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L’area di studio ricade all’interno del perimetro dell’area protetta denominata Parco Fluviale Regionale del Taro. Tale area protetta coincide con due siti facenti parte della rete Natura 2000:

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3. MATERIALI E METODI

3.1 L’AREA DI STUDIO

L’area di studio ricade all’interno del perimetro dell’area protetta denominata Parco Fluviale Regionale del Taro. Tale area protetta coincide con due siti facenti parte della rete Natura 2000:

pSIC – ZPS IT4020021 Medio e Basso Taro (fig.6), il territorio è coincidente e il codice è comune per pSIC e ZPS.

Fig. 6 Attuali confini della ZPS IT4020021 Medio e Basso Taro (Ministero dell’Ambiente).

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Nella fig. 7 è rappresentata la localizzazione dell’opera in progetto, denominata “Realizzazione del collegamento tra la S.S. n°62 della Cisa e la S.P. n°357/R di Fornovo, tratto tra Collecchio – Medesano - Noceto con ponte sul fiume Taro nella provincia di Parma” e costituita, nella fattispecie, da un ponte che attraversa perpendicolarmente l’asse fluviale.

Fig. 7 Localizzazione dell’opera in progetto.

L’area di intervento viene ad interessare la ZPS con una sezione completa di attraversamento dell’alveo e degli ambienti golenali adiacenti oltre a terreni agricoli posti soprattutto in sponda destra, a nord ovest di Collecchio. La ampiezza del ponte sarà di 16 m con pile di sostegno poste ad interasse di 50 m. Durante la fase di costruzione è prevista l’occupazione temporanea di un’area maggiore per eseguire le necessarie operazioni di cantiere, di conseguenza si prevede sia una sottrazione di porzioni di habitat in corrispondenza della superficie di attraversamento, sia una possibile interazione con gli assetti degli habitat medesimi e un conseguente disturbo agli elementi faunistici e floristici che ne fanno parte.

Collecchio

Medesano

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3.1.1 IL PARCO FLUVIALE REGIONALE DEL TARO

Il Parco del Taro è stato istituito con Legge Regionale n. 11 del 1988, nel 1991 è nato l’Ente di gestione, costituito da un consorzio tra i comuni che rientrano nel perimetro del Parco (Collecchio, Fornovo, Medesano, Noceto) e la Provincia di Parma; successivamente il procedimento costitutivo si completa con l’adozione del Piano Territoriale nel 1999. Il Parco si estende per circa 3200 ha (2225,63 ha di Parco e 908,12 ha di Pre-parco), dal ponte stradale di Fornovo (130 m s.l.m.) a quello, sulla Via Emilia, di Ponte Taro (56 m s.l.m.) delimitato sui due lati maggiori dalla Statale della Cisa e dall’Autostrada Parma-La Spezia, con una ampiezza media di 1,5 km. Coinvolge 20 km del tratto di conoide alluvionale del corso d’acqua a regime torrentizio da cui prende il nome il Parco.

Il paesaggio è costituito da terre basse e colline anche se l’ambiente, nello spazio di poche centinaia di metri, muta radicalmente: dai lussureggianti boschi frequentati dai caprioli si passa ai campi modellati dall’uomo che precedono il vasto letto del fiume. Il paesaggio è, infatti, in prevalenza agricolo, anche se l’agricoltura industriale affermatasi nel dopoguerra convive ancora con lembi dell’organizzazione rurale antecedente (campagne tra Madregolo e Vicofertile). Per il resto le esigenze di una meccanizzazione sempre più spinta, hanno prodotto una radicale semplificazione del paesaggio; a integrare l’economia agricola della zona sono sorte diverse industrie di conserve alimentari, caseifici e salumifici, frantoi e una raffineria nei pressi dell’abitato di Fornovo.

L’attività che in questo territorio ha comportato il maggiore impatto sull’ambiente è stata, senza dubbio, quella di estrazione e lavorazione delle ghiaie, molto intensa nel Taro, soprattutto nelle zone prossime all’alveo.

La realizzazione dell’autostrada sulla riva sinistra del fiume ha ovviamente inciso sull’assetto naturale e agricolo di questa sponda, decisamente più degradata rispetto a quella di destra.

L’idea di un parco sul Taro non è stata subito accettata da tutti e ha incontrato non pochi ostacoli: è stata avversata da diverse categorie economiche e sociali che contrastavano l’eventualità di restrizioni e vincoli alle consuete attività svolte sul fiume e nelle vicinanze.

L’originario progetto di parco comprendeva un’area significativamente più ampia e la sua configurazione attuale è una soluzione di compromesso.

Dalla cartografia si evince che il territorio del Parco del Taro comprende tre zone principali:

 Zona B di “protezione generale” nella quale, pur in presenza di ambienti naturali di elevato interesse la cui protezione è prioritaria, sono compatibili attività di tipo agricolo e silvo-pastorale tradizionali e una fruizione escursionistica e ricreativa regolamentata.

Comprende zone prevalentemente legate all’alveo attivo del Taro, unitamente alle fasce

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riparali che includono i terreni di perialveo, le zone umide golenali, gli ambienti boscati, i lembi di gariga, le formazioni prative dove non si esercita una conduzione produttiva delle risorse. Le attività e gli interventi consentiti in questa zona sono quelli direttamente finalizzati al recupero e alla riqualificazione paesistico-ambientale, alla tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale, nonché al rafforzamento, alla ricostruzione e alla valorizzazione dei caratteri di naturalità. E’vietato costruire nuove opere edilizie, ampliare costruzioni esistenti ed eseguire opere di trasformazione del territorio che non siano specificamente rivolte alla tutela ambientale e del paesaggio o per interventi in materia di difesa del suolo.

 Zona C di “protezione ambientale” dove prevale un assetto territoriale di uso agricolo, forestale e zootecnico; sono ammessi, previa presentazione di un Piano di sviluppo aziendale che ne descriva le motivazioni, aumenti della superficie utile per le residenze funzionali all’attività agricola e/o per fabbricati di servizio all’attività agricola.

 Zona di Pre-parco costituita da aree più intensamente modificate dai processi di antropizzazione. Assolve alla funzione di relazione tra Parco e territorio esterno. In questa zona per le costruzioni e ampliamenti devono essere rispettati i seguenti indirizzi:

- si dovranno adottare tipologie edilizie, caratteristiche architettoniche e materiali da costruzione appartenenti alla tradizione locale e allo specifico contesto insediativo;

- si dovranno valutare le collocazioni dei nuovi fabbricati in rapporto alle caratteristiche morfologiche e ambientali dei siti;

- si dovranno prevedere interventi volti all’insediamento paesaggistico e ambientale dei nuovi fabbricati attraverso la realizzazione di adeguati allestimenti delle aree verdi di pertinenza.

 Zone di Pre-parco speciale corrispondono alle sedi dei frantoi, ad ambiti che sono sedi di cave o aree da sottoporre a piani e progetti di riqualificazione ambientale.

Al Parco spetta la gestione del territorio che costituisce la ZPS che vi è inclusa; a fronte di tale attribuzione, diventa prioritario attuare una rigorosa ricerca scientifica per disporre di dati aggiornati sulle condizioni del patrimonio naturale. Questa conoscenza risulta determinante per le procedure di Valutazione di Incidenza riguardanti i piani e i progetti da realizzare sul territorio, al fine di stabilire se gli interventi possono provocare impatti sugli habitat e sulle specie tutelate.

Caratteri geomorfologici

Il Taro è un tipico corso d’acqua appenninico; nasce ai piedi del Monte Penna (1735 m), ai confini

con la Liguria, attraversa il versante padano della catena e, dopo un tratto in pianura, si getta nel Po

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nei pressi di Gramignazzo. Le sue caratteristiche morfologiche, ideologiche e dinamiche sono quelle di un corso d’acqua a carattere torrentizio, come risulta evidente dalla misura delle portate nelle diverse stagioni.

Dal punto di vista climatico l’area è caratterizzata da un clima sublitoraneo padano, con bassa piovosità nei mesi estivi e invernali.

Il corso principale del fiume si sviluppa in direzione SW-NE fino allo sbocco in pianura (località Fornovo), dove da luogo ad un’ampia conoide alluvionale: morfologia superficiale convessa e simile nella forma a un tronco di cono che si origina per il progressivo abbandono dell’alveo in cui la sedimentazione ha provocato un certo accrescimento verticale: i canali distributori del sedimento diventano rialzati rispetto alle aree circostanti e tendono ad abbandonare l’alveo scegliendo le vicine zone depresse. Con il procedere del tempo, l’alternanza di questi processi crea, per successivi abbandoni, un ventaglio di sedimenti.

Nel Taro, la parte apicale della conoide si trova subito a valle della confluenza con il Ceno, all’altezza di Fornovo; da li, si allunga per 30 km circa aprendosi su un vasto fondovalle tipicamente pianeggiante, dove le acque del Taro scorrono sviluppando un tipo di organizzazione fluviale detta a “canali intrecciati” (fig.8).

Fig. 8 Veduta aerea di un tratto del fiume Taro con la tipica organizzazione a “canali intrecciati”.

Nella bassa pianura prosegue con un singolo canale che scorre incassato tra argini artificiali compiendo ampi e pronunciati meandri.

Sopra la conoide si snodano numerosi rami d’acqua che formano canali intrecciati separati da

numerosi ciottoli che emergono dall’acqua come isolotti a formare le cosiddette barre fluviali. I

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canali intrecciati, detti anche anastomizzati o braided, devono la loro origine all’abbondante carico di fondo trasportato dalla forza delle acque sino alle zone più prossime alla pianura (Centro Villa Ghigi, 1994).

La frequente alternanza di periodi di piena e di magra favorisce lo sviluppo di canali intrecciati. I depositi attuali dell’alveo sono costituiti da ciottoli e ghiaie misti a sabbie, le dimensioni del materiale diminuiscono progressivamente da monte verso valle come conseguenza della graduale perdita di energia delle acque. I ciottoli derivano in gran parte da calcari ed arenarie e, in misura minore, da ofioliti. I suoli della conoide del Taro sono costituiti principalmente da sabbie e ghiaie con elevata permeabilità e, localmente, da lenti argillose impermeabili che danno luogo a fenomeni di ristagno idrico.

Il greto ciottoloso del Taro è estremamente permeabile e rappresenta una facile via di infiltrazione per le acque superficiali verso le falde acquifere sotterranee. Nel corpo della conoide le falde sono localizzate negli spessori di sedimenti alluvionali permeabili e porosi (ghiaie e sabbie). Questi strati, completamente imbibiti di acqua, sono solitamente compresi fra strati o lenti impermeabili, costituiti da sedimenti fini. Le falde più superficiali sono localizzate alla profondità di 15-20 m.

La morfologia delle aree che affiancano il Taro in prossimità della pianura è legata alla storia quaternaria del fiume. L’effetto delle glaciazioni quaternarie (Pleistocene: da 2 milioni a 10.000 anni fa) nelle zone pedemontane è stato quello di alternare fasi di abbondante sedimentazione a fasi di erosione. Le glaciazioni che hanno lasciato segni leggibili nel tratto di Taro compreso nel Parco sono in particolare le ultime tre (Mindel, Riss e Würm). Per i torrenti appenninici ebbero grande significato soprattutto le fasi iniziali delle glaciazioni, durante le quali il progredire dei climi freschi e piovosi favoriva fasi di abbondante sedimentazione lungo i corsi d’acqua; in questo periodo i torrenti appenninici crearono ai piedi dei rilievi estese conoidi e piane alluvionali. I periodi glaciali veri e propri, invece, furono caratterizzati dall’abbassamento del livello marino, per le grandi quantità d’acqua immagazzinate nelle calotte glaciali; questo fenomeno provocò un aumento della capacità erosiva dei torrenti quaternari che incisero i depositi delle precedenti fasi iniziali delle glaciazioni dando origine ai terrazzi alluvionali.

I terrazzi würmiani sono oggi sospesi a circa 10 m sopra il livello del Taro perché, durante il Würm, il livello del mare scese di oltre 100 m e la linea di costa adriatica si spostò all’altezza di Ancona, determinando una forte erosione nelle regioni pedemontane e di pianura; inoltre è avvenuto il sollevamento dei settori appenninici frontali, a ridosso della pianura, che hanno consentito ai terrazzi di acquisire una posizione più alta rispetto al fondovalle (Centro Villa Ghigi, 1994).

I maggiori interventi antropici che, in tempi storici, hanno direttamente interessato il Taro sono state

le canalizzazioni a scopi irrigui e, ancora oggi, le acque del Taro vengono in più punti intercettate e

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deviate, subendo un forte impoverimento che comporta periodi di magra eccessivi e troppo prolungati. In tempi più recenti il Taro ha subito modificazioni molto pesanti per l’estrazione di materiali ghiaiosi: la grande richiesta di inerti, utilizzati abbondantemente nelle costruzioni in cemento armato e nella realizzazione di rilevati stradali, ha provocato in tutti i torrenti appenninici l’estrazione di enormi quantità di materiale ghiaioso. Il Taro non è sfuggito a questo destino e, attualmente, è uno dei corsi d’acqua in cui si svolge una delle più cospicue attività estrattive di tutta l’Emilia-Romagna.

L’attività estrattiva comporta diverse conseguenze negative: l’escavazione di ghiaia in alveo provoca la rottura del profilo longitudinale del corso d’acqua con l’innesco di intensi processi erosivi nei tratti subito a monte.

A valle di Giarola nel fiume affiorano e vengono erose argille quaternarie giallo-aranciate che, un tempo, erano sepolte sotto le ghiaie. Anche le falde acquifere diventano molto più vulnerabili all’inquinamento quando viene asportato il materiale ghiaioso superficiale.

Flora e vegetazione

Esiste una Carta della vegetazione del Parco realizzata da Biondi et alii nel 1997 in cui sono elencati i principali tipi di formazioni vegetali (tabella 1).

Tab. 1 Tipi di formazioni vegetali dell’ambiente fluviale individuati dalla Carta della vegetazione del Parco (Biondi et alii, 1997).

SIGLA TIPO DI VEGETAZIONE

Al Vegetazione erbacea del letto fluviale

Po Comunità di piante acquatiche sommerse radicante presenti in canali.

Laghi di cava e pozze con acqua stagnante situate nel letto fluviale Ph Comunità a prevalenza di piante palustri parzialmente emerse presenti

in canali, laghi di cava e pozze d'acqua stagnante nel letto fluviale Sp Arbusteti e boscaglie a salici del letto fluviale

On Boschi igrofili ripariali a salici, pioppi ed ontani Hr Arbusteti ad olivello spinoso

Xb Garighe e praterie xerofile dei terrazzi alluvionali

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Il greto

Nei tratti dove l’alveo fluviale è più largo sono presenti ampie zone interessate solo temporaneamente dall’acqua e colonizzate da estesi popolamenti erbacei. Queste zone, occupate dai depositi più grossolani del fiume, risultano particolarmente inadatte alla crescita della vegetazione:

la periodica copertura da parte dell’acqua consente la vita solo a poche piante dal breve ciclo vegetativo. Durante il periodo estivo le temperature elevate, accentuate anche dal riscaldarsi dei ciottoli, e la scarsa disponibilità d’acqua consentono la sopravvivenza solo a piante adatte a colonizzare ambienti aridi. Il greto è denso di vegetazione all’inizio della primavera, ai primi caldi estivi comincia a diventare secco e arido e rimane tale fino alle piene autunnali.

Su queste aree si sviluppa in maniera discontinua una vegetazione pioniera, con prevalenza di specie annuali che già all’inizio dell’estate hanno terminato il loro ciclo vegetativo disperdendo nell’ambiente circostante i propri semi, tra queste spiccano alcune specie ruderali, indicatrici di un certo disturbo e degrado, come la Nappola italiana (Xanthium italicum), ben riconoscibile per i frutti ovali ricoperti da lunghi uncini che risolve il problema della carenza idrica grazie all’apparato radicale molto profondo in grado di raggiungere la falda sottostante. Oltre alla Nappola compare spesso il Poligono nodoso (Polygonum lapathifolium), una erbacea dal fusto ripiegato e ramosissimo, con fiori riuniti in piccole spighette rosa chiaro.

Lungo il greto compaiono anche specie tipiche di ambienti aridi con apparato radicale ridotto, come la Viperina azzurra (Echium vulgare) con fiori blu e fusto e foglie fittamente ricoperti da peli setolosi che trattengono umidità consentendo una minore traspirazione e il Meliloto bianco (Melilotus alba), una leguminosa dalle bianche infiorescenze.

Appena sopra il livello di morbida si trovano esili arbusti di Salice rosso (Salix purpurea) e molto legato al greto è anche l’Epilobio (Epilobium dodonaei), una erbacea dai vistosi fiori rosati e dai sottilissimi frutti.

Più lontano dall’alveo, dove il suolo si fa meno grossolano, prevale il Ceppitone (Inula viscosa),

una composita dai numerosi capolini gialli ampiamente diffusa sui terreni argillosi, alla quale si

accompagna l’Artemisia (Artemisia alba) un piccolo arbusto facilmente riconoscibile per il colore

verde cinereo delle sue foglie e il marcato profumo di canfora. E’frequente osservare anche specie

che sono tipiche delle praterie e di vicini campi coltivati: la comune Piantaggine minore (Plantago

lanceolata) dalla caratteristica rosetta di foglie lanceolate a nervature parallele, il Loglio comune

(Lolium perenne) e la Carota selvatica (Daucus carota) (Centro Villa Ghigi, 1994).

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I cespuglieti a salice

Lungo il Taro i saliceti sono la vegetazione predominante: arbustivi in prossimità del greto, arborei nelle zone più arretrate. La spiccata idrofilia dei salici e la grande capacità di riprodursi sia per via sessuata che vegetativa da frammenti di rami spezzati dalla corrente, consentono a queste piante di colonizzare velocemente le sponde, contribuendo a stabilizzare i depositi alluvionali.

Le specie presenti sono il Salice rosso (Salix purpurea), il Salice ripaiolo (Salix eleagnos), entrambi a portamento cespuglioso e il Salice bianco (Salix alba) che assume aspetto arboreo; in posizione più arretrata compare anche il Salice da ceste (Salix triandra).

La componente erbacea di questi raggruppamenti è varia ed è costituita in gran parte da piante che crescono anche lungo il greto del fiume: Artemisia, Saponaria (Saponaria officinalis), Poligono nodoso e Salcerella comune (Lythrum salicaria) (Centro Villa Ghigi, 1994).

I boschi riparali

I terrazzi più sollevati rispetto al corso del fiume, invasi dalle acque solo durante piene eccezionali, sono ricoperti in modo discontinuo da una vegetazione arborea e arbustiva che forma stretti lembi di bosco (soprattutto sulla riva destra del Taro). Nella composizione dominano le specie igrofile tra cui il Salice bianco, al quale si accompagnano cespugli di Frangola (Frangula alnus) e il Luppolo (Humulus lupulus), una liana dalle foglie molto simili a quelle della vite. Al Salice bianco seguono il Pioppo nero (Populus nigra) e, sporadicamente, il Pioppo bianco (Populus alba).

Le rive più scoscese e in erosione presentano boschetti composti prevalentemente da giovani esemplari di Ontano nero (Alnus glutinosa), rari esemplari di Ontano bianco (Alnus incana), Pioppo nero e arbusti di Salice bianco.

Sui terrazzi alluvionali in prossimità di Ozzano si trovano alcune aree circoscritte usate per la pioppicoltura a cui si affiancano lembi di pioppeto abbandonati; ai bordi crescono macchie cespugliose di Rovo (Rubus caesius) e Indaco bastardo (Amorpha fruticosa), una leguminose di origine nordamericana, ormai invadente.

Solo in alcuni punti, tra Ozzano e Riccò, la composizione vegetale si fa più simile a quella dei

boschi planiziali che un tempo ricoprivano la Pianura Padana. Ai pioppi e agli ontani si associano la

Farnia (Quercus robur), l’Acero campestre (Acer campestre), l’Olmo campestre (Ulmus minor), il

Carpino nero (Ostrya carpinifolia) e arbusti di Nocciolo (Corylus avellana), Corniolo (Corpus mas)

e Biancospino (Crataegus monogyna). Purtroppo, in vasti tratti del Parco, dove l’intervento

antropico è stato più massiccio, la copertura arborea è molto ridotta e degradata: a dominare è la

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Robinia (Robinia pseudoacacia), una specie di origine nordamericana infestante (Centro Villa Ghigi, 1994).

Le zone aride dei terrazzi più bassi

Sui terreni ghiaioso-sabbiosi costituiti dal materiale depositato dal fiume in occasione delle piene maggiori, dove il suolo è permeabile, drenato e quindi asciutto, il paesaggio vegetale è rappresentato prevalentemente da ampi prati aridi intervallati da dense macchie cespugliose. Qui crescono piante erbacee o arbusti aridofili, fra questi è particolarmente diffuso l’Olivello spinoso (Hippophae rhamnoides) caratterizzato da foglie lanceolate, bianche nella pagina inferiore e, in autunno, da appariscenti e abbondanti piccoli frutti arancioni. Ai suoi piedi cresce un muschio psammofilo del genere Tortula. Vi sono altre piante xerofile come l’Artemisia, il Timo (Thymus longicaulis) e la Globularia (Globularia puntata) dagli azzurri capolini globosi. A evidenziare la particolare aridità del terreno compaiono anche succulente del genere Sedum (Sedum acre e Sedum rupestre).

Molte sono anche le graminacee annuali come l’Avena selvatica (Avena fatua) e la Sanguinella comune (Digitaria sanguinalis). Nei vasti chiari in prossimità di Oppiano compaiono: Melica (Melica ciliata), arbusti di Alaterno (Rhamnus alaternus) e Coriaria myrtifolia, legate al clima mediterraneo (Centro Villa Ghigi, 1994).

I campi abbandonati

Si tratta di aree limitate, in prevalenza sulla riva destra del fiume, ancora utilizzate come pascoli, dove crescono graminacee come l’Erba mazzolina (Dactylis glomerata) e la Gramigna (Agropyron repens). Dove l’abbandono delle pratiche colturali è avvenuto da più tempo si assiste al ritorno di una vegetazione più naturale con la comparsa di arbusti spinosi di Rosa selvatica (Rosa canina) e Biancospino, a cui si associano Ligustro (Ligustrum vulgare) e Sanguinello (Corpus sanguinea) (Centro Villa Ghigi, 1994).

Le zone umide

Ai margini del corso principale del fiume si trovano piccole aree di acqua ferma dove il ricambio è

garantito dall’acqua di falda o dal saltuario contatto con la corrente fluviale in occasione delle

piene. In questi punti si sviluppa una vegetazione discontinua, legata alla presenza più o meno

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costante dell’acqua, con Schoenoplectus lacustris, Holoschoenus australis e altre specie dei generi Cyperus e Juncus. Dove l’acqua non raggiunge profondità superiori alla quarantina di centimetri, crescono le Tife (Typha latifolia, Typha angustifolia e la rara Typha minima). In posizione più arretrata rispetto alle tife vive la Cannuccia di palude (Phragmites australis) che è indizio di una falda freatica poco profonda. Nelle acque calme crescono alcune idrofite come: la Brasca comune (Potamogeton natans), la Menta acquatica (Menta aquatica) e la Mestolaccia comune (Alisma plantago aquatica) (Centro Villa Ghigi, 1994).

Fauna

Il Parco ha un’alta valenza faunistica sottolineata in varie opere (Tornielli, 1962; Ravasini, 1994;

Centro Villa Ghigi, 1994; Aa.Vv., 1999).

Gli uccelli costituiscono senza dubbio l’elemento di maggiore interesse del Parco e vantano una lunga tradizione di indagine. In totale nel Parco sono state osservate 254 specie di uccelli, pari al 54,97% delle specie osservate globalmente sul territorio italiano. Si tratta di una percentuale rilevante che mostra chiaramente la ricchezza naturalistica e la potenzialità ambientale di quest’area. Di queste: 211 specie sono migratrici (l’83% del totale), 87 specie sono nidificanti (il 34%), 97 specie sono invernali (il 38%), 41 specie sono sedentarie (il 16%) (Ravasini, 1994). La lunga valle del Taro è stata sempre, per gli uccelli migratori, un’importante via di transito tra la Padania e il Tirreno, rappresentando un agevole corridoio per attraversare gli Appennini e un luogo in cui sostare durante le migrazioni.

Il fiume e le fasce fluviali contengono ambienti molto diversi tra loro che creano una elevata eterogeneità del territorio permettendo la presenza di numerosissime specie animali e vegetali dalle più disparate esigenze ecologiche.

Molte le specie che sono comprese negli elenchi di convenzioni internazionali e direttive della Comunità Europea e che hanno all’interno del Parco popolazioni nidificanti di rilievo a livello regionale e nazionale.

Qui di seguito sono descritti alcuni elementi faunistici presenti nel Parco.

La fauna delle acque

Sono presenti specie elencate nell’Allegato II della Direttiva Habitat, come: la Cheppia (Alosa

fallax), il Vairone (Leuciscus souffia), il Barbo (Barbus plebejus), il Cobite (Cobitis tenia).Altre

specie più frequenti sono la Lasca (Chondrostoma toxostoma), il Cavedano (Leuciscus cephalus), il

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Ghiozzo (Padagobius martensi) e l’Anguilla (Anguilla anguilla). È presente, quindi, una comunità di Ciprinidi reofili abbastanza articolata in cui, tuttavia, le singole specie risultano numericamente poco rappresentate (Zanichelli, 2001). La fauna ittica ha risentito delle alterazioni alla morfologia originaria del fiume, causate dall’escavazione in alveo e dell’inquinamento delle acque.

La fauna del greto e delle sponde

Sul greto nidificano: la Sterna comune, il Fraticello, il Corriere piccolo (Charadrius dubius), l’Occhione. Altre specie molto caratteristiche sono il Culbianco (Oenanthe oenanthe) e la Ballerina bianca (Motacilla alba) che nidificano nelle cavità di ceppi e tronchi morti trascinati e spiaggiati dalla corrente. Numerose specie, inoltre, frequentano il greto durante tutto l’anno per ragioni alimentari, come l’Airone cenerino (Ardea cinerea) e il Gabbiano reale (Larus cachinnans).

In seguito all’erosione di grandi depositi di sedimenti fini da parte della corrente, sulla riva del fiume si formano spesso scarpate molto ripide; questo particolare tipo di ambiente è utilizzato da alcune specie di uccelli come: il Martin pescatore (Alcedo atthis), il Gruccione (Merops apiaster) e il Topino (Riparia riparia), per scavare gallerie in cui nidificare.

Il serpente più comune lungo il fiume è la Natrice dal collare (Natrix natrix); tra i ciottoli del greto si osservano, inoltre, la Lucertola muraiola (Podarcis muralis) e la Lucertola campestre (Podarcis sicula), ambedue depongono le uova sotto un sottile strato di sabbia nelle zone più elevate del greto.

La fauna delle zone umide

Dopo la comune Gallinella d’acqua (Gallinula chloropus), l’uccello acquatico più abbondante nel Parco in tutti i periodi dell’anno è il Germano reale (Anas platyrhynchos). Molto significativa è la nidificazione della Marzaiola (Anas querquedula), specie particolarmente abbondante durante la migrazione primaverile e il Moriglione (Aythya ferina).

Nel Parco sono anche presenti il Tarabusino (Ixobrychus minutus), il più piccolo degli aironi europei, l’Usignolo di fiume (Cettia cetti) e il Pendolino (Remiz pendulinus).

Tra i mammiferi sono da segnalare due specie di particolare interesse per gli adattamenti alla vita acquatica: l’Arvicola terrestre (Arvicola terrestris) e il Toporagno d’acqua (Neomis fodiens).

Tra gli anfibi importante è la presenza del Tritone crestato italiano (Triturus carnifex), specie

inserita nell’Allegato II della Direttiva Habitat; inoltre si trovano anche: il Tritone alpestre (Triturus

alpestris) e il Tritone punteggiato (Triturus vulgaris). Oltre alle specie più comuni come la Rana

verde (Rana esculenta), la Rana agile (Rana dalmatina), il Rospo comune (Bufo bufo) e il Rospo

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smeraldino (Bufo viridis), è probabile incontrare la Rana di Lataste (Rana latastei) la cui segnalazione risale, però, alla fine del secolo scorso.

La fauna dei prati aridi

Così come accade nel greto, le specie di uccelli presenti sono molto abili nel mimetizzarsi: la Starna (Perdix perdix), la Pernice rossa (Alectoris rufa), la Calandrella (Calandrella brachydactyla), il Succiacapre (Caprimulgus europaeus), abbastanza comune come nidificante nel territorio del Parco.

Tra i rettili troviamo: il Saettone (Elaphe longissima), il Colubro liscio (Coronella austriaca), l’Orbettino (Anguis fragilis), il Biacco (Hierophis viridiflavus) e il Ramarro (Lacerta viridis).

La fauna dei cespuglieti

Nelle zone dei terrazzi alluvionali si sviluppano formazioni arbustive di salici e pioppi che ospitano specie come la Sterpazzola (Sylvia communis), la Sterpazzolina (Sylvia cantillans), l’Averla piccola (Lanius collurio), il Canapino (Hippolais poliglotta), l’Usignolo (Luscinia megarhynchos) e lo Scricciolo (Troglodytes troglodytes).

E’presente la Raganella (Hyla arborea); come mammiferi si incontrano: il Tasso (Meles meles), la Volpe (Vulpes vulpes), la Puzzola (Mustela putorius) e la Faina (Martes foina) che stanno ricolonizzando la pianura dalla quale erano scomparse in tempi recenti in seguito alla cosiddetta

“lotta ai nocivi”, ora vietata.

La fauna dei boschi riparali

I boschi situati in prossimità di zone umide offrono spesso un luogo di nidificazione ad alcune specie di Ardeidi coloniali che sono soliti costruire i nidi in agglomerati chiamati “garzaie”, tra questi: La Nitticora (Nycticorax nycticorax), la Garzetta (Egretta garzetta) e l’Airone cenerino (Ardea cinerea).

Nel territorio del Parco sono presenti anche numerosi rapaci: lo Sparviere (Accipiter nisus), il Lodolaio (Falco subbuteo); tra i notturni è piuttosto frequente il Gufo comune (Asio otus). Si trovano anche la Cornacchia grigia (Corvus corone cornix) e la Gazza (Pica pica).

Le zone boscate, pur non essendo costituite da un gran numero di alberi maturi, ospitano ben

quattro specie di Piciformi: il Picchio verde (Picus viridis), il Picchio rosso maggiore (Picoides

major), il Picchio rosso minore (Picoides minor) e il Torcicollo (Jynx torquilla).

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Dove il bosco non risente di interventi umani ed è lasciato alla sua libera evoluzione, si trovano anfratti che ospitano specie nidificanti come: Cinciallegra (Parus major), Cinciarella (Parus caeruleus), Cincia bigia (Parus palustris), Codirosso (Phoenicurus phoenicurus), Pigliamosche (Muscicapa striata), Picchio muratore (Sitta europaea), Rampichino (Cerchia brachydactyla) e rapaci notturni come l’Allocco (Strix aluco) e l’Assiolo (Otus scops).

Inoltre è da segnalare la presenza del Moscardino (Muscardinus avellanarius) e di varie specie di Chirotteri che traggono vantaggio dalla presenza di anfratti naturali che utilizzano, a seconda della specie, come nascondigli, luoghi di svernamento, riproduzione, riposo e deposito di provviste alimentari.

La fauna delle zone coltivate e degli abitati

Uno degli uccelli più comuni è il Fagiano (Phasianus colchicus) la cui abbondanza è da attribuire sia all’interdizione dell’attività venatoria nell’area, sia alle frequenti introduzioni di individui per scopi venatori nelle zone circostanti. Poco abbondante è la Quaglia (Coturnix coturnix) un tempo comunissima nelle zone coltivate a cereali.

Tra i Passeriformi più frequenti nelle zone coltivate sono da segnalare : la Cutrettola (Motacilla flava), il Saltimpalo (Saxicola torquata) e lo Strillozzo (Miliaria calandra). Interessante per la sua rarità nella nostra regione è la nidificazione dell’Averla capirossa (Lanius senator); un’altra specie molto caratteristica è la Passera mattugia (Passer montanus).

Nei vecchi edifici e nelle case rurali si possono trovare altre specie piuttosto tipiche come la Rondine (Hirundo rustica) e il Rondone (Apus apus). Anche il Barbagianni (Tyto alba) e la Civetta (Athene noctua) frequentano gli edifici e dipendono esclusivamente da essi per la nidificazione.

Tra le specie di mammiferi selvatici più frequenti sono da ricordare la Lepre (Lepus europaeus), il

Riccio (Erinaceus europeus), la Donnola (Mustela nivalis) e i topi selvatici del genere Apodemus.

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3.2 RICOSTRUZIONE DEL QUADRO CONOSCITIVO

L’inquadramento floro-faunistico dell’area è stato realizzato attraverso la consultazione di quanto segue:

1. Scheda Bioitaly per il pSIC – ZPS IT4020021 Medio e Basso Taro;

2. Carta della Vegetazione del Parco realizzata da Biondi et alii nel 1997;

3. Ricerca bibliografica specifica.

Quanto sopra ha permesso un preciso inquadramento dell’area di studio sotto il profilo degli elementi di interesse comunitario permettendo quindi di individuare habitat, specie animali e vegetali che compaiono nelle Direttive Habitat e Uccelli.

In particolare, per gli uccelli, è stato redatto un elenco delle specie presenti nell’Allegato I della rispettiva Direttiva ed egualmente è stato fatto per quanto concerne gli habitat di interesse comunitario presenti (vedi oltre).

Il quadro conoscitivo così realizzato è stato oggetto di validazione ed eventuale aggiornamento attraverso ricerche specifiche di campo condotte nel periodo aprile-luglio 2006 implementandolo ulteriormente con dati faunistici e floristici inediti raccolti da gruppi di lavoro operanti in base a convenzioni stipulate con il Parco Regionale del Taro stesso.

L’indagine personale ha riguardato specie di Allegato I che vedono presenti nell’area di studio popolazioni di particolare pregio quale l’Occhione (Burhinus oedicnemus).

Le altre specie di Allegato I non sono state oggetto di particolari considerazioni ed approfondimenti che superassero quanto già acquisito in letteratura per ovvi motivi di economia di indagine; sarebbe stato impossibile seguire l’andamento di presenze e di popolazione di decine di specie differenti di accertata presenza nell’area; ci si è invece concentrati sull’Occhione perché la popolazione nidificante potrebbe essere più direttamente interessata dall’opera in progetto sia per sottrazione di habitat di nidificazione che per le modifiche che l’opera potrebbe portare alla meandrizzazione fluviale, specialmente in fase di cantierizzazione.

Sulla suddetta popolazione sono stati condotti censimenti specifici adoperando la metodologie del

mappaggio e del censimento al canto che vengono qui di seguito riassunte.

(16)

3.2.1 METODOLOGIE DI CENSIMENTO E LOCALIZZAZIONE DEI NIDI

Mappaggio

Il monitoraggio è stato condotto a partire dagli inizi di aprile fino alla fine di luglio. Le osservazioni sono state effettuate principalmente durante le prime e le ultime ore di luce della giornata, quando l’occhione mostra picchi di attività diurna ed inoltre quando il riverbero, determinato dal riscaldamento dei ciottoli del greto, è minore. I siti di nidificazione sono stati individuati attraverso osservazioni condotte da punti di vantaggio situati (dove possibile) vicino o tra la vegetazione delle ripe fluviali. La localizzazione dei punti è stata determinata sulla base dei seguenti criteri:

1) riduzione al minimo del disturbo agli animali (in genere sono state privilegiate le localizzazioni più distanti dai siti di nidificazione);

2) condizioni di visibilità (sono stati preferiti i siti che permettevano di osservare ampie porzioni di greto fluviale);

3) condizioni di copertura (sono stati preferiti i siti che garantivano all’osservatore un riparo sufficiente all’interno della vegetazione);

4) facilità di accesso tramite sentieri o strade carrarecce.

Da ciascun punto di osservazione, tramite l’utilizzo di cannocchiali (20-60 × ), sono state condotte osservazioni volte a localizzare i soggetti nidificanti.

Il nido è stato localizzato direttamente oppure mediante l’avvistamento ripetuto nello stesso sito (o a pochi metri di distanza) degli adulti con il/i pulcino/i. I siti sono stati mappati sfruttando foto aeree (voli del 1999 e 2000) e tramite l’utilizzo di un GPS (Garmin GPS 12CX). Nel caso in cui l’individuazione della coppia avvenisse dopo la schiusa, la posizione del sito riproduttivo è stata determinata con un’approssimazione che probabilmente non eccede i 150 m, come testimoniato sia dai dati riportati in letteratura (Cramp, 1983; Bealey et al., 1999; Green et al., 2000), sia dalle osservazioni condotte nelle ore diurne su individui inanellati (Pollonara, 1997), sia dai dati raccolti tramite radio-marcaggio di animali adulti nidificanti (Pollonara et al., 2000, 2001). Coppie differenti, nidificanti a poca distanza l’una dall’altra, sono state distinte sia sulla base della localizzazione del nido, sia sfruttando l’attività di inanellamento con anelli colorati (Pollonara, 1999). Tutte le coppie per le quali è stato possibile raccogliere prove relative ad almeno un tentativo di nidificazione sono state indicate come coppie “nidificanti”. Le coppie per le quali non è stato possibile raccogliere prove dirette di nidificazione, ma che sono state localizzate più volte nel medesimo sito nel corso della stagione riproduttiva sono state indicate come coppie “residenti”.

Considerando le difficoltà insite nella localizzazione degli occhioni, a causa della loro estrema

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elusività, nonché della copertura disomogenea del territorio, il numero totale di animali rilevato tramite mappaggio deve essere considerato come una stima di minima della popolazione nidificante che insiste sul territorio del Parco del Taro.

Censimento al canto

Gli occhioni sono caratterizzati da un’attività di “canto” crepuscolare e notturna piuttosto intensa durante il periodo della nidificazione, specialmente nelle sue prime fasi (Cramp & Simmons, 1983).

La metodologia di conteggio adottata è stata quella del censimento per punti o stazioni di ascolto (Bibby et al., 1992), assai diffusa nell’ambito del monitoraggio delle specie ornitiche (Reynolds et al., 1980). I vantaggi di questa metodologia sono diversi. In primo luogo si deve considerare la semplicità operativa nell’individuazione di una serie di stazioni di ascolto disposte in maniera casuale o sistematica all’interno di ambienti complessi, caratterizzati da diverse tipologie di habitat strettamente ingranate l’una nell’altra, oppure in ambienti piuttosto chiusi e non completamente accessibili (Bibby et al., 1992). Inoltre, i periodi di attesa in un punto consentono di aumentare la probabilità di contattare gli animali e questo rappresenta un fattore particolarmente critico nel caso degli occhioni, che emettono un numero relativamente scarso di vocalizzazioni per unità di tempo.

Quest’ultimo elemento, nonché la difficoltà di organizzare all’interno del territorio del Parco un numero sufficiente di transetti lineari prossimi alle ripe fluviali, hanno rappresentato i fattori critici della scelta.

Il censimento al canto è stato condotto nell’aprile 2006, come continuazione di una ricerca iniziata

sin dal 1999; questo periodo corrisponde alla fase d’insediamento degli occhioni nei siti riproduttivi

ed all’inizio della cova (Pollonara et al., 2000, 2001), periodo in cui emettono il maggior numero di

richiami e quindi possono essere più facilmente contattati. La scelta di questo protocollo di

censimento è stata motivata in gran parte dall’andamento stagionale dell’attività di canto degli

animali, caratterizzato da una fase di picco che precede le deposizione, una diminuzione rilevante

durante la cova e l’allevamento dei piccoli ed un ripresa all’involo dei giovani (Cramp, 1983). La

distribuzione dei punti è stata scelta in modo da coprire l’intero tratto fluviale incluso nel Parco,

evitando di concentrare in maniera eccessiva le varie stazioni di ascolto, onde ridurre la probabilità

di doppi conteggi. Considerata la difficoltà di distribuire i punti in maniera propriamente casuale,

come richiesto dalle procedure standard di campionamento (Buckland et al., 1993; Sutherland

1996), a causa del tipo di sviluppo dell’area interessata dal censimento (l’asta fluviale), si è optato

per una distribuzione sistematica dei medesimi, rapportando lo sforzo di campionamento

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all’ampiezza del greto. Inoltre, le oggettive difficoltà di accesso al greto fluviale, specialmente durante le ore notturne, unite al potenziale disturbo che ne sarebbe derivato per gli animali, hanno indotto a selezionare siti di ascolto collocati lungo o nelle immediate vicinanze delle strade carrarecce che costeggiano il fiume. Questa scelta, se da un lato consente di campionare in maniera omogenea e operativamente praticabile l’area di studio, può influenzare in maniera sensibile l’indice di densità restituito dal censimento, attraverso una stima errata della variabilità del parametro in esame (Buckland et al., 1993).

I conteggi sono stati effettuati nell’intervallo compreso tra un’ora prima del tramonto ed 80 minuti dopo. In questo periodo, come ricordato in precedenza, gli animali sono particolarmente attivi nell’emissione dei richiami e non si sono ancora allontanati in maniera sensibile dai siti di nidificazione per andare a foraggiare nelle aree agricole circostanti. Questo periodo coincide anche con quello di maggiore attività di questi uccelli nelle le ore diurne e crepuscolari, durante il quale gli uccelli possono spostarsi anche in maniera consistente all’interno del greto (Pollonara et al., 2000). Ciò pone ovvie difficoltà legate soprattutto alla localizzazione degli individui che richiamano e all’eventualità di doppi conteggi. Tali problemi trovano una parziale soluzione nell’elevato grado di sincronia delle emissioni acustiche degli animali di un’area (in Cramp, 1983 si parla di veri e propri “cori”), che consente di stimare in maniera abbastanza affidabile il numero di occhioni effettivamente impegnati nei richiami, nonché la loro localizzazione approssimativa. Il periodo di ascolto per ciascuna stazione è stato di 20 minuti, un periodo di compromesso tra la necessità di contattare il maggior numero di individui e quella di ridurre il più possibile la probabilità di doppi conteggi. La relativa lunghezza del periodo (si veda Bibby et al., 1992 per una valutazione) è stata determinata dalla scarsa frequenza di emissione delle vocalizzazioni da parte degli occhioni.

Le stazioni di ascolto sono state suddivise in gruppi di consistenza variabile in base alla raggiungibilità dei medesimi durante un’unica giornata di censimento ed al periodo disponibile per il conteggio medesimo (media del numero di stazioni per gruppo ± DS; anno 2000: C1 = 4.5 ± 1.0 n

= 6, C2 = 3.1 ± 0.6 n = 9, C3 = 3.3 ± 1.5 n = 8; anno 2001: 2.9 ± 0.6 n = 15). Questi gruppi

comprendevano siti vicini, ma alternati (distanti tra loro quindi ca. 800 m), onde ridurre la

possibilità di doppi conteggi durante una singola giornata di censimento. Le stazioni di ciascun

gruppo sono state censite in una sola giornata di rilievo, avendo cura di distribuire in maniera

casuale i vari gruppi, in rapporto alle date di censimento. Questo protocollo è stato adottato al fine

di controllare l’effetto delle condizioni proprie della giornata di rilievo sulla stima della densità,

consentendo però di visitare un numero di siti per serata tale da limitare i tempi del conteggio entro

un periodo relativamente ristretto.

(19)

In ciascun punto è stato annotato il numero totale di richiami ascoltati nel sito (allo scopo di quantificare l’attività di canto), nonché la localizzazione approssimativa degli individui che li emettevano su foto aree in scala 1:12,500 (anno del volo: 2000). Inoltre, sono stati annotati l’intensità del vento secondo la scala Beaufort (B, 12 livelli) e la copertura del cielo espressa in quarti. Considerando le condizioni ambientali proprie del rilievo (sostanziale assenza di contatto visivo con gli animali e con altri punti di riferimento in greto), la localizzazione dell’animale contattato non può essere considerata precisa, pur potendosi giovare di foto aree sufficientemente aggiornate. Questa difficoltà di localizzare precisamente i singoli individui, ci ha indotto a adottare una metodologia di conteggio basata sul raggruppamento dei dati raccolti in due fasce di distanza (Metodo di Conteggio Binomiale o MCB; Bibby et al., 1992; Buckland et al., 1993). Seguendo questa tecnica, gli individui censiti sono stati classificati in “vicini” oppure “lontani” a seconda che la loro distanza dall’osservatore fosse minore oppure maggiore di 350 m. L’efficienza di questo metodo è ca. il 65%-80% di quella di metodiche più raffinate (Buckland et al., 1993) e può quindi essere considerata buona per scopi generali. Tale efficienza però, oltre a dipendere dalle assunzioni critiche per l’applicazione di una qualsiasi tecnica di censimento per punti di ascolto (elencate in Bibby et al., 1992), è fortemente condizionata dalla necessità di dovere assumere a priori il tipo di relazione tra la probabilità di venire in contatto con un individuo e la distanza dal rilevatore. La presenza di due sole fasce, infatti, non consente di parametrizzare questo tipo di relazione, imponendo quindi la necessità di scegliere un modello plausibile indipendentemente dai dati raccolti. Il modello su cui si basa MCB, che si è dimostrato sufficientemente realistico nella gran parte dei casi, è quello definito “half-normal binomial” (Buckland et al., 1993), che è espresso analiticamente dalla:

[ ( )

2

]

exp r σ

p = −

dove p è la probabilità di avvistamento di un individuo, r è la distanza dall’osservatore e σ è una costante che determina la forma della curva.

Gli errori che possono derivare da una scorretta applicazione di questo modello possono essere

anche consistenti e questo sottolinea la necessità di comparare la stima ottenuta con quella fornita

da altri tipi di conteggio. Bisogna comunque ricordare che gli errori legati al tipo di contattabilità

degli animali tendono spesso a rimanere costanti nel corso degli anni, consentendo quindi di

utilizzare i risultati prodotti da MCB come indici ripetibili di abbondanza relativa.

(20)

3.2.2 ANALISI DI DENSITÀ DEI NIDI (METODO DI KERNEL)

I dati relativi ai nidi del 2000, 2001, 2004, 2005, 2006 sono stati inseriti nel programma Arcview GIS, da questi è stata stimata la densità dei nidi di occhione nell’area interessata dai lavori di costruzione del ponte e sono state identificate le aree di maggiore attività.

La stima di densità di kernel è una tecnica di analisi spaziale realizzata a partire da fonti di dati vettoriali di tipo puntiforme generando delle “griglie” (grids) classificate in base ad attributi numerici associati. Gli stimatori di densità di Kernel appartengono alla categoria degli stimatori non parametrici: non hanno una struttura fissa e dipendono da tutti i punti di riferimento per ottenere una stima.

Essa viene rappresentata, in genere, con dei countour plot o con griglie a gradazione di colori.

La densità o intensità della distribuzione del punto x è definita dall’equazione:

dove:

f(x) = densità della distribuzione dei punti misurata nel punto x;

n = numero di localizzazioni;

K = funzione di kernel, (determina la forma delle bande);

h = ampiezza di banda (smoothing parameter o bandwidth) che può essere definita come il raggio del cerchio generato dall’intersezione della superficie, entro la quale la densità del punto sarà valutata, con il piano che contiene l’area di studio (determina il grado di “lisciamento” della mappa stimata).

Per una migliore valutazione della densità dei nidi sono stati usati i seguenti parametri:

 “Output grid cell size” = 40 m

 Numero di righe = 250

 Numero di colonne = 431

 Raggio = 300

 Classe = 15

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3.2.3 CREAZIONE DEI BUFFER

I buffer da me creati, presenti nelle figg.20 e 32, vogliono rappresentare la zona di disturbo sul greto dei lavori che interesseranno la fase di cantierizzazione del ponte.

In tale situazione, la zona di disturbo sul greto (buffer) è stata giudicata, secondo quanto riportato nella figura 20, estesa per 2000 metri a monte del ponte. Questa scelta è stata effettuata considerando che, a monte della posizione futura del manufatto, il greto sarà interessato direttamente da un guado provvisorio (stagionalmente realizzato e rimosso), dagli argini di deviazione delle acque (stagionalmente realizzati e rimossi), dall’attraversamento di automezzi di trasporto materiali di scavo del guado in località Maraffa, dal loro transito ulteriore dal guado fino a raggiungere i luoghi individuati per lo stoccaggio dei materiali.

Analogamente, a valle del manufatto, il greto sarà interessato da un guado provvisorio (stagionalmente realizzato e rimosso) e dal transito di automezzi di trasporto di materiali di scavo in riva sinistra. In tale situazione la zona di buffer si giudica estesa per 1500 metri (fig.20).

Per quanto riguarda la situazione dei siti di nidificazione del 2006, poiché il progetto dell’opera è stato ridimensionato, si è scelto un buffer di dimensioni minori per rappresentare la zona di disturbo sul greto. Il nuovo buffer è stato costruito di 800 m, sia a monte che a valle, a partire dall’asse del tracciato del ponte (fig.23).

Il tracciato del ponte è stato rappresentato grazie al mappaggio, tramite GPS, del guado già esistente

nel mese di luglio 2006. I dati sono stati inseriti in nel software Arcview GIS per la creazione di

modelli di relazioni spaziale, per la mappatura delle aree sensibili e con perdita di habitat.

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