UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
Facoltà di Psicologia Corso di Laurea in Psicologia
Tesi di Laurea
PSICODINAMICA DELLA DEPRESSIONE POST-PARTUM:
UNO STUDIO SULLA PREVALENZA E SUI FATTORI DI RISCHIO CORRELATI
Candidata: Relatore:
Daniela Santinon Prof.ssa Piera Brustia
Anno Accademico 2004-2005
INDICE
INTRODUZIONE
PARTE PRIMA: LA DEPRESSIONE
CAPITOLO 1 – DEPRESSIONE: CARATTERISTICHE E SINTOMATOLOGIA
1.1. La depressione endogena 1.2. La depressione psicogena
1.3. La patologia depressiva nel DSM-IV-TR (2000):
I disturbi dell’umore
1.3.1. I disturbi depressivi 1.3.2. I disturbi bipolari
1.3.3. Specificazioni applicabili al disturbo depressivo maggiore e ai disturbi bipolari I – II
CAPITOLO 2 – EZIOPATOGENESI DELLA DEPRESSIONE SECONDO IL MODELLO PSICODINAMICO
2.1. La depressione secondo un modello intrapsichico-psicodinamico 2.1.1. Sigmund Freud
2.1.2. Karl Abraham 2.1.3. Sandor Rado 2.1.4. Melanie Klein 2.1.5. Otto Fenichel 2.1.6. Edward Bibring
2.2. La depressione secondo un modello relazionale-psicodinamico 2.2.1. Sandor Ferenczi
2.2.2. René A. Spitz 2.2.3. John Bowlby
PARTE SECONDA: LA DEPRESSIONE POST-PARTUM
CAPITOLO 3 - PSICODINAMICA DELLA GRAVIDANZA E DELLA MATERNITA’
3.1. Caratteristiche psicologiche e psicodinamiche della gravidanza 3.2. Fasi della gravidanza
3.3. Caratteristiche psicologiche e psicodinamiche del parto 3.4. Caratteristiche psicologiche e psicodinamiche del puerperio 3.5. Psicopatologia nella gravidanza e nel puerperio
3.5.1. Disturbi psichici in gravidanza 3.5.2. Disturbi psichici nel puerperio
CAPITOLO 4 - I DISTURBI DELL’UMORE NEL PUERPERIO: BABY-BLUES, DEPRESSIONE POST-PARTUM, PSICOSI POST-PARTUM
4.1. Il baby-blues
4.2. La depressione post-partum 4.3. La psicosi post-partum
4.4. Conseguenze psicosociali e relazionali della depressione post-partum
4.4.1. Effetti sulla donna
4.4.2. Effetti sulla relazione col partner 4.4.3. Effetti sulla relazione con il bambino 4.5. Eziopatogenesi della depressione post-partum
4.5.1. Secondo il modello medico
4.5.2. Secondo il modello psicodinamico-psicoanalitico 4.5.3. Secondo il modello psico-sociale
CAPITOLO 5 - FATTORI DI RISCHIO ASSOCIATI ALLA DEPRESSIONE POST-PARTUM
5.1. Fattori di rischio confermati 5.2. Fattori di rischio probabili 5.3. Fattori di rischio possibili
CAPITOLO 6 - CONTRIBUTO DI RICERCA SULLA PREVALENZA DELLA DEPRESSIONE POST-PARTUM E SUI FATTORI DI RISCHIO AD ESSA ASSOCIATI
6.1. Scopo della ricerca 6.2. Metodologia 6.3. Analisi statistica 6.4. Risultati
6.5. Considerazioni conclusive
CONCLUSIONE
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
La gravidanza e la maternità costituiscono eventi di importanza fondamentale nella vita di una donna, da non ritenersi come fatti unicamente biologici, ma soprattutto come intense e significative esperienze psicologiche, capaci di implicare significati emotivi profondi e fortemente evocative del mondo interno delle fantasie e dell’immaginario individuale e collettivo. Il divenire madre può essere considerato come una determinante tappa del processo maturativo della donna, tale da comportare una totale e completa trasformazione e riorganizzazione del proprio senso d’identità e da rappresentare il completamento dello sviluppo della femminilità adulta (Scopesi, Viterbori, 2003).
Pertanto, la nascita di un figlio si configura come un avvenimento felice, ma anche come basilare momento di crisi evolutiva, di cambiamento, di maturazione psichica e di profondi mutamenti del proprio Sé, del proprio ruolo, delle proprie relazioni interpersonali (Stern et al., 1999; Brustia Rutto, 1996).
Con la gestazione si definisce progressivamente l’identificazione materna, attraverso l’accettazione e l’assunzione del nuovo compito di genitore.
Durante tale periodo la donna vive un’intensa esperienza interiore, attraversando uno stato di profonda regressione narcisistica, la quale distoglie parzialmente i suoi investimenti affettivi dalla realtà esterna in favore di un orientamento psichico verso il proprio mondo interno, funzionale all’identificazione profonda col bambino. La futura madre si trova così a dover elaborare due importanti e differenti tipologie di esperienza, la fusione e la separazione: da una condizione di ripiegamento narcisistico di tipo fusionale- simbiotico ad una graduale separazione psicologica necessaria per il riconoscimento e l’individuazione del bambino come “altro-da-sé” (ibidem).
L’esperienza della maternità si inserisce nella storia dello sviluppo psichico personale e, come tale, assume per ogni donna un significato ed una connotazione differenti; pertanto, pur rappresentando in genere il momento di massima gioia ed autorealizzazione emotiva, comporta inevitabilmente coinvolgimenti ed implicazioni affettive così profonde da configurarsi come una situazione estremamente complessa, delicata, potenzialmente portatrice di ansie, preoccupazioni, angosce. Essa appare dunque capace di riattivare
dinamiche psichiche profonde, risultando talora un’evenienza spiacevole, negativa, non voluta, non desiderata e non ricercata (Randaccio, De Padova, Fenocchio, 2003).
La mancata accettazione della gravidanza e l’incapacità di identificarsi e riconoscersi come madre possono essere determinati da vissuti psichici conflittuali consci od inconsci, legati alla struttura di personalità ed alle esperienze affettive precoci, ma anche da un contesto ambientale, culturale e socio-relazionale negativo, problematico, non supportivo, difficoltoso.
Una gestazione percepita come indesiderata, stressante o decisamente traumatica può avere ripercussioni talmente pesanti e destabilizzanti sulla psiche della donna da causare l’insorgere di difficoltà e di problematiche psicologiche, talora di tipo nettamente clinico, direttamente suscitate dall’evento precipitante del divenire madre (Monti, 2000).
Le patologie psichiche in gravidanza e nel puerperio possono essere estremamente diversificate ed eterogenee, nel periodo d’insorgenza, nelle caratteristiche e nella severità dei sintomi; solitamente consistono in fenomeni lievi e transitori, considerabili come conseguenza di un normale adattamento alla maternità, ma in una non trascurabile percentuale possono divenire particolarmente gravi e degni di attenzione terapeutica (forme nevrotiche o, con minore frequenza, quadri psicotici) (Volterra, in Pancheri, Cassano, 1999).
Tra questi gli esordi più comuni si registrano nell’ampia classe diagnostica dei disturbi affettivi. I disturbi dell’umore nel post-partum rappresentano una categoria psicopatologica la cui insorgenza risulta direttamente connessa con la nascita di un figlio, manifestandosi tipicamente nel corso dei dodici mesi successivi al parto. In letteratura, vengono distinte tre differenti tipologie cliniche di disturbi puerperali (O’Hara, 1987; Romito, 1992; Milgrom et al., 2003), disponibili lungo una sorta di continuum differenziabile in termini di gravità, manifestazione clinica, prevalenza e decorso (esordio, durata e ricorrenza):
- Baby-blues (o maternity-blues);
- Depressione post-partum;
- Psicosi post-partum.
L’argomento della presente Tesi di Laurea è costituito dalla condizione psicopatologica dei disturbi dell’umore puerperali ed, in particolar modo, dalla categoria clinica della depressione post-partum.
La depressione post-partum si definisce come una sindrome clinica caratterizzata da un quadro sintomatologico complessivamente equiparabile alla manifestazione tipica di un disturbo depressivo psichiatrico, di natura prevalentemente unipolare o anche bipolare, con sintomi tipici quali: tristezza, sofferenza, disperazione, frequenti crisi di pianto, apatia, umore disforico, sentimenti di inadeguatezza, di fallimento, di colpevolezza, paura di non essere all’altezza del ruolo di madre, ansie, fobie, timore ossessivo di poter fare del male al bambino, possibile ideazione suicidaria.
L’esordio di tale patologia tende a verificarsi nel corso dei dodici mesi consecutivi alla nascita del bambino, prevalentemente tra la quarta e l’ottava settimana del periodo puerperale. La prevalenza stimata dalle relative ricerche appare decisamente variabile, a seconda delle scelte metodologiche adottate, attorno al 10-15% (Pitt, 1968; O’Hara, 1987; Evans et al., 2001; Eberhard-Gran et al., 2004; Dennis & Boyce, 2004), al 10-20% (Chaudron et al., 2001;
Smallwood Fergerson et al., 2002; Beck, 2002) potendo estendersi in casi particolarmente problematici e difficoltosi, con una frequenza globale dal 3,5 al 30-33% (Stowe & Numeroff, 1995; Evins et al., 2000; Gale & Harlow, 2003).
Non potendo prescindere da alcune fondamentali e basilari conoscenze riguardanti i disturbi dell’affettività, il presente lavoro di Tesi è stato organizzato con l’obiettivo di offrire sia una rassegna bibliografica sul tema, sia una prospettiva di ricerca e di sperimentazione. Pertanto, la struttura generale della trattazione è costituita da due sezioni distinte: la prima parte, dedicata alla depressione, e la seconda parte, dedicata più specificatamente alla depressione post-partum. La scelta di operare tale differenziazione è stata attuata allo scopo di fornire un’esposizione della natura sintomatologica nelle diverse categorie diagnostiche dell’area depressiva, unitamente ad un tentativo di interpretazione eziopatogenetica di stampo psicodinamico; in tal modo, il discorso sulla depressione post-partum può trovare una collocazione maggiormente estesa e completa, rappresentando questa una delle possibili forme di sofferenza depressiva tra le numerose e diversificate esistenti nel panorama nosografico dominante.
La prima parte si compone, così, di due capitoli dedicati rispettivamente alle caratteristiche cliniche e alle dinamiche psicologiche profonde sottese alla genesi dei disturbi depressivi, ripercorrendo i contributi e le opere di alcuni tra i
più classici esponenti del movimento psicoanalitico, dall’epoca della nascita della psicoanalisi fino ai tempi più recenti, suddivisi in base ad una loro maggiore sensibilità nei confronti di concezioni più marcatamente intrapsichiche o più spiccatamente relazionali.
La seconda parte affronta il tema centrale e fondante del lavoro, ovvero la depressione post-partum. Particolare attenzione è stata riservata a focalizzare la discussione sia sugli vissuti psichici interiori, consci ed inconsci, sia sull’influenza del contesto ambientale e relazionale, cercando di fondare ogni affermazione riportata su di un contributo bibliografico il più possibile consistente e recente, soffermandosi soprattutto sugli studi sperimentali degli ultimi anni. La trattazione affronta l’esperienza della maternità, con riferimento agli aspetti psicodinamici e socio-relazionali della gravidanza, del parto, del puerperio, sottolineando gli indubbi vissuti di maturazione, di ridefinizione della propria identità femminile, di realizzazione personale nell’incontro col bambino e nella formazione di un intimo e profondo legame di amore tra madre e figlio;
parallelamente, si è descritta la maternità anche come esperienza critica e complessa, potenzialmente connotata di elementi negativi di rifiuto e di non accettazione, esponendo l’ampio scenario dei possibili disturbi psichici durante la gestazione e durante il puerperio.
Di seguito, viene affrontato il tema dei disturbi dell’umore puerperali e della depressione post-partum; il discorso fa riferimento alla descrizione sintomatologica e clinica, alle conseguenze sulla donna, sulla relazione madre- bambino, sulla qualità del rapporto col partner ed, infine, ad un tentativo di comprensione eziopatogenetica il più completo e multilaterale possibile, tenendo conto di modelli di riferimento di tipo medico-biologico, psicodinamico- psicoanalitico, socio-relazionale con un’esposizione dei possibili fattori di rischio psicosociali, ambientali e relazionali evidenziati dalla letteratura come gli elementi maggiormente predisponenti allo scompenso depressivo.
Il presente lavoro non vuole limitarsi ad una forma unicamente bibliografica- compilativa, ma propone un approfondimento di ricerca, attuato (tenendo conto dei limiti connessi a restrizioni di tempo, di applicazioni metodologiche, di risorse materiali ed umane) con lo scopo di indagare la prevalenza ed i fattori socio-relazionali predisponenti all’insorgenza di disturbi depressivi nelle neo- mamme.
La rilevazione dei dati è avvenuta su di un campione di 120 puerpere, utilizzando due strumenti:
- L’Edinburgh Postnatal Depression Scale – EPDS (Cox et al., 1987), un questionario validato anche sul territorio nazionale (Carpiniello et al., 1997;
Benvenuti et al., 1999) ed attualmente ritenuto uno degli strumenti di screening più utili per una valutazione delle condizioni psicoemotive delle donne dopo il parto;
- Una scheda di raccolta dati stilata con lo scopo di ottenere informazioni generali su alcuni dei fattori ritenuti dalla letteratura come maggiormente predisponenti all’esordio della depressione puerperale.
L’analisi statistica, oltre a finalità descrittive delle caratteristiche del campione, ha perseguito l’obiettivo di individuare possibili correlazioni e legami tra punteggi depressivi ed elementi psicologici e sociali di rischio.
I risultati ottenuti risultano significativi e globalmente concordi con la letteratura, pur con alcuni esiti differenti; essi forniscono dunque un contributo, in riferimento alla possibilità di un confronto con più ampie ricerche, costituendo un’opportunità di riflessione e di ulteriore approfondimento ed indagine.
Ogni nuova ricerca sul tema, difatti, conferma come l’attenzione clinica e specialistica (da parte di psicologici, psichiatri, medici, personale ostetrico, ma anche da parte dell’opinione comune) su una condizione psicopatologica come la depressione post-partum (così delicata, complessa, potenzialmente debilitante e pericolosa per la donna e per la relazione mamma-bambino) debba essere sempre mantenuta vigile ed incrementata.
La comprensione delle dinamiche sottese alla sofferenza depressiva delle neo- madri, così come l’individuazione di fattori psico-sociali potenzialmente predisponenti, risulta fondamentale per sviluppare adeguati metodi di screening e di valutazione e per agire opportune strategie di prevenzione e di intervento precoce, al fine di scongiurare le conseguenze più terribili e nefaste che talora, purtroppo, macchiano tragicamente le notizie di giornali e televisione, rendendo sempre più attuale e doveroso un impegno sociale nei confronti delle madri sofferenti di tale condizione.
PARTE PRIMA
LA DEPRESSIONE
CAPITOLO 1
DEPRESSIONE: CARATTERISTICHE E SINTOMATOLOGIA
Il termine depressione è divenuto ormai un vocabolo di uso comune e frequente, entrato ampiamente a far parte del linguaggio corrente per indicare situazioni tra loro anche molto differenziate.
In primo luogo, da un punto di vista descrittivo, la depressione viene intesa come uno stato d’animo generale contraddistinto da tristezza, pessimismo, insoddisfazione e senso di scoraggiamento, di per sé non specificatamente patologico ma presente anche in condizioni normali (Bogetto, Maina, 2000).
Difatti, l’affettività nelle sue molteplici dimensioni costituisce una caratteristica essenziale dell’esperienza e dell’identità umane, che accompagna ed avvolge costantemente la globalità delle azioni, delle sensazioni, delle percezioni e dei pensieri, conferendo loro precise coloriture emotive. Il tono affettivo di fondo, l’umore, risulta soggetto a modificazioni fisiologiche, oscillando periodicamente tra i due estremi opposti della tristezza e dell’euforia, sia spontaneamente, sia in rapporto ad eventi esterni; tali possibili cambiamenti umorali, privi di alcuna connotazione patologica, agiscono una specifica funzione adattiva, modulando la spinta all’azione e favorendo l’adozione di modelli comportamentali adeguati alle mutevoli circostanze contingenti (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992). Pertanto, ogni individuo può attraversare momenti più o meno durevoli di calo del tono dell’umore in senso depressivo, solitamente come comprensibile reazione a difficoltà o a episodi spiacevoli della vita, di fronte ai quali può assolvere un ruolo riparativo e rielaborativo (Valente Torre, Freilone, 1996).
In secondo luogo, al di là di tale accezione semantica comune, la depressione definisce innanzitutto una condizione psicopatologica vera e propria consistente in uno stato di significativa, marcata, prolungata e non adattiva alterazione dell’umore verso il polo negativo dell’afflizione e della disforia, con sintomi tipici quali: una profonda tristezza e sofferenza; un’inibizione dell’attività psichica e fisica con apatia, disinteresse, insoddisfazione, affaticabilità, difficoltà di pensiero, di concentrazione e di rievocazione; un dolore morale che si esprime con disperazione, cupo pessimismo, sentimenti di colpa e di autosvalutazione
cui spesso si associano alterazioni del sonno e dell’appetito, sensazioni di soffocamento, palpitazioni, disturbi fisici e manifestazioni ansiose (Lis, 1993).
La depressione clinica non si configura come un disturbo psichico unitario; può presentarsi entro quadri nosografici eterogenei nella natura sintomatologica, nell’esordio, nel decorso e nei fattori causali.
Oltre alle forme patologiche più tipiche, essa può realizzarsi anche come
“depressione secondaria” (ulteriormente denominata “sintomatica” o
“somatogena”) ovvero una forma secondaria all’interno di svariate malattie primarie, di tipo psichiatrico (schizofrenia, sindromi deliranti croniche) o anche di tipo organico (sindrome di Cotard, lesioni cerebrali, tumori, turbe vascolari, atrofie neuronali, arteriosclerosi, patologie endocrine o metaboliche, ipotiroidismo, diabete, processi infettivi, stati di intossicazione da sostanze o da farmaci ipotensivi) (Ey et al., 1978). Ancora, può manifestarsi come
“depressione dell’età involutiva” ad insorgenza mediamente dopo i quarantacinque anni, con un marcato aspetto ansioso, tematiche deliranti, tendenza alla cronicizzazione e al decadimento mentale progressivo.
Infine, può verificarsi nelle sembianze della cosiddetta “depressione atipica”, data dalla comorbità tra disfunzione affettiva ed altre condizioni: il tipo A con sintomi ansiosi associati a Disturbo da Attacchi di Panico; il tipo B con fenomeni vegetativi (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
Una simile variabilità delle espressioni sindromiche determina un estremo polimorfismo clinico, cui si aggiunge l’ulteriore difficoltà di differenziare tra normali fluttuazioni umorali e manifestazioni patologiche lievi o moderate; ciò ha comportato negli anni problemi classificatori di non facile risoluzione, con continue rielaborazioni di categorie diagnostiche che potessero rendere conto della complessità clinica della sfera depressiva, in relazione al prevalere di diversi orientamenti eziopatogenetici o terapeutici (ibidem).
Il modello classificatorio categoriale si è affermato in psichiatria per la sua innegabile utilità nella pratica clinica, in quanto comporta una notevole capacità semplificativa identificando un numero relativamente ristretto di tipologie che definiscono le caratteristiche sintomatologiche nucleari dei disturbi. Tuttavia, presupponendo l’esistenza di entità distinte alle quali dovrebbero corrispondere unità psicopatologiche separate, esso implica il potenziale rischio di delinearsi secondo limiti eccessivamente rigidi che precludono la possibilità di riflettere la
ben più composita e variegata fenomenologia psichiatrica (De Girolamo, Magone, 1995). Pertanto, al fine di meglio comprendere i meccanismi e le dinamiche sottese alla malattia psichica, può risultare importante il fondamento su di un modello dimensionale-funzionale.
L’approccio dimensionale concepisce i diversi disturbi depressivi-affettivi caratterizzati da molteplici dimensioni disposte lungo un continuum di livelli di gravità crescenti, comprendente da un lato forme attenuate, dall’altro gravi quadri psicotici fortemente invalidanti, secondo una progressione lineare tra le varie categorie diagnostiche (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
Il punto di vista funzionale, interpretando il disturbo psichico come una modalità pur se disadattiva di far fronte alla vita, analizza gli specifici significati funzionali assunti da ogni manifestazione della patologia; pertanto “è la forma particolare del funzionamento (o dell’operatività) col suo contenuto che costituisce l’essenza predominante e primaria (benché non la sola) della malattia e che conduce a conseguenze secondarie, sia organiche sia funzionali. Esso implica anche che la disfunzione sia collegata a, o determinata in modo predominante da un disadattamento affettivo, che a sua volta è almeno parzialmente provocato da un ambiente umano” (Arieti, 1969, pag. 585).
Non prolungando oltre tali dissertazioni, la depressione viene comunemente descritta attraverso molteplici forme differenziate, riconosciute in ambito psichiatrico.
La nosografia classica ha storicamente distinto due ambiti:
- la depressione endogena (e la psicosi maniaco-depressiva);
- la depressione psicogena (reattiva o nevrotica).
1.1. LA DEPRESSIONE ENDOGENA
La depressione endogena configura un quadro sintomatologico che irrompe nella vita dell’individuo in modo inatteso, senza possibilità di identificare chiaramente fattori esterni immediati di natura psicologica o fisica che ne motivino l’insorgenza (Leonhard, 1968). Per tale ragione, in passato il termine endogeno assunse un chiaro significato eziologico, sottolineando la presenza di una causalità biologico-costituzionale, sebbene non del tutto conosciuta.
Nella vigente sistemazione nosografica, invece, tale denominazione non compare più e le si riconosce unicamente un esclusivo valore clinico-descrittivo
senza alcuna implicazione eziopatogenetica (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
Attualmente, nei sistemi classificatori dell’American Psychiatric Association, la depressione endogena va a corrispondere alla diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore, caratterizzato da un’evoluzione sintomatologica estremamente variabile; esso può presentarsi come evento isolato o con andamento episodico ricorrente, di stampo unicamente depressivo oppure in alternanza ad episodi maniacali determinando in tal caso il quadro di una psicosi maniaco-depressiva, oggi denominata Disturbo Bipolare (DSM-IV-TR, 2000).
La PSICOSI MANIACO-DEPRESSIVA può essere definita come una sindrome clinica caratterizzata da un’alternanza periodica di episodi depressivi e di episodi di eccitamento maniacale (Giberti, Rossi, 1986).
Essa è una malattia nota fin dall’antichità che, rispetto ad altre entità psichiatriche, sembra aver mantenuto una certa costanza sintomatologica nel tempo (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992). Negli scritti di Ippocrate si riscontrarono i primi riferimenti clinici sui disturbi affettivi, con l’introduzione del concetto di “melanconia”, considerata conseguenza dell’azione patogena della bile nera sul cervello (melos= nero; cole= bile). Nel primo secolo dopo Cristo, Areteo di Cappadocia descrisse melanconia e mania con osservazioni così acute e profonde da essere paragonabili alle vedute moderne e per primo colse il legame tra le due forme. Fu comunque a partire dagli inizi dell’Ottocento, con la nascita della psichiatria moderna, che si giunse alle prime interpretazioni nosografiche secondo un modello scientifico. Esquirol coniò il termine
“monomania”, un delirio parziale che comprendeva la patologia espansiva e la
“lypemania”, corrispondente alla depressione. Falret, nel 1854, riconobbe l’alternanza tra melanconia e mania ideando la nozione di “follia circolare”, nominata da Baillarger, suo contemporaneo, come “follia a doppia forma”.
Kraepelin, nel 1899 e più compiutamente nel 1913, identificò due grandi psicosi endogene: la dementia praecox (ribattezzata schizofrenia nel 1911 da Bleuler) e la psicosi maniaco-depressiva; quest’ultima sindrome, nelle sue molteplici varietà, comprendeva la mania semplice, la maggior parte dei casi di melanconia e la follia circolare-periodica, accomunate da una predisposizione costituzionale e genetica analoga. Leonhard richiamò l’attenzione sulle peculiarità di decorso di tale psicosi, proponendo nel 1968 la dicotomia
unipolare-bipolare per descrivere rispettivamente le forme a polarità singola e le forme con alternanza depressiva-maniacale.
Pervenendo ad una descrizione clinica (Bogetto, Maina, 2000), l’esordio della psicosi maniaco-depressiva può essere acuto e drammatico, ma solitamente è lento ed insidioso, dispiegandosi nel corso di giorni o settimane; può sopravvenire senza cause apparenti, conformemente alla concezione classica di patologia endogena; talvolta, tuttavia, possono riscontrarsi fattori precipitanti quali shock emotivo o una situazione stressante o conflittuale che favoriscono lo scompenso di una vulnerabilità psichica già preesistente (Ey et al., 1978).
L’età media in cui si verifica il primo episodio è in genere tra i venti e i quarant’anni, mentre è tendenzialmente più precoce nelle forme bipolari, tra i venti e i trenta anni; il sesso femminile risulta più frequentemente colpito (circa il 70% dei pazienti sono donne). La durata di ogni episodio è variabile e tende a peggiorare nel tempo col ripetersi delle crisi, mentre non pare in relazione all’estensione degli intervalli di normalità (Arieti, 1969): la manifestazione depressiva si aggira mediamente sui sei-sette mesi (talvolta può persistere fino a due anni e più); la sintomatologia maniacale va da qualche settimana a due- tre mesi circa. Statisticamente gli episodi di depressione sono numericamente superiori a quelli maniacali. La prognosi è quasi sempre buona per quanto riguarda l’episodio singolo, ma è incerta a lungo termine riguardo alla possibilità di ricadute; fattori di rischio in tal senso sono: la frequenza elevata delle crisi, il passaggio alla cronicità, l’apparizione di un certo grado di indebolimento intellettuale (Giberti, Rossi, 1986).
Come suddetto, si distinguono nella psicosi maniaco-depressiva fasi alternate di depressione e di mania, le quali comunque possono pur sempre presentarsi come disturbi a sé stanti, isolati, o con andamento fasico di tipo monopolare.
a) La depressione
La depressione è caratterizzata da uno stato di tristezza intensa e pervasiva, di profonda disperazione e di dolore morale che si struttura come vera e propria
“tristezza vitale”, come un nucleo inintaccabile, greve ed impenetrabile avvertito con un senso di oppressione, pesantezza e sofferenza anche a livello somatico, nella testa, nel cuore, nel petto (Valente Torre, Freilone, 1996). Tale vissuto depressivo si sviluppa inglobando completamente la funzioni psichiche ed
interferendo pesantemente nel continuum esistenziale dell’individuo, senza motivazioni scatenanti evidenti e comprensibili (Bogetto, Maina, 2000).
La tristezza è cupa, monotona, profonda, resistente alle sollecitazioni ambientali e progredisce fino ad una estrema e penosa inibizione psichica, con apatia, affaticabilità, astenia, disinteresse, noia, mancanza di gusto e di piacere per ogni situazione (anedonia), perdita dell’abituale slancio vitale (Borgna, 1992).
L’inerzia si riflette sul piano motorio con un generale rallentamento psicomotorio:
la mimica è fissa ed afflitta, l’andatura è greve, faticosa e strascicata, i movimenti spontanei e il fluire dell’eloquio si riducono, con discorsi brevi, risposte sommesse e monosillabiche, ideazione rallentata, vuoto mentale, ruminazione e rievocazione penosa.
La percezione della realtà esterna risulta stravolta da penosi quadri di depersonalizzazione affettiva con impressioni di autentica anestesia affettiva, di impoverimento dei sentimenti, di distacco ed estraneità.
Anche l’esperienza del tempo vissuto viene alterata con un persistere della psiche in un presente vuoto, freddo, stagnante e con l’impossibilità di proiettarsi nel futuro e nella progettualità. Un oscuro senso di pessimismo pervade la coscienza e si rivolge soprattutto contro l’individuo stesso, con imperanti vissuti di impotenza, d’inferiorità e d’indegnità personale e con pesanti sentimenti di colpa, di autosvalutazione e di autoaccusa, per i quali egli si sente costantemente colpevole, disonesto, disprezzabile, indegno (Musetti et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
Tutto ciò porta frequentemente al desiderio e alla ricerca della morte, con episodi di autolesionismo e con continua ideazione suicidaria (Lis, 1993); il suicidio, percepito come un obbligo, un castigo o una soluzione alla sofferenza, può divenire un pensiero ossessionante, costituendo senza dubbio il rischio più temibile, soprattutto all’inizio e al termine della fase depressiva, quando l’inibizione motoria non si è ancora cristallizzata oppure è andata diminuendo pur mantenendosi vivo il sentimento melanconico. Il tentativo di suicidio viene talvolta preparato con abilità, premeditazione ed accuratamente dissimulato;
diversamente può manifestarsi come raptus suicida impulsivo, brutale e subitaneo; molto più raramente, in certi casi gravi, l’aggressività può indirizzarsi anche verso l’esterno realizzandosi il tipico “omicidio-suicidio”, ovvero l’assassinio delle persone amate seguito dalla propria uccisione: il depresso
che vuole morire, senza però abbandonare il proprio mondo degli affetti, si riunisce ai suoi cari nella morte oppure pensa, in modo delirante, di preservarli da una realtà per lui fatta solo di dolore (il cosiddetto “omicidio per pietà” o
“omicidio altruistico”) (Ponti, 1999).
In ultima analisi, sintomi fisici che accompagnano la depressione sono (Giberti, Rossi, 1986): alterazioni del ritmo sonno-veglia, con ipersonnia diurna ed insonnia notturna, prevalentemente insonnia da risveglio precoce; perdita dell’appetito e notevole calo ponderale; disfunzioni digestive e cardiovascolari;
diminuzione netta del desiderio sessuale spesso fino all’impotenza completa.
Tipica è la fluttuazione dei segni clinici con peggioramento mattutino e parziale miglioramento serale.
Nonostante la presenza di una sintomatologia depressiva tipica e comune, talune caratteristiche possono risultare particolarmente predominanti, determinando diverse varietà di depressione (Musetti et al., in Pancheri, Cassano, 1992):
- La depressione malinconica semplice, contraddistinta da una relativa modestia dei sintomi tra i quali prevale l’inibizione, il senso d’impotenza e di affaticabilità.
- La depressione agitata, nella quale è preponderante l’agitazione; il depresso vige in uno stato permanente di irrequietezza, si percuote, si torce le mani, si lamenta, singhiozza, geme e supplica; il tormento lo spinge ad idee suicidarie costanti e attive.
- La depressione ansiosa, in cui prevalgono sintomi ansiosi e talora ossessivi, tensione, preoccupazione e paura vissute come vero e proprio panico ed angoscia.
- La depressione rallentata, con la presenza accentuata del rallentamento psicomotorio che, oltre ad esprimersi sul piano motorio, compromette le diverse funzioni psichiche: linguaggio, pensiero, memoria, concentrazione, ecc.
- La depressione stuporosa, ove l’inibizione psicomotoria raggiunge il suo apice in uno stato di assoluta immobilità e di compromissione della coscienza che può andare dal torpore fino allo stupore o al semi-coma: il malato non parla, non mangia, non fa alcun gesto, non risponde a nessuno stimolo; il suo volto resta contrito in un’espressione di disperazione.
- La depressione pseudo-demenza, caratterizzata da un disturbo cognitivo o da riduzione delle capacità mnestiche che tendono a mascherare il nucleo depressivo; in realtà l’apparente deficit delle funzioni psichiche risulta del tutto reversibile con la risoluzione del disturbo dell’umore.
- La depressione delirante-psicotica, forma particolarmente grave in cui le idee e le convinzioni depressive giungono ad un grado estremo con la comparsa di deliri, talvolta accompagnati da allucinazioni a contenuto autodenigratorio. La presenza di deliri e l’assenza di consapevolezza della malattia definiscono la depressione endogena come autentica esperienza psicotica. I temi deliranti più frequenti nella depressione sono (Valente Torre, Freilone, 1996): il delirio di colpa (per il quale il soggetto si sente oppresso da ogni sorta di colpevolezza morale, fino a giungere al limite della colpa esistenziale, in cui il fatto stesso di vivere è motivo di colpa); il delirio di rovina (nel quale vige il convincimento di essere in una condizione di miseria, di povertà, di perdita o di sventura); il delirio ipocondriaco (per cui il depresso è certo di essere affetto da un’inguaribile malattia somatica); il delirio di negazione (ovvero il negare le proprie funzioni fisiologiche, il proprio corpo o parti di esso o addirittura il non riconoscere la propria stessa esistenza). Più raramente, i sintomi psicotici risultano incongrui all’umore, con contenuti di persecuzione, di riferimento, di influenzamento, di gelosia, di veneficio.
- La depressione cronica, che comprende gli episodi depressivi di durata superiore a due anni in assenza di disturbi attenuati cronici preesistenti; in essa si assiste alla tendenza ad amplificare le proprie sofferenze, una spiccata sensibilità agli eventi con la cristallizzazione di sentimenti di autosvalutazione e di insicurezza, con tratti ansiosi, evitanti, dipendenti, istrionici, manipolativi e vittimistici (Musetti et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
b) La mania
La mania può essere definita come uno stato psicopatologico di elevazione del tono dell’umore verso il polo positivo, speculare all’affettività depressiva (Bogetto, Maina, 2000).
Sintomo centrale dell’episodio maniacale è, pertanto, l’umore euforico, esaltato, sovraeccitato.
L’individuo appare allegro, vivace, espansivo, facile alle relazioni interpersonali e alla comunicazione, entusiasta, ottimista, dinamico ed iperattivo; vive un costante atteggiamento ludico nei confronti dell’ambiente e una diffusa sensazione di benessere, per cui tutto diventa fonte di gioia, motivo di scherzo e di gioco; avverte un impulso irrefrenabile a muoversi, ad agire, a parlare, a realizzare molteplici iniziative e progetti (Musetti et al., in Pancheri, Cassano, 1992). Spinto da una forte autostima, da un’ipervalutazione delle proprie qualità intellettuali o fisiche e da un senso di totipotenza per il quale tutto appare possibile e facilmente disponibile, il maniaco si impegna in svariate attività volendo mettere in atto tutto ciò che gli viene in mente, in ogni campo (lavorativo, lucrativo, affettivo, sociale) in modo impulsivo, superficiale, inconcludente, disinibito, senza limiti né confini.
Manifesta un’assoluta mancanza di freni inibitori e un affrancamento da ogni vincolo o convenzione sociale.
L’umore euforico, tuttavia, è decisamente instabile e, di fronte alla minima contrarietà od opposizione, può trasformarsi in irritabilità, malumore, disforia degenerabili con facilità in collera, rabbia, aggressività. In certi casi, lo stato maniacale può essere dominato proprio da questi tratti anziché dall’euforia affettiva (pur considerata tipicamente come sintomo patognomonico) per cui il paziente diventa burbero, prepotente, malignamente sarcastico e cinico coi suoi interlocutori, litigioso o francamente violento.
L’impulsività, la disinibizione e la facile irritabilità possono ripercuotersi in condotte potenzialmente rischiose, con pesanti conseguenze sociali o anche con risvolti legali (perdita del lavoro, spese eccessive, investimenti in affari avventati, rotture di legami affettivi, infedeltà con corteggiamenti compulsivi e promiscuità sessuale, comportamenti esibizionistici, guida spericolata, attività illegali e reati, aggressioni a danno di cose o di persone, ecc.) (Giberti, Rossi, 1986).
Ulteriori peculiarità maniacali sono un’eccitazione psicomotoria e un disturbo del pensiero che si riflettono nell’espressività comunicativa e nel linguaggio.
La mimica è vivace, gioiosa o furiosa: occhi brillanti, sguardo acuto ed ammiccante, gesti esuberanti, talora eccessivi o teatrali. L’eloquio è fluido ed abbondante fino ad assumere l’aspetto di una logorrea irrefrenabile.
Il maniaco parla velocemente, ad alta voce, senza pause, con continui cambiamenti di direzione del discorso e passaggi da un tema all’altro, non riuscendo a concentrare l’attenzione su un argomento per più di pochi secondi;
nell’insieme il linguaggio si produce in una vera “insalata di parole” (Musetti et al., in Pancheri, Cassano, 1992, pag. 1588), caratterizzata da ciò che viene definita “fuga delle idee”. I pensieri si affollano disordinati, caotici e vengono espressi in modo sconnesso e frammentario, attraverso associazioni superficiali o addirittura sulla base di semplici assonanze, somiglianze fonetiche, rime, slogan, giochi di parole; ogni idea marginale viene esternata; il discorso è verboso, inutilmente pomposo e ridondante, pieno di locuzioni ricercate ed altisonanti, circostanziale, non diretto ad uno scopo o alla dimostrazione logica di un argomento discusso; talvolta assume un carattere monotono e stereotipato oppure si produce in un turpiloquio volgare ed ingiurioso.
Tutte queste caratteristiche rivelano in maniera incontrovertibile la disorganizzazione e la frammentarietà del pensiero, la mancanza dei nessi associativi, l’affievolimento delle capacità di giudizio e di critica, l’insufficienza dell’attenzione, l’accelerazione delle rappresentazioni mentali, dell’ideazione e delle capacità mnestiche.
Dal punto di vista somatico si riscontra solitamente una marcata diminuzione del bisogno di sonno, senza che ciò provochi alcuna sensazione di fatica o di stanchezza; inoltre si evidenzia un certo dimagrimento, collegabile all’iperattivismo e non al comportamento alimentare poiché comunque aumentano la fame e la sete; infine una generale esaltazione e compulsività degli istinti determina aumento della libido, dell’attività sessuale e tendenza all’abuso di alcolici o di sostanze stupefacenti. Analogamente agli stati di depressione, anche la mania può presentarsi in forme cliniche differenziate (Sarteschi, Maggini, 1989):
- La mania acuta euforica, nella quale la sintomatologia si presenta con modalità pronunciata e struttura un quadro di così grave irrequietezza da essere difficilmente controllabile ed estremamente compromettente la vita quotidiana del soggetto; centrale risulta l’umore euforico ed esaltato.
- La mania acuta disforica, forma grave in cui essenziale è, invece, la disforia e l’irritabilità collerica ed irascibile.
- La mania eccitativa-furiosa, nella quale prevale l’eccitamento psicomotorio, la propensione continua ad agire, l’aggressività e la distruttività.
- La mania confusa, che rappresenta lo stadio estremo dell’eccitazione con incoerenza, disorientamento, irrequietezza, agitazione, frequenti segni psicotici;
viene anche definita “mania amenziale” (Arieti, 1969, pag. 593).
- La mania delirante-psicotica, con destrutturazione profonda della coscienza, mancanza di consapevolezza della malattia e comparsa di alterazioni del contenuto del pensiero. Tipicamente possono manifestarsi: deliri megalomanici e di grandezza (convinzione di essere dotato di qualità, poteri e capacità uniche ed eccezionali); deliri genealogici (presunzione di appartenere ad una illustre e ricca famiglia o di essere discendente di una stirpe nobiliare o regale); deliri scientifici (in cui il soggetto si attribuisce grandi scoperte scientifiche); deliri di potenza (identificazione con un personaggio famoso); deliri profetici e religiosi (identificazione con un profeta, un santo, un messia); deliri erotomanici (convinzione di essere amati da qualcuno, in genere persone illustri, di ceto superiore). Non infrequenti sono spunti deliranti incongrui a sfondo persecutorio e di noncumento, oltre a fenomeni dispercettivi prevalentemente di tipo uditivo.
- L’ipomania, in cui i sintomi appaiono in forma più attenuata, con umore giocoso ed allegro, con sovrabbondanza di idee e di attività, con esuberanza di loquacità e di pensiero il quale mantiene, tuttavia, una globale maggiore coerenza. E’ considerata la tipologia più frequente (Arieti, 1969; Ey et al., 1978).
- Gli stati misti, caratterizzati da un’associazione di sintomi maniacali e depressivi intrecciati gli uni agli altri o in rapidissima successione. Già Kraepelin ne distinse sei tipi principali: la depressione agitata (più frequente), lo stupore maniacale, la mania improduttiva, la mania depressiva, la depressione con fuga delle idee, la mania acinetica (Arieti, 1969).
- La mania cronica, identificabile per il protrarsi della sintomatologia, per la presenza di umore di fondo irritabile-disforico con alterazioni del contenuto del pensiero a carattere persecutorio sottese a tematiche di grandezza, riduzione della critica e del giudizio, grave decadimento dell’adattamento sociale (Musetti et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
Da un punto di vista eziopatogenetico, la psicosi maniaco-depressiva appariva ai classici come una malattia a carattere endogeno, ragion per cui il ruolo
accordato ai fattori ereditari, biologici e costituzionali veniva ritenuto considerevole.
In effetti, come confermato da un gran numero di studi sul tema (Gabbard, 2000), in tale disturbo psichiatrico il determinismo eredo-genetico è decisamente evidente e sostanziale, sebbene non decisivo; l’ereditarietà della psicosi maniaco-depressiva è di tipo autosomico dominante con penetranza incompleta (Ey et al., 1978). Anche condizioni biologiche accidentali costituiscono elementi eziologici complementari. Importanti possono risultare:
lesioni e malattie del sistema nervoso centrale (quali traumi, tumori, arteriosclerosi, problemi circolatori, encefaliti, meningoencefaliti, ecc.) a livello delle strutture diencefaliche, in particolare dell’ipotalamo e del sistema limbico, implicati nel meccanismo dell’espressione emotiva; perturbazione delle monoamine biogene quali serotonina, noradrenalina, adrenalina e, in misura minore, dopamina (per cui un loro deficit sarebbe responsabile della depressione, mentre un loro incremento sarebbe alla base dei sintomi maniacali); aumento della reattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con elevato rilascio della corticotropina (CRF) che stimola l’ipofisi a secernere l’ormone adrenocorticotropo (ACTH), il quale si concentra massicciamente nel liquido cerebrospinale dei pazienti depressi (Gabbard, 2000).
In ogni caso, affermare l’implicazione di fattori fisici nella psicosi maniaco- depressiva non significa che questi ne siano la causa diretta, ma semplicemente che esistono a livello organico e biochimico dei corrispettivi di quanto avviene sul versante psicopatologico. Difatti, la quasi totalità dei correlati biologici di ogni disturbo dell’umore sono stato-dipendenti, mentre le caratteristiche essenziali di queste condizioni morbose sono la periodicità e la ciclicità; ciò significa che qualsiasi interpretazione causale deve poter dimostrare il perché di una patologia persistente che vada oltre le fasi cliniche conclamate (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
Per tale motivo, la psicosi maniaco-depressiva viene oggi spiegata attraverso la formulazione di un modello eziopatogenetico multifattoriale, secondo il quale le caratteristiche genetico-organiche costituiscono la base predisponente sulla quale si inserisce una complessa catena patogenetica costituita da fattori ambientali, relazionali e psicodinamici. Qualunque possa essere la componente ereditaria e biochimica, la patologia affettiva può venire intesa come un grave
disturbo dell’autostima e dell’immagine di sé nel contesto di legami interpersonali precoci fallimentari e frustranti (Gabbard, 2000).
Nella genesi della psicosi maniaco-depressiva risultano determinanti esperienze relazionali precoci, avvenute nel corso della prima infanzia, caratterizzate da un sentimento psichico di perdita dell’oggetto d’amore primario (prevalentemente della madre, quale fondamentale figura affettiva di accudimento); la natura di tali eventi può essere variabile (Mc Williams, 1999).
Può trattarsi di una perdita reale, come la morte del genitore o l’abbandono.
Diversamente può consistere in una perdita interna-affettiva, determinata da differenti possibili situazioni: da una troppo precoce e traumatica separazione dall’oggetto, in seguito alla quale il bambino avverte una riduzione o una discontinuità delle cure affettive e l’imposizione di un’autonomizzazione cui non è ancora pronto (ad esempio al momento della svezzamento o per la nascita di un fratellino nel secondo anno di vita); oppure da relazioni oggettuali primarie caratterizzate da noncuranza, disinteresse, deprivazione affettiva, diniego dei sentimenti, mancanza di comunicazione emotiva, rigidità, tendenza alla critica;
o ancora dalla presenza di una madre gravemente depressa, incapace di fornire al piccolo il calore e il sostegno di cui ha bisogno assoluto.
Tutte queste possibili condizioni di carenza o di insicurezza affettiva, unitamente ad una spiccata recettività ed ipersensibilità temperamentale, possono innestare dinamiche depressive, fondate sul meccanismo psichico fondamentale dell’introiezione (ibidem). Il bambino reagisce interiorizzando inconsciamente le qualità negative dell’oggetto amato, assumendole come parte del proprio Sé e idealizzando l’oggetto sul piano cosciente. In tal modo, egli preserva il genitore come buono e giusto, mentre crea un’immagine di sé come individuo cattivo, non amabile, con un diffuso vissuto di colpevolezza per aver allontanato la persona cara con la propria negatività e malvagità; così il bambino sente che soltanto obbedendo, comportandosi in modo da soddisfare gli altri, impegnandosi nei suoi doveri quotidiani, cercando di mitigare la propria colpa potrà recuperare l’amore del genitore; se l’affetto o il perdono non giungono, il bambino continuerà ad assumersene completamente la responsabilità. Questo nucleo depressivo, fondato sulle esperienze infantili precoci interiorizzate, costituisce lo sfondo sul quale nella successiva età adulta potranno innestarsi avvenimenti precipitanti che determineranno la patologia
conclamata; questi possono essere: la morte di una persona cara, il fallimento di un importante rapporto affettivo; un improvviso licenziamento, una mancata promozione, situazioni stressanti, deludenti, destabilizzanti (Gabbard, 2000).
Tali fattori precipitanti, tutti connotati da un senso di perdita, rivelano all’individuo la propria inequivocabile indegnità e colpevolezza, la propria incapacità di mantenere i legami, riattivando l’inconscia paura infantile di perdere l’amore della madre e risuscitando, pertanto, con molta maggiore intensità l’antico sentimento depressivo. L’episodio psicotico acuto, conseguentemente, assume per il depresso il significato inconscio di estremo tentativo di riottenere l’amore perduto, di sforzo disperato per redimersi punendo se stesso. Tale difesa depressiva, tuttavia, non fornisce un’autentica soluzione ma crea un potenziale circolo vizioso che si manifesta nelle frequenti ricadute. Talvolta, proprio per evitare il pericolo di recidive, possono svilupparsi tratti euforici che esplodono in un episodio maniacale vero e proprio, considerabile come una difesa contro la depressione; altre volte, persino la più dolorosa depressione non è sufficiente ad alleviare il senso di colpa e il malato esita nel suicidio, poiché solo uccidendosi potrà redimersi completamente.
Né la depressione, né la mania, né tanto meno il suicidio portano ad una reale soluzione dei conflitti inconsci profondamente radicati; il tormentato mondo interno verrà esteriorizzato nell’ambito delle relazioni attuali; il soggetto tenderà a cadere di nuovo vittima delle stesse difficoltà, che saranno incanalate nei medesimi schemi comportamentali, ripetendo ulteriormente il ciclo patologico (Arieti, 1969).
1.2. LA DEPRESSIONE PSICOGENA
La depressione psicogena costituisce un disturbo depressivo che, a differenza della depressione endogena, risulta chiaramente collegabile ad una eziologia unicamente di tipo psicologico (Valente Torre, Freilone, 1996).
Sotto tale denominazione rientrano, in realtà, due diversi quadri psicopatologici:
la depressione reattiva e la depressione nevrotica.
a) La depressione reattiva
La depressione reattiva è una forma depressiva il cui esordio risulta strettamente in relazione ad un evento doloroso di notevole impatto emotivo,
riconosciuto e percepito come tale, cronologicamente e causalmente ben correlabile con lo stato patologico; dapprima la reazione psicogena depressiva può apparire la conseguenza del tutto adeguata e giustificabile di un’esperienza spiacevole; successivamente, però, essa si struttura in senso abnorme per la durata prolungata e l’intensità dei segni, sebbene ne rimanga sempre palese la derivabilità psichica (Bogetto, Maina, 2000).
Il traumatismo psicologico, come causa scatenante, assume comunque il suo potenziale patogeno in quanto si inserisce in condizioni di vita e in caratteristiche personologiche particolarmente vulnerabili le quali giocano un ruolo predisponente altrettanto essenziale e fondamentale (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992). Solitamente, la reazione depressiva sopraggiunge in individui fragili, passivi, introversi, con scarsa fiducia in se stessi, con una elevata iper-reattività e sensibilità emotiva sin dalla tenera età (Ey et al., 1978);
il loro debole Io risulta sensibilizzato al trauma da situazioni di insicurezza e di stress cui sono stati esposti a partire dalle condizioni relazionali dell’infanzia (Gutheil, in Arieti, 1969).
La sintomatologia consiste tipicamente in una sensazione acuta di tristezza, scoraggiamento, solitudine, ansia e disforia, la quale non raggiunge mai la temibile gravità della depressione endogena, permanendo ad un livello relativamente più attenuato e decisamente meno invalidante.
Il paziente si lamenta di una perdita generale della capacità di far fronte alle situazioni lavorative, familiari e sociali, di non riuscire a svolgere le sue abituali occupazioni, di avere difficoltà a prendere decisioni anche banali; prevalgono:
astenia ed affaticabilità, diminuzione dell’attività e dell’iniziativa personale, limitazione degli interessi, ansia, apprensione, lamentosità, mancanza di fiducia in sé, tachicardia, palpitazioni, insonnia, calo del desiderio sessuale.
Assolutamente assenti sono le manifestazioni psicotiche e la consapevolezza della malattia è sempre conservata.
Il decorso tende ad essere transitorio e limitato nel tempo: la prognosi è buona, con possibilità di elevata influenzabilità terapeutica o, anche, di remissione spontanea senza conseguenti modificazioni profonde nell’adattamento vitale dell’individuo (Gutheil, in Arieti, 1969).
Una tipologia particolare di depressione reattiva è la cosiddetta depressione da esaurimento, la quale “sopravviene come conseguenza di un sovraccarico
emozionale prolungato o ripetuto. L’avvenimento stressante è per solito un conflitto permanente di ordine familiare, professionale, o morale, ma in tutti i casi le tensioni emotive che sono in causa sono strettamente legate all’ambiente nel quale il malato vive.” (Ey et al., 1978, pag. 229).
b) La depressione nevrotica
La depressione nevrotica (o psiconevrosi depressiva) è una tipologia psicogena la quale non trova la sua origine in un evento scatenante vero e proprio, ma nella riattualizzazione di conflitti psichici inconsci che sottendono una personalità nevrotica depressiva di fondo (Bonime, in Arieti, 1969).
La genesi di tale struttura nevrotica di personalità risale al periodo infantile, ad una storia precoce di deprivazioni affettive, di frustrazioni e di tensioni protratte nel tempo in relazione al rapporto con l’oggetto d’amore primario (Mc Williams, 1999). Pertanto, il carattere depressivo si determina in un ambiente non responsivo e negligente, in cui i bisogni di sollecitudine ed affetto da parte dei genitori non vengono gratificati, in cui il bambino si sente in vari modi rifiutato, strumentalizzato, sballottato, bistrattato, non rispettato od oppresso ed impedito nell’espressione autentica di sé. Conseguentemente a tale condizione, cominciano a svilupparsi in lui inconsci sentimenti di negazione, di ostilità, di rabbia, di ricerca dell’amore negato con ostinate tendenze manipolative, sui quali prevale poi il meccanismo inconscio dell’introiezione, con il rivolgimento della colpa contro di sé, con vissuti di fragilità, di insicurezza, di inferiorità e di autosvalutazione, che costituiscono l’essenza della personalità depressiva.
Il conflitto psichico inconscio, rimosso e più o meno ben compensato nella personalità nevrotica depressiva, può venire riattivato e rivificato da avvenimenti esistenziali nell’età adulta vissuti come frustranti e traumatizzanti: delusioni, lutti, abbandoni, separazioni, ecc., suscitando uno scompenso sintomatologico acuto, ovvero una depressione nevrotica attiva-sintomatica (Ey et al., 1978).
La depressione nevrotica tende ad avere un decorso subcronico e persistente.
Segni clinici fondamentali sono (Bonime, in Arieti, 1969; Ey et al., 1978): uno stato d’animo di tristezza, disperazione e sconsolatezza; sentimenti di abbattimento, isolamento e solitudine; astenia, affaticabilità, rallentamento dell’attività, inefficienza, senso d’impotenza e d’incapacità, difficoltà a sopportare il peso delle responsabilità; forte presenza del tratto ansioso, intenso, spettacolare, talvolta teatrale, con irritazione, lamentosità, rivendicatività;
disturbi somatici a carico degli apparati cardiaco, digerente e respiratorio, insonnia d’addormentamento o sonno inquieto e non riposante, perdita della libido. La consistenza della sintomatologia permane a livelli più attenuati rispetto alla depressione endogena, non presentando forme deliranti o allucinatorie e preservando coscienza della malattia. Talora possono manifestarsi sfumate idee di colpa (non psicotiche) legate sia alle realistiche difficoltà ed inadeguatezze rispetto ai compiti quotidiani, sia ad una esagerata propensione pessimistica; o ancora può verificarsi una certa ideazione suicidaria, generalmente priva di profonda convinzione e con una componente dimostrativa, manipolativa e ricattatoria nei confronti dell’esterno, ma il cui potenziale rischioso non deve essere sottovalutato, potendo concretizzarsi in reali tentativi di suicidio (Valente Torre, Freilone, 1996).
Complementariamente, sono individuabili alcune dinamiche caratteristiche della depressione nevrotica (Bonime, in Arieti, 1969). Innanzitutto, una tendenza a manipolare gli altri attraverso un comportamento dipendente e strumentalizzante, volto a cercare di sanare disperatamente il proprio vuoto affettivo, esigendo e costringendo gli altri ad offrire affetto. Secondariamente, un’avversione a lasciarsi influenzare motivata dall’interpretare l’aiuto altrui come richieste rivolte verso di sé, come inviti a reagire, ad impegnarsi, ad assumersi responsabilità. Oltre a ciò, un rifiuto di dare gratificazioni finalizzato al sottrarsi da presunti tentativi di sfruttamento e di dominazione che il depresso vede negli atteggiamenti altrui. Infine, l’ostilità (come esteriorizzazione vendicativa e punitiva del vissuto interno di amarezza); l’ansia (come avvertimento della minaccia all’integrità del proprio funzionamento difensivo depressivo); il senso di colpa (quale manifestazione conseguente all’azione del meccanismo psichico dell’introiezione).
Tutti questi fattori si associano tra loro perpetuando la dinamica patologica, negando la possibilità di vivere esperienze umane positive e di soddisfare i propri bisogni emotivi autentici. “Il depresso non “cerca” masochisticamente la sofferenza attraverso il suo comportamento, bensì non può sfuggire alla sofferenza proprio a causa del suo comportamento. (…) Il suo bisogno di affetto normale non può venire soddisfatto proprio a cagione del modo in cui egli si mette in relazione con gli altri.” (ibidem, pag. 380-387).
Un unico elemento psicodinamico accomuna tutti gli altri, ovvero la tendenza inconscia costantemente presente ad inseguire e ricercare caparbiamente la propria infanzia perduta ed irrealizzata. Nei depressi nevrotici vi è “un rapporto con una ferita narcisistica dovuta al senso di abbandono per la perdita dell’oggetto del loro investimento o per la valorizzazione di questo oggetto (persona o ideale). Ne risulta un bisogno intenso di rivalutazione.” (Ey et al., pag. 225). Il depresso “si aspetta ancora quel quid che gli è mancato quando era il momento: la felicità ricavata dalla sollecitudine “unilaterale” di un altro. (…) Nessun riconoscimento “appropriato” è più sufficiente a riempire il vuoto progressivo (…)” (Bonime, in Arieti, 1969, pag. 386).
1.3. LA PATOLOGIA DEPRESSIVA NEL DSM-IV-TR (2000):
I DISTURBI DELL’UMORE
Nel “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM-IV-TR” dell’
American Psychiatric Association, la più recente versione rivisitata nell’anno 2000, la depressione viene trattata all’interno della sezione dedicata ai Disturbi dell’Umore. Non compaiono più le abituali distinzioni fra endogeno e psicogeno, fondate su una connotazione di causalità, ma i criteri diagnostici sono strettamente ed unicamente di tipo descrittivo e sindromico, non eziologico.
I Disturbi dell’Umore sono costituiti da un gruppo assai eterogeneo di quadri clinici contraddistinti da un’alterazione significativa del tono dell’umore o verso il polo negativo, nella patologia depressiva, o verso il polo positivo, nella patologia maniacale.
I Disturbi dell’Umore vengono suddivisi essenzialmente in due classi distinte:
- i Disturbi Depressivi;
- i Disturbi Bipolari.
1.3.1. I DISTURBI DEPRESSIVI
I Disturbi Depressivi sono condizioni psicopatologiche caratterizzate da un’alterazione dell’affettività in senso negativo, triste, disforico, con assenza in anamnesi di episodi euforici-maniacali. Questo raggruppamento nosografico comprende tre diverse categorie diagnostiche: Disturbo Depressivo Maggiore, Disturbo Distimico, Disturbo Non Altrimenti Specificato.
a) Disturbo Depressivo Maggiore
Il Disturbo Depressivo Maggiore (o Depressione Maggiore) è una sindrome clinica fondata sulla presenza di uno o più Episodi Depressivi Maggiori, senza alcuna storia pregressa di Episodi Maniacali, Misti o Ipomaniacali. Elemento centrale è l’umore depresso o l’apatia e l’anedonia, cui si associa il riscontro di almeno cinque dei nove sintomi elencati dal DSM-IV-TR che soddisfino una durata minima di due settimane. Eziologicamente non può essere riconducibile agli effetti di una sostanza, ad una condizione medica o ad una situazione di lutto; deve poter essere differenziato dalla diagnosi di Schizofrenia, Disturbo Schizoaffettivo, Disturbo Schizofreniforme, Disturbo Delirante, Disturbo Psicotico Non Altrimenti Specificato.
Riguardo il decorso, la depressione maggiore può manifestarsi come:
- Disturbo Depressivo Maggiore, Episodio Singolo (quando vi sia un unico periodo di malattia con successivo pieno ritorno al funzionamento premorboso).
- Disturbo Depressivo Maggiore, Ricorrente (quando vi sia una serie di periodi di malattia in successione, ravvicinati e frequenti, o intervallati anche da anni di benessere, o ancora con remissione solo parziale).
Il Disturbo Depressivo Maggiore corrisponde a quella che era la diagnosi classica di depressione endogena (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
b) Disturbo Distimico
Il Disturbo Distimico (o Distimia) è una patologia cronica, caratterizzata da umore cronicamente depresso, presente in forma attenuata e con un decorso di lunga durata, ovvero di almeno due anni, senza episodicità.
La sintomatologia nell’insieme non soddisfa i criteri per un Disturbo Depressivo Maggiore, essendo persistente e configurandosi come meno grave (almeno due dei sei sintomi elencati dal DSM-IV-TR).
Il Disturbo Distimico corrisponde e va a sostituire, nella terminologia propriamente psichiatrica, la diagnosi classica di depressione nevrotica (Valente Torre, Freilone, 1996).
c) Disturbo Depressivo Non Altrimenti Specificato
La categoria Disturbo Depressivo Non Altrimenti Specificato (NAS) include i disturbi con manifestazioni depressive che non soddisfano i criteri per un
Disturbo Depressivo Maggiore o per un Disturbo Distimico; vi rientrano condizioni quali: Disturbo disforico premestruale; Disturbo depressivo minore;
Disturbo depressivo breve ricorrente; Disturbo depressivo postpsicotico della Schizofrenia; Episodio Depressivo Maggiore sovrapposto a Disturbo Delirante, a Disturbo Psicotico NAS o a fase attiva della Schizofrenia; situazioni in cui il clinico non è in grado di determinare se il Disturbo Depressivo sia primario, dovuto a condizione medica generale o indotto da sostanze.
Criteri per l’Episodio Depressivo Maggiore (DSM-IV-TR, 2000)
A. Cinque (o più) dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo di 2 settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi è costituito da 1) umore depresso o 2) perdita di interesse o piacere.
Nota Non includere sintomi chiaramente dovuti a condizione medica generale o deliri o allucinazioni incongrui all’umore.
1) umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto (per es., si sente triste o vuoto) o come osservato dagli altri (per es., appare lamentoso). Nota Nei bambini e negli adolescenti l’umore può essere irritabile
2) marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (come riportato dal soggetto o come osservato dagli altri)
3) significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso (per es., un cambiamento superiore al 5% del peso corporeo in un mese) oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno. Nota Nei bambini, considerare l’incapacità di raggiungere i normali livelli ponderali
4) insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno
5) agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservabile dagli altri, non semplicemente sentimenti soggettivi di essere irrequieto o rallentato)
6) faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno
7) sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati (che possono essere deliranti), quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o sentimenti di colpa per essere ammalato)
8) ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, o indecisione, quasi ogni giorno (come impressione soggettiva o osservata dagli altri)
9) pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico, o un tentativo di suicidio, o l’ideazione di un piano specifico per commettere suicidio.
B. I sintomi non soddisfano i criteri per un Episodio Misto
C. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.
D. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un medicamento) o di una condizione medica generale (per es., ipotiroidismo) E. I sintomi non sono meglio giustificabili da Lutto, cioè, dopo la perdita di una persona amata,
i sintomi persistono per più di due mesi o sono caratterizzati da una compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio.
Criteri diagnostici per il Disturbo Distimico (DSM-IV-TR, 2000)
A. Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, come riferito dal soggetto ed osservato dagli altri, per almeno 2 anni. Nota Nei bambini e negli adolescenti l’umore può essere irritabile, e la durata deve essere di almeno 1 anno.
B. Presenza, quando depresso, di due (o più) dei seguenti sintomi:
1) scarso appetito o iperfagia 2) insonnia o ipersonnia 3) scarsa energia o astenia 4) bassa autostima
5) difficoltà di concentrazione o nel prendere decisioni 6) sentimenti di disperazione
C. Durante i 2 anni di malattia (1 anno nei bambini e negli adolescenti) la persona non è mai stata priva dei sintomi di cui ai Criteri A e B per più di 2 mesi alla volta.
D. Durante i primi 2 anni di malattia (1 anno nei bambini e negli adolescenti) non è stato presente un Episodio Depressivo Maggiore; cioè il disturbo non è meglio inquadrabile come Disturbo Depressivo Maggiore Cronico, o Disturbo Depressivo Maggiore, In Remissione Parziale.
E. Non è mai stato presente un Episodio Maniacale, Misto o Ipomaniacale, né sono stati mai soddisfatti i criteri per il Disturbo Ciclotimico.
F. La malattia non si manifesta esclusivamente durante il corso di un Disturbo Psicotico cronico, come Schizofrenia o Disturbo Delirante.
G. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (ad es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale (per es., ipotiroidismo).
H. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.
Specificare se:
Ad esordio Precoce: prima dei 21 anni
Ad esordio Tardivo: esordio a 21 anni o più tardi.
Con Manifestazioni Atipiche
1.3.2. I DISTURBI BIPOLARI
I Disturbi Bipolari sono condizioni psicopatologiche nelle quali il tono dell’umore è instabile e mutevole, oscillando dal polo negativo al polo positivo, con alternanze periodiche di fasi o momenti a tonalità depressiva o a tonalità euforica-maniacale.
Di questa classe nosografica fanno parte quattro categorie diagnostiche:
Disturbo Bipolare I, Disturbo Bipolare II, Disturbo Ciclotimico, Disturbo Bipolare Non Altrimenti Specificato.
I Disturbi Bipolari I e II corrispondono alla diagnosi classica di psicosi maniaco- depressiva (Cassano et al., in Pancheri, Cassano, 1992).
a) Disturbo Bipolare I
Il Disturbo Bipolare I è un disturbo psichico il cui elemento fondamentale è un decorso caratterizzato da uno o più Episodi Maniacali o Misti, accompagnati da uno o più Episodi Depressivi Maggiori.
b) Disturbo Bipolare II
Il Disturbo Bipolare II è un disturbo psichico con un decorso costituito dalla presenza di uno o più Episodi Depressivi Maggiori, accompagnati da almeno un Episodio Ipomaniacale.
c) Disturbo Ciclotimico
Il Disturbo Ciclotimico (o Ciclotimia) è una patologia cronica definita da una fluttuazione cronica e costante dell’umore, con numerosi periodi depressivi e numerosi periodi ipomaniacali, presenti in forma attenuata con una lunga durata, di almeno due anni, senza episodicità.
d) Disturbo Bipolare Non Altrimenti Specificato
La categoria Disturbo Bipolare Non Altrimenti Specificato (NAS) include disturbi con caratteristiche bipolari che non soddisfano i criteri per nessuno specifico Disturbo Bipolare. Vi rientrano condizioni psicopatologiche quali: alternanza rapida di sintomi maniacali e depressivi nel giro di giorni; Episodi Ipomaniacali ricorrenti senza sintomi depressivi intercorrenti; un Episodio Maniacale o Misto sovrapposto a Disturbo Delirante, Schizofrenia Residua o Disturbo Psicotico NAS; Episodi Ipomaniacali con sintomi depressivi cronici non così frequenti;
situazioni nelle quali il clinico non è in grado di determinare se il Disturbo Bipolare sia primario, dovuto a condizione medica generale o indotto da sostanze.