile trattandosi di comportamenti la cui natura e gravità sono molto differenziate.

Come è stato recentemente osservato (2), il nuovo strumento definitorio

“si limita a raccogliere sinteticamente una categoria di comportamenti già da tempo conosciuti e stigmatizzati, adempiendo, più che latro, alla funzione di concetto contenitore”.

Non voglio, né sarebbe possibile, cercare di fare una casistica esauriente, limitandomi ad osservare che condotte che oggi verrebbero ricondotte al mobbing già da tempo trovano soluzione in giurisprudenza alla stregua di varie disposizioni dell’ordinamento.

Si pensi, ad esempio, all’elaborazione giurisprudenziale in materia di dequalificazione o di forzata inattività del lavoratore.

Già svariati anni fa era possibile leggere in giurisprudenza affermazioni secondo cui “…ove il lavoratore sua rimosso dalle mansioni e ridotto in stato si quasi totale inoperosità, il giudice deve condannare il datore all’assegnazione di mansioni professionalmente equivalenti a quelle già commesse e al risarcimento dei danni” (3) o “costituisce inadempimento contrattuale che si identifica con la violazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art.

2087 c.c. (che impone all’imprenditore di tenere, nell’esercizio dell’impresa, un comportamento che tuteli non solo l’integrità fisica, ma anche la personalità morale del dipendente) l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle in precedenza svolte, con il conseguente risarcimento del danno” (4).

Alla base di tali decisioni sta l’affermazione del principio secondo cui la professionalità deve essere considerata alla stregua di bene economicamente valutabile, “posto che essa rappresenta uno dei principali

Avvocato Unione Industriale di Torino

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parametri per la determinazione del valore economico di una persona sul mercato del lavoro. La lesione della professionalità – e cioè la riduzione di essa, il ritardo nel suo completamento, il mancato affinamento etc.- costituisce danno risarcibile” (5).

Allo stesso modo, trovano da tempo una forma di sanzione nell’ordinamento i comportamenti riconducibili all’abuso del diritto del datore di lavoro.

Ad esempio, la Corte di Cassazione (6) ha ritenuto “risarcibile il danno derivato al dipendente da un comportamento illegittimo e persecutorio dal datore di lavoro, consistito nella richiesta, a più riprese, all’INPS dell’effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante, nonostante la malattia fosse già stata accertata dai controlli precedenti”.

Sempre al concetto di abuso del diritto può essere ricondotta una pronuncia della Cassazione (7) secondo cui “…l’attività di collaborazione di cui l’imprenditore è tenuto nei confronti dei lavoratori dall’art. 2087 c.c. non si esaurisce nella predisposizione di misure tassativamente imposte dalla legge, ma si estende all’adozione di tutte le misure che si rivelino idonee a tutelare l’intergità psico-fisica del lavoratore; ne consegue che anche il mancato adeguamento dell’organico aziendale, …, nonché il mancato impedimento di un superlavoro eccedente la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce violazione degli articoli 42 secondo comma Cost. e 2087 c.c., e ciò anche quando l’eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore…, atteso che il comportamento dello stesso non esime il datore di lavoro dall’adottare tutte le misure idonee alla tutela dell’integrità fisico-psichica dei dipendenti, comprese quelle intese ad evitare l’eccessività di impegno da parte di soggetti in condizioni di subordinazioni socio- economica”.

In un’altra occasione, la giurisprudenza (8) ha censurato il comportamento di un’impresa che aveva predisposto dei corsi rivolti a lavoratori ritenuti eccedenti volti in realtà a persuaderli della loro inadeguatezza per indurli a lasciare l’azienda o ad accettare un declassamento.

Anche la categoria dei comportamenti ingiuriosi può essere fatta rientrare nella definizione di mobbing, e già trova sanzione secondo il diritto vigente.

Tali condotte hanno riflessi lavoristici (ad esempio, nell’ipotesi del cosiddetto licenziamento ingiurioso) oltre ad aver, naturalmente, rilevanza penale quando ve ne siano gli estremi.

Venendo poi alla materia delle molestie sessuali, è da tempo pacifico che le stesse possono costituire giusta causa di dimissioni della vittima (9), giusta causa di licenziamento dell’autore della condotta (10), nonché, fonte di responsabilità civile per il danno biologico a carico anche del datore di lavoro

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e, se vi siano aspetti penalmente rilevanti, per il danno morale a carico dell’autore della violazione (11).

Il divieto di atti discriminatori –anch’essi suscettibili di essere ricondotti al concetto di mobbing- che si radica nell’art. 3 della Costituzione, trova già esplicazione negli artt. 15 e 16 dello Statuto dei lavoratori, nelle leggi 9 dicembre 1977 n. 903 e 10 aprile 1991 n. 135 che vieta la discriminazione dei lavoratori affetti di HIV e nell’art. 41 della legge 6 marzo 1998 n. 40 relativa alle discriminazioni nei confronti dei lavoratoti extracomunitari.

Da questo lungo excursus si vede tutta la difficoltà che si incontra nell’individuare in concreto la fattispecie del mobbing, che viene a sovrapporsi ad un tessuto normativo già estremamente fitto.

Testimonianza della difficoltà di individuare il mobbing distinguendolo dalle figure affini è una recente sentenza del Tribunale di Como (12) che, cercando un criterio che gli consentisse di distinguere il mobbing dalle molestie, ha affermato che il mobbing è necessariamente collettivo, e dunque posto in essere da una pluralità di attori ed è sempre volto all’espulsione della vittima dal contesto lavorativo, mentre in mancanza di questi requisiti (e, quindi, quando la condotta sia compiuta da un unico soggetto ovvero si ponga finalità diverse dall’espulsione), la sussistenza del mobbing deve essere esclusa ed il fatto potrà, se mai, essere inquadrato come molestie.

Senza voler entrare nel merito del criterio formulato dal Tribunale di Como, mi sembra che esso sia dimostrativo di una situazione di incertezza in cui l’interprete è costretto ad inventare confini ad un concetto, il mobbing, che tende a rendersi omnicomprensivo, travalicando addirittura i limiti dell’ambiente lavorativo, come nel cosiddetto mobbing familiare.

La prima esigenza del mondo delle imprese relativamente al mobbing è quindi quella di certezza nei termini e nelle definizioni.

Un’altra esigenza è che, nell’accertamento del mobbing. Si ponga grande attenzione all’elemento soggettivo.

Di fronte ad una tale grande ed indifferenziata varietà di comportamenti, mi pare che la volontà persecutoria – o addirittura espulsiva, se volessimo seguire il Tribunale di Como- finisca per essere l’unico elemento unificante.

A questo proposito, vorrei citare una recente pronuncia della Cassazione, la 5491 del 2000, in cui si legge che l’obbligazione nascente dall’art. 2087 c.c. ha si natura contrattuale, ma i comportamenti che pongono in pericolo l’integrità psico-fisica del lavoratore “in quanto lesivi di beni primari della persona umana, possono costituire al contempo fonte di responsabilità contrattuale ed aquiliana”. La Corte precisa poi che “la natura contrattuale dell’illecito non comporta che si veri in una fattispecie di responsabilità oggettiva, fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa, occorrendo pur sempre l’elemento della colpa, che accomuna la responsabilità contrattuale e quella aquiliana”.

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Sarà inoltre necessario porsi il problema dei soggetti particolarmente sensibili, che possono sentirsi vittima di mobbing anche di fronte a situazioni irrilevanti: un livello di tutela tarato su tali soggetti finirebbe per essere del tutto ingestibile da parte dei datori di lavoro.

Occorre infine prestare grande attenzione a che il concetto di mobbing non venga usato in modo pretestuoso da soggetti che, semplicemente ritengono di essere trattati al di sotto dei loro meriti.

In particolare, occorre evitare che un utilizzo strumentale del concetto di mobbing possa portare ad un ritorno in auge del principio di parità di trattamento tra lavoratori a parità di mansioni, che da anni è stato, opportunamente, abbandonato dalla giurisprudenza (14).

E’ giusto, in conclusione, che si intervenga con severità per punire i comportamenti abusivi e vessatori, e l’ordinamento italiano contiene norme adatte a farlo, evitando però strumentalizzazioni ed eccessi.

NOTE

1) C. Nunin – Dicosda parliamo quando parliamo di Mobbing – in Lav, nella giur. 2000, 835.

2) C. Quaranta – Un’altra pronuncia sul mobbing – in Or. Giur. Lav.

2001, 282.

3) Pret. Milano 28.12.1990 in Riv. It. Dir. Lav. 1991, II, 388.

4) Pret. Napoli 10.10.1992 in D&L 1999, 977.

5) Trib. Roma 28.02.1990, in Lavoro 80 1990. 659.

6) Cass. 19.09.1999 n. 475 in Mass. Giur, Lav. 1999, 270.

7) Cass. 01.09.1997 n. 818 in Mass. Giur. Lav. 1997, 818.

8) Pret. Milano 16.01.1996 in Mass. Giur. Lav. 1996, 350.

9) Pret. Modena 29.07.1998 ne Il lav. Nella giur. 1999, 559; Cass.

08.08.1997 n. 7380.

10) Cass. 19.01.1998 n. 437; Cass. 02.12.1996 n. 10752 in Riv. It.

Dir. Lav. 1997, II, 594.

11) Trib. Milano 19.06.1993 in D&L 1994, 130.

12) Trib. Como 22.05.2001 in Or. Giur. Lav. 2001, 277.

13) Cass. 02.05.2000 n. 5491.

14) Si vedano tra le molte Cass. 24.10.1998 n. 10598 in Giur. It.

1999, 1147 e Cass. 05.10.1998 n. 9867 in Not. Giur. Lav. 1999, 184.

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