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IL RISCHIO DI INFEZIONE DA OPERATORE A PAZIENTE : RUOLI E RESPONSABILITA’ NELL’AZIONE DI TUTELA DEL PAZIENTE

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IL RISCHIO DI INFEZIONE DA OPERATORE A PAZIENTE : RUOLI E RESPONSABILITA’ NELL’AZIONE DI TUTELA DEL PAZIENTE

Dr. Rossana Becarelli PREMESSA

1. Nel più ampio quadro del controllo delle Infezioni Ospedaliere, il caso della trasmissione di infezioni da operatore a paziente presenta peculiari caratteristiche e singolari criticità che richiedono - allo stato attuale delle conoscenze - una riflessione condotta con l’apporto di adeguate competenze: prima fra tutte, quelle dei medici infettivologi e quella dei medici occupazionali, ma anche quella degli epidemiologi e sicuramente quella dei medici legali.

2. Nel nostro Paese, l’attenzione alle Infezioni Ospedaliere è tuttora estremamente bassa e la principale difficoltà in un’ efficace azione di controllo del problema è che la medicina clinica stenta ad integrare alla propria pratica il riconoscimento che la genesi delle infezioni, la diagnosi delle infezioni, così come la loro terapia, sono strettamente connesse e correlate agli atti medici principali condotti.

Questo atteggiamento – che appare come una sostanziale “deresponsabilizzazione”

professionale di fronte alla vasta questione delle I.O. – è certamente all’origine della diffusa sottostima, tipicamente italiana, dell’andamento epidemiologico delle Infezioni nosocomiali.

Ma esso è anche causa di una fondamentale ambiguità fra le competenze deputate al controllo e alla prevenzione delle I.O. di cui – paradossalmente - il caso della trasmissione di infezione da operatore a paziente potrebbe andare a costituire fra breve un potente detonatore.

3. E’ certo infatti che il rapporto causale – in taluni casi comprovato dai

marcatori sierologici – fra un paziente infettato e un operatore infettante delimita e circoscrive la fattispecie di una specifica responsabilità professionale di cui il più recente quadro normativo appesantisce di sicuro i contorni.

4. Con il D.Lgs 626/94 si è identificato il rischio biologico in ambito lavorativo, approfondendo caratteristiche e circostanze di esposizione.

Si è cioè introdotta innovativamente nella classificazione dei lavoratori esposti anche la categoria degli esposti a rischio biologico cui il Medico Competente è tenuto

direzione sanitaria -ospedale San Giovanni- antica sede a.s.l. 1 - Torino

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periodicamente ad accertare lo stato immunitario secondo gli indici di rischio propri della tipologia occupazionale.

Lo screening sistematico degli esposti a rischio biologico determina oggi una condizione interamente nuova: l’accertamento di uno stato sierologico di possibile contagiosità nell’operatore sanitario (almeno per le patologie dalle quali si intende tutelare il lavoratore).

Questo accertamento certificato stabilisce un precedente conoscitivo da quel momento non più prescindibile, né per il medico accertatore né per l’operatore reso edotto della sua condizione.

E’ quindi a partire da questa innovata situazione che va ora esaminato il problema:

quali ruoli risultano in causa, ciascuno in funzione del proprio ambito di competenze, e quali livelli di rispettiva responsabilità questi ruoli inducono.

NATURA DEL DANNO DERIVANTE AL PAZIENTE DA INFEZIONI CONTRATTE DURANTE IL PROCESSO DIAGNOSTICO - TERAPEUTICO

1. Il campo delle Infezioni Ospedaliere è vastissimo e presenta un andamento in continua evoluzione.

L’ospedale è un confuso melting-pot ove confluiscono e si concentrano le fonti del contagio, l’occasione di sviluppo delle resistenze dei microrganismi, la ricettività immunitaria dei malati, ma ove soprattutto si verifica l’eccezionale esperienza di cruentare tessuti, traumatizzare organi viscerali, aprire vie non fisiologiche a strumenti che penetrano in cavità di per sé sterili e protette.

La iatrogenesi indotta in ospedale in particolare dalla medicina interventistica, ha dimensioni non delimitabili e incalcolabili costi sanitari e sociali.

Tuttavia questo prezzo è strettamente connaturato al tipo di sviluppo assunto dalla medicina occidentale ed è da considerarsi per certi versi ineliminabile.

2. Le conseguenze delle I.O. prendono tuttavia rilievo diverso in rapporto alla natura del danno determinato al paziente, soprattutto quando il danno supera la capacità di contenimento e di riparazione – sia naturale sia eteroindotta – in tempi brevi.

Di fronte ad un danno siffatto, la verifica della possibile eziologia propone solitamente quadri microbiologici aspecifici, mentre la ricerca delle vie di trasmissione porta spesso a conclusioni di carattere deduttivo-probabilistico e quasi mai di comprovata certezza.

In questo campo di rischio generico si è applicata da anni l’Igiene ospedaliera con i suoi storici capisaldi della disinfezione e della sterilizzazione che, sotto forma di procedure sempre più codificate, hanno sicuramente contribuito alla crescente

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Tuttavia, la gravità del danno indotto è da rapportarsi – con effetto direttamente correlato – alla prevenibilità della sua causa.

Sempre più incisivamente, infatti la giurisprudenza pone l’entità del danno effettivamente prodotto in stretto rapporto causale con prevedibilità del rischio di esposizione soggiacente e prevenibilità del conseguente possibile danno, facendone discendere livelli di responsabilità progressivamente accresciute.

Si può incidentalmente ipotizzare a questo punto che la scarsa rilevanza attribuita alle I.O. in Italia sia dovuta ad un ancora contenuto contenzioso legale che non motiva per il momento i clinici a meglio differenziare, all’interno delle proprie responsabilità professionali, le situazioni di effettiva negligenza, imprudenza e imperizia, da quelle riconducibili allo sviluppo di concomitanti infezioni che possono determinare o aggravare lo stato di danno.

Diversamente, nella cultura nord-americana ove il contenzioso legale ha raggiunto livelli di parossistica contrapposizione fra pazienti e medici, la comunità medica ha orientato una crescente attenzione al problema delle I.O. riconoscendo quanta parte abbia negli eventi avversi, l’instaurarsi di uno stato infiammatorio secondario ad una ispezione periferica o sistemica.

Sulla falsariga della esperienza nordamericana è ragionevole prevedere che in Italia la giurisprudenza sancirà nella dialettica fra pazienti ed operatori sanitari una nuova coscienza e sensibilità anche nei confronti delle responsabilità professionali imputabili alle infezioni trasmissibili.

LA RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE DELL’OPERATORE NEL CASO DI TRASMISSIONE DI AGENTI INFETTIVI

1. Come illustrato precedentemente, se è assai difficile ricostruire le modalità di trasmissione di agenti infettanti aspecifici così pure risulta meno diretta l’attribuzione di responsabilità nella insufficiente, ovvero mancata, adozione di idonee procedure atte a ridurre il rischio predisponente.

Ben diverso appare invece il caso di un operatore sanitario portatore riconosciuto di una patologia infettiva trasmissibile.

Numerosissimi sono i possibili quadri nosografici, e non è qui la sede per darne una approfondita disamina infettivologica.

Si pone soltanto la necessità che – una volta riconosciuta l’entità patologica a rischio infettivo – il medico curante disponga le conseguenti misure – da un lato

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terapeutiche, dall’altro – se occorrenti – contumaciali per evitare ogni possibile diffusione nella sede lavorativa.

Questo vale nei quadri clinici acuti: dalla comune influenza, alle malattie esantematiche, alle infestazioni parassitarie, alle patologie a trasmissione oro-fecale, alle affezioni cutanee da piogeni, fino agli eventi più complessi e temibili quali le affezioni da bacillo di Koch, etc…

Si può ritenere che in tali casi – oltre alle cure e alle misure individuali disposte dai medici curanti – l’attivazione dei sistemi informativi di notifica esistenti dovrebbe porre con sistematicità l’organo di Direzione Sanitaria ospedaliera a conoscenza dello stato patologico del dipendente – per esempio, identificando la D.S. fra i destinatari della comunicazione da parte del Servizio di Igiene Pubblica di afferenza della notifica iniziale.

Questa informazione consentirebbe alla D.S. l’adozione dei provvedimenti di competenza in ordine alla tutela della comunità ospedaliera, nei confronti sia dei pazienti sia del resto del personale.

Purtroppo la cronica disaffezione all’utilizzo del sistema di notifica delle Malattie Infettive rende precaria la validità di questo flusso informativo.

Ben diverso appare il caso dell’operatore sanitario risultante portatore di un quadro sierologico acuto o cronico a rischio di infettività siero trasmessa.

Come si è detto in premessa, la ricognizione periodica dello stato sierologico degli operatori a rischio biologico, condotta dal Medico Competente aziendale per classi di rischio lavorativo ai sensi del D.Lgs 626/94, pone anche l’operatore di fronte all’evidenza di un rischio di contagiosità per cui egli – secondo le pratiche cliniche eseguite – può diventare la fonte puntuale, ed esclusiva, di infezione nei confronti dei pazienti trattati.

Dal punto di vista della responsabilità professionale, la situazione integra quanto ormai consolidato in campo giurisprudenziale.

Da un lato, infatti, la menomazione fisica indotta nel paziente dall’infezione trasmessa non può che essere riconosciuta come una fattispecie derivante dal comportamento professionale dell’operatore (ed estrinsecatosi attraverso atti e modalità di cui risulta nota dalla letteratura la pericolosità in presenza di un operatore sierologicamente positivo).

D’altro canto, la giurisprudenza attuale fonda nell’ottenimento di un preventivo consenso, effettivamente informato, da parte del paziente, la liceità dell’esecuzione dell’atto medico.

“Nel caso di intervento chirurgico, è necessario che il paziente dia il proprio consenso al compimento sul suo corpo di atti operativi, con la conseguenza che sussiste responsabilità, di natura contrattuale, a carico del sanitario, per eventuali

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danni derivanti dall’intervento effettuato in difetto di detto consenso”. (CASS., 26 marzo 1981, n. 1173).

Ora, la mancata comunicazione al paziente da parte dell’operatore sanitario della possibile pericolosità del proprio stato sierologico (di cui, si badi, l’operatore è a conoscenza) pregiudica la qualità dell’informazione fornita al paziente – in ordine alla completezza e veridicità – entrambe indispensabili all’ottenimento di un consenso propriamente informato.

La corretta informazione deve consentire infatti la libera decisione del paziente circa l’opportunità di ricorrere ad un determinato procedimento medico in piena comprensione dei rischi che ne potranno eventualmente derivare e da cui non può essere esclusa la cognizione che l’operatore è in sé portatore di un rischio a lui solo direttamente imputabile.

L’obbligo di avvalersi di un consenso così concesso assoggetta il professionista alla responsabilità per l’inesattezza e l’incompletezza delle notizie fornite.

“La mancata o insufficiente prestazione del consenso, comunque dato, risulta avere particolari ripercussioni in quanto l’accettazione di trattamenti sanitari eseguiti nel proprio corpo presenta, nell’ordinamento italiano, una particolare disciplina.

Infatti, l’art. 5 c.c., in tema di atti di disposizione del proprio corpo, ne prescrive il divieto quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica (…).

La conseguenza, nel caso di trattamento non autorizzato, sarà il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., nonché la sanzione penale per omicidio o lesioni colpose”

(LONGHINI S., DI FELICE D. “Deontologia e Diritto nel consenso al trattamento medico”. MINERVA MEDICO LEGALE 1997; 117:35-44).

Resta ancora da chiarire la natura del contratto fra operatore e paziente quando il primo risulti essere un medico in una struttura pubblica.

Dal quadro esposto delle manovre specialistiche a rischio di trasmissione HBV e HCV, si evince infatti che è il medico l’operatore infetto a principale rischio di trasmissione nei confronti del paziente trattato.

Ora, indubbiamente, nel rapporto fra medico e paziente si costituisce la figura giuridica del contratto riconducibile alla prestazione d’opera professionale.

Da cui discendono responsabilità

a) di tipo contrattuale (ex art. 2236 c.c.) inerenti a comportamenti errati (per negligenza, imprudenza, imperizia) ma avvenuti con preventiva autorizzazione informata e

b) di tipo extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.), con obbligo di risarcimento del danno, per quei trattamenti sanitari non autorizzati ancorchè inseriti o collegati ad

altri consentiti (perché interamente compresi e approvati dal paziente) ma non conosciuti e consentiti dal paziente stesso prima di subire l’intervento. Ma nel caso del medico operante in struttura pubblica ricorrono anche le condizioni di una responsabilità dal gestore della struttura sanitaria che “risponde per i danni che

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siano derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme dettate dagli art. 1176, secondo comma, e 2236 c.c.

In queste ipotesi la responsabilità può comportare un’obbligazione di risarcimento estesa non solo al danno patrimoniale (art. 1223 c.c.) ma anche al danno biologico e cioè al danno non patrimoniale costituito dalle conseguenze pregiudizievoli per la salute derivanti dalle menomazioni fisiopsichiche prodotte dal comportamento inadempiente” (CASS. CIV., Sez. III, 1 settembre 1999, n. 2722).

Non possiamo a questo riguardo eludere ulteriormente la questione che potrà porsi presto di qual è il soggetto responsabile nella mancata predisposizione di idonei provvedimenti a fronte di un rischio noto rappresentato da un operatore in determinate condizioni lavorative.

DELL’OPERATORE CON INFEZIONE CRONICA o HCV: I RUOLI IN CAUSA

1. Tradizionalmente, dal D.P.R. 128/69 al Direttore Sanitario del presidio è stata attribuita la gestione della Medicina Preventiva in ospedale.

Pur non risultando interamente chiaro ed univoco negli anni l’intendimento del legislatore in merito al concetto di “Medicina Preventiva ospedaliera”, la funzione di prevenzione delle patologie lavorative degli operatori è stata da allora effettivamente assolta dalle Direzioni Sanitarie ospedaliere, sia direttamente sia in coordinamento con altre Unità operative, soprattutto la Medicina del Lavoro e la Medicina Legale.

Dall’entrata in vigore della L. 833/78 il quadro dell’assistenza ospedaliera si è variegato nel Paese e in alcune Regioni questa funzione è stata per anni riattribuita a servizi esterni all’ospedale.

2. Finalmente, il recepimento delle Direttive Europee in materia, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 626/94 ha portato alla omogeneizzazione dell’attività di prevenzione anche sui dipendenti sanitari nella figura del Medico Competente funzionalmente raccordato al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione.

Tale definizione dei compiti ha nel tempo allontanato le Direzioni Sanitarie ospedaliere da una gestione complessiva del problema, che era stato storicamente orientato alla doppia funzione di tutela, sia dei dipendenti sia dei pazienti.

Il Direttore Sanitario di presidio è diventato un interlocutore ultimo del Medico Competente recependo le disposizioni da questi emanate in ordine al complessivo giudizio di idoneità lavorativa espresso sul dipendente, ma di fatto privo di informazioni cliniche pertinenti a decidere sulla più adeguata collocazione

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Ciò creava un contrasto assai evidente con la precedente normativa - che lo aveva visto assolvere a lungo una analoga funzione – ma soprattutto mostrava una opinabile interpretazione del suo ruolo dal momento che, per legge, il Direttore Sanitario è un medico e pertanto tenuto al segreto professionale, oltrechè ovviamente preposto alla più completa salvaguardia della comunità ospedaliera di cui è Responsabile.

Altra palese contraddizione è rappresentata dalla funzione di controllo e di prevenzione delle I.O. (di cui la trasmissibilità di infezioni da operatore a paziente è uno dei possibili epifenomeni) da sempre attribuita – per la tradizionale cultura igienico-organizzativa – alle Direzioni Sanitarie ospedaliere.

Lo iato verificatosi in questi ultimi anni fra attività di prevenzione e Direzioni Sanitarie di presidio ha allentato anche una sorveglianza più puntuale sugli episodi di acuzie già sopra ricordati e che si basava su uno stretto rapporto fra operatori e Direzioni Sanitarie cui venivano segnalati – anche per abitudine oltre che per competenza istituzionale – le sintomatologie più appariscenti da parte degli operatori.

3. E’ comunque importante notare come di recente sono state rafforzate le raccomandazioni ufficiali di dare idonea e tempestiva comunicazione di situazioni di rischio anche al Responsabile della Direzione Sanitaria ospedaliera, cui come si vede non sono state diminuite nel frattempo le responsabilità e le corresponsabilità nella gestione assistenziale e nella generale tenuta del presidio ospedaliero. La più recente Autorizzazione n. 2/1999 del garante per la protezione dei dati personali al trattamento di questi dati personali consente

“a) gli esercenti le professioni sanitarie a trattare i dati idonei a rivelare la stato di salute, qualora i dati e le operazioni siano indispensabili per tutelare l’incolumità fisica di un terzo o della collettività, e il consenso non sia prestato o non possa essere prestato per effettiva irreperibilità”.

Cade a questo punto ogni possibile remora – il cui fondamento appariva comunque obiettabile – alla più tempestiva comunicazione al Responsabile di Direzione Sanitaria sulla entità del rischio cui sono potenzialmente esposti i pazienti a causa di una condizione patologica presente in un operatore dipendente.

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CONCLUSIONI

Le indicazioni della recente Bozza di Documenti sulla gestione del rischio di trasmissione di infezioni HBV e/o HCV da operatore e paziente del Ministero della Sanità – Commissione Nazionale per la lotta all’AIDS e alle altre patologie infettive – del novembre 1999 prospettano una articolata interazione fra i vari ruoli preposti alla tutela dei pazienti così schematizzabile, a partire dall’accertamento del Medico Competente e del relativo giudizio di idoneità condizionata alle mansioni (temporanea o definitiva):

1. l’operatore, tenuto a segnalare ogni evento predittivo di potenziale infezione a suo carico

2. il Responsabile di Direzione Sanitaria che evidenzi le specifiche situazioni e attività sanitarie in cui il rischio di trasmissione potrebbe realizzarsi

3. l’infettivologo e il microbiologo che stabiliscano il quadro immunitario individuale dell’operatore a rischio e ne configurino lo stato di relativa contagiosità

4. il medico legale cui compete la valutazione delle responsabilità inerenti la gestione del rischio di contagio ai fini di un corretto esercizio delle funzioni tipiche di ciascun ruolo coinvolto.

E’ da aggiungere un ultimo punto di riflessione:

5. l’accertamento di idoneità psico-fisica in fase preassuntiva dei medici specialisti per le discipline che includono attività a rischio aumentato

6. l’accertamento di idoneità psico-fisica all’iscrizione alle Scuole di Specializzazione medica secondo quanto detto al punto 5.

Il problema del preventivo accertamento della idoneità alle mansioni –specifico per settore di attività – è al centro di un ampio dibattito relativo alla professione infermieristica.

Il tempo è maturo perché si arrivi a definire, anche nella professione medica, i criteri preliminari che potrebbero rendere inopportuno intraprendere un curriculum formativo lungo, impegnativo e costoso a fronte di una oggettiva restrizione delle capacità professionali esprimibili.

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