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5. LA RICOGNIZIONE SISTEMATICA

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5. LA RICOGNIZIONE SISTEMATICA

5.1 Aree ricognite e strategia

Per ricognizione sistematica (field-walking nella bibliografia anglosassone) si intende un’ispezione diretta di porzioni ben definite di territorio, generalmente sottoposte a coltivazione, eseguita in modo da garantire una copertura uniforme e controllata di tutto il contesto indagato. L’obiettivo di copertura uniforme che caratterizza la ricognizione sistematica viene perseguito suddividendo il territorio studiato in unità da ricognire, percorse dai ricognitori per file parallele e ad intervalli regolari[1].

Il territorio compreso tra Bellafonte e Poggio all’Aglione è stato ricognito sistematicamente per 3 kmq, un’estensione pari al 27% dell’intera area.

La ricognizione è avvenuta nell’arco di tre “campagne”: febbraio-marzo 2005; ottobre-novembre 2005; febbraio-marzo 2006. La scelta di suddividere il survey in tre campagne è stata dettata principalmente da due fattori. Innanzitutto l’estensione dell’area da ricognire, alla luce anche dell’assenza di una vera e propria squadra di ricognitori (i field-walkers erano sempre in numero variabile da 1 a 2); in secondo luogo l’uso del suolo, con grande preponderanza di coltivazioni alboricolo-produttive (vite e olivo), il cui terreno offre massima visibilità nei mesi invernali, affiancate a coltivazioni seminative con cicli produttivi scaglionati nel corso dell’anno (cereali, girasoli, mais, foraggio).

Per quanto riguarda le strategie adottate sul campo, si è cercato di adattare i criteri e le metodologie applicate nelle moderne ricerche di Archeologia del Paesaggio[2] ad una ricerca che presentava inizialmente alcuni limiti di operatività, dovuti soprattutto all’assenza, come già accennato, di una squadra di ricognitori numerosa.

La scelta delle aree ricognite è stata fortemente influenzata dalla morfologia del territorio e dall’uso del suolo. Sono stati sottoposti a ricognizione tutti i campi coltivati, indipendentemente dal tipo di coltivazione e dal grado di visibilità del terreno, oltre ad alcune aree incolte. Le aree ricognite si concentrano sulla sommità della dorsale collinare, dove la scarsa pendenza del terreno permette un più facile impianto di coltivazioni. Non sono state sottoposte a ricognizione le aree boschive, generalmente localizzate lungo le pendici collinari a più forte pendenza e nei fondovalli

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torrentizi, con l’eccezione di parte delle pendici orientali di Poggio all’Aglione, coperte da bosco ceduo, percorse con una ricognizione non sistematica. Inoltre, non sono stati ricogniti i terreni compresi tra Villa Sant’Antonio e Poggio ai Frati, attualmente occupati da un allevamento di cavalli.

Come unità di ricognizione è stato scelto il singolo campo, definito dai confini agricoli rintracciabili sia sulla moderna cartografia che sul terreno. Questa scelta, comune a numerosi progetti di ricerca, permette una più facile gestione della documentazione cartografica e una maggiore uniformità dell’unità di ricognizione, soprattutto per quanto riguarda l’uso del suolo e la conseguente visibilità del terreno[3].

I singoli campi sono stati percorsi seguendo linee parallele, distanti in media 5 metri l’una dall’altra. L’intensità della ricognizione è misurabile in circa 15 giorni/uomo/kmq.

I campi sono stati ricogniti un’unica volta, ad eccezione dei campi che, nel corso dell’anno, presentavano caratteristiche di visibilità diverse. Sono stati ricogniti due volte, ad esempio, i campi che in un primo momento si presentavano coperti da vegetazione e soltanto in un secondo periodo sono stati arati (è il caso dei campi dove sono ubicate le UT 06 Narciana e 28 Gli Spillocchi II).

I reperti presenti sul terreno sono stati raccolti seguendo la cosiddetta off-site strategy, diffusa nei progetti di ricerca archeologica a partire dagli anni ’80 del XX secolo[4]. La distribuzione dei reperti sul territorio viene concepita come una presenza costante di elementi, con maggiore o minore densità. In questo quadro, il sito è definito come una concentrazione anomala di reperti rispetto alla distribuzione erratica dei manufatti riscontrabile nelle altre aree indagate.

L’off-site può essere definito come una dispersione di reperti, a bassa densità, che non corrisponde ad un sito sepolto, ma che può fornire importanti informazioni per lo studio del territorio[5]. Innanzitutto, costituisce un importante indizio per le attività che venivano svolte al di fuori dei siti, come ad esempio la coltivazione e concimazione dei campi. Può essere il riflesso di zone utilizzate preferenzialmente come discariche, che specie nelle aree rurali si concentravano nei fossati o nelle macchie boschive, ma anche il singolo oggetto poteva essere gettato come rifiuto nel campo. È abbastanza intuitivo, inoltre, pensare che una certa dispersione di manufatti possa essere distribuita nelle zone più intensamente frequentate, come le aree adiacenti ad una grande via di comunicazione.

L’off-site può essere anche il risultato di attività recenti, come ad esempio la distruzione di siti sepolti, avvenuta in seguito ad attività umane e all’erosione degli agenti atmosferici. È possibile

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distinguere gli off-site prodotti da processi post-deposizionali dagli off-site che costituiscono indizio di attività antiche sul territorio, in base soprattutto al rapporto percentuale tra ceramica e laterizi (principalmente tegole). Se la proporzione fra tegole e ceramica è simile a quanto viene solitamente riscontrato in un sito, è possibile parlare di un off-site site-derived. Al contrario, se reperti ceramici vengono rinvenuti in quantità molto più elevate rispetto a frammenti di materiale edilizio, possono essere riferibili all’ampia casistica di attività extra-sito ricordata in precedenza[6].

Nell’ambito della ricognizione sistematica effettuata durante le campagne 2005-2006, sono state individuate e documentate come Unità Topografiche sia i siti che gli off-site, entrambi cartografati riproducendone l’areale di dispersione. Le Unità Topografiche sono state georeferenziate su carografia 1:10000 e documentate mediante schede UT e fotografie digitali, sia della singola Unità Topografica che del contesto territoriale. La documentazione redatta è stata successivamente introdotta ed elaborata nel GIS.

Sono stati definiti “siti” le Unità Topografiche che si distinguevano per una densità di manufatti nettamente superiore alla media osservata sul restante territorio, generalmente localizzata in un’area di limitata estensione. Nell’individuazione dei siti, risultano spesso utili alcune caratteristiche dell’Unità Topografica, percepibili distintamente sul terreno ma difficilmente quantificabili in termini statistici e numerici, come la presenza di materiali ‘pesanti’ (dolia, pietre lavorate); la presenza di materiali da costruzione (come mosaici e mattonelle di pavimentazione); la localizzazione topografica, per le strutture insediative, su sommità e ripiani di pendii collinari, ossia su superfici piane che permettono di distinguere come sito la concentrazione di materiale rinvenuto, piuttosto che come off-site dovuto al dilavamento di materiale da un sito precedentemente distrutto.

Nell’interpretazione degli off-site si è tenuto conto, oltre che del rapporto percentuale fra frammenti ceramici e tegole presenti sul terreno, anche della localizzazione topografica della dispersione di manufatti. Generalmente, gli off-site site-derived si localizzano lungo pendici coltivate a forte pendenza, la cui sommità risulta attualmente edificata o coltivata, oppure di cui si ha notizia di recenti sbancamenti (vedi UT 01 Bellafonte I, 02 Bellafonte II, 07 Narciana II, 24 Poggio all’Aglione IV, 25 Poggio all’Aglione V). Sono costituiti da concentrazioni di materiale, a maggiore densità rispetto al terreno circostante, dislocate lungo le linee di massima pendenza con andamento di conoide. La possibilità di riconoscere un’area di maggiore concentrazione di reperti ha permesso di cartografare questi off-site analogamente ai siti, riproducendone l’areale di dispersione dei manufatti.

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densità ed una maggiore dispersione sul terreno. In questo caso, non essendo possibile riconoscere un’area di maggiore dispersione, ogni singolo off-site è stato cartografato riproducendone come confine i limiti stessi del campo ricognito (vedi UT 13 La Rimessa e 21 Poggio all’Aglione I).

All’interno di ogni singola Unità Topografica, i reperti sono stati raccolti secondo il seguente criterio: i reperti ceramici sono stati raccolti interamente, onde poter disporre della più ampia campionatura possibile. È noto infatti che un’ampia campionatura di reperti consente una maggiore precisione nella ricostruzione delle fasi cronologiche e della tipologia delle Unità Topografiche. Al contrario, i frammenti di laterizi sono stati raccolti integralmente soltanto quando poco numerosi. Nel caso di Unità Topografiche che presentavano un elevato numero di frammenti laterizi (unicamente nelle UT 06 Narciana I, 17 Il Muraccio IV e 18 Il Muraccio V), è stata effettuata una campionatura, con la raccolta dei laterizi morfologicamente riconoscibili e dei diversi corpi ceramici.

5.2 Uso del suolo e problematiche di visibilità archeologica

Come già esposto in precedenza, nell’area oggetto di ricognizione sistematica solo il 7% circa del territorio è coltivato a seminativo (soprattutto cereali, girasoli, mais ed erba medica, che si alternano periodicamente); il 25% circa è coperto da colture arboricole (vite e olivo); il 10% circa è lasciato incolto o destinato a pascolo; il 5% circa è stato destinato all’espansione urbana del centro di Montaione; il restante territorio è coperto da bosco ceduo e d’alto fusto, costituito da pino, leccio, quercia e, nei luoghi a maggiore quota, castagno.

Questo particolare uso del suolo, soltanto in minima parte destinato a coltivazioni seminative, rende difficoltosa la ricognizione archeologica, per la scarsa visibilità del terreno data dalla copertura vegetale. A questo si aggiunge una scarsa conservazione dei siti sepolti, dovuta ad attività agricole intensive e a fattori geomorfologici.

La presenza, l’intensità ed il tipo di coltura o vegetazione può condizionare pesantemente la possibilità di vedere la superficie. È necessario cartografare con accuratezza il livello di visibilità del suolo al momento della ricognizione, di modo da correggere le distorsioni indotte da diversi gradi di leggibilità del terreno in uno stesso territorio. Per quanto riguarda le ricognizioni 2005-2006, è stata adottata una scala ordinale per misurare il grado di visibilità, che fa riferimento alla

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parcentuale di suolo nudo visibile, indipendentemente dal tipo di coltura: 1 = visibilità eccellente (80-100%); 2 = visibilità buona (50-80%); 3 = visibilità mediocre (10-50%); 4 = visibilità minima (< 10%)[7].

Strettamente legata all’uso del suolo, è stata da tempo dimostrata l’incidenza delle attività agricole sulla conservazione dei siti sepolti e sulla loro visibilità al momento della ricognizione, anche con ricerche di tipo sperimentale[8]. In particolare, l’attività di aratura incide in duplice modo sui manufatti visibli in superficie, da una parte causandone la graduale frammentazione e usura, dall’altra sottoponendoli a dislocazione laterale[9].

La rottura meccanica dei manufatti avviene per contatto diretto con gli strumenti di aratura, per pressione del terreno spostato dall’aratro e per le condizioni atmosferiche cui i materiali possono essere esposti. È condizionata dalla violenza e frequenza dell’impatto meccanico, dalla compattezza del suolo e dalla resistenza agli impatti del reperto. È stato infatti dimostrato che la resistenza dei reperti a impatti meccanici o gelate repentine dipende dalle caratteristiche tecniche del materiale, dalla sua temperatura di cottura, dalla presenza di inclusi organici o minerali.

Il fenomeno della frammentazone dei reperti in terreni sottoposti ad attività agricole tende a raggiungere un equilibrio nell’arco del tempo. Sottoposti a successivi impatti meccanici, i reperti diminuiscono notevolmente di dimensione, aumentando proporzionalmente la resistenza alla rottura.

Altro fattore che influenza notevolmente la leggibilità dei reperti rinvenuti in superficie è l’abrasione causata da contatto continuo e ripetuto con i sedimenti del terreno, che comporta nel tempo la deformazione o rimozione di materiale dalla superficie del reperto.

Per quanto riguarda la dislocazione laterale, è stato dimostrato che la direzione dell’aratura è la principale causa dello spostamento dei frammenti. La pendenza del terreno agisce in una percentuale non molto rilevante, che diventa però importante qualora l’aratura venga eseguita nella direzione di massima pendenza[10], come è il caso delle coltivazioni intensive di vite a Montaione e in tutta la Valdelsa, organizzate per lo più con filari disposti a rittochino.

La visibilità al suolo di siti sepolti è fortemente influenzata anche dalla copertura pedologica del terreno. In un territorio collinare come quello di Gambassi Terme e Montaione, è necessario tenere presenti due aspetti che possono influire sulla conservazione delle paleosuperfici: l’erosione del suolo dovuta agli agenti atmosferici e le pratiche di attività agricole che si sono succedute nel corso dei secoli e che possono aver causato lo spostamento di ingenti masse di sedimenti collinari.

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L’erosione è un fenomeno molto frequente nei terreni mediterranei, in particolare nelle aree collinari, ed la sua incisività è influenzata dalle violenza delle piogge, specie se dopo un lungo periodo di siccità, dalla pendenza delle superfici e dalla presenza o meno di un substrato costituito prevalentemente da sabbie e argille. La resistenza del suolo a fenomeni erosivi aumenta con l’aumentare delle componenti granulometriche di dimensione maggiore, come avviene nei terreni con conglomerati[11]. L’erosione può influire sui materiali visibili in superficie con diversi risultati: può causare uno spostamento dei materiali lungo la pendice collinare, agendo in particolare sui materiali più leggeri; può limitare la visibilità dei reperti a causa dell’apporto di materiali fini, specie per quanto riguarda i siti di fondovalle; infine, può aumentare la visibilità dei siti di sommità, asportando eventuali sedimenti sopra depostati[12]. Come esposto in precedenza, il terreno compreso tra le località Bellafonte e Poggio all’Aglione è prevalentemente costituito da sabbie e argille di origine marina pliocenica, fortemente soggette a fenomeni erosivi. Terreni con conglomerati o frazioni di roccia più resistenti si incontrano soltanto nella porzione meridionale del territorio studiato, attorno a Poggio all’Aglione.

Nell’analisi dei fattori che possono influenzare la visibilità dei siti archeologici in superficie, notevole importanza riveste la storia dell’uso del suolo, anche se raramente questa è stata oggetto di riflessione da parte degli studi di settore[13]. Alcune pratiche agricole diffuse nel Mediterraneo hanno contribuito alla formazione di processi post-deposizionali che hanno influito sulla giacitura dei reperti, spesso rimuovendoli dalla loro giacitura primaria. Un esempio su tutti, le pratiche di terrazzamento, diffusissime nei territori agricoli in numerose epoche storiche.

Per quanto riguarda l’area compresa tra Gambassi Terme e Montaione, è possibile ricostruire l’uso del suolo a partire dall’età rinascimentale, grazie a documenti cartografici e archivistici editi.

A partire dal basso medioevo e fino al secondo dopoguerra, l’utilizzo del suolo in bassa Valdelsa è stato legato al sistema mezzadrile, analogamente a quanto avveniva nella maggior parte dei territori collinari toscani. La mezzadria, diffusa in Toscana dal XII-XIII secolo, ha avuto una grande importanza nella genesi e sviluppo del paesaggio agrario toscano, poichè ha favorito la fossilizzazione di alcuni elementi paesistici persistenti fino agli anni ’60 del XX secolo e riconoscibili nella bonifica collinare, nella coltura promiscua e nell’insediamento sparso. Il risultato era un paesaggio fortemente umanizzato e parcellizzato in unità poderali più o meno regolari, con case rurali sparse nei campi, quasi sempre in posizione alta sui colli, unite tra loro da un esteso sistema di viabilità poderale[14].

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paralleli, nata dal sommarsi delle iniziative individuali. Le sistemazioni erano soprattutto a rittochino, cioè seguivano le linee di massima pendenza. Dove la pendenza aumentava, venivano utilizzate sistemazioni a ciglioni, a terrazze e a girapoggio.

Dalla seconda metà del ‘700, la Toscana diventa il campo per la sperimentazione di nuove sistemazioni agrarie, legate soprattutto al problema della regimazione delle acque e del contenimento dei fenomeni erosivi. Vengono sperimentate dal Landeschi sistemazioni “a tagliapoggio”, dove il rilievo era diviso in settori da fossati che seguivano le curve di livello, incontrandosi ad angolo al confine dei ciglioni. Sulle pendici argillose del senese e volterrano si diffusero le sistemazioni “a girapoggio”, con fosse giranti come isoipse lungo il rilievo.

In questa parte del territorio volterrano, grande influenza ebbe l’attività di Cosimo Ridolfi e della sua scuola di agraria fondata alla Fattoria di Meleto (Comune di Castelfiorentino). La scuola è famosa soprattutto per la sperimentazione della sistemazione “a spina”, basata sull’obiettivo di riplasmare i profili delle colline, utilizzando gli stessi detriti portati dalle acque. Il risultato era dato da pendici unite, con fosse perpendicolari alla linea di maggior pendenza del rilievo. Questa sistemazione si diffuse particolarmente nella zona tra Empoli, Montaione e Castelfiorentino. Costituisce anche il punto di arrivo delle colmate di monte, basata sulla razionale utilizzazione delle acque di scorrimento per colmare avvallamenti e rimodellare i profili collinari troppo scoscesi. Questo tipo di pratica agraria, com’è intuibile, costituisce il primo grande intervento dell’uomo sulla morfologia collinare, causando ingenti spostamenti di sedimenti dalla sommità delle colline verso il fondovalle.

Le pratiche agricole legate alla mezzadria restarono in vigore fino alla seconda metà del XX secolo, quando intervennero mutamenti sociali ed economici che hanno radicalmente trasformato il paesaggio agricolo della Toscana. La prima grande conseguenza fu la scomparsa della mezzadria, con il conseguente inurbamento nei centri maggiori, soprattutto di fondovalle, e l’espansione industriale, che costituirono il primo vero momento di rottura nella continuità dei modelli di organizzazione dello spazio agreste[15].

Lo spopolamento delle colline e la crisi della mezzadria diventano evidenti nel decennio 1950-60[16]. Nel 1966 G. Barbieri notava come in Toscana le case rurali fossero in gran parte cadenti, molti terreni poderali in dissesto, a conferma di un paesaggio rurale soggetto da molti anni ormai a forte decadenza. Tuttavia, la conduzione mezzadrile continuava ad essere prevalente nei territori interni, come le colline valdesane[17]. Il censimento dell’agricoltura del 1961, ad esempio, indicava che nel Comune di Gambassi Terme 364 poderi su 561 erano ancora condotti a mezzadria.

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La Carta dell’utilizzazione del suolo d’Italia, elaborata a cura del Comitato per la Geografia del CNR (Centro Studi geografia economica) e pubblicata nel 1965[18], mostra per la bassa Valdelsa una coltivazione prevalente di seminativo arborato (vite e olivo), tipico della mezzadria, meno frequente il seminativo nudo. A Sud e a Ovest di Gambassi e Montaione, verso Volterra, erano prevalenti i boschi cedui, d’alto fusto e promiscui.

Nella metà degli anni ’90, le riprese fotografiche aeree del territorio di Montaione mostrano gran parte dei suoli ancora occupati da colture seminative, mentre le case coloniche erano in gran parte dismesse[19]. L. Rombai, nella sua monografia pubblicata nel 1992, descrivendo il tracciato della SP 23 da Castelfiorentino a Montaione, notava come i poderi di Tinti de’Mori, Cancello e Poggio Aranci erano ormai abbandonati e cadenti[20].

Notevoli cambiamenti si sono registrati sullo scorcio del XX secolo, legati soprattutto allo sviluppo delle attività agrituristiche e all’impianto di colture specializzate. Durante l’ultimo decennio, l’espansione dell’attività turistica ha comportato da una parte il recupero di edifici poderali in rovina, dall’altra una trasformazione profonda dei terreni agricoli. Alle ristrutturazioni spesso hanno fatto da corollario sbancamenti dei terreni, volti alla realizzazione di strutture di accoglienza turistica, mentre i seminativi hanno lasciato spazio a colture intensive di vigneti e oliveti, spesso organizzati con filari a rittochino, pratica che aumenta notevolmente le possibilità erosive degli agenti atmosferici[21]. Il nuovo impianto di colture arboricole ha comportato una serie di interventi di scasso profondo, che in diversi casi hanno comportato la distruzione di stratigrafie archeologiche sepolte, come ad esempio nei casi dei siti in località Poggio all’Aglione VI (Scheda di Unità Topografia n. 26) e Muraccio I e II (schede nn. 14 e 15).

Il sito Poggio all’Aglione VI è stato ricognito per la prima volta nel 1987, quando ancora il terreno era coltivato a seminativo (grano) ed offriva quindi una visibilità del suolo eccellente, in conseguenza delle arature. Nell’occasione, la scheda di documentazione descrive il sito come un’area di dimensioni 6x7,20 m, “ben delimitata e concentrata, contraddistinta da una grande concentrazione di tegole e in minima parte coppi”, con numerosi frammenti di ceramica comune e opus doliare. Successivamente, sul medesimo terreno è stato impiantato un oliveto, che ha comportato lo scavo di profonde fosse per l’alloggiamento delle piante. Regolarmente il campo viene sottoposto ad attività di fresatura. Nell’ambito della ricognizione del 2005, il sito risultava ugualmente individuabile, ma con caratteristiche di leggibilità molto diverse. Innanzitutto, le dimensioni della dispersione dei reperti erano poco meno che raddoppiate (12x12,50 m), con una densità non molto alta (2 reperti mq). Sul terreno erano visibili soprattutto frammenti laterizi, di dimensioni ridotte e difficilmente leggibili, mentre sono stati recuperati soltanto 3 frammenti di

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reperti ceramici.

I siti Muraccio I e Muraccio II sono ubicati nel medesimo campo, pochi metri a Nord della cisterna romana in località Muraccio. Come già esposto in precedenza (§ 4.8.2), il campo è stato sottoposto nel 1999 ad un profondo scasso, necessario per l’impianto di un vigneto, che ha comportato la distruzione dell’acquedotto in tubuli di terracotta e di un piccolo insediamento rurale posto al limite Sud-Est del campo. Attualmente i due siti sono ancora visibili sul terreno come dispersione molto rarefatta di materiali, difficilmente interpretabile senza l’ausilio della documentazione prodotta dal Comune e dei materiali raccolti.

In conclusione, durante le operazioni di ricognizione archeologica sistematica, è necessario tenere conto di alcuni fattori che possono da una parte influenzare la visibilità oggettiva del suolo, dall’altra comportare alcune difficoltà al momento della localizzazione dell’Unità Topografica e della sua interpretazione. È necessario riconoscere i processi che hanno portato all’attuale distribuzione dei reperti sul terreno, al fine di comprendere correttamente il paesaggio archeologico. In alcune ricerche, si è cercato di correggere con strumenti statistici le distorsioni causate dalla copertura vegetale e dalla copertura pedologica[22]. Oltre a queste, devono essere tenuti in conto processi post-deposizionali più difficilmente quantificabili o correggibili, legati alla storia dell’uso del suolo. Nel nostro caso, le pratiche agricole succedutesi nel tempo, in particolare le colmate di monte del XVIII-XIX secolo e i recenti impianti di coltivazioni intensive a rittochino, possono aver causato notevoli spostamenti di terreno.

Infine, è necessario ricordare che il numero di siti visibili in un dato momento sul terreno non corrisponde mai al totale dei siti persenti in antichità, ma soltanto ad un campione più o meno ampio di essi. Le stratigrafie archeologiche possono essere di fatto distrutte (anche se, come nel caso dei siti Muraccio I e Muraccio II, restare visibili sul terreno con una pessima leggibilità), oppure restare coperte da una coltre troppo elevata di sedimenti, o da una vegetazione troppo fitta; ma è stato osservato che anche siti superstiti e conservati nella plowzone (cioè in quella porzione di substrato di terreno intaccabile dai lavori agricoli) possono essere visibili soltanto in alcuni anni, di fatto accendendosi e spengendosi come semafori[23].

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[2] Per quanto riguarda le diverse scelte metodologiche, un’ampia rassegna in Francovich-Patterson (edd.) 2000, con bibliografia precedente. Vedi anche Cambi-Terrenato 1994, 177-202, con

bibliografia.

[3] Mattingly 2000, 5.

[4] Cambi-Terrenato 1994, 168-170; Mattingly 2000, 6-7, entrambi con bibliografia di riferimento. [5] Fentress 2000, con ampia bibliografia di riferimento.

[6] Fentress 2000, 47.

[7] Si fa qui riferimento a quanto proposto in Pellicanò-Francovich-Pasquinucci (edd.) 2001, 188. [8] Per esempio, Ammerman 1985, Allen 1991.

[9] Taylor 2000.

[10] Ammerman 1985, 39; Taylor 2000, 24. [11] Taylor 2000, 24.

[12] Allen 1991, 45-51; Mannoni 1985, 23.

[13] Un breve accenno in Mannoni 1985, 22, in Barker 1995, 7-9 e in Van Dommelen 2000, 28. [14] Barbieri 1966, 15-19; Bianchi 1983, 34-41.

[15] In merito alla stratificazione dei pasaggi tra tardomedioevo ed età moderna, cfr. in generale Bianchi 1983, Greppi (ed.) 1991. Sulle trasformazioni più recenti del paesaggio agreste toscano, Stopani-Bazzechi 1989.

[16] Barbieri 1966, 65-68. [17] Barbieri 1966, 15 e 70.

[18] Riportata in Greppi (ed.) 1991. Cfr. anche Barbieri 1966,

[19] Per quanto riguarda il territorio volterrano, cfr. le osservazioni di Bianchi 1983, 194-205. [20] Rombai (ed.) 1992, 342-343.

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[21] Ammerman 1985, 39; Taylor 2000. [22] Terrenato 2000.

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