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VALUTAZIONE DEL CONSENSO INFORMATO PRIMA DELL’ANALGESIA PER IL TRAVAGLIO DI PARTO

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VALUTAZIONE DEL CONSENSO INFORMATO PRIMA DELL’ANALGESIA PER IL TRAVAGLIO DI PARTO

Dr. Giovanni Cannavò, Dr. Diego Mulé∗∗

Il consenso informato al trattamento medico-chirurgico è basilare in ogni rapporto tra medico e paziente nella medicina moderna. Le sue origini risalgono allo spirito calvinista diffusosi in Francia e in Germania agli inizi del 16° secolo come tutela dell’homo economicus, per il quale la malattia non deve essere un impedimento al buon andamento degli affari. Da qui l’obbligo da parte del medico di informare il paziente sui rischi del trattamento per consentirgli di organizzare la propria attività; in qualche modo comincia a modificarsi l’atteggiamento del paziente, che non si abbandona più ciecamente al medico, ma è sempre più interessato ad una partecipazione responsabile alle scelte sulla propria salute.

Venendo a tempi più recenti, l’importanza del consenso come premessa ad ogni approccio clinico è stata sancita dal Consiglio d’Europa il 4.4.1997 ad Oviedo, dove l’Italia ha sottoscritto la Convenzione sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina.

L’articolo 5 prevede la necessità del Consenso per ogni trattamento medico, mentre l’articolo 15 lo prevede per ogni ricerca scientifica. Fanno eccezione le situazioni di urgenza (art.8) e la incapacità ad esprimere un consenso consapevole (art.6).

Nel 1998 inoltre è stato approvato il Codice di Deontologia Medica che prevede e impone la necessità di un’informazione sempre più ampia e approfondita, cercando di connotare gli aspetti etici del Consenso, che deve essere: esplicito, personale, specifico e consapevole.

A sua volta la SIAARTI ( Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione Terapia Intensiva), ha proposto nel 1997 un modulo di Informazione e Consenso all’anestesia elaborato dal Gruppo di studio per la sicurezza in anestesia, con la finalità da una parte di garantire la legittimità giuridica al consenso e dall’altra di favorire la relazione con il paziente.

Gli elementi sostanziali da tener presente sono:

Medico Legale, Segretario Generale Ass. Medico-Giuridica Melchiorre Gioia, Pisa

∗∗ Medico chirurgo, Firenze

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¾ informazione oggettiva sui rischi anestesiologici in generale, fornendo uno standard medio di informazioni che si potrebbe tradurre con “quello che una persona ragionevole vorrebbe sapere ed è in grado di comprendere”;

¾ informazione di tipo soggettivo, traducibile con “i dati necessari a quello specifico paziente per il tipo di anestesia concordato e le procedure pratiche previste per attuarla, compreso l’eventuale trasferimento in terapia intensiva dopo l’intervento;

¾ si deve anche pensare che il malato può acconsentire al trattamento proposto scegliendo di non essere informato (l’informazione è un diritto per un paziente, non un obbligo );

¾ l’eventuale presenza di terzi al colloquio, richiesta dal paziente o dall’anestesista, dovrebbe essere riportata nella dichiarazione di avvenuto consenso;

¾ secondo l’articolo 23 della legge 675/96 e l’articolo 31 del Codice di Deontologia Medica il medico deve raccogliere i nominativi delle persone indicate dal paziente per comunicare loro i dati sensibili;

¾ sempre più ci troviamo di fronte a pazienti di origine straniera, che hanno difficoltà a parlare e capire l’italiano: va documentato che il consenso è stato rilasciato con l’aiuto di un interprete.

Queste sono le linee generali da seguire nell’acquisizione del consenso informato.

Il problema fondamentale non sta nel fornire le informazioni, ma nel fatto che queste debbano essere comprese( informazione Æ comprensione ): solo a questa condizione il paziente potrà attuare una scelta consapevole, e solo così il medico potrà essere sicuro di tenere un comportamento eticamente corretto e tutelarsi meglio da contenziosi legali.

A questo proposito ci si può avvalere di alcuni strumenti di supporto:

1) uno strumento semplice e pratico è l’utilizzazione di una scheda comune, standard, per esempio il modello di “Dichiarazione di avvenuta informazione e consenso all’anestesia” proposto dalla SIAARTI, o altro modello proposto da una società scientifica, compilato adeguatamente e con calligrafia leggibile, che permette al medico di avere una traccia costante durante il colloquio, e nel corso di un eventuale inchiesta giudiziaria diventa una testimonianza di comportamento corretto;

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2) sarebbe utile che il contenuto delle informazioni fornite rispecchiasse le linee guida relative al caso specifico, in modo da far comprendere al paziente che il procedimento anestesiologico che verrà effettuato risponde alle indicazioni tecniche che in genere vengono utilizzate in quel tipo di intervento; in altri termini il paziente dovrà essere messo in grado di comprendere che il medico si avvale delle migliori conoscenze tecniche ed esperienze indicate tramite le linee guida elaborate da comitati scientifici, e che non accettare un certo programma potrebbe essere negativo per la sua salute; è ovvio che il medico può discostarsi dalle linee guida, ritenendo che per quel paziente occorra un approccio diverso, ma sarebbe bene che lo motivasse.

L’applicazione delle linee guida non mette completamente al riparo il medico da contenziosi giudiziari, ma dimostra comunque che l’operatore ha agito con correttezza, secondo criteri scientifici universalmente accettati, e quindi diventa più difficile attribuirgli imperizia, imprudenza o negligenza. Perché allora il consenso rimane comunque un mezzo di tutela ambiguo?

La convenzione di Oviedo prima citata contiene un importante riferimento al consenso in funzione di salvaguardia della dignità della persona umana (art.5, comma1), ma non contiene alcuna indicazione circa la natura e il tipo di rischi che devono costituire l’oggetto dell’informazione, demandando praticamente ai giudici il compito di definire se il paziente si era trovato nella possibilità di esprimere un consenso libero e consapevole. Il CONSENSO occupa uno spazio sempre maggiore nelle azioni di responsabilità professionale, perché diventa uno strumento di controllo della liceità e correttezza nello svolgimento del rapporto tra medico e paziente. In pratica il consenso informato permetterebbe di superare lo squilibrio informativo tra medico e paziente, che vedeva il secondo incompetente rispetto al primo, con il risultato di arrivare invece ad un rapporto di collaborazione.

Le stesse basi normative del consenso a volte sono inadeguate. Basti pensare all’art. 5 del Codice Civile, che fa riferimento all’ “integrità fisica”(situazione statica), mentre il concetto di salute oggi è legato al “benessere psico-fisico”(situazione dinamica).

Il nodo del problema resta il seguente: che possano o meno essere soggette a verifica le condizioni in cui il consenso sia consapevole. Mancando la possibilità di fissare i contenuti dell’informazione e le modalità di comunicazione degli stessi, continua

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ad essere rimesso alla sensibilità del medico il compito di definire quantità e modi di porgere le informazioni al paziente. La Corte di Cassazione, nella Sentenza n° 364 del 15/1/97, afferma che l’informazione deve avere come oggetto: la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili, i rischi valutabili con il criterio che “ può accadere a tutti”, le eventuali soluzioni alternative.

Tale sentenza si riferisce proprio al caso di una paziente, che in seguito ad anestesia epidurale aveva subito un grave danno con invalidità permanente, per il quale veniva chiesto idoneo risarcimento. La Corte ha sancito in quella occasione che al paziente deve essere fornita un’informazione completa non solo dei rischi più comuni e prevedibili, ma anche di quelle complicanze che raramente possono compromettere gravemente la salute o la vita stessa.

Quindi dall’obbligo dell’informazione possiamo escludere solo i rischi anomali. Per questo la Corte di Cassazione parla di consenso specifico, ossia legato ad una spiegazione esauriente in questo caso del metodo anestesiologico proposto. Non dice, però, in che cosa l’informazione consista e quali ne siano gli aspetti.

In definitiva la valutazione del consenso in ambito giuridico resta discutibile, perché se il medico può fornire la prova scritta e firmata dal paziente sull’avvenuta informazione, non vi sono strumenti per comprovare l’acquisizione della consapevolezza.

Se andiamo ad analizzare le cause delle lamentele riferite dai pazienti, si nota che molto spesso non vi è tanto un errore diagnostico-terapeutico, quanto un cattivo rapporto tra pazienti e operatori. I motivi di malcontento più comuni sono i seguenti:

1) Non essere stati adeguatamente informati sulla diagnosi con spiegazioni comprensibili sulla malattia in questione, sulle modalità di un intervento, sulle possibili complicanze, sul programma terapeutico previsto, sulle alternative terapeutiche (se ce ne sono), ecc.

2) Non essere stati ascoltati con attenzione, ma in modo frettoloso e superficiale 3) Essere trattati come pazienti oggetto di procedure e non come singole persone,

a partire dal “tu” dato con disinvoltura, all’essere inviato senza essere stato avvertito preventivamente su percorsi diagnostici in genere specialistici, in ambienti estranei dove spesso non si comunica l’esito dell’esame, ma si ricorre al diplomatico “ invieremo la risposta in reparto”.

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4) Incontrare comportamenti diversi, e quindi contraddittori, nell’ambito dell’equipe, il che crea disorientamento e ansia nel paziente e nei parenti.

5) Assistenza non orientata ai propri bisogni. Quando il paziente non viene coinvolto nel programma che lo riguarda con adeguate spiegazioni, vive con irritazione i modi e i tempi degli approcci con le strutture.

6) Insufficiente comfort alberghiero: lamentela comunissima date le nostre strutture, con riferimento agli spazi fisici, ai servizi igienici, al rispetto della privacy, alla pulizia, alla cortesia del personale medico e paramedico.

Tutti questi elementi di insoddisfazione si traducono spesso in sentimenti di ansia, frustrazione e rabbia, che anche se non conducono a iniziative legali, certo violano largamente i principi della bioetica. Le raccomandazioni per evitare o comunque ridurre le situazioni di malcontento dipendono in parte da una modifica dei comportamenti in parte dal miglioramento delle strutture.

Nell’ambito dell’attenzione ai comportamenti lo stesso consenso informato assume un ruolo cardine: anche quando non vi sono gravi errori può diventare il punto focale su cui si accentra l’interesse “legale” del paziente e dei suoi familiari. Per questo bisogna cercare di essere attenti, nei modi e nei contenuti, nella raccolta del consenso informato.

I modi:

¾ avere un atteggiamento di ascolto, lasciando parlare il paziente e/o il parente che lo accompagna

¾ effettuare l’incontro in una sede adeguata e riservata

¾ avere tempi sufficientemente lunghi per stabilire un minimo di rapporto tra il terapeuta e il paziente

¾ veridicità dell’informazione

¾ personalizzazione dell’informazione, adattandola a chi è di fronte

¾ informazione né minimizzata, perché del tutto in buona fede il medico considera quell’intervento una procedura routinaria, nè massimizzata, con l’intento di un’eventuale futura maggiore tutela legale

¾ uso di un linguaggio semplice e decodificato, evitando i tecnicismi.

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I contenuti

Il consenso informato non è un foglio compilato frettolosamente con intenti burocratici. Va considerato lo strumento per attuare una decisione condivisa e per verificare la fiducia e il buon rapporto tra medico e paziente. Deve quindi essere risultato di un’informazione corretta e di una comunicazione adeguata.

¾ Spiegazione della patologia nei termini più chiari

¾ Eventuale ricorso a depliant informativi con immagini esplicative

¾ Rappresentazione del percorso diagnostico terapeutico che si intende seguire, con l’assicurazione che in caso di cambiamento il paziente e/o i suoi familiari verranno avvertiti

¾ Indicazione che il percorso che si propone è quello contenuto nelle Linee Guida delle Società scientifiche. In caso diverso cercare di spiegare il motivo per cui non si seguono le Linee Guida

¾ Eventuali percorsi alternativi, spiegando i vantaggi e gli svantaggi degli uni e degli altri

¾ Descrizione delle complicanze, dalle più frequenti alle più rare.

Vediamo come tali premesse generali si traducono nelle modalità del consenso in caso di anestesia epidurale in travaglio di parto.

Qualcuno ritiene che gli aspetti del consenso informato che riguardano un atto non necessario, dal momento che si può partorire anche senza analgesia, siano diversi da quelli riguardanti un atto medico volto alla guarigione o ad un approfondimento diagnostico. In realtà non vi è nessuna differenza. L’autodeterminazione della donna le consente di chiedere un servizio che migliori la qualità del periodo travaglio-parto. La paziente chiede all’anestesista le informazioni relative, e firma per aver ben compreso vantaggi e svantaggi, nonché possibili complicanze, dell’atto medico richiesto.

Tuttavia vanno sottolineati alcuni aspetti che rendono molto particolare e delicata l’analgesia in travaglio di parto.

¾ La donna, e non dimentichiamo i suoi parenti, spesso ancora più ansiosi della paziente, ha delle aspettative, influenzate da conoscenze apprese dai mass media o da altri e tradotte a volte in maniera distorta per fattori culturali o socioeconomici.

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Qualsiasi evento che non corrisponda a queste aspettative, anche se vi è stata una condotta medica corretta, può essere percepito come una mancanza di assistenza adeguata da parte dei sanitari.

¾ Il consenso informato va acquisito in tempi molto precedenti al parto: la partoriente, in preda al dolore e allo stress del travaglio può non essere capace di comprendere pienamente le informazioni fornite, e rilasciare un consenso senza essere consapevole dei limiti e dei rischi della metodica.

¾ La paziente è una persona sana che si sta sottoponendo a un atto anestesiologico volontariamente, atto che non prelude ad un intervento destinato a migliorare il proprio stato di salute. In altri termini il rischio è di spostare il paziente da uno stato di benessere ad una condizione di malattia, mentre in genere un procedimento anestesiologico è un mezzo necessario per far passare il paziente da una situazione di malattia a una situazione di benessere, cosa che può giustificare i rischi della metodica.

¾ Ogni problema relativo al parto viene in genere molto amplificato: la paziente è in attesa di un avvenimento felice; nell’immaginario individuale e familiare l’incidente non viene messo in conto, come invece succede in caso di un intervento chirurgico, che è sempre vissuto come qualcosa di pericoloso, per cui quanto meno psicologicamente si è più preparati ad affrontare un evento negativo quale una complicanza.

¾ L’obiettivo è eliminare il dolore. Se questo non avviene in maniera adeguata, o meglio in modo soddisfacente per la paziente, essa può lamentare una cattiva condotta professionale.

Momento del rilascio del consenso

Sarebbe opportuno che le pazienti ricevessero le prime informazioni nel corso di preparazione al parto, e che durante l’ultimo mese di gravidanza si sottoponessero a visita anestesiologica con rilascio di consenso informato scritto. È questo il momento più delicato.

L’informazione deve essere approfondita il più possibile:

¾ breve descrizione dell’anatomia

¾ spiegazione delle modalità con cui l’analgesia viene effettuata

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¾ effetti collaterali più frequenti di natura benigna

¾ effetti collaterali meno frequenti ma più rilevanti

¾ complicazioni rare, ma pericolose.

È utile la distribuzione di un opuscolo informativo, che la paziente possa leggere con calma nei giorni successivi, in modo da fissare meglio il colloquio avuto con l’anestesista.

Nel corso della visita il medico, oltre ad eseguire il controllo clinico, con valutazione dei fattori di rischio ed eventuale richiesta di ulteriori esami ematochimici o biofisici, dovrebbe avere un comportamento disponibile, ossia rispondere senza fretta alla domande e ai dubbi della paziente. Questo non è sempre facile, dal momento che spesso chi gestisce l’ambulatorio è lo stesso anestesista che è di guardia, per cui ha un cesareo che l’aspetta o altri problemi di reparto che gli impediscono di dedicarsi con serenità a questo compito per così dire educativo. Tutti i medici sono a conoscenza della cronica mancanza di personale anestesiologico, ma al giudice questo non interessa: se il servizio esiste deve garantire degli standard, che vanno dal rispetto dell’orario dell’appuntamento al tempo e alla disponibilità dedicati alla paziente. Per non parlare della mancata effettuazione della analgesia epidurale quando contemporaneamente è presente un’emergenza e non è prevista la reperibilità per l’analgesia in travaglio di parto perché questa, invece, non costituisce un’urgenza. Se questa possibilità esiste va esplicitata al momento del consenso informato, in modo che la paziente che voglia la garanzia del servizio si possa rivolgere ad altra struttura che ne dia la certezza.

Uniformità del messaggio da parte dei membri dell’equipe

Da sottolineare ancora l’importanza dei livelli di informazione. È necessaria infatti una personalizzazione del messaggio informativo. Il che equivale a dire che, a seconda di chi effettua la visita preventiva, quella in cui viene rilasciato il consenso, vi può essere un atteggiamento culturale ed emozionale, comunicato alla paziente, che si traduce in un incoraggiamento o scoraggiamento nei confronti dell’analgesia epidurale. Dal punto di vista legale questo rappresenta uno svantaggio: sarebbe opportuno che almeno nell’ambito della stessa struttura vi fosse un atteggiamento più “omologato”.

Sappiamo che ogni professionista può rivendicare la propria autonomia nell’ambito delle sue opinioni personali e della sua esperienza, ma non c’è niente di peggio che ricevere informazioni discordanti: alla visita effettuata il mese prima la paziente viene

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tranquillizzata e i rischi della metodica minimizzati a fronte dei vantaggi; al momento del travaglio l’anestesista di turno può al contrario esaltare le eventuali complicanze, suggerendo che ormai la paziente ha un travaglio avviato, che sta andando tutto bene e via di seguito.

Abbiamo sottolineato fino ad ora l’importanza della consapevolezza del paziente;

perché non ricordare la necessità di consapevolezza del medico, il bisogno di una maggiore cultura medico-legale per difendersi. È infatti esperienza di tutti i medici legali che si occupano di responsabilità professionale medica, che molte volte il minimizzare un rischio dell’atto terapeutico, con l’intento di tranquillizzare l’utente, si rivolge pericolosamente come un boomerang contro il medico, che pure era in assoluta buona fede.

Viviamo in tempi in cui i messaggi dei mass media pongono i pazienti in una situazione di prevenzione e di allarmismo. La tendenza dei giudici è di identificare il paziente con la parte lesa, con attribuzione di colpa al medico. Nel sistema giuridico italiano, infatti, questa è la condizione per cui si può ottenere il risarcimento. Ne consegue che eventuali contenziosi non rimangono confinati nell’ambito della causa civile, come semplice problema assicurativo. Spesso inizia un’azione legale in ambito penale, con tutte le conseguenze gravi che ne possono derivare. Oggi non è più sufficiente nemmeno essere colti, preparati nel proprio settore. Occorre in qualche modo un’informazione medico-legale, come pure una sensibilizzazione psicologica che ottimizzi il rapporto medico-paziente.

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