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Capitolo I La responsabilità del medico: profili generali.

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Capitolo I

La responsabilità del medico: profili

generali.

Sommario: I: Premessa,

II: Caratteristiche dell’attività medica,

a. Cenni alla causalità in ambito medico. III. Colpa medica – profili generali,

a. La colpa in ambito civile, b. La colpa in ambito disciplinare, c. La colpa medica: l’ambito penale, IV. Posizione di garanzia del medico.

I – Premessa.

Il tema della responsabilità medica (malpractice) si è sviluppato ed analizzato inizialmente negli USA nel XX secolo, per poi porsi all’attenzione anche in Europa e in particolare nel nostro Paese.

Negli USA, la responsabilità medica non rientra nella sfera penale dell’ordinamento, ma in quello civile per due

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2 fattori: da un lato, l’elevato costo individuale di una sanità prevalentemente privata, dall’altro, una rete di studi legali specializzati in questo settore della responsabilità.

Non è stato semplice raccogliere dati per capire quale sia la reale portata di questo fenomeno, perché le strutture sanitarie tendono a non pubblicizzare le proprie vicende giudiziarie, così agli inizi degli anni 2000 si è affacciata la

“Empirical legal scholarship” che vuole aiutare la dottrina a

concentrarsi sui dati pratici.

Dai risultati di vari studi effettuati su scala nazionale1, è

emerso che gli eventi avversi causati da errori medici – che riguardano soprattutto le operazioni chirurgiche e l’uso inappropriato di farmaci – non sono molti e di questi, solo una minima parte viene portata in causa e finisce con una pronuncia di responsabilità per colpa, a fronte delle difficoltà probatorie per dimostrare la “negligence” tenuta dal medico.

Per capire il perché, negli USA, la responsabilità per

malpractice rientra nella sfera civile è necessario analizzare il

“modello a doppio circuito” (assente nel nostro Paese) in cui vi è la presenza da un lato, di Agenzie federali che hanno il compito di elaborare strategie di prevenzione contro i rischi dello sviluppo scientifico, dall’altro di giudici civili che controllano il loro operato.

1 Studio effettuato dall’ Institute of Medicine da cui emerge che coloro che

subiscono danni medici sono più di un milione di americani su una popolazione complessiva di 300 milioni.

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3 Questa scelta ha radici antiche e deriva da un modo di concepire l’ordinamento che si autoregolamenta; le agenzie sono nate per regolarizzare il mercato, preservando la libertà economica e politica dalle oligarchie che stavano nascendo dopo la Rivoluzione industriale, in quanto lo Stato è concepito come un’autorità separata che non deve interferire nel mercato.

I giudici civili, da parte loro, non hanno solo il compito di giudicare i casi che hanno davanti, ma costituiscono il motore propulsivo dei diritti dei cittadini.

Il diritto civile ha sempre avuto la capacità di estendersi in modo più rapido ed articolato rispetto al diritto penale, che è ritenuto lo strumento principe in mano all’autorità, per esercitare il potere sui cittadini.

In Italia invece, la responsabilità medica si caratterizza per l’elevato livello di contenzioso penale, cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, perché il diritto penale è ritenuto il più adatto a dare soddisfazione alle vittime.

Anche nel nostro Paese mancano dati statistici completi su questo argomento, ma quello che emerge dai pochi studi fatti2 è un sottodimensionamento del fenomeno sia perché gli ospedali non segnalano gli errori per non avere ricadute sul piano della responsabilità, sia per la difficoltà nel definire gli

2 Si veda in particolare il Protocollo Sperimentale di Monitoraggio degli Eventi

Sentinella (settembre 2005-febbraio 2007) curato dal Ministero della Salute

consultabile sul sito

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4 errori, posto che la maggior parte si ha nella fase diagnostica, che è soggetta ad incertezze interpretative sull’anamnesi, sull’analisi sintomatica, che si accentuano nelle ipotesi di diagnosi differenziale – che si verifica quando la sintomatologia del paziente è riconducibile astrattamente a più patologie.

Lo Stato ha sempre avuto un ruolo da protagonista nella regolazione dei rapporti della società e non si è lasciato spazio per la creazione di agenzie indipendenti ed i giudici hanno un ruolo subordinato rispetto al potere legislativo, da cui consegue la tendenza a ridurre il giudice a mero esecutore delle norme del legislatore.

Il miglior soddisfacimento per le vittime si ha nei sistemi anglosassoni grazie ad una voce autonoma di danno, i

“punitive damages”, che viene commisurata sulla base della

gravità dell’offesa e dell’intensità dell’elemento psicologico del soggetto attivo.

Nel nostro Paese questa tipologia di risarcimento non è presente perché in più di un’occasione la Corte di Cassazione3

e la Corte di Giustizia Europea 4 ne hanno negato la

configurabilità; in particolare si ritiene che, a differenza del danno morale che viene risarcito in proporzione alla lesione arrecata, qui siamo di fronte ad un importo che è sganciato da qualsiasi criterio che riguarda il danno o comunque la sfera

3 Cass. Civ. Sez. III, 1183/07 4 Regolamento (CE) n. 864/2007

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5 del danneggiato, ma ha soltanto carattere esemplare o punitivo.

II – Caratteristiche dell’attività medica.

Il rapporto medico-paziente è sempre stato ambivalente, ma negli ultimi anni si è assistito ad un cambiamento di approccio: da un paradigma paternalistico si è passato ad un modello individualistico.

Nel primo approccio, che ha caratterizzato il passato, la scelta terapeutica del medico era recepita come insindacabile, perché l’attività non poteva/doveva essere valutata dal paziente che si rimetteva totalmente nelle mani del medico.

Oggi invece, con l’approccio individualistico, si assiste ad un incremento delle conflittualità nonostante la collaborazione nel decidere la terapia diagnostica da effettuare. Con questo approccio si dovrebbe giungere, in caso di insuccesso, ad una corresponsabilizzazione tra i soggetti che hanno deciso la terapia; invece si assiste ad un incremento della conflittualità dovuto non solo ai dubbi sulla correttezza dell’attività, ma all’assenza di una reale condivisione delle scelte terapeutiche.

I fattori che hanno portato a questo cambiamento sono: il progresso scientifico, il consenso alla cura e la scientificità. Il primo elemento è un’arma a doppio taglio sia per i medici (perché consente loro di gestire le situazioni di rischio

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6 attraverso le conoscenze scientifiche, ma allo stesso tempo rappresenta una fonte di responsabilizzazione), sia per i pazienti che ripongono in esso le speranze di una pronta ed immediata guarigione, ma non capiscono – o non vogliono capire – che in alcuni casi aumenta i fattori di rischio, non riuscendo ad annullare i pericoli insiti all’interno di una patologia, giungendo ugualmente all’esito infausto della malattia.

Il consenso alla cura è il pilastro del sistema della responsabilità medico-chirurgica perché, da un lato, rappresenta la scelta libera e consapevole del soggetto a protezione della propria vita, integrità fisica, psichica, ecc..., dall’altro, circoscrive la posizione di garanzia che il medico assume verso i malati.

Tra la dottrina e la giurisprudenza vi è stato un lungo dibattito – che sarà approfondito successivamente – sul ruolo che ha avuto il consenso all’interno della terapia, soprattutto in caso di esito infausto causato da un iter terapeutico effettuato arbitrariamente. Ci si è chiesti se la sua acquisizione sia una semplice autorizzazione ad intervenire sul paziente, oppure sia un elemento a cui appigliarsi per citare in giudizio il medico in caso di danni causati dalla terapia arbitraria.

Molteplici ed eterogenei gli orientamenti che hanno portato ad un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione che però non ha risolto definitivamente la questione.

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7 Il terzo ed ultimo elemento, la scientificità, è del tutto peculiare nel nostro settore perché l’attività si svolge facendo scienza, in virtù dello stretto rapporto col sapere elaborato con un metodo empirico-sperimentale.

Quest’ultimo incide su due profili prettamente giuridici-penalistici: sulla causalità, con particolare riguardo al decorso reale storicamente verificatosi, e sull’efficacia impeditiva del comportamento dovuto.

Con la scientificità si riesce a comprendere, a prima vista, il reale accadimento dei fatti che hanno portato all’esito infausto; anche se spesso, dalla dialettica processuale possono emergere cause alternative (anche esse idonee ad aver causato l’esito infausto), tali da dimostrare che lo stesso non è stato causato dalla colpa dell’agente.

Così per cercare di porre rimedio, si è cercato di introdurre un criterio che possa essere in grado di dare certezza sull’imputazione dell’evento.

a. Cenni alla causalità in ambito medico

È necessario soffermarsi brevemente sulla causalità e sui criteri di imputazione dell’evento, differenziando l’ambito civile da quello penale.

Nei giudizi civili l’accertamento del nesso causale avviene tenendo conto dell’oggetto dell’imputazione: un danno e non un fatto come avviene in ambito penale.

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8 È necessario individuare un duplice nesso causale: la causalità materiale – che intercorre tra la condotta illecita e la concreta lesione dell’interesse – e la causalità giuridica che sussiste tra l’interesse leso e i danni che ne sono derivati.

Secondo i giudici della S.C.5 l’accertamento del primo

nesso avviene in base agli artt. 40 e 41 cp: l’evento è causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo e se non sia sopravvenuto un altro fatto idoneo a determinare l’evento (teoria della regolarità causale).

Nella sua ricostruzione si fa riferimento ad un criterio di certezza probabilistica meno “forte” rispetto al giudizio penale, grazie soprattutto alla regola probatoria del “più probabile che non”; il nesso viene verificato in base al grado di fondatezza degli elementi di conferma disponibili in relazione al caso concreto.

Viene fatto riferimento alla teoria dell’“equivalenza

causale temperata” secondo cui si potrà considerare causa

quell’antecedente storico idoneo a cagionare l’evento, alla luce degli altri elementi della fattispecie.

Anche per quel che riguarda la causalità omissiva è necessario far riferimento alla ragionevole probabilità che con la condotta, il danno si sarebbe verificato.

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9 La causalità giuridica non sempre si può accertare ed in questi casi si parla di “causa ignota”6.

L’orientamento dominante della giurisprudenza mette in luce il rischio della cosiddetta causa ignota in capo al creditore (medico – struttura ospedaliera), secondo la quale egli deve dimostrare l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile, cioè il caso fortuito in senso lato.7

Anche la S.C., in più di un’occasione, si è pronunciata sul punto8 e si è posta in linea con quanto stabilito dai vari

tribunali ed ha sancito che se l’incertezza deriva da un fatto colposo del medico o struttura sanitaria e se la condotta del medico è idonea a causare l’evento lesivo, si deve configurare la responsabilità civile del singolo, anche quando appaia più probabile che il danno sia stato causato da fattori diversi rispetto alla condotta del medico. Questo in virtù del principio di generale favor per il danneggiato secondo cui, in caso di mancata individuazione della causa del danno, si ritiene responsabile il medico che non è riuscito a fornire la prova liberatoria della sua innocenza.

Nel settore penale dell’attività medica la maggioranza dei reati è di natura omissiva e/o colposa, è necessario cercare

6 Op. Cit. B. Dalle Pezze, “Note in punto di responsabilità medica alla luce di

recenti orientamenti giurisprudenziali” tratto dal sito

www.professionegiustizia.it/guide/brevi_note_in_tema_di_responsabilita_ medica.php?cap=6

7 Tribunale di Varese, 16/2010 8 Cass. Civ, 1213/2000; 20101/2009

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10 di capire come viene ricostruito il fatto e come viene imputato. Sul decorso causale non vi è uniformità di opinione perché alcuni9 pongono l’attenzione nel distinguere tra la

condotta attiva ed omissiva, ma la maggioranza della giurisprudenza pone l’accento sulla distinzione tra il decorso causale reale – in cui si analizza la realtà dei fatti storicamente avvenuta – e il decorso causale ipotetico – che rappresenta il decorso causale che non si è verificato, ma si sarebbe verificato se si fosse realizzato il comportamento dovuto.

Il primo decorso causale è presente in ogni reato, mentre il secondo entra in gioco in presenza di un comportamento dovuto ed omesso, ad esempio: nell’ipotesi di totale omessa diagnosi di un carcinoma (omissione) il giudice si interroga se, in presenza di una corretta e tempestiva diagnosi, quell’evento morte si sarebbe verificato egualmente.

Per imputare l’evento, è fondamentale la presenza o meno di una certa componente normativa che viene in gioco e che comporta l’elaborazione di giudizi che hanno una struttura ipotetica. Nel nostro settore la distinzione tra azione ed omissione – che rileva ai fini della posizione di garanzia – è messa in secondo piano perché tutti i medici assumono tale posizione.

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11 Per quel che riguarda la certezza ed i criteri di imputazione, nel corso degli anni si sono susseguiti tre orientamenti:

- Il primo – denominato “certezza di grado inferiore” – imputa un evento in presenza di leggi statistico-probabilistiche con percentuale inferiore al 100, è stato elaborato dal filone giurisprudenziale “probabilistico” in riferimento alla causalità omissiva e successivamente è stato esteso alla causalità attiva. In presenza di una condotta omissiva si ragiona in termini prognostici-congetturali, richiedendo una certezza di grado inferiore, poiché, se l’accertamento del nesso omissione-evento si fonda su un giudizio ipotetico non è possibile richiedere lo stesso livello di rigore esigibile nell’accertamento della causalità attiva. Si è notato però, che anche nell’accertamento della condotta attiva si effettua un ragionamento ipotetico-prognostico, quando si formula il giudizio controfattuale di eliminazione mentale che caratterizza la logica della condicio sine qua non (ci si chiede che cosa sarebbe accaduto se non fosse stata realizzata la condotta).

Non si può avere la certezza inferiore anche per l’azione, perché il giudizio di eliminazione mentale riafferma l’esito già raggiunto con una ricostruzione del nesso in termini esplicativi da una prospettiva ex post.

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12 Il secondo profilo che lascia dei dubbi è la mancanza di specificazioni della certezza di grado inferiore: col mutamento del paradigma muta anche il concetto di certezza – da naturalistica a normativa – e le modalità con le quali si effettua l’accertamento, infatti è necessario formulare un giudizio prognostico relativo all’efficacia impeditiva dell’evento razionalmente fondato.

- Il secondo orientamento – definito “della certezza assoluta” – si pone in termini antitetici all’orientamento sovraesposto ed ha, come punto di partenza, la certezza assoluta (oltre ogni ragionevole dubbio) dell’imputazione, sancito dal principio di personalità della responsabilità penale e si ritiene che per spiegare l’evento siano utilizzabili solo leggi universali o statistiche prossime al 100%.

Ciò che balza subito agli occhi e non depone a favore di questa tesi, è l’utilizzo delle leggi universali nella causalità omissiva perché, in presenza di un’ipotesi, le leggi scientifiche perdono la loro funzione esplicativa ed assumono un ruolo di mero rafforzamento logico della predizione.

- Il terzo ed ultimo orientamento – quello della “certezza processuale” – è sorto in virtù di un cambiamento di prospettiva: non si distingue più tra la causalità attiva ed omissiva, ma si pone l’accento sulla distinzione tra la causalità astratta e causalità in concreto, che

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13 rappresentano le due fasi che compongono l’accertamento. Con la prima si ricostruisce il nesso in termini di mera ipotesi e con la seconda si verifica e si conferma l’attendibilità dell’ipotesi alla luce dei fatti. Questo orientamento è emerso dalla sentenza Franzese10 che è stata ritenuta geniale perché è riuscita

a creare un concetto di certezza processuale che si basa su un controllo di razionalità argomentativa, ma non è riuscita a risolvere tutti i problemi.

Sotto il secondo profilo, quello dell’efficacia impeditiva del comportamento dovuto, da un lato il sapere scientifico non è l’unico componente utilizzato per l’elaborazione della regola cautelare perché, quest’ultima, è frutto di un bilanciamento in cui giocano un ruolo anche i costi e le risorse economiche nell’individuazione di un comportamento capace di contenere un determinato rischio.

A questo si aggiunge il fatto che è lo stesso sapere scientifico che si carica di incertezza nel delineare il comportamento alternativo efficacemente impeditivo, perché il ragionamento da fare non è più nomologico-deduttivo ma prognostico-induttivo che si basa su valutazioni probabilistiche. Dall’altro lato però, è in grado di contribuire in modo significativo in presenza di situazioni particolarmente incerte: per il giudizio di colpa, anche se

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14 mancano leggi causali in grado di stabilire una relazione di causa effetto, basterà registrare una complicanza o un effetto collaterale per poter far scattare l’obbligo di sospendere una terapia e correre ai ripari. 11

III. Colpa medica – profili generali.

È soggetto a colpa medica “chiunque per imperizia,

imprudenza, negligenza ovvero per inosservanza di norme nello svolgimento della professione medica cagioni ad altri lesioni, danni fisici o la morte soggiace in sede penale a sanzioni restrittive della libertà personale, in sede civile ad obblighi risarcitori ed in sede deontologica a sanzioni disciplinari”12.

Da questa definizione si deduce che la colpa medica non è un fenomeno che riguarda solo un settore dell’ordinamento, ma ne ricomprende vari aspetti e quindi, per cercare di dare un quadro più completo della responsabilità del medico, è necessario dare uno sguardo al settore civile e disciplinare ed inquadrare quello penale, per poi approfondirlo nel prossimo capitolo.

11 Bartoli, “Responsabilità penali e rischio nell’attività medica e d’impresa”

pagg. 83-99

12 Op. cit. G. Delucchi in “La responsabilità professionale medica”

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15 a. La colpa in ambito civile

In ambito civile la responsabilità nasce dal rapporto di diritto privato che il medico contrae con il paziente e produce conseguenze solo patrimoniali.

Negli anni ’90 vi era un doppio circuito di responsabilità: contrattuale per la struttura sanitaria a cui si rivolgeva il paziente ed extracontrattuale per i singoli medici.13

Si riteneva che tra la struttura e il paziente si concludeva un contratto d’opera professionale – definito come un contratto atipico di spedalità – il cui oggetto era una prestazione complessa a favore dell’ammalato, da cui derivavano obbligazioni direttamente riferibili all’ente a prescindere dall’accertamento di una condotta negligente da parte dei singoli operatori.

I medici, che lavoravano nella struttura, erano estranei al contratto tra l’ospedale e i pazienti, agivano quali organi dell’ente ospedaliero ed erano chiamati a rispondere per i loro errori diagnostici e/o terapeutici a titolo extracontrattuale.

Dopo qualche anno, questo orientamento è stato abbandonato, ritenendosi che la responsabilità dell’ente ospedaliero e del medico è contrattuale, avendo come radice comune la non diligente prestazione sanitaria del medico: l’ente ospedaliero risponde direttamente dei danni cagionati

13Paladini M., “La responsabilità professionale medica” tratta dal sito

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16 dai medici in virtù del principio di immedesimazione organica, mentre la responsabilità del medico trova fondamento nell’art. 28 Cost.14

Questa tesi è stata accolta dalla Suprema Corte15 grazie alla teoria del “contratto con effetti protettivi a favore di terzo”16 secondo cui, in alcuni contratti, accanto al diritto alla

prestazione principale, sarebbe garantito l’ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi estranei al contratto, i quali sarebbero legittimati all’azione risarcitoria, in caso di violazione di detto diritto.

Ad oggi però la giurisprudenza ritiene che i rapporti tra ente ospedaliero-paziente e tra medico-paziente siano autonomi e distinti: il primo fa discendere obbligazioni direttamente riferibili all’ente che è chiamato a rispondere sia per inefficienze strutturali, sia per il fatto commesso dal personale dipendente o ausiliario – in virtù dell’art. 1228 cc, il secondo fa sorgere degli obblighi di cura che sono imposti dall’arte medica.

Le maggiori critiche hanno riguardato, da un lato, l’applicazione dell’art. 28 Cost. perché, nel sancire la responsabilità del dipendente pubblico, non si pronuncia sulla

14 Art. che sancisce: “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici

sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. ”

15 Cass. Civ. Sez.III, 11503/93

16 Teoria di origine germanica ed accolta, in Italia, dall’autore Castronovo C.,

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17 tipologia della responsabilità; dall’altro, si ritiene che la radice comune della responsabilità non sia individuabile nella condotta tenuta dall’agente, ma si debba andare a vedere la natura del precetto violato.

La Cassazione17, nel pronunciarsi sulla responsabilità del

medico operante in un ente ospedaliero, ha accolto la teoria derivante dalla dottrina, che ha elaborato il concetto di “rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale”18: le

obbligazioni, secondo tale teoria, non discendono solo dal contratto e dal torto ma anche dall’affidamento che un soggetto ripone in un altro, a seguito di un contatto che è avvenuto tra loro, grazie all’art. 1173 cc laddove prevede che le obbligazioni derivino anche da “ogni altro atto o fatto

idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.

Tale affidamento è ben visibile nell’attività medica dove il medico deve sempre prestare la sua attività, vi sia o meno alla base un contratto d’opera professionale e, laddove manchi, egli è obbligato nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento.

Questo orientamento si è riflesso su altri aspetti della responsabilità, in particolare: sull’onere probatorio e sull’elemento soggettivo.

17 Cass. Civ. Sez. III, 589/99 e Cass. Civ. SS.UU, 577/2008

18 Teoria elaborata in Germania che si pone in contrasto con il sistema

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18 La Cassazione19 ha stabilito che anche nel settore medico

si applica il principio di riferibilità o di vicinanza alla prova, in cui l’onere viene ripartito tenendo conto della possibilità per l’attore e il convenuto, di provare i fatti e le circostanze che ricadono nelle loro rispettive sfere d’azione: il paziente (creditore) che agisce in giudizio deve provare il contratto e il danno psico-fisico, ed allegare l’inadempimento del sanitario, mentre il medico (debitore) deve dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto ad una causa a sé non imputabile, perché determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza del caso.

Passando all’elemento soggettivo – la colpa – la dottrina e la giurisprudenza concordano che la responsabilità del medico per i danni causati nell’esercizio della sua attività postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra cui la diligenza, che in questo ambito assume particolare attenzione.

Si ritiene che la diligenza alla cui stregua verificare il comportamento del medico non è quella del buon padre di famiglia – sancita dall’art. 1176 cc 1°c – ma quella ordinaria del buon professionista – prevista dal combinato disposto dell’art. 1176 cc 2°c e 2236 cc – che è adeguata al tipo di attività e alle relative modalità di esecuzione.

I medici infatti sono tenuti a conoscere ed applicare le conoscenze tecniche tipiche dell’arte necessarie per

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19 l’esecuzione dell’attività, ma esse si differenziano a seconda della loro specializzazione: esistono due sotto-categorie di diligenza, quella professionale generica – che viene commisurata al modello del buon professionista, secondo una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto – e una diligenza professionale variamente qualificata – che si modella sui vari gradi di specializzazione propri dello specifico settore professionale, innalzando lo standard richiesto.

Il danno risarcibile può essere patrimoniale e non patrimoniale: il primo – in base all’art. 1223 cc – ricomprende la perdita subita dal paziente (cd. danno emergente) e il mancato guadagno che è conseguenza immediata e diretta (cd. lucro cessante), il secondo – previsto dall’art. 2059 cc – si identifica con le lesioni degli interessi non connotati di rilevanza economica.

Nel danno patrimoniale rientrano sicuramente gli esborsi monetari o diminuzioni patrimoniali già avvenuti e quelli che dovranno avvenire in ragione dell’obbligazione, ma anche il “cd. danno da perdita di capacità lavorativa specifica”, se ne è data prova dal danneggiato, al contrario di quella generica che invece rientra nel danno non patrimoniale.

Quest’ultimo ricomprende varie tipologie di danno che sono riconosciute a fronte di una previsione normativa o in presenza di una lesione degli interessi costituzionalmente garantiti; il danno biologico, ad esempio, viene inteso come

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20 lesione del diritto alla salute ed ha avuto un riconoscimento normativo nel d.lgs. 209/05 che lo ha definito come la

“lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”.

Il giudice, nel liquidare il danno biologico deve tener conto di due elementi: il primo è costituito dall’ uniformità pecuniaria di base secondo cui lo stesso tipo di lesione non è valutato in modo del tutto diverso da soggetto a soggetto, il secondo è l’elasticità e flessibilità per adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione sulle attività della vita quotidiana. 20

b. La colpa in ambito disciplinare

Questo tipo di responsabilità trova fondamento nel d.lgs. C.P.S. 233 del 13/09/1946 con cui si tornava a dare vita (dopo l’esperienza fascista) agli Ordini delle Professioni Sanitarie, che dovevano esercitare il potere disciplinare nei confronti dei sanitari liberi professionisti iscritti all’albo; qualche anno dopo, nel 1950, veniva data esecuzione al d.lgs. 233 con il d.P.R. 221 e meritevoli di essere analizzati sono i capi IV e V

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21 che si occupano rispettivamente delle sanzioni disciplinari e del funzionamento della Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie – organo che ha il compito di decidere sui ricorsi presentati contro le decisioni emesse dal Consiglio dell’Ordine.

Dopo qualche anno, nel 1992, fu promulgata la l. 50 con cui si attribuiva agli Ordini e ai Collegi professionali la facoltà di promuovere delle ispezioni presso gli studi professionali degli iscritti agli albi, per vigilare sul rispetto dei doveri inerenti alle rispettive professioni.

Infine, risulta di fondamentale importanza il Codice di Deontologia Medica, le cui disposizioni sono il perno per la valutazione del comportamento del medico in virtù dell’art. 2 che sancisce: “L’inosservanza dei precetti, degli obblighi e

dei divieti fissati dal presente Codice di Deontologia Medica e ogni azione od omissione, comunque disdicevoli al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili dalle commissioni disciplinari con le sanzioni previste dalla legge.”

La responsabilità disciplinare nasce perché lo Stato non riesce a cristallizzare con le norme giuridiche tutti i principi etici e condivisi, così gli ordini professionali sono costretti ad “autoregolamentarsi” attraverso codici deontologici.

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22 Lo svilupparsi di questi codici ha portato a chiedersi quale sia il valore giuridico della regola deontologica: la più recente giurisprudenza ritiene che abbia valore solo all’interno del procedimento disciplinare, ma la dottrina critica questa tesi sostenendo, da un lato, che le regole deontologiche trovano fondamento nella legislazione statale che legittima l’esercizio della potestà disciplinare, dall’altro, che questa regola è preordinata alla tutela della salute del paziente, venendo ad assumere rilevanza pubblica che travalica i confini della normativa interna alla categoria professionale.

Alcune regole deontologiche impongono comportamenti professionali per evitare danni al paziente, assumendo il valore di regole cautelari, la cui violazione configura una responsabilità penale, in virtù dell’art. 43 c.3 cp che menziona l’inosservanza di “discipline” quale requisito dell’imputazione colposa.

Le regole deontologiche sono scritte con locuzioni molto generiche 21 e per questo sono definite regole cautelari

improprie, al contrario di quelle scritte in sede penale che descrivono – o dovrebbero – in modo dettagliato l’evento, quindi, per muovere un rimprovero al sanitario si dovrà valutare se l’evento specifico che si è verificato fosse prevedibile ed evitabile in concreto.

21 Si vedano tra tutti gli articoli 13, 19 e 23 che prevedono rispettivamente

l’aggiornamento delle conoscenze per la scelta della cura, la formazione continua e la continuità delle cure.

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23 La sussistenza dell’illecito colposo avviene analizzando sia la violazione della regola deontologica che le circostanze del caso concreto.

Il procedimento disciplinare può essere instaurato in presenza di un illecito commesso in violazione delle norme deontologiche, o in abuso della professione, o disdicevole per il decoro professionale, oppure quando – per il medesimo fatto – si sia già instaurato un processo penale, a patto che non sia stata pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non l’ha commesso ed infine, quando al soggetto viene applicata una misura di sicurezza.

Il procedimento si compone di due fasi: la prima – prevista dall’art. 39 del d.P.R. 221/50 – si svolge dinanzi al Presidente dell’Ordine, in cui si procede alla raccolta e verifica sommaria delle circostanze dell’illecito disciplinare e all’audizione del medico, dopodiché il Presidente riferisce i dati raccolti al Consiglio, e, se ritiene che si debba procedere, deve fissare un termine non inferiore a venti giorni per nominare il giudice relatore e per notificare al medico l’addebito circostanziato, con indicazione della data e del luogo dell’udienza e l’avvertimento che, in caso di mancata comparizione, si procederà in sua assenza.

L’art. 45 del d.P.R. 221 negava al medico la possibilità di farsi assistere da un difensore tecnico ma, per non rendere la norma incostituzionale in presenza dell’art. 24, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato la norma in senso

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24 ampio, cioè della non obbligatorietà della difesa tecnica sottolineando come il procedimento disciplinare, nonostante la natura amministrativa, è preordinato allo svolgimento di una fase giurisdizionale.

La seconda fase (ritenuta come l’inizio del procedimento) si svolge dinanzi alla Commissione disciplinare, presente in ogni Consiglio dell’Ordine, in cui il relatore espone gli addebiti mossi al medico, che viene ascoltato. Una volta terminata la trattazione, l’incolpato viene allontanato e la Commissione si riunisce per la decisione, che viene presa a maggioranza dei componenti e in caso di parità prevale il voto del Presidente, in cui sarà esposta anche la motivazione per permettere, tra l’altro, l’eventuale ricorso alla Commissione Centrale.

Le sanzioni a cui sono sottoposti i medici sono quattro: - L’avvertimento, che consiste nel diffidare il colpevole

a non ricadere nella mancanza commessa;

- La censura, che è una dichiarazione di biasimo per la mancanza commessa;

- La sospensione dall’esercizio della professione per un periodo che varia da un mese fino a sei mesi;

- La radiazione dall’Albo.

L’applicazione della sanzione deve essere proporzionata alla gravità del fatto, avuto riguardo anche delle caratteristiche dell’autore e delle circostanze del caso,

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25 soprattutto in caso di violazione di norme deontologiche più specifiche.

Una minoranza della giurisprudenza disciplinare non ritiene applicabile il principio di proporzionalità, in virtù dell’autonomia che ha la Commissione disciplinare nel giudizio.

Con questa analisi del procedimento disciplinare, per concludere, si prende atto della tendenza ad estendere, in questo giudizio, le garanzie del procedimento penale, soprattutto per quel che riguarda il diritto alla difesa, il principio di proporzionalità della sanzione e l’obbligo di motivazione della sentenza, perché in origine non si prevedevano molte tutele per il soggetto sottoposto al procedimento disciplinare.

Resta fermo il fatto che i due procedimenti non possono e non devono essere sovrapposti proprio per le caratteristiche atipiche della regola deontologica, così l’accertamento dell’illecito disciplinare non può essere un presupposto per l’autonomo riconoscimento della sussistenza di un reato e viceversa. L’autonomia deve riguardare il giudizio, infatti, sia il giudice disciplinare che quello penale valutano il fatto in completa indipendenza uno dall’altro, giungendo anche a valutazioni opposte; proprio per garantire questo, la giurisprudenza disciplinare ritiene illegittima qualsiasi

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26 automatica pronuncia di illiceità disciplinare a fronte di una condanna penale. 22

c. La colpa medica: l’ambito penale.

L’attività medica rientra nelle attività che l’ordinamento definisce pericolose, ma che sono consentite perché hanno come finalità la tutela della salute e dell’integrità della persona ed è possibile svolgerla nel limite del rischio consentito, al di fuori del quale si entra nel campo della responsabilità per colpa – che si caratterizza per l’assenza di volontà nel compimento del fatto.

La colpa professionale, in virtù dell’art. 43 cp, si caratterizza per l’inosservanza delle regole di condotta (definite regole cautelari) che vogliono prevenire il rischio non consentito dall’ordinamento giuridico e per la prevedibilità ed evitabilità dell’evento lesivo.

Queste regole possono derivare da fonti scritte – leggi, regolamenti, ecc… – oppure da imprudenza, negligenza e imperizia.

La prima si ha quando il medico svolge la sua attività con avventatezza, con eccessiva precipitazione, senza adottare le cautele indicate dalla comune esperienza o le precise regole

22 A. Provera, “Il sistema disciplinare degli ordini delle professioni sanitarie in

rapporto con il procedimento penale attraverso l’analisi della giurisprudenza disciplinare.” Tratto dal motore di ricerca “IUS EXPLORER”

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27 dettate dalla scienza. La negligenza si sviluppa nella disattenzione o superficialità, nel non rispetto delle norme comuni di diligenza che devono rispettare coloro che sono abilitati all’esercizio di un’attività professionale.

L’imperizia infine, si ha quando la condotta del soggetto è incompatibile con il livello minimo di cognizione tecnica, di cultura, di esperienza e capacità professionale che costituiscono il presupposto necessario per l’esercizio dell’attività.23

Tra gli strumenti utilizzabili, come fonti di regole cautelari, vi sono anche le linee guida, i protocolli e le regole emanate dalla categoria professionale di riferimento. Sulle linee guida vi è stato un lungo dibattito – che sarà approfondito successivamente – perché non tutti sostengono che siano vincolanti per il giudizio di responsabilità, soprattutto in quei casi dove le circostanze concrete portano il medico a discostarsene, per evitare un evento avverso.

Risulta di particolare interesse, soprattutto da qualche decennio, come l’attività medica si stia sviluppando verso forme più complesse, grazie ad un lavoro che non viene svolto più singolarmente, ma avviene in concerto con altri medici – attività svolta plurisoggettivamente – o all’interno di una struttura sanitaria in cui vi sono carenze organizzative, che rendono difficile individuare il vero responsabile dell’evento.

23A. Caputo “La responsabilità penale del medico: unicità del concetto di

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28 La responsabilità penale per carenze strutturali non si è sviluppata da molto tempo e riguarda sia le ipotesi di strutture obsolete, presidi terapeutici mancati e non sottoposti a controllo, sia le ipotesi di carenze organizzative in relazione al personale impiegato.

In passato l’unico soggetto che era chiamato a rispondere era il singolo operatore preposto per il trattamento, anche nelle ipotesi in cui emergeva che l’esito infausto non era stato causato dalla colpa dello stesso, ma da inefficienze strutturali e/o organizzative. Quest’ultime, all’interno del processo, erano utilizzate contro il medico in chiave incriminatrice – sotto il profilo dell’omesso controllo e dell’omessa segnalazione al dirigente responsabile – e non a suo favore come scusante.

Oggi invece si è capito che nelle strutture complesse è necessario individuare – e differenziare – le responsabilità penali in relazione al contesto in cui operano i vari soggetti, non potendo nascondersi dietro la prospettiva dell’uguaglianza formale, perché l’organizzazione è “(…)

frutto di una mediazione tra il volere e il potere, tra l’impatto della cura sulla salute in generale ed il rapporto costo-efficacia della cura stessa (…)”.24

La crescente rilevanza di questo tema ha sviluppato, sul piano dell’imputazione colposa, una particolare figura di

24Op. Cit. D. Carusi, “Responsabilità del medico, diligenza professionale,

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29 colpa per assunzione in capo al medico che opera in presenza di una inefficienza permanente, perché secondo alcuni25, il

dovere obiettivo di diligenza ricomprende anche l’obbligo di preventiva informazione e di ricorrere alle altrui speciali competenze, così da versare in questo tipo di responsabilità colui che, non essendo all’altezza del compito assunto, esegue l’opera da cui discende un danno.

Il rischio che si delinea è di una “medicina

dell’obbedienza amministrativa”26 in cui i medici accettano passivamente le regole contrattuali e le imposizioni organizzative dettate dalle amministrazioni della Sanità: la tutela della salute può non essere più l’obiettivo principale dei vertici amministrativi, che sono costretti a subordinarla a logiche di contenimento dei costi.

Contemporaneamente, si è posto all’attenzione anche il tema della plurisoggettività dell’intervento sanitario, che interessa soprattutto le prestazioni erogate all’interno degli ospedali ed abbraccia le vicende plurisoggettive contestuali – quelle attività svolte in équipe – e quelle diacroniche – in cui si ha la cooperazione di più sanitari in un arco temporale.

Le cause che hanno portato allo sviluppo di questo tema sono da individuarsi nell’incremento delle specializzazioni dovute all’evoluzione tecnico-scientifica e nello sviluppo del

25 P. Pisa – G. Longo, “Responsabilità penale per carenze strutturali ed

organizzative” pag.9

26 Op. Cit. U. Genovese – R. Zoja, “Effetti della medicina difensiva sulla pratica

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30 sistema sanitario nazionale che ha spostato l’asse della prestazione sanitaria alla sfera pubblica e non più privata ed ha trasformato le Aziende sanitarie in organizzazioni basate su modelli aziendalistici, nei quali è necessaria la ripartizione dei ruoli che sia funzionale alla domanda di prestazioni sanitarie.

Dottrina e giurisprudenza affermano che la divisione del lavoro rappresenta, senza dubbio, un fattore di sicurezza perché ci si può avvalere di conoscenze specialistiche complementari e collegate, ma può introdurre nuovi fattori di rischio come le difficoltà che derivano dalla necessità di coordinare l’operato di più medici.

Ciò si può ripercuotere negativamente sul rapporto tra il medico e il paziente perché il primo può sentirsi responsabile solo del suo operato e non avverta più la responsabilità del malato in tutta la sua complessità.

Anche in questo caso si rischia di configurare ipotesi di responsabilità di gruppo, fino a ricomprendere indiscriminatamente tutti i medici che sono entrati in contatto con il paziente, ma che non hanno contribuito al verificarsi dell’esito avverso.

Per non evitare ingiuste incriminazioni, è necessario individuare il contenuto del dovere di diligenza di ciascun cooperante e stabilire se – e a quali condizioni – il singolo membro dell’equipe possa essere chiamato a rispondere dell’eventuale condotta colposa posta in essere dagli altri membri.

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31 In questo quadro è necessario solo accennare – per riprendere più avanti – al ruolo degli infermieri all’interno dell’equipe. In passato erano dei veri e propri ausiliari dei medici, capaci di espletare gli atti a loro delegati dal medico che ne era responsabile a titolo di colpa in vigilando. Oggi invece, “svolgono con autonomia professionale attività

dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza”,27 per cui è necessario ridisegnare la responsabilità dei medici ed individuare le regole cautelari proprie degli infermieri.

Questi due fenomeni hanno portato i medici a sviluppare atteggiamenti difensivi, configurando la cosiddetta medicina difensiva, in cui rischiano di essere o troppo “apprensivi” verso i pazienti prescrivendo esami non utili ai fini del trattamento terapeutico, o troppo “disinteressati” respingendo i pazienti che non ritengono di poter curare per inefficienze strutturali o per non fiducia verso i suoi collaboratori; nel primo caso si parla di medicina difensiva positiva, mentre nel secondo di medicina difensiva negativa. Tutto ciò ha reso dipendenti le scelte terapeutiche dei medici che si trovano ad operare in un sistema che – sembra

27 Art. 1, l.251/00 recante “Disciplina delle professioni sanitarie

infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”

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32 – aver perso di mira lo scopo principale, la tutela della salute, e che, sempre più, guarda alle poche risorse economiche presenti nelle casse dei presidi ospedalieri.

Un ulteriore fattore che incide sul lavoro dei medici è il ruolo dei mass media che, con le sue campagne denigratorie verso l’errore medico – soprattutto in ambito penale – forniscono un’immagine non corretta del sistema, facendo solo emergere la responsabilità del singolo e non approfondendo la realtà dei fatti.

Dai dati in possesso28 ci si rende conto che le cause

penali intentate per gli errori medici non sono moltissime, perché non sempre lo sbaglio deriva da un’incapacità professionale del singolo, ma sempre più dipende dalle scelte organizzative o dalle circostanze del caso.

In Italia manca un sistema di gestione del rischio che sia in grado di stabilire misure precauzionali idonee a prevenire quegli errori derivanti dall’inadeguatezza organizzativa o dalla violazione delle norme, per cercare di rendere più sicura un’attività che già di per sé è sottoposta ad insicurezze, derivanti dai pazienti stessi o dall’aggravarsi della patologia, dal progresso scientifico che offre sempre più soluzioni tecnicamente migliori, ecc…

Per cercare di colmare questo vuoto, il Ministero della Sanità ha al suo interno un settore che si occupa di ridurre i

28 I dati raccolti sono raccolti dal Centro Regionale per la Gestione del Rischio

Clinico e per la Sicurezza del Paziente della Regione Toscana da cui emerge che le richieste di risarcimento sono circa 1500 all’anno, di cui meno del 20% finiscono dal magistrato, il 15% in sede civile e il 4% in sede penale.

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33 rischi che si possono verificare, tramite i cosiddetti “eventi

sentinella: quegli eventi avversi di particolare gravità, potenzialmente indicativi di un serio malfunzionamento del sistema” 29, al verificarsi dei quali è possibile avviare un’indagine per mettere in luce i malfunzionamenti presenti e risolverli.

IV. Posizione di garanzia del medico.

Nei reati colposi assume molta importanza la posizione di garanzia: la posizione di colui che deve impedire il verificarsi di un evento.

In campo sanitario è necessario capire chi e in che cosa consiste questa posizione: la giurisprudenza ha sancito che in virtù degli art. 2 e 32 Cost. tutti gli operatori sanitari di una struttura sanitaria sono portatori di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti, la cui salute deve essere tutelata contro ogni pericolo che ne minacci l’integrità30. Con riguardo

ai presupposti operativi della posizione si ritiene sufficiente che sia stato posto in essere un rapporto sul piano terapeutico tra i due soggetti, perché la relazione può essere instaurata contrattualmente – a fronte di un rapporto di fiducia del paziente nel medico – o in virtù della normativa pubblicistica di tutela della salute, come nei casi di ricovero ospedaliero dove, indipendentemente dal consenso del paziente, sorge un obbligo giuridico di impedire l’evento.

29 Op. cit. Panti A., “Responsabilità nelle attività mediche” pag.172 30 Cass. Pen. Sez. IV, 9368/2002

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34 Sul punto, la tendenza è quella di interpretare la posizione in esame in senso sostanziale che determina l’estensione massima dello status di garante che ricomprende qualsiasi contatto terapeutico.

Questa ampiezza però finisce col far disperdere la tassatività omissiva impropria perché l’individuazione dell’azione doverosa omessa si trova ad essere sostituita dal richiamo ad una tutela contro ogni pericolo, che si concretizza nell’obbligo di fare tutto il possibile, adottando le cautele che avrebbero incrementato le speranze di guarigione o di vita del paziente. Per chiarire l’aspetto in esame, basta pensare all’indirizzo giurisprudenziale che si è affermato in materia di interventi in équipe: ciascun sanitario non solo è responsabile del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle proprie mansioni specificamente ed effettivamente svolte, ma deve costituire anche una sorta di garanzia per la condotta degli altri comportamenti e porre quindi rimedio agli eventuali errori altrui. Ciò però, in caso di citazione in giudizio, fa presumere la responsabilità del capo équipe perché la salute del paziente diventa l’oggetto della posizione di garanzia, senza considerare l’effettiva portata dei limiti normativi del rischio tipico e il fatto che la cooperazione del medico con i suoi colleghi fa rientrare in questo giudizio anche comportamenti che non dovrebbero rientrarvi, perché non sono determinati dall’operato di leggi scientifiche ma da singoli atti di volontà. Ecco quindi che l’obbligo di impedire l’evento si trasforma in una richiesta improponibile sia per

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35 eccesso, perché implicherebbe un potere di influenza sul corso degli avvenimenti che, in molti casi, sarebbe irrealistico da pensare, sia per difetto, perché non sono ammissibili comportamenti di rinuncia fondati sulla incertezza ed opinabilità dell’indagine causale.

La giurisprudenza, a fronte delle difficoltà probatorie presenti nella maggior parte dei casi di responsabilità medica, tende ulteriormente ad allargare l’applicabilità della posizione di garanzia anche in termini commissivi dove il riferimento allo status di garante è il presupposto per fondare l’obbligo di osservanza di determinate regole cautelari la cui violazione integra la colpa, confermando la sovrapposizione interpretativa esistente tra il dovere oggettivo di diligenza che consegue all’instaurarsi della relazione terapeutica e l’obbligo giuridico di impedire l’evento, con il rischio di violare non solo il divieto di responsabilità obiettiva, ma anche quello della responsabilità per fatto altrui.

In materia sanitaria è necessario quindi individuare quali sono gli effettivi poteri impeditivi a disposizione del sanitario e i limiti della posizione di garanzia che neutralizzano i pericoli mediante gli obblighi cautelari omnicomprensivi che non tengono conto – avvolte – del verificarsi dell’esito infausto, soprattutto perché vi è la possibilità che gli obblighi discendenti dalla posizione di garanzia entrino in conflitto con il diritto alla libera autodeterminazione del paziente e con l’obbligo di rispettare

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36 il possibile rifiuto a tecniche diagnostiche o prestazioni terapeutiche.

Le perplessità mostrate dalla comunità scientifica fin qui delineate sono state rinvenute nelle posizioni della dottrina che ha sempre posto l’attenzione sui rapporti della responsabilità per omesso impedimento dell’evento con i limiti del rispetto dei principi di legalità e di personalità della responsabilità penale.

Nel giudizio di responsabilità l’individuazione della posizione di garanzia non esaurisce la funzione della descrizione e delimitazione della condotta penalmente rilevante, perché si dovrà individuare la condotta doverosa omessa, l’esistenza del nesso tra il significato della regola cautelare e l’evento verificatosi e la sua evitabilità in concreto. La dottrina specifica che, per quanto riguarda i confini della posizione di garanzia del sanitario, gli art. 2 e 32 Cost. consentono solo formalmente il rispetto del principio di legalità, perché il principio di tassatività pretende l’individuazione puntuale della posizione stessa, cosa che non può essere ricavata dagli articoli costituzionali ma dalla normativa di istituzione e di disciplina del servizio sanitario nazionale.

L’obbligo di garanzia deve essere ricostruito come un obbligo che grava su alcune specifiche categorie predeterminate di soggetti che hanno previamente i poteri giuridici di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati

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37 alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di proteggerli in modo adeguato.

La sovrapposizione dei concetti di obbligo di cura e obbligo giuridico di impedire l’evento ha spinto la Cassazione31 ad affermare che: “se è vero che l’instaurazione

della relazione terapeutica crea la cosiddetta posizione di garanzia ed il conseguente obbligo di agire a tutela della salute e della vita, così fondando la responsabilità per omissione, è altrettanto vero che non si può conferire a tale obbligo una dimensione astratta ed irrealistica, quasi che lo stesso abbia sempre un’estensione illimitata.”

Le motivazioni fondanti questo indirizzo giurisprudenziale coincidono con le critiche espresse in dottrina in cui si osserva che: pretendendo dall’agente anche prestazioni professionali non dovute, si corre il rischio di ledere il carattere personale della responsabilità penale e il principio di colpevolezza, fondando l’addebito solo sulla posizione di garanzia.

Spesso nella casistica giurisprudenziale si è affrontato il problema della posizione di garanzia ed emblematico fu il caso32 di un paziente sottoposto a due distinte operazioni chirurgiche, a seguito di un infortunio domestico in cui aveva riportato ustioni su circa il 50% del corpo.

La Cassazione a fronte della morte del paziente e dei dubbi sulla causa della morte perché non fu eseguita

31 Cass. Pen. Sez. IV, 242016/2008 32 Cass. Pen. Sez. IV, 46586/2004

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38 l’autopsia, affermò la responsabilità di tutto il personale medico e paramedico che doveva seguire il paziente dopo la fase operatoria; in particolare fu rimproverato:

- Al medico – chirurgo di aver affidato il paziente a personale che non era in grado di assisterlo dopo il secondo intervento chirurgico;

- Al medico di guardia di aver omesso di informarsi sulla eventuale presenza, durante il turno, di pazienti in stato di emergenza;

- Al personale infermieristico di non aver ascoltato i familiari del paziente che richiedevano un intervento sul loro congiunto.

Al medico che effettuò l’operazione fu contestato l’omesso controllo del paziente nella fase post – operatoria per averlo abbandonato a se stesso anche per il disinteresse di tutti gli operatori sanitari con cui il paziente stesso si trovò a venire in contatto. Si sarebbe configurata un’ipotesi di culpa

in eligendo ed in vigilando perché la posizione di garanzia

rivestita sarebbe stata trasmessa a personale non idoneo a riceverla e trasferita a nessuno.

L’attribuzione del fatto a soggetti ritenuti responsabili risulta carente sia nell’individuazione dei contenuti delle rispettive posizioni di garanzia, affermata per tutti e poi ritenuta insussistente per l’affidamento nella correttezza dell’operato altrui, sia nell’accertamento del profilo colposo perché non è stato specificato in che modo tutti i soggetti coinvolti avrebbero potuto e dovuto evitare il verificarsi

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39 dell’evento lesivo attraverso l’osservanza di norme cautelari oggettivamente imposte.

In questo modo quindi, la responsabilità non risulta più chiara perché le lacune probatorie non tengono distinte le singole categorie dogmatiche, così da distinguerle tra loro e da manipolare in via interpretativa.

In dottrina invece si è mantenuto fermo il fatto che il dovere giuridico di impedire l’evento sia riferito ad una condotta ben definita, inquadrata all’interno del processo terapeutico indicando con precisione il mezzo o la modalità d’azione che il medico avrebbe dovuto adottare per salvaguardare l’integrità del paziente33.

33 A. Roiati “Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale”

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