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CARATTERISTICHE PSICOLOGICHE E PSICODINAMICHE DELLA GRAVIDANZA

PSICODINAMICA DELLA GRAVIDANZA E DELLA MATERNITA’

3.1. CARATTERISTICHE PSICOLOGICHE E PSICODINAMICHE DELLA GRAVIDANZA

La gravidanza costituisce un momento di notevole importanza e significatività per la vita della donna, definendosi non solo come semplice evento biologico, ma soprattutto come una fondamentale esperienza psicologica che porta a vivere profonde emozioni, mettendo alla prova l’equilibrio psicofisico preesistente e riattivando potenzialmente antichi conflitti rimossi ed irrisolti; la maternità assume in ogni individuo una connotazione estremamente differente e soggettiva, fondandosi sulla storia del proprio sviluppo psichico, sulle pregresse relazioni affettive nell’infanzia e sui sistemi di valori della società di appartenenza (Metastasio et al., 1995).

La letteratura psicoanalitica ha fornito un’importante cornice di riferimento teorica e clinica sul tema della gravidanza come momento evolutivo fondamentale dello sviluppo dell’identità femminile; sebbene l’argomento della gravidanza e della maternità suscitò immediato interesse già nelle riflessioni e nelle discussioni dei primi Autori, prima degli anni quaranta del Novecento i riferimenti e i contributi furono piuttosto scarsi e fugaci, arricchendosi solo successivamente con l’accumularsi di osservazioni cliniche dirette di donne in stato gravidico (Ammaniti, et al., 1995).

Freud si dedicò principalmente allo studio dello sviluppo psicosessuale maschile, trattando l’evoluzione femminile in modo simmetrico e, per certi aspetti, riduttivamente speculare; la sessualità femminile venne da lui ritenuta più complessa, intricata e meno lineare, al punto da definirla il “continente nero”

della psicoanalisi (Freud, 1932). Nel suo sistema teorico, poggiato su di una cultura fortemente patriarcale, la femminilità viene descritta come ferita-castrazione, caratterizzata da un vissuto inconscio di carenza, di mancanza, di deprivazione di un qualche cosa di importante, un sentimento interno, presumibilmente universale, da lui denominato “invidia del pene” (Freud, 1905).

Del tutto analogamente al bambino, lo sviluppo della bambina passa attraverso la fase orale, la fase anale e la fase fallica; ella non ha ancora percezione della propria vagina e condivide con il maschio l’organizzazione fallica. Durante tale periodo, accompagna le proprie attività masturbatorie con fantasie inconsce dirette verso il padre, entrando in conflitto con la madre e strutturando il tipico complesso edipico femminile. Nel momento in cui, tra i tre e i quattro anni, scopre la propria differenza anatomica rispetto al maschio, reagisce con un immediato sentimento di invidia, desiderando di avere ella stessa un genitale maschile e sentendo inferiore il proprio sesso: si determina così il cosiddetto

“complesso di mascolinità” o “invidia del pene”. La bambina immagina di aver avuto prima un pene e di averlo perso come castigo per i suoi giochi sessuali;

mentre, dunque, il maschio rinuncia alle proprie fantasie edipiche poiché teme la castrazione, ella crede di esserne già stata vittima; le viene a mancare la paura della castrazione come punizione e motivo di rinuncia al vincolo edipico e di formazione della coscienza morale (l’Autore ne deduce che la donna abbia meno qualità morali ed un Super-Io più fragile dell’uomo).

La risoluzione edipica femminile risulta più lenta e tortuosa: la piccola rimane legata al padre, sperando di riceverne il pene desiderato; gradualmente, tale desiderio insoddisfatto si tramuta nel desiderio di ricevere dal padre, come compenso, un figlio; con il tempo si rende conto dell’impossibilità di tale aspirazione e, disillusa, si allontana dal padre orientandosi verso la scelta di un nuovo oggetto d’amore esterno, in direzione di una futura maturità sessuale e riproduttiva (Freud, 1924).

In una simile concezione, la maternità viene intesa come compensazione di tale mancanza, secondo l’equazione “bambino uguale a pene”, per la quale la gestante sostituisce, col feto dentro il proprio corpo, il pene mancante, recuperando la propria pienezza e completezza. La gravidanza rappresenta per la donna un evento assolutamente necessario per il superamento del senso di inferiorità e d’inadeguatezza e per l’accettazione piena del proprio ruolo

femminile (Freud, 1925b). La lenta e conflittuale riconciliazione con se stesse, possibile unicamente con il divenire madri, non annulla tuttavia un certo grado di risentimento psichico persistente verso la propria femminilità, in cui il senso di mancanza si estende ulteriormente in un vissuto di inferiorità sul piano psicologico, culturale e sociale; le donne vengono considerate, nella concezione freudiana, come sostanzialmente fragili, masochiste, passive, ansiose, inclini alla gelosia e con un Super-Io più debole rispetto all’uomo (Freud, 1925b, 1932).

L’ultima formulazione freudiana (Freud, 1931, 1932) concepisce il desiderio della donna di avere un bambino come fondato sull’attaccamento preedipico alla madre che connota il periodo della “femminilità attiva” ad organizzazione fallica, in cui l’oggetto d’amore per entrambi i sessi è la madre; l’attrazione e la fissazione libidica al padre durante l’Edipo non sarebbero altro che la ripetizione di un precedente intenso legame con la madre. Il cammino verso la femminilità diventa così decisamente complicato: la bambina deve trasferire le proprie pulsioni dalla madre al padre e trasformare i suoi impulsi sessuali da attivi a passivi-ricettivi.

La complessa psicologia femminile adulta risulta, in definitiva, fondata essenzialmente su un duplice ruolo sessuale, costituito da due componenti interagenti (Freud, 1931): da un lato, l’elemento seduttivo di attrazione dell’uomo, finalizzato al determinarsi di relazioni sessuali; dall’altro, l’elemento materno di procreazione dei figli e di assunzione del ruolo di madre. In termini di identificazione femminile, nel processo di strutturazione dell’identità, ciò comporta per la donna il divenire consapevole sia della propria desiderabilità sessuale e del suo ruolo di moglie-compagna, sia dei propri attributi materni ovvero della capacità di donare amore con atteggiamenti protettivi ed affettuosi.

Un soddisfacente compimento di tale evoluzione psichica dipende considerevolmente dalla positività degli eventi relazionali della prima infanzia; il legame amoroso preedipico con la madre viene già riconosciuto da Freud come fondamentale per la successiva capacità della donna di identificarsi con lei, diventando una buona mamma per i suoi figli ed una buona moglie per suo marito; un rapporto conflittuale precoce comporta il rischio di ripetere i medesimi conflitti con il partner e con i figli, sostituendoli nell’inconscio con l’immagine materna (Freud, 1932).

Dopo Freud, molti successivi Autori si occuparono di sessualità femminile e di maternità, rivalutando tuttavia pienamente il valore e l’autonomia della sfera sessuale femminile e dell’esperienza della gravidanza, al di là della visione strettamente fallocentrica del Maestro.

I molteplici contributi che si susseguirono nel tempo diedero origine a due grandi correnti si pensiero contrapposte:

- una scuola più ortodossa, destinata a proseguire la tesi freudiana dell’iniziale mascolinità della bambina, ovvero della presenza di tendenze e mete sessuali falliche ed attive nel suo inconscio (rappresentata tra gli altri da Hélène Deutsch).

- la scuola inglese, la quale affermava l’esistenza di una differenziazione sessuale sin dalla nascita, di sensazioni vaginali precoci, di una preconcezione innata della femminilità nella bambina (rappresentata da Karen Horney, Ernest Jones e Melanie Klein).

Hélène Deutsch (1945), pur mantenendosi fedele ai punti più salienti della concezione freudiana, riconobbe una ben definita componente autonoma e creativa nella personalità della donna, connessa soprattutto con la maternità stessa. Nel suo pensiero, lo sviluppo infantile della propensione materna si concretizza attraverso il passaggio di due stadi consecutivi: una fase preedipica attiva, in cui il desiderio è quello di dare un figlio alla madre, e una fase edipica passiva, in cui il desiderio è quello di ricevere un figlio dal padre.

Il più importante fattore di transizione tra questi due momenti è rappresentato non tanto dall’invidia del pene, quanto dal cosiddetto “trauma genitale”, ovvero il senso di profonda angoscia derivante da una doppia mancanza, sia per non possedere un organo sessuale attivo, sia per l’inadeguatezza temporanea di un organo ricettivo-passivo, la vagina, della quale la bambina non ha ancora alcuna percezione.

L’esperienza del mettere al mondo un figlio viene da lei concepita come un momento fondamentale, importante e creativo di piena realizzazione dei desideri più profondi e forti della donna, di elevata espressione della natura femminile. La femminilità, quale strutturazione psichica estremamente complessa ed articolata, delinea due differenti tipologie:

- la donna femminile, caratterizzata da un’armonica e reciproca interazione tra tendenze narcisistiche ed attitudini masochistiche ad amare e sacrificarsi;

- la donna materna, nella quale il desiderio narcisistico viene completamente trasferito dall’Io al figlio.

La donna si caratterizza per “un’armonica, reciproca azione tra tendenze narcisistiche e attitudine masochistica a donare e amare con dolore. Nella donna materna, il desiderio narcisistico di essere amata, così tipico della donna femminile, subisce una metamorfosi; viene trasferito dall’Io al figlio (…)” (ibidem, pag. 19-20), ovvero nella maternità le componenti istintuali ed egoistiche vengono sublimate e gli interessi si spostano dal mondo esterno all’interno del corpo, rivolgendosi tutti a sostegno del legame col neonato.

Nella donna materna, il desiderio di procreazione e la presenza di una specifica qualità caratteriologica definibile come spirito materno trovano il loro fondamento nella funzione tipicamente ricettiva della psiche femminile. Tale spirito materno è determinato da due fondamentali componenti: la tenerezza, in quanto tutta l’aggressività e la sensualità sessuale della donna vengono soppresse per lasciare il posto all’accudimento affettuoso ed amorevole del bambino; la tendenza masochistica, per la quale la madre accetta il sacrificio di sé a favore del bene del piccolo, con puro spirito di abnegazione e di altruismo, senza esigere alcuna ricompensa se non la gioia stessa dell’avere un figlio.

Per l’Autrice, la gravidanza costituisce un’evenienza emotiva molto forte ed intensa, particolarmente permeabile ad influenze psichiche anche inconsapevoli;

viene altresì considerata quale esperienza decisamente delicata, capace di far riemergere conflitti e problematiche inconsce.

Nonostante la presenza di un desiderio cosciente di maternità, può attivarsi a livello inconscio un conflitto interno tra accettazione e rifiuto del bambino, tra spinta trattenitiva e spinta espulsiva, il quale può manifestarsi in forme e momenti diversi del periodo gestazionale. “Dipende da tutto l’insieme della situazione psicofisica che il feto venga considerato un parassita nemico o invece l’affetto dello slancio d’amore che lega la madre alla sua creatura; si esprime qui l’effetto finale di quella polarità che noi chiamiamo ambivalenza affettiva” (ibidem, pag. 135).

La conflittualità nei confronti della gravidanza può essere dovuta a molteplici fattori: le condizioni ambientali, sociali ed economiche sfavorevoli, il rapporto negativo con il padre del nascituro, il grado di maturità affettiva, sensi di colpa e problematiche irrisolte legate all’infanzia, una relazione difficoltosa e disturbata

della donna con la propria madre che determina vincolamento ed infantilismo psichico. “L’Io della donna incinta deve trovare un armonico compromesso tra la sua identificazione -profondamente incosciente- col bambino, che è rivolta verso il futuro, e la sua identificazione con la propria madre, che è rivolta verso il passato; ogni volta che l’una o l’altra di queste due identificazioni è respinta, sorgono delle difficoltà: nel primo caso, il feto diventa un parassita nemico, nel secondo caso l’attitudine della donna alla maternità è menomata dal suo rifiuto ad accettare l’identificazione con la madre” (ibidem, pag. 143).

Le possibili espressioni organiche di un ripudio inconscio della maternità sono rilevate, dall’Autrice, nell’aborto (procurato o spontaneo), nella negazione di una palese gravidanza, nella pseudogravidanza isterica, nella sterilità psicogena, nei sintomi somatici, nei fenomeni orali quali l’alternanza apparentemente contradditoria tra il vomito e le classiche “voglie” di cibi particolari, riflesso somatico del prevalere di eliminazione o di incorporazione, annientamento o protezione dell’embrione.

Il compito più importante che la futura mamma deve svolgere nel corso di tali nove mesi consiste nel riconoscimento dell’oggettualità del bambino, nel saper adottare e mantenere sempre un deciso orientamento verso la realtà, simultaneamente e parallelamente al naturale rivolgersi regressivo verso il proprio intimo. “L’igiene psichica della gravidanza deve avere lo scopo di fare del figlio una realtà sempre più obiettiva, in modo che il parto non diventi una separazione dolorosa di una parte del proprio Io e una perdita psichica distruttiva” (ibidem, pag. 151).

Karen Horney (1923) criticò la posizione psicoanalitica classica che assumeva l’invidia fallica come nucleo di quasi tutti i disturbi nevrotici femminili; secondo l’Autrice, tale sentimento consiste più semplicemente in una forma di ammirazione e di gelosia per la maggiore visibilità e manipolabilità del pene, contrapposta alla scarsa possibilità esplorativa dei suoi genitali, per cui il toccarsi e il masturbarsi sono per lei maggiormente forieri di sensi di colpa.

L’invidia del pene può comunque essere facilmente superata e comporta effetti patogeni solo se la bambina fallisce nell’identificazione con la propria madre.

La femminilità, così come la maternità e il desiderio di avere un figlio, godono di un loro valore e di una loro affermazione, non rappresentano in quest’ottica

“poveri sostituti” di desideri maschili mai ottenuti; sin dai suoi primi anni di vita,

la bambina adotta una posizione femminile, in accordo con la propria anatomia, avverte sensazioni vaginali, si sente e si comporta come individuo femminile, rivolgendosi amorosamente verso il padre e assumendo il modello identificatorio materno. Solo qualora la figura edipica paterna la deludesse nel suo affetto, allora cercherà di recuperarne la vicinanza identificandosi con lui, assumendo nell’età adulta un atteggiamento virile di rivalità e di risentimenti aggressivi e nevrotici nei riguardi del sesso opposto (Horney, 1926).

La maternità, pertanto, non viene concepita come semplice compensazione per il pene mancante, poiché questo toglierebbe ogni valore a tale evento, vissuto come ripiego rispetto a qualcosa che non si è potuto avere: “(…) la donna ha nella maternità, o nella capacità di maternità, una superiorità fisiologica incontestabile e per nulla trascurabile” (Horney, 1933, pag. 65).

Melanie Klein (1945), similmente, riconobbe nella bambina un precoce atteggiamento femminile e ricettivo. Come rilevato nelle sue opere, il primo oggetto d’amore per tutti i bambini è la madre, in particolare l’oggetto parziale che la rappresenta, ovvero il seno che gratifica il bisogno di nutrimento.

Durante la posizione schizoparanoide dello sviluppo infantile, le frustrazioni connesse al soddisfacimento da parte del seno materno generano forti invidie e fantasie sadiche inconsce contro la madre. La bambina crede che la mamma risponda poco ai suoi bisogni perché preferisce alimentare il padre; inoltre, immagina che il padre abbia un organo simile ma “migliore”, una specie di seno più generoso, ed alimenti col suo pene la madre riempiendola di peni, figli e latte; perciò prova rancore, ostilità e rivalità verso la madre. Questa situazione di odio precoce spinge la bambina a voler distruggere l’interno del corpo materno ed impadronirsi del contenuto desiderato; conseguentemente, nasce in lei la paura della vendetta e della ritorsione materna, ovvero il timore per l’integrità del proprio corpo; ella si aspetta di essere ripagata analogamente con la distruzione della propria capacità di generare figli.

Con l’elaborazione della posizione depressiva, verso la fine del primo anno di vita, la bambina reagisce alla frustrazione libidica rivolgendosi verso il padre, quale sostituto orale e in seguito genitale del seno materno perduto; quindi, la disposizione psichica femminile e l’orientamento verso la genitalità poggiano le loro fondamenta molto precocemente, non tanto nel desiderio di avere il pene, quanto piuttosto nel desiderio di incorporarlo come oggetto di gratificazione

orale alternativa. La paura di aver rovinato l’interno del corpo materno e di essere stata punita in modo analogo sostengono inconsciamente l’aspirazione alla maternità, il cui significato inconscio diventa quello di una conferma della propria integra capacità procreativa, di un riscatto nei confronti delle angosce infantili e di un’affermazione della propria identità femminile.

Ancora, Ernest Jones (1948) sostenne la concezione per cui la femminilità, con le sue caratteristiche di passività e ricettività, risulta primaria nella donna e non deriva da una precedente fase di mascolinità; la bambina possiede una precognizione istintuale del proprio organo genitale e giunge, eventualmente, a negare la sua genitalità e a desiderare il pene mancante solo per odio e conflittualità nei confronti della madre.

L’inevitabile frustrazione e l’incapacità di ottenere tutto ciò che si vuole, portano la bambina a considerare la madre come un contenitore meraviglioso di cose e materiali, piacevoli ed altamente auspicabili; ciò provoca in lei reazioni aggressive ed invidiose e in ciò, a partire dalla metà del primo anno, si rivolge al padre. Per Jones, il desiderio di avere un pene non è primario, ma rappresenta un atteggiamento nevrotico difensivo, conseguenza delle angosce derivate da un complesso edipico precoce che ha origine nelle frustrazioni orali vissute con la madre; pertanto, il desiderio di mettere al mondo un bambino sarebbe l’espressione della normale aspirazione ad accogliere un pene e trasformarlo in un bambino, senza alcun valore compensatorio.

Successivamente altri Autori (di seguito esposti) hanno ritenuto la gravidanza una fondamentale tappa del processo maturativo di una donna tale da comportare una totale e completa trasformazione, ridefinizione e riorganizzazione del proprio senso di identità; inoltre, hanno evidenziato l’importanza della relazione avuta dalla donna con la propria madre durante l’infanzia, al fine di una positiva e non conflittuale disposizione psichica nei confronti della maternità.

Le esperienze relazionali ed affettive precoci, principalmente il rapporto reale e fantasmatico della donna con la propria madre, risultano pertanto fondamentali quale fattore determinante lo sviluppo della propria personalità e la possibilità di identificarsi con una buona immagine materna di riferimento.

Pare interessante evidenziare come la maggioranza dei lavori in proposito siano stati prodotti da donne.

Thérèse Benedek (1956) afferma che la maturazione femminile e l’assunzione di un atteggiamento materno si compiono attraverso una graduale identificazione con la propria madre, realizzabile però unicamente accettando le varie tappe dello sviluppo psicosessuale a cominciare dalla pubertà e, nello specifico, dal menarca quale punto di partenza della funzione riproduttiva.

Il sorgere di tendenze psichiche ricettivo-ritentive e la conseguente propensione nei confronti della gravidanza poggiano quindi le proprie basi sulla positività delle esperienze maturative, soprattutto in relazione al rapporto con la propria figura materna, sebbene siano anche sostenuti da fattori fisico-endocrini.

Difatti, l’intero arco dell’evoluzione psicosessuale (dal menarca alla ricorrenza ritmica dei cicli mestruali, alla gravidanza, al puerperio ed infine alla menopausa) viene definito dall’Autrice come un evento di natura psicosomatica, nel quale le variazioni di umore e le tendenze psicologiche sono in relazione alle modificazioni del quadro endocrinologico e dello stato citologico della mucosa vaginale.

Grete Bibring (1959, 1961) concepisce la gravidanza come crisi maturativa, ovvero come un processo evolutivo cruciale ed irreversibile nel ciclo di vita della donna, in cui vengono rivissuti i conflitti psichici relativi alle fasi precedenti dello sviluppo, in particolare riguardo alle prime relazioni ed identificazioni con la propria madre. Attraverso l’esperienza gravidica, la donna elabora inconsciamente e risolve le precedenti problematiche infantili ed adolescenziali, pervenendo ad un livello di integrazione psichica più matura.

Tale crisi maturativa assume tuttavia una doppia valenza, manifestandosi come evento fortemente positivo ed evolutivo ma anche di estrema vulnerabilità, con impliciti potenziali rischi di distorsioni psicopatologiche. La futura mamma deve affrontare una profonda destrutturazione e riorganizzazione del proprio senso di identità, al fine di adattarlo al suo nuovo ruolo materno; in questo complesso compito può non riuscire ad accettare e a far fronte ai notevoli cambiamenti fisici, psichici, relazionali e sociali cui è sottoposta, percependoli interiormente come una minaccia per la propria integrità.

Pertanto, la gravidanza viene intesa dall’Autrice anche come fase critica dello sviluppo femminile, al pari della pubertà e della menopausa, tutti eventi potenzialmente destabilizzanti, che richiedono un riadattamento e un riassestamento globale della personalità.

Similmente, Dinora Pines (1972, 1982) concettualizza la gravidanza come una tappa fondamentale per la costruzione dell’identità femminile, tramite la quale viene raggiunta una maggiore e più articolata individuazione di se stessa come donna e come madre attraverso una rielaborazione sostanziale del processo di separazione-individuazione nei confronti della propria genitrice, differenziando i propri confini personali e il proprio spazio interno in rapporto alla madre ma anche al partner e alle altre figure significative.

Per completare con successo tale processo di individuazione, la gravidanza porta la donna ad affrontare una serie di compiti adattivi e trasformativi attivati dai cambiamenti somatici e psichici. Il successo nel completamento del processo di separazione-individuazione durante i nove mesi di gestazione

Per completare con successo tale processo di individuazione, la gravidanza porta la donna ad affrontare una serie di compiti adattivi e trasformativi attivati dai cambiamenti somatici e psichici. Il successo nel completamento del processo di separazione-individuazione durante i nove mesi di gestazione