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OLTRE IL BENESSERE: GLI ANIMALI D ALLEVAMENTO MERITANO RISPETTO. Documento di posizione di Slow Food sull allevamento

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Documento di posizione di Slow Food sull’allevamento

2021

OLTRE IL BENESSERE: GLI ANIMALI

D’ALLEVAMENTO MERITANO RISPETTO

(2)

A cura di

Jacopo Goracci, Yael Pantzer, Raffaella Ponzio, Pietro Venezia, Anna Zuliani Con il contributo di

Adriaan Antonis, Annalisa Audino, Elena Bichi, Salvatore Ciociola, Bosse Dahlgren, Moshe David, Emma Della Torre, Ólafur Dýrmundsson, Rupert Ebner, Alessandro Fantini, Giampaolo Gaiarin, Nitya Ghotge, Serena Milano, Michele Nardelli, Luca Nicolandi, Mauro Pizzato, Dominique Plédel Jónsson, Roberto Rubino, Sujen Santini, Piero Sardo, Luca Vernetti.

Supervisione scientifica

Luca Maria Battaglini, Salvo Bordonaro, Cesare Castellini, Andrea Cavallero, Rebeca García Pinillos, Giampiero Lombardi, Francesco Sottile, Martina Tarantola, Massimo Todaro.

Layout Claudia Saglietti

Foto© Alberto Peroli, © Slow Food Archive, © Valerie Ganio Vecchiolino, © Wendy Barrie, © Tenuta di Paganico, © rootsofafrika.co,

© Claudia Saglietti, © Luca Gilli, © Jean-Baptiste Martin, © Ivo Danchev, © Tripodphoto, © Marco Del Comune, © Federica Bolla,

© Stefan Abtmeyer, © Raffaella Ponzio, © Giuseppe Fassino, © Fabio Liverani, © Paolo Andrea Montanaro

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INDICE

Introduzione

Una sola salute, un solo benessere Dove comincia il benessere animale Gli animali

L’alimentazione Curare gli animali La macellazione Il trasporto

Etichettare il benessere animale

Carne sintetica - una soluzione o una minaccia?

Le politiche legate al benessere animale nell'Unione europea:

a che punto siamo e dove siamo diretti?

Cosa chiede Slow Food ai decisori politici I progetti di Slow Food

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“I corpi degli animali da fattoria sono modellati secondo le necessità industriali.

Trascorrono la loro intera esistenza come ingranaggi di una gigantesca filiera di produzione e la lunghezza e qualità della loro vita sono determinate dalla logica del profitto.”

Yuval Noah Harari1

1 Yuval Noah Harari (2014). Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bompiani

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INTRODUZIONE

Da più di 10.000 anni gli animali addomesticati vivono accanto a noi. Dopo il cane, ovini, caprini e bovini hanno condiviso per millenni la loro vita sulla terra con gli umani.

Animali che non avrebbero avuto scampo liberi nella natura, perché di taglia ridotta, privi di artigli e a volte di corna, non particolarmente veloci e agili, incapaci di arrampicarsi, mansueti, sono sopravvissuti alla inesorabile selezione naturale fino a diventare molto più numerosi degli animali selvatici, perché l’uomo li ha addomesticati, protetti, nutriti, curati. Li ha aiutati a so- pravvivere in cambio del loro aiuto nel lavoro dei campi e nei trasporti, della lana per coprirsi e riscaldarsi e del latte, delle uova e della carne per nutrirsi. Li ha selezionati nel tempo per ottenere esemplari più produttivi, più specializzati e adatti ai territori, preservando le specie e moltiplicandone le razze.

Questa attività di selezione e di tutela ci autorizza a considerare gli animali domestici nostra proprietà? In altre parole: gli animali hanno diritti? E gli umani hanno doveri verso gli animali a prescindere dal fatto che essi abbiano o no dei diritti?

Non sono domande retoriche, in base alle risposte che diamo a queste domande definiamo il grado di benessere che siamo disposti a garantire agli animali domestici, e a giustificare o meno la loro macellazione.

Sono questioni che riguardano anche, sia pur in modo diverso, gli animali selvatici e gli animali che usiamo per il nostro divertimento, nei circhi equestri, negli sport.

J.M. Coetzee, premio Nobel per la letteratura e animalista convinto, mette in bocca al personag- gio suo alter ego Elizabeth Costello parole definitive: “In passato la voce dell’uomo doveva contrapporsi al ruggito del leone, al mugghio del toro. L’uomo andava in guerra contro il leone e il toro e dopo molte generazioni ha vinto questa guerra una volta per tutte. Oggi queste creature non hanno più potere. Agli animali è rimasto solo più il silenzio con cui contrapporsi a noi” 2.

Il silenzio dei prigionieri, aggiunge.

Prigionieri, ecco lo stato degli animali domestici, inoffensivi, e quello più reattivo ma a rischio di estinzione degli animali selvatici.

Prigionieri, e viene spontaneo pensare agli allevamenti intensivi, da migliaia di capi, spesso rinchiusi in gabbie, alle situazioni di privazione della libertà e di sofferenza che vivono milioni di animali allevati per la nostra alimentazione quotidiana. Nonostante le leggi abbiano inconte- stabilmente riconosciuto agli animali la capacità di provare emozioni e il diritto a non provare sofferenza, paura, ansia, fame, in molti allevamenti del mondo gli animali non hanno diritti.

Sarebbe meglio rinunciare ad allevare?

Una scelta così radicale comporterebbe l’estinzione di intere specie e razze, che esistono solo in quanto funzionali all’alimentazione umana e all’agricoltura. La stessa agricoltura, inestricabil- mente legata all’allevamento, dovrebbe essere sostenuta da un grande impiego di chimica per essere sufficientemente produttiva.

I territori pascolati per secoli perderebbero biodiversità, perché la ricchezza delle specie ve- getali e aviarie selvatiche e anche la vita stessa del sottosuolo è arricchita dai ruminanti. Tutto l'equilibrio dell'ecosistema ne risentirebbe.

2 J.M.Coetzee (1999) La vita degli animali, Adelphi

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Si perderebbero patrimoni culturali e identità di intere comunità, in occidente come nelle comu- nità pastorali del sud del mondo.

Paradossalmente, fare a meno degli animali ci porterebbe più lontano dalla natura, in un mo- mento storico in cui vorremmo invece riavvicinarci e riconciliarci, riconoscendole rispetto e cura.

Quello di cui non possiamo fare a meno oggi è ridurre drasticamente il consumo di carne, e trovare un modo diverso di allevare per rendere accettabile la nostra relazione con gli animali, garantendo loro una vita degna di essere vissuta, il più possibile vicina allo status originario della specie e, infine, dare loro una morte inconsapevole.

Fare un passo in avanti rispetto alla totale indifferenza che l’umanità per secoli ha riservato alla condizione animale e che oggi, in larghi strati della popolazione, si sta sgretolando.

Un sentimento nuovo, il disagio, sommuove il profondo del sentire sociale, unito a una crescen- te inquietudine nei confronti del mondo animale. Stiamo parlando per ora solo di una parte della popolazione, ma il cambio di paradigma è ben visibile e tende a crescere.

Chi, come Slow Food, crede che le condizioni di vita e di allevamento degli animali destinati al consumo umano debbano migliorare radicalmente, deve promuovere e sostenere questo muta- mento.

È il momento di riconoscere rispetto agli animali.

Preferiamo usare la parola rispetto che riteniamo più adeguata di “benessere animale”. Be- nessere animale è un termine abusato con il quale attribuiamo agli animali sensazioni umane osservando la loro vita con occhi inevitabilmente estranei.

Non bastano appelli, campagne di comunicazione per invocare leggi sempre più severe: occorre tradurre questo disagio in consapevolezza, occorre agire, scegliere. Prospettare come destino per questa nostra civiltà vacillante nel rapporto uomo-animale un approccio non fondamentali- sta, ma forte e condiviso, dove a dominare siano rispetto ed empatia, dove trovare il coraggio di non voltarci da un'altra parte, facendo finta di non sapere cosa accade ogni giorno agli animali che alleviamo per il nostro nutrimento.

Piero Sardo Presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus

(7)

Abbiamo scritto questo documento per riassumere la posizione del nostro movimento sull’allevamen- to nei suoi molteplici aspetti e implicazioni: ambientali, salutistici, sociali, etici, normativi, culturali, delineando le pratiche in cui ci riconosciamo e che vogliamo promuovere e salvaguardare con i nostri progetti e la forza della nostra comunicazione.

Non abbiamo trattato, per il momento, gli aspetti legati al benessere animale delle specie ittiche e delle api che saranno oggetto di un futuro aggiornamento del documento.

Una sola salute, un solo benessere

Anche se nella maggior parte dei paesi del mondo si alleva ancora in modo tradizionale e i siste- mi pastorali costituiscono il fondamento di molte economie rurali, la maggior parte della carne e del latte consumati sul pianeta sono prodotti nei paesi industrializzati con sistemi intensivi.

L’allevamento industrializzato degli ultimi settant’anni, spinto dalla domanda di carne e latticini in continua crescita, ha prodotto allevamenti sempre più grandi e inquinanti. Bovini, suini, pol- lame vivono una vita breve e innaturale in stalle affollate, dove lo stress e la sofferenza possono essere condizioni costanti.

In questi sistemi il pascolo è raramente possibile e l’alimentazione è integrata in modo im- portante da cereali, soia e insilati di mais. I luoghi di allevamento si sono allontanati geogra- ficamente dai luoghi di coltivazione di cereali e leguminose. La riproduzione animale è quasi sempre artificiale e si fonda su seme di proprietà di poche multinazionali. Carni e animali vivi sono trasportati su lunghe distanze, anche intercontinentali.

Il sistema industriale ha travolto i piccoli allevatori, molti dei quali vivono e lavorano con grandi difficoltà in territori marginali, nonostante il loro lavoro sia indispensabile per conservare l’e- quilibrio del territorio e preservare un’agricoltura di qualità.

L'allevamento intensivo industrializzato oggi riguarda più del 70% della carne di pollame, il 50%

della carne di maiale, il 40% della carne bovina3 e il 60% delle uova prodotte nel mondo.

Il numero dei capi allevati è cresciuto, sia a livello dei singoli allevamenti che a livello globale, spinto dalla domanda soprattutto dei paesi occidentali ma oggi è in rapido aumento anche nei paesi emergenti. Le conseguenze ambientali del sistema zootecnico industrializzato sono gravi.

Secondo la FAO, l’allevamento e i sistemi agricoli monocolturali, in larga parte collegati, produ- cono a livello globale il 14,5% dei gas serra4.

Il 60% delle malattie infettive emergenti è rappresentato da zoonosi, cioè malattie che si tra- smettono dagli animali all’uomo: dal primo caso di influenza aviaria, verificatosi nel 1878, all’HIV, all’Ebola, fino al Covid-19, e negli ultimi 80 anni sono in crescita. Il rischio di insorgenza di malattie zoonotiche è aumentato nelle zone tropicali, dove l'uso del suolo cambia più veloce- mente e dove la fauna selvatica entra così più facilmente in contatto con le comunità umane. La pressione umana sugli ecosistemi incontaminati e l’allevamento intensivo (i più a rischio sono gli allevamenti intensivi di polli o di suini), con grandi numeri di animali a bassa variabilità genetica, sono un binomio eccezionalmente efficace per l’emergere e la rapida diffusione delle zoonosi5.

E’ necessario cambiare paradigma e considerare che il benessere degli animali allevati è stret- tamente interconnesso con la salute delle persone e dell’ambiente (Garcia Pinillos, 2018): la

3 https://www.ciwf.org.uk/media/3640540/ciwf_strategic_plan_20132017.pdf 4 https://www.fao.org/3/CA2607EN/ca2607en.pdf

5 https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/18288193/

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fattoria, nella sua interezza e complessità, è infatti non solo un elemento cardine per la produ- zione di cibo ma anche per una soluzione positiva delle sfide che l'umanità sta affrontando sul cambiamento climatico, salute e biodiversità6.

Possiamo pensare ad animali sani e belli allevati da persone frenetiche, aggressive o alienate e disattente? Siamo in grado di immaginare animali soddisfatti, sani e sereni in un ambiente inquinato e sgradevole?

Prendere in considerazione tutte le relazioni e le sinergie presenti in un "agroecosistema", che è il risultato dell’intervento umano finalizzato alla produzione agricola e zootecnica, è l'unico modo per promuovere il benessere fisico e psicologico dell'uomo, del bestiame allevato, e l’e- quilibrio degli ecosistemi.

Per troppo tempo si è considerato il benessere animale come un tema isolato mentre in realtà non può essere considerato se non in relazione ad altri aspetti, quali la salute degli ecosistemi e anche il benessere delle persone che allevano e che consumano i prodotti derivanti dall’alle- vamento stesso.

L’approccio One Welfare (Garcia Pinillos et al., 2016) che si sta diffondendo tra tecnici, ricerca- tori, allevatori, mette fortemente l’accento sulla necessità di operare affinchè tutte queste tre variabili siano considerate e a ognuna siano riservate attenzioni, cure e rispetto, abbandonando atteggiamenti a volte antropocentrici per considerare invece il mondo animale e i suoi bisogni con senso di responsabilità etica. Uomini, animali, ecosistemi, tutti sono egualmente parte della natura. Salute e benessere sono dunque possibili solo se garantiti a tutti.

Lo stesso sviluppo sostenibile è strettamente legato alla possibilità di innescare contempora- neamente meccanismi positivi a favore dell’uomo, dell’animale e degli ecosistemi in cui questi coesistono.

www.onewelfareworld.org

6 A conferma di questa considerazione, l’ultima Assemblea delle Nazioni sull’Ambiente (UNEA) ha approvato una risoluzione che riconosce il nesso tra ambiente, sviluppo sostenibile e benessere degli animali impegnandosi a produrre un rapporto.

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Una relazione negata

Una conseguenza generata dal sistema zootecnico industrializzato che è stata poco indagata e considerata è la frattura radicale che si è generata tra animali, umani e il loro ambiente.

Il lavoro agricolo, che in passato comprendeva sempre anche l’allevamento – una relazione stabilita tra le persone, la natura e gli animali dal Neolitico, addomesticandoli, allevandoli per ottenere cibo, indumenti, lavoro – che rappresentava una condizione dell’esistere7, è diventato nei contesti di allevamento industrializzati un’attività solo finalizzata alla produzione di un red- dito. Gli animali, trasformati in mezzi di produzione, sono un costo da sostenere in vista di un rendimento, un mero strumento, alla stregua di un mezzo agricolo. Anche il lessico è cambiato:

l’allevatore è diventato “imprenditore agricolo”, l’allevamento si definisce “zootecnia”.

La relazione degli animali con l’ambiente naturale e con l’uomo è stata stravolta.

La frammentazione degli stadi di vita degli animali, che durante la loro esistenza possono cam- biare più volte la struttura in cui sono allevati - dalla stalla in cui nascono all’azienda che si oc- cupa dell’ingrasso - fino alla tappa finale, il macello, non consente l’instaurarsi di una relazione empatica tra uomo e animale.

Il numero sempre più elevato dei capi allevati nelle stalle moderne contribuisce ad allontanare mondi che in precedenza erano complementari.

Secondo alcuni ricercatori8, il comportamento del personale addetto alla cura degli animali può incidere in modo determinante sullo stato di benessere di un animale. Chi cura gli animali deve essere in grado di anticipare i problemi, identificarli quando si sono già verificati e applicare i rimedi. Le conoscenze, le attitudini, le competenze, la formazione e la familiarità della persona che si occupa degli animali sono importanti, ma lo sono anche la motivazione e la soddisfazione personale, le condizioni in cui si lavora, le politiche e le regole organizzative aziendali, che se trascurate, aggravano la relazione con gli animali.

La formazione degli operatori non è sempre assicurata, ma è necessaria per migliorare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone che si prendono cura degli animali, con con- seguenti possibili miglioramenti nella gestione degli animali, del loro benessere e della loro produttività.

Dove inizia il benessere animale

Tutto parte dalla terra

Il ruolo della terra è fondamentale per la produzione di un’alimentazione salubre.

La presenza nei primi 25 cm di suolo di batteri, funghi, lombrichi, artropodi e molti altri micro- scopici esseri viventi è strettamente connessa all'allevamento di animali in buona salute (Aksoy et al., 2017). In un suolo sano, il peso degli organismi che vivono nel sottosuolo può essere fino a 3-4 volte superiore rispetto il carico degli animali che vi crescono sopra (Preuschen, 1983), mentre in un suolo impoverito la sostanza organica deve continuamente essere reintegrata da fertilizzanti. Un suolo che contiene meno del 2% di sostanza organica, come accade spesso nei paesi occidentali (in Italia circa l’80% dei terreni è sotto questa soglia!9), è povero, destruttu- rato e degradato, conseguenza di decenni di agricoltura intensiva, fondata su monocolture e prodotti di sintesi.

7 Mendras, H. (1967), La fin des paysans

8 https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fvets.2020.590867/full

9 https://www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/pubblicazionidipregio/suolo-radice/49-57.pdf

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Le prospettive non sono buone: il 33% dei suoli della Terra è già degradato e oltre il 90% po- trebbe esserlo entro il 205010.

Qualsiasi allevamento, anche quello più industrializzato, ha bisogno del suolo: tutti gli animali si cibano di vegetali, siano erbe e fieni dei pascoli oppure cereali coltivati in un campo.

Spesso queste colture contengono residui di agrofarmaci legati a pratiche colturali intensive e monocolture ad alto impiego di diserbanti.

La quantità di pesticidi usati nel mondo è raddoppiata dal 1990. I paesi che li impiegano mag- giormente - USA, Brasile e Argentina - sono anche i maggiori produttori di soia e mais per l’ali- mentazione animale. Questi paesi consumano il 70% degli erbicidi prodotti al mondo.

In particolare, in Brasile, il 52% dei pesticidi è usato nei campi di soia, sestuplicati rispetto al 1990 e dove si spruzza un quantitativo di pesticidi nove volte superiore a quello di trent’anni fa.

Circa la metà dei pesticidi usati per la soia e il mais sono altamente pericolosi per la salute uma- na e distruttivi per l’ambiente. Il più venduto è il glifosato, classificato dall’International Agency for Research on Cancer (IARC) come "probabilmente cancerogeno". Il paraquat, sviluppato nel 1955, è stato vietato in oltre 50 paesi, ma Syngenta e altre aziende continuano a venderlo in paesi dove la regolamentazione e i controlli sono più deboli.

Anche se i residui nelle colture non superano la soglia di pericolo indicata per l’assunzione giornaliera, preoccupa l’effetto dell’accumulo di residui nell’organismo umano nel tempo. Molti studi mettono in guardia contro gli effetti sull’uomo, sugli animali e anche sull’ecosistema deri- vanti dal consumo o dal contatto con pesticidi usati in agricoltura11.

Gli erbicidi e altre sostanze chimiche di sintesi sono inoltre responsabili della grave morìa di api12 ma anche di bombi, vespe, farfalle e altri insetti necessari ad impollinare i ¾ delle colture fondamentali per la nostra alimentazione13.

L’agricoltura industrializzata, alla base del sistema zootecnico moderno, è responsabile dell’e- rosione, della desertificazione, della salinizzazione di molti territori sui quali sono coltivati i cereali e le leguminose usate per l’alimentazione animale. La cementificazione determinata dalla costruzione di grandi strutture di allevamento concorre gravemente a impermeabilizzare i terreni.

10 FAO and ITPS, 2015; IPBES, 2018 https://www.fao.org/about/meetings/soil-erosion-symposium/key-messages/en/

11 https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2214750021001104

12 https://link.springer.com/journal/11356/22/1/page/1, https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/25063858/

13 Klein et al. (2007) “Importance of pollinators in changing landscapes for world crops”.

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Città di animali

Da molti anni la tendenza globale è aumentare i capi e ridurre il numero degli allevamenti. La Cina è all’avanguardia nella concentrazione del settore: il 25% delle aziende che allevano vacche da latte ha più di 30.000 capi, il 50% tra 1000 e 3000 vacche.

In Unione Europea quasi tre quarti (72,2%) del bestiame nel 2013 era allevato in aziende molto grandi (cioè superiori a uno standard di valutazione europeo basato sul valore produttivo di 100.000 euro). Il numero di capi allevati in grandi aziende zootecniche è aumentato di qua- si 10 milioni tra il 2005 e il 2013 raggiungendo i 94 milioni. (nota: dati Eurostat riportati in https://www.greenpeace.org/static/planet4-eu-unit-stateless/2019/02/83254ee1-190212-fee- ding-the-problem-dangerous-intensification-of-animal-farming-in-europe.pdf)

Negli USA le aziende zootecniche con più di 1000 bovini sono aumentate del 47% e sono oltre 800014.

Non c’è una relazione diretta tra il numero degli animali allevati e il loro benessere. Stalle molto grandi possono offrire condizioni strutturali confortevoli e aziende di piccole dimensioni, dove teoricamente sarebbe più facile allevare con rispetto, possono risultare invece inadeguate e causare stress e sofferenza agli animali.

Più il numero degli animali è elevato, più l’impatto dell’azienda zootecnica sul territorio circo- stante per via delle emissioni gassose e delle deiezioni è forte.

La produzione di letame varia a seconda della specie animale, della dieta e dell'età. Secondo uno studio dell’EPA (Agenzia per l’ambiente degli Stati Uniti) il carico di letame che un alleva- mento di 1000 bovini deve smaltire è circa 9.500 t. l'anno, tanto quanto una città di oltre 164 500 abitanti. Un’azienda di 2500 vacche da latte produce letame quanto una città da 411.000 abitanti. Un allevamento di 1000 tacchini produce deiezioni quanto una città di 87 700 abitanti15. Le deiezioni, comunemente sparse su campi e prati, contengono azoto e fosforo che contri- buiscono fortemente all’inquinamento delle acque superficiali e di falda. Le deiezioni spesso contengono anche residui di antibiotici e altri antimicrobici che aumentano il rischio sanitario per le comunità circostanti l’allevamento.

L’Unione Europea ha emesso una direttiva per contenere l’azoto nei terreni (Dir.676/1991) che prevede ad esempio, nel caso delle bovine da latte – la categoria più impattante - che ogni 20 q.

di peso vivo l’azienda debba disporre di un ettaro di terreno agricolo (se l’azienda è bio, oppure se si trova in zone particolarmente vulnerabili, l’azienda deve garantire ad esempio ai bovini un ettaro ogni 2 capi).

Un’azienda di mille bovine da latte dovrebbe quindi avere a disposizione almeno 250 ettari.

Ma le normative locali consentono che i terreni siano distanti tra loro anche decine di chilome- tri, rendendo complicato il controllo.

L’azoto che risulta dalle deiezioni inquina l’aria circostante l’allevamento e i campi sui quali sono sparse. La loro decomposizione rilascia metano, ammoniaca (NH3) e protossido di azoto (N2O)16.

Gli animali da allevamento (ruminanti) producono metano (CH4) per effetto delle fermentazioni ruminali ad opera dei microrganismi coinvolti nel processo digestivo. Anche se non ha un ef- fetto diretto sulla salute delle persone, il metano ha un potenziale di riscaldamento globale su

14 https://bit.ly/3emLzCR 15 https://bit.ly/3emLzCR

16 https://www.ghgprotocol.org/sites/default/files/ghgp/Global-Warming-Potential-Values%20%28Feb%2016%202016%29_1.pdf

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un arco di tempo di 100 anni pari a 28 volte la CO2, il protossido di azoto ben 265 volte17. Negli ultimi trent’anni la produzione di metano dal settore delle vacche da latte è aumentata in UE del 27%18.

BOVINI DA LATTE

BOVINI NON DA LATTE

PECORE

CAPRE

SUINI

130,2 48,1

7,2 5 1,5

METANO MEDIO (CH4 )

FATTORI DI EMISSIONE PER LA FERMENTAZIONE ENTERICA (KG CH4 /CAPO/ANNO 2019)

Ma una delle minacce più gravi per la salute delle comunità che vivono in zone ad alta densità di allevamenti intensivi proviene dal particolato atmosferico (PM).

Ricerche svolte in pianura padana, una delle zone in Europa con una maggiore densità di anima- li per km2, evidenziano che il 94% del particolato atmosferico (PM) secondario si forma quando l’ammoniaca proveniente dagli allevamenti reagisce a contatto con altri composti nell’aria.

Le PM (Particular Matter) sono fibre, particelle carboniose, metalli, silice, inquinanti liquidi e solidi che finiscono in atmosfera per cause naturali o attività umane. Le più pericolose hanno un diametro inferiore a 10 micrometri (PM10). Tra queste ci sono le PM2,5, le più leggere, che rimangono più a lungo nell’atmosfera prima di cadere al suolo e che noi respiriamo maggior- mente. Entrando più in profondità nei nostri polmoni aumentano il rischio di asma, bronchiti,

17 ibidem

18 https://www.isprambiente.gov.it/files2021/pubblicazioni/rapporti/nir2021_italy_14apr_completo.pdf (pag.206)

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enfisema, allergie, tumori, problemi cardio-circolatori19.

Il PM 2,5 è considerato il principale fattore di rischio ambientale per la salute, che causerebbe tra 3 milioni e 4 milioni di morti premature in tutto il mondo ogni anno20.

Le costruzioni (stalle, vasconi, costruzioni collegate all’allevamento..) impermeabilizzano il suolo. La copertura del suolo pregiudica la vita dei microrganismi contenuti nel terreno ren- dendolo pressoché sterile. E’ difficilissimo recuperare la vitalità di un terreno che è stato sigil- lato per anni.

C’è poi un ultimo aspetto da considerare. Più le stalle sono grandi e tecnologiche, tanto meno necessitano di operatori. La relazione tra allevatori e animali, un aspetto importante per il be- nessere animale, è ridotta al minimo. In questi contesti supertecnologici, il personale gestisce essenzialmente mezzi automatizzati per la distribuzione dell’alimentazione degli animali, per la pulizia, e non può dedicare tempo sufficiente a interagire, osservare gli animali, per capire se sono stressati, se ci sono zoppie, se vivono un disagio comportamentale o sociale. Il contatto con gli animali è mediato da sensori, che decidono quando si deve intervenire per fecondare o curare un animale.

Certamente, se l’alternativa è far seguire gli animali da personale poco formato e sensibile, magari sottopagato e quindi poco motivato, è meglio affidare alcune funzioni a dei macchinari (come ad esempio i robot di mungitura). Ma queste soluzioni sono molto costose - quindi non accessibili a tutti - e soprattutto sono funzionali a un sistema produttivo che, come già scritto in precedenza, ha come unico obiettivo l’aumento della produzione e l’abbassamento dei costi.

Ritorniamo a pascolare

Il pascolo ben gestito è fondamentale sia per un allevamento sostenibile, sia per la gestione dell’ecosistema. Rappresenta un fattore cruciale per la cura delle aree montane e per la rigene- razione della terre di pianura. Senza l’allevamento, nelle terre alte il bosco riconquista lo spazio guadagnato in passato dalle comunità umane. Il lavoro dei pastori - che prevede anche la puli- zia dei boschi, il mantenimento dell’alveo dei torrenti e la manutenzione delle opere idrauliche, come i canali di scolo e gli argini - può essere decisivo per la prevenzione di incendi e frane.

Una corretta pratica del pascolamento evita il formarsi di strati di erba secca, i quali possono agevolare lo scorrimento della neve, provocando pericolose slavine in inverno, oltre che ridurre la penetrazione nel terreno dell'acqua, rendendola meno disponibile nei paesi e nelle città a valle nel periodo estivo, e costituire materiale per la facila propagazione degli incendi.

Le erbe secche possono contribuire allo svilupparsi di incendi: ciò vale sia per i prati, che per il sottobosco: curare bene il pascolo significa anche farvi ruotare i propri animali in base alla disponibilità degli spazi e alle stagioni.

Le attività di brucatura e produzione di deiezioni generano sia maggiore biodiversità, sia erba più abbondante, grazie all’effetto rinettante sulle piante infestanti della prima e a quello conci- mante della seconda. Le deiezioni, infatti, contribuiscono al reintegro della sostanza organica e degli elementi indispensabili per la crescita delle piante (azoto in primo luogo).

19 In Lombardia e in Emilia Romagna, le regioni con l’aria più inquinata in Italia, si sono registrati più della metà dei decessi da SARS-CoV-2. Una ricerca individua negli elevati livelli di PM un fattore co-addizionale causa di letalità della malattia, vedi: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0269749120320601

20 https://www.thelancet.com/action/showPdf?pii=S2542-5196%2821%2900350-8

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I pascoli delle “terre alte” presenti in contesti in cui sarebbe complicato, o talvolta impossibile, praticare altre colture finalizzate al consumo umano, limitano inoltre la competizione alimen- tare tra animali ed esseri umani, garantendo il benessere di prati e boschi anche grazie alla presenza dell’allevamento.

In pianura, i prati stabili, purtroppo ormai rarissimi, oltre ad avere un notevole valore paesaggi- stico, supportano un alto livello di biodiversità, sia vegetale, che animale (insetti impollinatori, piccoli mammiferi, uccelli) e rappresentano una protezione importante per la salute delle falde acquifere: su questi, infatti, non si effettuano lavorazioni, per favorire lo sviluppo delle erbe spontanee, con interventi ridotti al minimo da parte dell’uomo.

Gli animali addomesticati non dovrebbero “pesare” sulla terra, ma tornare a pascolare ambienti naturali e arricchire il paesaggio agricolo, divenendone un simbolo identitario, prova tangibile della possibilità di produrre cibo in maniera eticamente corretta. Emilio Sereni nel 1961 scrive- va che “tutti i paesaggi di area vasta sono prodotti dall’uomo agricoltore, pastore e selvicoltore"21, un uomo capace di combinare il "bello" e il "buono" per la produzione di cibo attraverso una conservazione dinamica del territorio22.

Salviamo i prati stabili e i pascoli

Il terreno riservato al pascolo nel mondo, dopo aver raggiunto un picco, in tempi diversi, a se- conda dei Paesi, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, negli ultimi sessant’anni ha iniziato a ridursi sempre di più. Si è “persa” globalmente una superficie di pascolo pari alla superficie dell’Indonesia (> 8 milioni di km2). In alcune zone la riduzione dei pascoli è stata più marcata:

l’Europa ha perso il 16% dei pascoli e delle aree foraggere, una superficie pari all’intera Bulga- ria. In Australia, il paese più colpito al mondo a causa della desertificazione e del cambiamento climatico, i pascoli si sono ridotti del 32%23.

Sulle Alpi italiane il fenomeno è ancora più grave: secondo alcune stime, a partire dal 1960, si è persa un’area pari al 45% delle aree foraggere precedentemente disponibili24.

Contemporaneamente, le produzioni animali hanno continuato a crescere: tra il 2000 e il 2013 la produzione globale di carne e latte in bovini, bufali, capre e pecore è aumentata rispettivamente del 13% e del 32%25. La produzione di alimenti di origine animale è dunque “disaccoppiata” dalla presenza dei pascoli26. In Europa la diminuzione del pascolo ha avvantaggiato la riforestazio- ne, aumentata dell’8% tra il 1990 e il 2015 e le monocolture di pianura. L’avanzare del bosco (che procede a ritmi di 0,6% l’anno27) ha significato una maggiore diffusione di specie legnose, meno adatte al nutrimento del bestiame. Anche se questo può sembrare strano, ha causato una perdita complessiva di biodiversità vegetale. Questo fenomeno sembra inoltre aggravato dagli effetti del cambiamento climatico, il quale in molte aree tenderà a ridurre i pascoli di qualità: sulle Alpi si stima una perdita del 30%, aumenteranno cioè i pascoli con erbe più resi- stenti, meno interessanti da un punto di vista zootecnico, anche se utili dal punto di vista dello stoccaggio di carbonio28. La perdita di pascoli mette a rischio anche la biodiversità animale selvatica, dato che i prati stabili rappresentano un rifugio per molte altre specie di animali

21 Sereni E. (1961). Storia del paesaggio agrario italiano. Roma-Bari: Laterza 22 https://www.fondazioneslowfood.com/wp-content/uploads/2020/11/cb1854en.pdf 23 FAO. FAOSTAT data 2019.

24 Chemini C. & Gianelle D. (1999). Pascolo e conservazione della biodiversità. In: Presente e futuro dei pascoli alpini in Europa. Ed. F. Angeli; Bovolenta S. (2004). Gestione della vacca da latte in alpeggio: la sperimentazione in malga. In: Politiche e scenari dell’Unione Europea per il settore agricolo-forestale della montagna alpina. Atti del convegno. Pedavena, 12-13 March 2004.

25 Fao, 2019

26Poore J.A.C. (2016). Call for conservation: Abandoned pasture. Vol 351, Issue 6269: 132.

27 Garbarino M. et al. (2020). Contrasting land use legacy effects on forest landscape dynamics in the Italian Alps and the Apennines. Landscape Ecology volume 35: 2679–2694 28 https://doi.org/10.3390/agriculture11111047

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selvatici: alcuni uccelli vi nidificano (gli uccelli sono importantissimi perché si nutrono di insetti e quindi proteggono indirettamente le colture e la nostra salute, inoltre spargono semi), mentre gli insetti impollinatori hanno bisogno della grande varietà di fiori presenti nei prati stabili.

Slow Food sta mettendo le basi di un progetto che si propone di salvare i prati stabili agendo in due direzioni. Da una parte coinvolge gli allevatori delle pianure, incoraggiandoli a riconver- tire i loro terreni sfruttati dalle monocolture a prati polifiti e pascoli, e dall’altra si rivolge agli allevatori delle terre alte, che custodiscono le praterie alle quote più alte, sulle montagne, sugli altipiani, sulle colline, nelle aree più marginali, riconoscendo e valorizzando il loro prezioso lavoro di conservazione ambientale. La rete di Slow Food è chiamata a sostenerli, ricercando e pagando il giusto le loro produzioni.

Una soluzione alla crisi climatica

Il pascolo su prati stabili ha anche un'importante valenza ambientale poiché è in grado di fa- vorire lo stoccaggio di carbonio nel suolo in alcuni casi ancor più delle foreste (Hopkins & Del Prado, 2007)29: una tipologia di allevamento che utilizzi e valorizzi tali aree può dunque far parte della soluzione alla crisi climatica.

Il suolo è il più grande serbatoio di carbonio terrestre: la sua capacità di stoccaggio è circa 3 volte quella dell’atmosfera, ben 4 volte quelle di tutte le emissioni antropogeniche e fino a 250 volte le emissioni di combustibile fossile annuali30.

Le foreste stoccano carbonio nelle foglie, nel legno e anche nel suolo spesso a grande profon- dità, ma gli incendi, purtroppo sempre più frequenti in varie parti del mondo, inceneriscono gli alberi, liberando nell’aria in breve tempo il carbonio sequestrato. Le praterie e i pascoli stocca- no carbonio nel suolo, nel loro sistema radicale: anche se incendiate, non liberano il carbonio.

Qualora tutte le praterie fossero convertite in terreni agricoli coltivati in modo convenzionale (cioè con lavorazioni profonde del terreno e con l’impiego di fertilizzanti di sintesi ed erbicidi, con una forte riduzione nel tempo di sostanza organica) gli stock di carbonio del suolo tende- rebbero a diminuire in media di circa il 60 %31. Pratiche agricole “conservative”, cioè atte al man- tenimento della quantità di sostanza organica in un terreno - la quale è composta per circa il 58% da carbonio organico - possono essere incluse a tutti gli effetti nelle strategie di ripristino dello stato di salute dei suoli, nella riduzione del degrado ambientale e della desertificazione, incrementando la resilienza degli ecosistemi agricoli al cambiamento climatico (FAO, 2107). La ricerca sembra ormai confermare che i paesaggi pastorali hanno il potenziale per contribuire al raggiungimento della neutralità carbonica: il pascolo sembra quindi compensare le emissioni prodotte dagli animali che ne usufruiscono, proprio grazie all’effetto sequestro nel sottosuolo (“carbon sink”) della CO2.

Puntate sul pascolo significa ovviamente riconsiderare anche la genetica degli animali allevati.

Non tutte le razze sono adatte al pascolo. La razza Frisona olandese originaria lo era, mentre l'Holstein attuale, frutto di selezioni volte ad aumentarne la produttività, non potrebbe fare a meno di integrazioni.

29 Kerlin K. (2018). Grasslands More Reliable Carbon Sink Than Trees. UCDavis, en.ucdavis.edu

30 Bellieni M. et al. (2017). IL CONTRIBUTO DELLO STOCCAGGIO DI CARBONIO NEI SUOLI AGRICOLI ALLA MITIGAZIONE DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO. Ingegneria dell’Ambiente Vol. 4 n. 2: 161- 176.

31 Paustian K, Collins H.P., Paul E.A. (1997). Management Controls on Soil Carbon. Chapter in Soil Organic Matter in Temperate Agroecosystems. CRC Press.; Guo L.B. & Gifford R.M. (2002). Soil carbon stocks and land use change: a meta analysis. Global Change Biology, 8: 345-360.

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I Presìdi stoccano carbonio

Slow Food ha condotto analisi su aziende di piccola scala appartenenti ai Presìdi Slow Food con il supporto scientifico di IndaCO2 (azienda nata come spin off dell’Università di Siena, che oggi svolge attività di consulenza e comunicazione ambientale) per misurare la loro carbon footprint e il loro impatto sull’ambiente. L’impatto di allevamenti sostenibili che praticano il pascolo su prato stabile è stato confrontato con l’impatto causato da produzioni simili, ma provenienti da sistemi zootecnici industrializzati, misurando le emissioni dei processi produttivi tramite l’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment) e il loro impatto (carbon footprint) espresso in quantità di anidride carbonica (CO2-eq). Le differenze evidenziate dall’analisi sono significative, con risparmi in termini di emissioni dal 30% all’83%32.

EMISSIONI DI CO2 DI AZIENDE ESTENSIVE A CONFRONTO CON PRODUZIONI ANALOGHE REALIZZATE IN MODO CONVENZIONALE IN ALLEVAMENTI INTENSIVI *

LATTE DA FIENO VALLE DEL LESACH (AUSTRIA)

FORMAGGIO D’ALPEGGIO MACAGN PIEMONTE

RAZZA BOVINA MAREMMANA TOSCANA

UOVA DA GALLINE ALLEVATE ALL’APERTO AL PASCOLO

48 tCO2 anno

126 tCO2 anno

180 tCO2 anno

20 tCO2 anno

EMISSIONI ANNUE

46.000 km

154.100 km

36.200 km

30.200 km

RISPARMIO DI CO2 ANNUO**

tCO239 2/anno

1161 tCO2/anno

tCO7482/anno

tCO263/anno

ASSORBIMENTO ECOSISTEMA

AZIENDALE

tCO190 2/anno

1035 tCO2/anno

tCO5682/anno

tCO243/anno

COMPENSAZIONE ANNUA

-31%

-83%

-30%

-35%

RISPARMIO CO2 RISPETTO A ANALOGA

PRODUZIONE

“CONVENZIONALE”

*da: Buoni per il pianeta, buoni per la nostra salute (Slow Food/Indaco2, 2018) https://www.slowfood.com/wp-content/uploads/2018/10/ITA_Indaco_schede-1.pdf

** a confronto con la produzione di gas serra di un analoga azienda intensiva/convenzionale (per produrre la medesima quantità di prodotto) viene espresso convertendo in emissioni di un’auto che percorre un dato n. di km

32 https://www.slowfood.com/wp-content/uploads/2018/10/ING_Indaco_schede-1.pdf

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Gli animali

Il valore della biodiversità animale

In Europa e in Nord America, le razze locali sono ridotte a piccoli numeri e sopravvivono soprat- tutto grazie agli allevatori di piccola scala.

Un processo accelerato negli ultimi decenni che ha causato una grave perdita di biodiversità.

Ad esempio negli Stati Uniti, il 60% del bestiame allevato nelle grandi aziende industriali preva- lentemente per la carne, proviene oggi da tre sole razze: Simmental, Hereford e Angus. Oltre il 90% delle vacche da latte americane sono Frisone. In Italia le frisone sono il 74% (raddoppiate negli ultimi 30 anni).

Delle 7745 razze locali censite dalla FAO nel 2019, selezionate dalle comunità contadine di tutto il mondo nei secoli per garantire le migliori rese possibili in relazione alle caratteristiche dei territori 594 si sono già estinte e il 26% è a grave rischio di estinzione perché ne sono rimasti meno di mille capi. Del 67% (quasi tutte appartenenti ai paesi più svantaggiati) non si conosce la situazione e solo il 7% non sembra essere in pericolo. Il 25% delle razze avicole, l’83% delle razze bovine, il 44% delle caprine e il 50% delle suine sono minacciate di estinzione (una cate- goria immediatamente precedente al rischio di estinzione)33.

In Italia, delle 299 razze di interesse agricolo censite nei database della FAO, solo 75 non cor- rono rischi34.

Le razze selezionate producono più latte e più carne e la gestione intensiva consente meno forza lavoro: queste sono le ragioni dell’abbandono delle razze locali.

Gli Stati Uniti – secondo produttore di latte dopo l’India35 - producono il 60% di latte in più con il 30% di vacche in meno rispetto agli anni ‘60. Questo perché la produzione procapite è 2,5 volte più alta di 50 anni fa36.

Gli altri fattori che hanno contribuito alla perdita di molte razze autoctone sono l’abbandono delle aree di montagna e di campagna, gli incroci indiscriminati, l'aumento della consangui- neità o dell'inbreeding, l'introduzione di razze esotiche, la mancanza di politiche pubbliche di conservazione. Le razze importate sostituiscono spesso quelle locali, considerate meno pro- duttive, anche se difficilmente riescono ad adattarsi al nuovo ambiente: sono quindi tenute in stalla, e sono spesso trattate con maggiori quantità di farmaci, con rischi per l'ambiente e la nostra salute. Richiedono inoltre diete standardizzate e con un elevato apporto di mangimi (di cui buona parte degli ingredienti sono importati), in quanto non reggerebbero un allevamento totalmente estensivo.

Salvare le razze locali è importante per molte ragioni: economiche, ambientali, sociali e cul- turali. Nel corso dei millenni, le razze animali si sono adattate a climi e ambienti diversi e a condizioni ostili (arido, freddo, paludoso, ecc.) e a zone marginali, dove la presenza dell'uomo contribuisce a proteggere l'ambiente. Popolazioni animali geneticamente più diversificate sem- brano anche essere meno suscettibili alle epidemie su larga scala. Le razze locali - più resistenti, dure, fertili e longeve, abituate a sfruttare al meglio i pascoli poveri per millenni - migliorano le possibilità dei produttori di sopravvivere al cambiamento climatico e permettono agli animali di vivere una vita soddisfacente all'aperto.

33 https://www.fao.org/3/CA3129EN/CA3129EN.pdf 34 https://centridiricerca.unicatt.it/biodna-fondiz_2011-84.pdf

35 https://agriprofocus.com/upload/post/CAROLINE-EMOND-min_(1)1573130127.pdf 36 https://extension.umn.edu/dairy-news/dairy-industry-50-years

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Favorire le razze locali, che si sono adattate nel tempo ad aree geografiche specifiche, aiuta a preservare la biodiversità e implicitamente favorisce l’adozione di pratiche più rispettose del benessere degli animali.

Gli animali devono poter scegliere

Se l’animale pascola può recuperare la possibilità di scegliere, da tempo sottrattagli.

La zootecnia intensiva si è indirizzata da decenni verso la standardizzazione e la ripetitività, invariata nel tempo e nello spazio, delle pratiche e delle risorse impiegate (ne è un chiaro esem- pio l' "unifeed", cioè razione completa impiegata in particolare per i bovini nei sistemi intensivi:

una miscela composta da foraggi, concentrati, sottoprodotti, integratori minerali e vitaminici ed acqua).

In un modello sostenibile di allevamento, invece, l'ambiente, ricco di biodiversità, permette all'animale di selezionare a proprio piacimento alimenti e anche contesti diversi in cui brucare, becchettare o grufolare, esercitando i propri bisogni etologici e comportandosi differentemen- te in base all'età, allo stato fisiologico ed emotivo e alla stagione (Provenza, 2018). Una gestione di questo tipo è strettamente legata all’impiego di razze o popolazioni locali, le quali si sono co-evolute geneticamente con l'uomo e con l'ambiente, creando sinergie - e un'efficienza - in- superabili. Le razze iper-specializzate, invece, selezionate per vivere in stalla dipendendo da un’alimentazione a base di mangimi proteici ed energetici, se allevate in modo estensivo vivreb- bero condizioni di vita scarsamente soddisfacenti. Razze autoctone e allevamenti estensivi sono dunque strettamente legati e possono generare importanti vantaggi, anche ecosistemici, ma non sono in grado di garantire grandi quantità di cibo a basso costo.

Animali sociali

Tutti gli animali allevati sono "animali sociali": la vita di gruppo, quindi, rappresenta un'esigen- za etologica e garantisce loro benessere, appagamento, gioia. Il gioco, così come il grooming - cioè il prendersi cura l’uno dell'altro attraverso la reciproca pulizia del mantello, lo scacciarsi via le mosche o il leccarsi a vicenda - è un'attività fondamentale dell'apprendimento delle re- lazioni sociali di branco, indispensabili per la conduzione di una vita sicura e sana all’aperto (Phillips, 2007).

Anche la fase riproduttiva dovrebbe avvenire attraverso la fecondazione naturale: il ruolo del maschio adulto ha un valore fondamentale nel branco, dando stabilità gerarchica e protezione.

Bisognerebbe ricorrere alla fecondazione artificiale solo quando non è possibile (per l’utilizzo di razze a limitata diffusione con esiguo numero di riproduttori disponibili, alto rischio di con- sanguineità, estrema difficoltà nel gestire un maschio all’interno del branco) evitare i problemi precedentemente descritti, così come la trasmissione di malattie.

Questa "società animale" ha bisogno di relazioni reciproche e salde, di rapporti costanti e ar- moniosi tra animali e uomini. Gli allevatori devono conquistare la fiducia della mandria e in ge- nere dei propri animali attraverso azioni e attenzioni in grado di soddisfarne quotidianamente i diversi fabbisogni: ad esempio è importante la ripetizione di comportamenti che producono gratificazione e appagamento dei fabbisogni negli animali, perché queste azioni rappresentano un costante rinforzo positivo.

Al contrario, nell'allevamento intensivo, ferro, cemento e un uso smodato della tecnologia deli- mitano gli spazi, scandiscono i tempi e guidano i bisogni degli animali, svilendo la natura stessa

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dell’allevare e allontanando progressivamente l’uomo dalla gestione degli animali.

A volte gli animali allevati in estensivo hanno comportamenti più attivi. Tali comportamenti, chiamati “agentività” sono la conseguenza dell’aumento del livello di competenza dell’anima- le: sfruttare al meglio le risorse ambientali, evitare i pericoli e imparare dall’osservazione dei conspecifici e dalle conseguenze dei propri comportamenti sono capacità di apprendimento fondamentali, necessarie per vivere in un ambiente ricco e complesso com’è quello di un alle- vamento estensivo. L’espressione dell’agentività sembra produrre uno stato emozionale posi- tivo nell’animale: bovine che avevano imparato ad aprire un cancello per raggiungere del cibo hanno dimostrato un aumento della frequenza cardiaca proprio in relazione a tale processo di apprendimento (Hagen & Broom, 2004). Nello specifico, questa attivazione emozionale positiva sembrerebbe indicare una consapevolezza della competenza raggiunta e, quindi, un'eccitazione conseguente a tale risultato.

Mutilazioni

L’adozione di pratiche di mutilazione continua e standardizzata è un’altra caratteristica dell’alle- vamento intensivo: l’assembramento di animali in spazi confinati può infatti scatenare l’aggres- sività e certamente provoca noia negli animali che non sono stimolati dall’ambiente circostante.

Tutto ciò porta ad esercitare sugli altri animali pratiche che vanno dalla plumofagia nei polli, al mordere la coda o le orecchie nel caso dei suini, a ferire con le corna gli altri bovini o ruminanti per esprimere la gerarchia al momento dei pasti o della mungitura. Per tutte le specie la gestio- ne dei calori diventa inoltre un problema negli spazi chiusi e circoscritti.

La soluzione adottata dall’allevamento industriale è quindi tagliare il becco e le code, castrare, decornare, eliminando la parte del corpo che può essere ferita o quella che può provocare fe- rite.

Se il taglio del becco negli avicoli o la recisione della coda e il pareggiamento dei denti nei suinetti riguardano esclusivamente la tipologia di allevamento industriale, è possibile - e non infrequente - trovare altre tipologie di mutilazioni anche in allevamenti all’aperto: parliamo, per esempio, della castrazione in suini e bovini, la quale consente l’accesso al pascolo di gruppi di animali misti altrimenti difficili da controllare, oppure dell’apposizione dell’anello al naso in suini, il quale può garantire tempi maggiori di permanenza degli animali in un appezzamento, senza arrecare danni eccessivi al cotico erboso. O ancora, della frequente decornazione per evitare rischi agli allevatori.

Le mutilazioni sono in generale da condannare, e l’allevamento estensivo consente di non pra- ticarle. La decisione di non praticarle in allevamento intensivo invece comporta un’attenta re- visione di molti altri aspetti (come la densità degli animali, l’ampiezza del fronte mangiatoia, la struttura interna dei recinti, l’omogeneità dei gruppi, …), altrimenti si potrebbe causare, paradossalmente, un peggioramento della qualità della vita degli animali. Nel caso dei suini, evitare di tagliare le code può portare a un maggior numero di attacchi e quindi ferite se, ad esempio, non si garantisce loro uno spazio sufficientemente ampio in cui vivere e accesso per tutti alle mangiatoie.

Un allevamento rispettoso degli animali gradualmente passare a una gestione in grado di elimi- nare la necessità di praticare le mutilazioni37.

In merito alla castrazione, occorre considerare alcune complessità.

37 La normativa comunitaria sul benessere dei suini (Dir EU 2008/120) prevede che la caudectomia sia limitata quanto più possibile (solo il veterinario può eventualmente autorizzarlo)

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In alcuni paesi, come ad esempio in Italia e in Spagna, i suini e in alcuni casi anche i bovini, sono allevati per tempi più lunghi al fine di raggiungere un peso maggiore, funzionale alla lavorazio- ne di salumi tradizionali di qualità.

Indipendentemente dal tipo di allevamento praticato, se i suini non sono castrati i loro ormoni possono dare alla carne di alcuni maschi un odore e un sapore sgradevole, compromettendo il sapore dei prodotti trasformati.

Questo odore è causato dalla produzione di androstenone e scatòlo accumulati nel tessuto adiposo dei suini maschi in fase di sviluppo. La formazione di questo odore si può evitare con la castrazione (asportazione dei testicoli) che, se è praticata da personale adeguatamente formato, usando i necessari anestetici e antidolorifici, non ha grandi conseguenze sullo stato dell’animale.

Il 75% dei suini maschi nella UE sono ancora castrati chirurgicamente.

La castrazione evita i comportamenti aggressivi tipici dei maschi interi più irrequieti sugli altri suini dominati. Le alternative all’intervento chirurgico non sono altrettanto efficaci e pratiche ad oggi.

La somministrazione dell’ormone progesterone è praticata in alcuni Paesi, ma è giustamente proibita nella UE.

L’immunocastrazione è utilizzata in particolare nei Paesi Bassi, in Australia, Nuova Zelanda e Sud America (soprattutto in Brasile). Si tratta della somministrazione di un vaccino contenente sostanze inibenti l’azione degli ormoni maschili. Non è chiaro ancora quali conseguenze possa creare nel tempo ai consumatori. Potrebbe infatti avere conseguenze sulla fertilità umana. L’im- munocastrazione comporta anche un rischio per chi somministra il vaccino perché le iniezioni devono essere ripetute nel tempo anche su maschi adulti difficili da gestire (la difficile manipo- lazione degli animali potrebbe portare per sbaglio a iniettare il vaccino nel corpo della persona che sta praticando l’iniziezione)38.

Le corna servono

Le corna servono agli animali per diverse ragioni. Consentono loro di difendersi dai predatori, di stabilire gerarchie stabili nella mandria, di aprire varchi in un sottobosco inaccessibile per trovarvi rifugio o per partorire in sicurezza. Inoltre contribuiscono alla termoregolazione a li- vello cerebrale, grazie alla fitta rete di vasi sanguigni e di cavità areate nelle quali scorre aria ad ogni inspirazione nasale dell'animale (Neff et al., 2016). Anche per questo troviamo animali dalle grandi corna soprattutto in ambienti caldi e siccitosi, come la razza bovina Maremmana o la podolica (Presìdi Slow Food) in centro-sud Italia o la bovina Watusi in Ruanda, razza inclusa nell’Arca del Gusto.

La decornazione è praticata comunemente anche in contesti di allevamento estensivo.

Occorre, tuttavia, cercare strade alternative alla decornazione e, quando ciò risulti impossibile, è consigliato piuttosto fare ricorso a riproduttori portatori del gene polled (carattere domi- nante, utile per selezionare animali acorni). Se non si può evitare la decornazione è meglio effettuarla ricorrendo a personale veterinario formato e competente, intervenendo solo nelle prime settimane di vita dell’animale, non appena si è formato l’abbozzo corneale (con analgesia e anestesia).

38 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6912452/

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Al fresco si sta bene

Gli animali devono mantenere un’adeguata temperatura corporea in tutte le stagioni: mentre nebulizzatori, ventilatori e sistemi di circolazione forzata dell’aria risultano necessari in stalla, un allevamento estensivo può contare su sistemi differenti, a basso input, economici, che inclu- dono la biodiversità come risorsa. Foreste o alberi sparsi in un pascolo possono fornire ombra sufficiente in estate, oppure siepi frangivento e boschi riparano adeguatamente dal vento e dalle intemperie in inverno. Un pelo chiaro e corto contribuisce ad aumentare la capacità di trasferire il caldo verso l'esterno, mentre uno folto e scuro aiuta a catturare e mantenere il calore nella stagione più fredda. Inoltre, anche il “lavoro animale” può essere incluso in tale ragionamento: la scarsa capacità di termoregolazione dei suini, per esempio (loro non possono sudare!), può essere compensata dalla loro attività di grufolamento, in grado di creare autono- mamente una pozza di fango impermeabile, che mitiga il caldo estivo e controlla il numero dei parassiti che possono attaccarsi alla loro pelle.

Lunga vita agli animali

La longevità degli animali in azienda è un fattore strettamente collegato - anche se indiretta- mente - alla qualità della vita che l'allevatore è stato in grado di garantire loro: per questo è un importante indicatore del benessere animale di un allevamento (Bruijnis et al., 2013).

Alimenti di origine animale venduti a prezzo bassissimo generano economie di scala che ob- bligano gli allevatori a riformare - cioè destinare al macello - animali sempre più giovani e potenzialmente ancora in grado di produrre, ma non con i ritmi imposti dal sistema economico della zootecnia intensiva. Le vacche adulte riequilibrano l’etologia di un branco, mantengono stabili le gerarchie e trasmettono competenze fondamentali (Beilharz&Zeeb, 1982), come il rico- noscimento delle tante erbe differenti su un pascolo. “Insegnare” le tecniche di prevenzione e difesa dai predatori, conservando allo stesso tempo una buona autonomia nel parto e una forte attitudine materna.

Una bovina appartenente ad una razza specializzata per la produzione di latte, nutrita con una dieta iperenergetica a base di mangimi può produrre fino a 20 volte la quantità di latte natural- mente necessaria per la buona salute del proprio vitello: in conseguenza di tale sfruttamento, la sua permanenza media in allevamento è di soli 4 anni. Così, la selezione per una sempre mag- giore produttività ha aumentato la dimensione delle sue mammelle, le quali molte volte creano problemi persino nella deambulazione. I problemi alla schiena molte volte si aggravano anche a causa della pavimentazione delle stalle, la quale è troppo spesso molto dura o di cemento liscio e scivoloso. Per di più, le bovine da latte negli allevamenti intensivi di solito non escono mai dalla stalla, tranne forse un paio di mesi, periodo corrispondente alla fase di asciutta - cioè quando non sono in mungitura e si preparano al parto – e quando lo possono fare hanno a di- sposizione solamente su un paddock esterno dove possono esercitare un po’ di movimento, ma non il pascolamento su un cotico erboso con valore alimentare. Al contrario, una bovina di razza non specializzata e allevata con metodi rispettosi estensivi può avere una vita di 15-25 anni.

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L’ASPETTATIVA DI VITA DEGLI ANIMALI DA ALLEVAMENTO*

*Tratto da: https://www.four-paws.org/campaigns-topics/topics/farm-animals/age-of-farm-animals VITA NATURALE

ASPETTATIVE VITA EFFETTIVA Bovini

20 anni Mucca da latte

5.5 anni Toro da riproduzione 3 anni

Bovini da carne

18-24 mesi Vitello (manzo) 8 mesi

Maiale

20 anni Semina

3 anni Maiali da ingrasso 6-7 mesi

Cinghiale 2 anni

Pecora

20 anni Pecora da latte

5 anni Allevamento di pecore/ram 3 anni

Agnello allevamento intensivo

3-4 mesi

Pecora di lana 7 anni

Gallina

8-15 anni Gallina ovaiola

20 mesi Spiedo

40 giorni

Pulcini maschi 1 giorno VITA NATURALE

ASPETTATIVE VITA EFFETTIVA VITA NATURALE

ASPETTATIVE VITA EFFETTIVA VITA NATURALE

ASPETTATIVE VITA EFFETTIVA

Abolire le gabbie

Ancora oggi nella UE oltre 300 milioni di animali trascorrono tutta la loro vita - o una parte significativa - imprigionati in gabbie: dalle scrofe nelle gabbie-parto, alle galline ovaiole nelle cosiddette gabbie "arricchite", con dimensioni solo lievemente superiori alle precedenti, fino ai vitelli confinati individualmente in piccoli recinti per le prime 8 settimane di vita, distanti dal resto della mandria.

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Se la Commissione Europea ha deciso di rivedere la normativa e interdire l’uso delle gabbie entro il 2027, nel resto del Mondo la situazione è ancora grave: in Russia, Cina e Turchia, per esempio, le gabbie sono di uso comune, oppure, l'India, che è il terzo più grande produttore di uova al mondo, mantiene le galline ovaiole principalmente in gabbia, dove lo spazio a di- sposizione per ogni gallina è molto inferiore agli standard europei (o americani)39. Negli USA, il secondo produttore di uova al mondo, il 73% delle galline ovaiole è ancora allevato in batteria (320 milioni di capi); però, sembra che qualcosa stia cambiando, dato che negli ultimi 15 anni le galline ovaiole allevate a terra negli Stati Uniti sono passate dal 3% al 27% del totale40.

L'impiego di gabbie deve essere evitato, anche se relativo ad una sola fase di vita dell'animale, come nel caso delle gabbie per il parto delle scrofe. Infatti, per quanto la selezione genetica abbia cercato di creare soggetti che possano sopravvivere in gabbia, sappiamo tutti molto bene che non esistono gabbie, per quanto ben gestite, che possano garantire un soddisfacente livello di benessere per gli animali. Il movimento è uno degli aspetti più importanti per garantire agli animali una vita “degna di essere vissuta”41.

Gli animali giovani

Nell’allevamento intensivo da latte i vitelli, ma sempre più spesso anche gli agnelli e i capretti, sono allontanati dopo poche ore dal parto dalle madri per evitare che con la suzione e le prime cure materne si stabilisca un legame e che il piccolo sottragga latte alla produzione aziendale.

Per questo i piccoli sono allontanati e sistemati in gabbie individuali o box di gruppo dove sono nutriti con latte in polvere oppure, nei casi migliori, con latte naturale somministrato però da succhiatoi o raramente da vacche-balia. Il distacco e la solitudine nelle gabbie singole genera un trauma in particolare nei piccoli vitelli, che indebolisce ulteriormente il loro delicato siste- ma immunitario. Il loro bisogno naturale è di poppare dalle 8 alle 12 volte al giorno ma non essendo accanto alla madre questo non è possibile. Le loro prime settimane di vita sono spesso caratterizzate da forti diarree.

Dopo i primi due mesi da soli i vitelli sono svezzati e inseriti in recinti con altri coetanei. Per quanto riguarda i maschi delle linee da latte, sono venduti prima possibile per essere destinati alla produzione di vitelli a carne bianca.

Nell’allevamento da carne di solito invece i piccoli rimangono con la madre per un periodo di 6 mesi.

La sorte degli agnelli e dei capretti maschi è simile: sono spesso macellati quando ancora suc- chiano solo il latte materno, a poco più di 30 giorni di vita, e venduti come "agnelli e capretti da latte", e questa definizione è utilizzata come sinonimo di qualità della carne. Indubbiamente le carni a questo stadio di sviluppo sono molto morbide e tenere, ma certo non più saporite di quelle di un agnello di almeno 3 mesi che ha potuto pascolare e sviluppare carni più mature.

La gestione degli animali giovani, siano essi vitelli, agnelli, capretti o suinetti, dovrebbe esse- re oggetto di grande attenzione per l’allevatore. Questi soggetti sono animali sociali, con un forte bisogno di collettività e di relazioni visive e uditive; l’impiego delle gabbie singole deve, quindi, essere evitato, preferendo box multipli, omogenei per età e di dimensione, nei quali sia possibile un buon sviluppo psico-emotivo dei piccoli (Neff et al., 2015). Entro 6 ore dalla nasci- ta deve essere garantita un’opportuna somministrazione del colostro, ritenendola una pratica fondamentale per il benessere e la salute dell’animale, garante della trasmissione dell’immunità

39 Bracke M.B.M. (2009). Animal Welfare in a Global Perspective - A Survey of Foreign Agricultural Services and case studies on poultry, aquaculture and wildlife. Rapport 240. Wageningen UR Livestock Research Pub.

40 USDA (2020). Egg Markets Overview. USDA AMS Agricultural Analytics Division 41 D.Van de Veer, Interspecific Justice and Animal Slaughter, 1983

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materna: questa deve essere fatta il più precocemente possibile. È da preferirsi l’impiego di latte proveniente dalla stessa specie, rispetto a quello artificiale in polvere: l’impiego di balie potrebbe aiutare concretamente nel raggiungimento di tale obiettivo. L’impiego della museruo- la è da evitarsi42: il leccamento reciproco tra coetanei, il libero accesso all’acqua e al foraggio garantiscono ottime premesse per il raggiungimento di una buona e costante qualità della vita nella fase di accrescimento.

L’industria dell’allevamento di galline ovaiole sopprime ogni anno 7 miliardi di pulcini maschi di un giorno di vita43: in quanto maschi non producono uova e non è economicamente conve- niente allevarli, perché il loro accrescimento non è abbastanza rapido da consentire una buona redditività sul mercato della carne. La soppressione avviene di solito tramite soffocamento o direttamente tramite la triturazione da vivi. Le carni dei pulcini sono quindi trasformate in farina e utilizzate per l’alimentazione di altri animali.

La selezione spinta all’aumento della produttività di uova fa sì che oggi una ovaiola produca da 250 a 300 uova l’anno, mantenendo un trend utile economicamente per poco meno di due anni, dopodichè inizia a diminuire progressivamente il numero di uova deposte, e quindi normalmen- te è soppressa.

Una gallina di razza autoctona ne produce 150/180 circa e solo in certi periodi dell’anno (la produzione cala o si blocca del tutto quando fa troppo freddo o troppo caldo, quando le ore di luce si riducono e durante la muta, cioè tra settembre e ottobre).

Una soluzione potrebbe essere la scelta di ibridi dove il maschio garantisce comunque un buon accrescimento ponderale anche se questo avviene a scapito della produttività delle uova nella linea femminile. O puntare su strumenti (es. spettroscopi per ovo-sexing) in grado di compren- dere quali uova genereranno maschi prima della schiusa.

Tutti gli animali sono uguali

Molte volte in uno stesso allevamento si praticano gestioni profondamente diverse degli anima- li, che garantiscono livelli di qualità della vita altrettanto diversificati: vacche da carne al pasco- lo con vitelli all'ingrasso mantenuti in recinti in sola terra battuta, oppure, in un allevamento da latte, vacche giovani o non in lattazione allevate all'aperto, con soggetti in mungitura tenuti in stalla e alimentati con unifeed. Spesso proprio i soggetti destinati alla produzione di cibo sono gestiti in modo maggiormente intensivo e profondamente scollegati dall'ecosistema. Non si può parlare di benessere animale se in un allevamento non sono garantiti trattamenti rispettosi a tutti gli animali e per tutte le diverse fasi fisiologiche o produttive degli animali.

42 Nella Ue non è consentita la museruola (Direttiva 2008/119/CE)

43 https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0032579119310636?via%3Dihub

Riferimenti

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