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Libera Università Maria SS. Assunta Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Psicologia. Tesi di Laurea. Relatore Prof. L.

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Libera Università “Maria SS. Assunta”

Facoltà di Scienze della Formazione Corso di Laurea in Psicologia

Tesi di Laurea

Figlicidio come sintomo di depressione materna:

analisi di un caso

Relatore Prof. L. Janiri

Correlatore Prof. T. Cantelmi

Laureanda

Simona De Fazi

Anno accademico

2002/2003

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I

NDICE

Introduzione

CAPITOLO PRIMO Il figlicidio

1.1 Definizione

1.2 Lettura antropologico-culturale 1.3 Lettura psicodinamica

1.4 Lettura psicopatologica CAPITOLO SECONDO

La depressione materna 2.1 Definizione 2.2 Modello medico 2.3 Modello sociologico 2.4 Modello psicologico CAPITOLO TERZO

Analisi di un caso 3.1 Il caso

3.2 Riflessione sul tipo di depressione 3.3 Riflessione sul tipo di figlicidio 3.4 Riflessioni conclusive

CAPITOLO QUARTO Conclusioni

4.1 Un fenomeno in aumento…

4.2 Che fine fanno le “mamme assassine”?

4.3 E’ possibile prevenire il fenomeno?

Allegato

Bibliografia

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INTRODUZIONE

In questo lavoro verrà messo a fuoco il rapporto tra depressione materna e figlicidio.

Partendo dall’ipotesi che il figlicidio sia uno dei possibili esiti della depressione materna, ho impostato la trattazione sotto un profilo criminologico oltre che clinico.

La tesi si propone altresì di convalidare l’esistenza, attraverso l’analisi di un caso, di una relazione tra questo tipo di patologia e questo tipo di crimine.

Sia che si parli di neonaticidio e di infanticidio che di figlicidio, il fenomeno desta enorme clamore soprattutto alla luce degli ultimi fatti di cronaca riportati dai mass media.

Anche il manifestarsi della depressione nel periodo precedente e seguente la maternità sembra mettere in crisi quella che è l’ormai consolidata immagine della madre come angelo del focolare, tutta dedita alla cura dei figli.

Ho voluto quindi offrire ,oltre che l’interpretazione del gesto figlicida e le motivazioni della depressione ,dei consigli affinchè la patologia oggetto di trattazione possa esser diagnosticata in tempo e il gesto criminale prevenuto.

Con ciò non intendo dire che il mio lavoro abbia connotati di esaustività, ho piuttosto voluto spostare l’attenzione da un generale allarmismo sul

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“fenomeno figlicidio” ad una maggiore consapevolezza che più che giudicare sarebbe utile capire e comprendere il delicato ruolo do madre nella società attuale.

Per ciò che concerne il materiale utilizzato, per la parte bibliografica ho reperito informazioni oltre che dalle classiche monografie anche da riviste scientifiche e siti internet dato che l’oggetto di studio sembra vivere una seconda età negli ultimi mesi.

Mi sono altresì avvalsa per la parte criminologica della consultazione di manuali di diritto penale e per la parte medica di manuali di psichiatria e ginecologia (dato lo specifico arco di vita analizzato).

Per ciò che riguarda invece l’analisi del caso, quest’ultimo mi è stato gentilmente offerto dal mio relatore e si tratta di una perizia fatta in merito ad un annullamento di matrimonio religioso.

Nel primo capitolo ho parlato del figlicidio offrendo definizione, statistiche, prospettive storiche e giuridiche sia del nostro Paese che di altre nazioni.

Ho fornito tre chiavi di lettura del fenomeno: antropologico-culturale, psicoanalitico e psicopatologico.

Nel secondo capitolo ho invece trattato della depressione materna di cui ho mostrato le caratteristiche descrittive e le varie forme.

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Ho qui fatto riferimento a tre modelli interpretativi: medico, sociologico e psicologico.

Al terzo capitolo è dedicata l’analisi di un caso di doppio figlicidio.

Ho riportato integralmente la perizia tacendo nomi, luoghi e date originari, esprimendo le mie opinioni sullo specifico caso di figlicidio e lo specifico tipo di depressione materna e trovando tra loro un nesso.

Nel quarto ed ultimo capitolo, infine, ho ritenuto opportuno affrontare le conseguenze penali e psicologiche del crimine e della patologia oggetto di studio, citando brevemente anche altri casi e auspicando più precoci metodi di prevenzione.

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“O figli maledetti di trista madre, possiate con vostro padre perire, e con voi tutta la vostra casa rovini!”

(Euripide, Medea)

CAPITOLO PRIMO

Il figlicidio

1.1 Definizione

Con il termine figlicidio si indica l’uccisione del figlio da parte di un genitore, sia il padre che la madre. Se la vittima è un neonato l’uccisione volontaria di un figlio costituisce infanticidio, altrimenti si tratta di figlicidio.

La legge impone una netta distinzione tra i due reati anche nelle conseguenze penali: il primo è punito con la reclusione da quattro a dodici anni (art.578 del codice penale), il secondo con l’ergastolo (art.577).

Fatti del genere sono sempre accaduti ma ora presentano caratteristiche diverse: gli infanticidi sembrano diminuiti mentre sono recentemente aumentate le uccisioni di bambini non neonati da parte delle madri. In Italia, secondo una indagine ISTAT relativa a tutti gli omicidi volontari compiuti sul territorio nazionale nel 1998,di 670 casi, 120 risultano essere omicidi effettuati in famiglia; di questi il 17% è rappresentato da casi di figlicidio.

Nivoli, 2002, Medea tra noi

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È probabile che questi dati statistici ufficiali siano nettamente inferiori alla quantità reale di figlicidi commessi. Molti decessi di bimbi catalogati come incidenti e disgrazie possono in realtà nascondere dei progetti omicidari di madri che hanno compiuto un omicidio per volontarie carenze di cure e di attenzioni (bimbi che soffocano in culla, che cadono dalla finestra).

Per quanto condannato, la comprensione del gesto dipende dalla tolleranza verso le motivazioni che variamente gli si riconoscono. Se il neonato era malformato, eliminarlo era una pratica tollerata in epoca romana e greca.

Con l’illuminismo e con la nascita della scienza giuridica, l’infanticidio appare meno grave dell’omicidio comune. L’attenuazione è data da un ribaltamento: dalle caratteristiche dell’oggetto si passa infatti a valutare quella dell'agente del delitto.

Nei codici ottocenteschi l’infanticida per eccellenza risultava la madre soprattutto se illegittima, la cui colpa si giudicava attenuata dall’aver agito per salvare il proprio onore oppure per evitare sovrastanti sevizie:due diverse motivazioni che entrambe chiamavano in causa i comportamenti e la mentalità condivisa dell’ambiente in cui la donna attuava il suo violento rifiuto della maternità.

Dei due motivi indicati, la legge italiana per quasi un secolo ha contemplato unicamente quelli dell’onore di nubili e adultere.

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www.ecologiasociale.org

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Rispetto al primo codice penale del 1889, il codice Rocco li accentuava sia perchè abbassava ulteriormente le pene dell'infanticidio sia perché riguardava non solo la madre ma chiunque uccidesse un neonato.

Nel 1981 il testo e la norma sono cambiati. La causa d’onore è stata finalmente abolita (legge 442/1981).

L’articolo, che è stato riscritto, torna ad individuare nella madre la principale agente d’infanticidio, sottolinea come determinanti del gesto

“condizioni di abbandono materiale e morale” ed evita di attribuirle esclusivamente alle gravidanze illegittime.

Nella distinzione tra infanticidio materno e figlicidio indifferentemente genitoriale -il primo attenuante, il secondo aggravante dell’omicidio comune -vi è la considerazione che divenendo madre la donna vive una particolare fragilità la quale può sfociare nella depressione postpartum .

E’ nell’evento del parto e nei giorni immediatamente successivi che si esaurisce la speciale condizione riconosciuta dal codice.

Nel momento preso in considerazione, dunque, la neomamma diviene anche un soggetto criminologicamente a rischio, come appunto mostrano ai profani i molti fatti di madri che uccidono i propri figli senza ragioni apparenti spesso anche arrecando violenze a se stesse fino a compiere veri e propri atti suicidari. Ed è per evitare che l’ignoranza e la leggerezza possano

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Costanzo, 2003, Famiglie di sangue

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condurre a false interpretazioni che il giudice, per cercare la verità causale del fatto che indaga , si deve avvalere delle nozioni di altre persone, fornite di un’istruzione e conoscenze speciali, cioè agli specialisti della materia o delle materie dove la conoscenza di una sola branca del sapere fosse insufficiente e si imponesse la collaborazione di più esperti. Rimane a lui devoluto, dunque, il riesame critico sull’elaborazione peritale, nel contraddittorio delle parti, poiché la perizia non è più considerata un mezzo di prova bensì uno strumento tecnico per l’interpretazione e la soluzione di tutti i problemi e le questioni che richiedono particolari conoscenze. In alcune circostanze, ad esempio, al medico legale più esperto e coscienzioso si affiancherà uno psichiatra, un ostetrico, un perito chimico etc.

Va precisato che nel nostro sistema giudiziario sussiste il divieto di svolgere perizie di tipo psicologico, quelle ciò relative alla natura dell'imputato, capaci di pronunciarsi sulla abitualità e professionalità del reato, sul carattere e la personalità dello stesso e sulle qualità psichiche indipendenti dalle cause propriamente patologiche; infatti tale indagini non aiuterebbero a pervenire a conoscenze utili a concludere se, in concreto, l’accusato o il sospettato sia da ritenere meno responsabile del fatto contestatogli. Ancora, particolare caso è costituito da quello nel quale la perizia viene disposta dal giudice per accertare l’imputabilità, la

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Di Tullio, Trattato di antropologia criminale

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processabilità, la compatibilità col sistema carcerario e la pericolosità sociale del reo.

Per quanto afferisce al concetto di imputabilità, la richiesta del magistrato al perito è quella di stabilire se al momento del compimento del reato quel soggetto fosse in possesso della capacità di intendere e di volere.

Quando si parla di imputabilità, si parla di un qualcosa che consiste in un modo d’essere di un soggetto, di uno status della persona, che deve sussistere prima che il soggetto abbia compiuto il reato, nonché di alcune cause che escludono o diminuiscono.

Nell’effettuare tale ricerca sull’attitudine del soggetto a rappresentarsi rettamente l’oggetto della sua azione, si devono tenere presenti due momenti significativi: quello intellettivo e quello volitivo.

Intellettivo, nel senso che l’agente deve saper intendere il proprio e l’altrui operato ed essere consapevole delle conseguenze giuridiche, sociali ed etiche derivanti da tale operato. Volitivo, nel senso che il medesimo deve avere la capacità di volere, che consiste nell’avere la capacità di autodeterminarsi, di volere quello che ritiene di dover fare.

Nelle leggi penali di tutti i paesi esiste oggi un particolare trattamento penale per il reato di infanticidio, inteso come fattispecie meno grave di

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Ferracuti, 1988, Trattato di criminologia

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omicidio compiuto nei confronti del neonato in circostanze particolari e sotto la spinta di pressioni sociali.

Le ragioni che giustificano, nelle varie norme penali, la previsione di un trattamento punitivo meno severo appaiono essere due, talora disgiunte e talora associate: in primo luogo la debilità fisica e psichica della madre, conseguente al parto recente, comportante una condizione psichica particolare che si riflette sulla coscienza e sulla volontà e in secondo luogo le circostanze e i condizionamenti culturali connessi alla modalità illegittima del concepimento o alle difficoltà ambientali nelle quali la donna sia venuta, si viene o si verrà a trovare.

In talune legislazioni la circostanza attenuante è ravvisata unicamente nel cosiddetto “turbamento psichico” connesso al parto recente: in tal senso un gruppo di codici (come quelli francese, svizzero, inglese) configurano l’infanticidio nel modo più estensivo, non ponendo pregiudiziali di ordine sociale o motivazionale alla sua definizione, che risulta essere la pura e semplice uccisione del neonato commessa dalla madre, che si presume inficiata nelle sue determinazioni a cagione del parto. Nei casi citati non si pongono esatti termini temporali all’esaurirsi del turbamento psichico e si fa solo generico riferimento all’uccisione di neonato. Altri codici, come il nostro, definiscono il tempo nel quale può riconoscersi l’infanticidio con

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www.diritto.it

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l’avverbio “immediatamente dopo il parto” ;altri ancora parlano di

“uccisione del figlio nato di recente” (Spagna); talaltri (Portogallo e Cile) circoscrivono il tempo ad otto giorni dopo il parto. Il codice svizzero configura l’infanticidio se realizzato durante il parto o finchè la donna “si trova sotto l’influsso del puerperio”; in Canada si considera addirittura come infanticidio l’uccisione del figlio che non abbia superato dodici mesi d’età, da parte della madre “che non sia completamente guarita dagli effetti del parto e dell'allattamento”.

Più o meno esplicita, è dunque comune la presunzione secondo la quale la donna che ha da poco partorito si trovi in una situazione particolare di tipo morboso. In tal senso sussistono ragioni sotto l’aspetto medico, che configurano la situazione sia fisica che psichica della puerpera di connotazioni particolari per un complesso intrecciarsi di fattori emotivi, ormonali, circolatori, con riverberi psicopatologici e psicologici, che la possono rendere particolarmente labile, depressa, soggetta a discontrolli, incapace di dare una giusta dimensione ai problemi.

Tutto ciò viene ad assumere un significato ancor più rilevante quando il parto avvenga in peculiari circostanze socio-ambientali: da qui la seconda condizione che spesso nei codici configura il trattamento particolare per la madre infanticida e cioè il verificarsi di pressioni e condizionamenti sociali

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www.psicologiagiuridica.com

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agenti specialmente sulla madre illegittima. Un gruppo di codici (Spagna, Portogallo, Argentina, Cuba, Costarica, Grecia e con essi anche quello italiano prima della riforma del 1981) fa esplicito riferimento, quale unica motivazione valida per configurare l’uccisione del neonato come infanticidio, alla tutela dell'onore sessuale. In coerenza con la prevalenza motivazionale della causa d’onore, i codici che si riferiscono ad essa estendono talora il trattamento di favore non solo alla madre, ma anche ai congiunti: laddove invece, nei codici ove la motivazione non è esplicitata nella causa d’onore, il trattamento di favore è limitato alla sola madre.

Altre legislazioni, infine, senza far specifico riferimento alla causa d’onore, considerano in modo più ampio i condizionamenti sociali, identificando l’infanticidio nell’uccisione del neonato illegittimo da parte della madre (Germania, Austria, Belgio, Romania, Lussemburgo). Con tale formula viene compresa la motivazione d’onore, ma vi ricadono oltre ai condizionamenti culturali, anche altre situazioni, quali l’indigenza, l’abbandono, le difficoltà psicologiche e materiali connesse all’illegittimità.

Volendo segmentare la storia più recente del reato di infanticidio in Italia, potremmo distinguere tre periodi: quello delle due formule normative precedenti all’attuale, quello della novella del 1981, quello in fieri dello

“Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale”.

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Ponti, Quaderni di criminologia clinica

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Nel testo in questione, infatti, all’art. 59, si legge: “Prevedere i seguenti delitti: 1) omicidio doloso (omissis) 2) infanticidio in condizioni di isolamento psicologico ovvero di abbandono materiale o morale (omissis)”.

A commento possono avanzarsi motivi di incertezza.

Il primo concerne l’espressione “isolamento psicologico”. Non si pretende dal diritto precisioni di linguaggio scientifico, il diritto usa i termini delle scienze dell'uomo ai propri fini e quindi può scegliere le accezioni per esso meglio fruibili e ne è testimonianza la disinvoltura con cui vengono usate indifferentemente espressioni diverse per il disturbo mentale: infermità o deficienza psichica, persona inferma di mente, persona in condizione di inferiorità psichica.

Ciò nondimeno, non solo il termine “isolamento psicologico” per le nostre scienze non significa nulla, ma soprattutto può significare di tutto e quindi ci si può immaginare la confusione cui potrebbe dar luogo.

Il sentimento di solitudine è sintomo di numerose condizioni psicopatologiche, tutte quelle della serie depressiva ad esempio, ovvero è criterio diagnostico di un disturbo di personalità (sentimenti cronici di vuoto, per aversi Disturbo Bordeline di Personalità secondo il DSM IV TR), ma soprattutto è condizione esistenziale diffusa.

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Gallina Fiorentini, Rassegna di criminologia

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Se invece il testo dello “Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale” vuol riferirsi ad una condizione psicopatologica di maggior rilevanza, essa potrebbe ben trovare sufficiente considerazione secondo gli abituali principi dell'imputabilità e la madre che avesse ucciso il neonato, perché affetta da un’infermità tale da abolire o grandemente scemare la capacità di intendere e di volere, nella diminuita o esclusa imputabilità troverebbe pertanto adeguato riconoscimento del proprio stato.

Peraltro, se fosse questa la situazione che il legislatore si prospetta saremmo di fronte a norma del tutto ridondante, ma anche se ci si volesse riferire ad una condizione di perturbamento ma non di più franca patologia ,a somiglianza degli “stati emotivi e passionali” dell'art. 90 C.P., vale la proposta di prevedere un’attenuante, senza “scomodare” un apposito articolo, con la conseguenza altrimenti di ritenere la condizione dell'infanticidio per così dire meritevole di tutela eccezionale ed unica (che sia prevista come attenuante è importante per non correre il rischio che l'infanticidio in condizioni particolarmente drammatiche ricada viceversa nell’aggravante di aver commesso omicidio nei confronti del discendente).

Può essere espresso un altro dubbio: le ipotesi di “abbandono materiale e morale” in un’epoca di presidi sanitari capillari paiono irrealistiche, ma le ipotesi potrebbero oggi affacciarsi per il sempre maggiore ingresso in Italia

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www.aipgitalia.it

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di straniere in condizioni di estrema emarginazione, di clandestinità, di vera e propria schiavitù.

Alcune sentenze sono suggestive in questo senso: “Il concetto di abbandono morale e materiale deve essere inteso come uno stato di derelizione, di solitudine, emarginazione, di carenza di mezzi e di rapporti socioeconomici, oltre che affettivi, in cui si viene a trovare la madre enucleata dal suo abituale ambiente umano. “La possibilità per l’agente di far ricorso a dette strutture deve però poter essere accertata in concreto, tenendo cioè conto anche della capacità culturale di utilizzare i sussidi posti a disposizione di chi è ammesso a beneficiarne, posto che la cultura individuale (intesa in senso antropologico) può avere la capacità di condizionare la libertà di scelta del soggetto. In altri termini, se la situazione sociale ed ambientale da un lato e la caratura culturale del soggetto agente dall’altro sono tali da rappresentare un ostacolo insormontabile, anche se solo a livello soggettivo, all’utilizzazione di detti sussidi, lo stato di derelizione può essere affermato anche in presenza delle strutture capaci di offrirli”.

Per ciò che concerne le motivazioni del figlicidio, il primo ad oprare una classificazione è stato Resnick* in un articolo del 1969.

Egli distingue cinque categorie:

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* vol. 126, 325 - 334

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1) FIGLICIDIO ALTRUISTICO. Nei due sottogruppi: figlicidio associato con il suicidio e figlicidio per alleviare la sofferenza.

2) FIGLICIDIO ACUTAMENTE PSICOTICO 3) FIGLICIDIO DEI RAGAZZI NON VOLUTI 4) FIGLICIDIO ACCIDENTALE

5) FIGLICIDIO DI VENDETTA DEL CONIUGE.

1.2 Lettura antropologico-culturale

La storia e l’antropologia ci mostrano molteplici e frequenti forme di figlicidio che variano in un ampio spettro che va dall’uccisione diretta dei figli fino a forme attenuate come la negligenza lieve. Questa gamma di atteggiamenti aggressivi dei genitori esiste in ogni società, tanto nelle primitive come nelle contemporanee. Si tratta, di conseguenza, di una caratteristica specifica della condizione umana.

Darwin associò la comparsa dell'uomo nell’evoluzione della specie con il figlicidio.

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* 1936, pag. 430

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Bakan* fa notare che i numerosi riferimenti nella Bibbia all’ uccisione dei bambini sono un indice dell'importanza che aveva questo fatto per coloro che composero il racconto biblico.

Nell’antichità i bambini compaiono come vittime sacrificali in molti tipi di cerimonie.

E’ noto quale valore simbolico avesse per i nostri antenati la fondazione di una nuova città. Ancora oggi ,secondo Frazer**, la costruzione di un casa assume il significato di una cerimonia che non può essere compiuta senza immolare una vittima ,per lo più un bambino. Così presso i Bulgari si ritiene, ad esempio che per costruire un edificio sia necessario sotterrarvi un uomo o meglio un bambino, ma poiché ciò è attualmente impossibile, essi ne misurano l’ombra con un filo di spago, poi sotterrano il filo, nella convinzione che così facendo la vittima morirà dentro l’anno.

Il figlicidio può trovarsi in alcune specie animali, particolarmente in condizioni difficili o penose di sopravvivenza, in situazione di costrizione e di lotta territoriale. Ricordiamo ad esempio le forme di cannibalismo della cagna che può uccidere e mangiare i propri piccoli quando non si sente sufficientemente nutrita o dei pesciolini rossi degli stagni che mangiano le uova allorquando la quantità di animali supera le possibilità di sopravvivenza.

* Slaughter of innocents, 1971

** Il ramo d’oro,1999

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Ogni comportamento intenzionalmente o attivamente figlicida può essere compendiato con una definizione di natura orale –il genitore divorante – perché nella fase orale dello sviluppo, cioè già all’alba della vita, sono poste le condizioni per l’evoluzione dei sentimenti di amore e di odio che legheranno per sempre figli e genitori. Le condotte e i fantasmi cannibaleschi dell'adulto nei confronti del bambino sono stati generalmente ignorati mentre al contrario l’aggressività orale e gli impulsi antropofagi infantili sono stati oggetto di particolare interesse. Si può avere la prova di questa omissione con una considerazione statistica: esistono solo pochi studi su tale argomento, di cui il più importante è quello di Devereux*. Da tutto l insieme sembra potersi evincere una tendenza a considerare gli impulsi cannibaleschi del bambino come primari mentre quelli dell'adulto sarebbero soltanto reattivi o al limite una rielaborazione degli impulsi infantili.

In generale si possono riconoscere in Australia due forme di antropofagia.

Le tribù settentrionali divorano un bambino ogni due credendo di raddoppiare le forze. Il cannibalismo esiste nell’Australia centrale anche in una forma molto particolare che consiste nel provocare l’aborto di una donna incinta con lo scopo di mangiarne il feto.

Esempi di figlicidio possono essere rintracciati anche nella letteratura.

* 1966, pag. 114

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Nella tragedia greca di Euripide “Medea” ritroviamo specifiche motivazioni all’atto figlicida. Fin dall’inizio della tragedia, le amare considerazione di Medea riguardo alla nascita annunciano il tema fondamentale :essa preferirebbe uccidere piuttosto che sopportare la primitiva separazione del bambino dalla madre. Il parto, la maledizione della donna, è vissuto come una castrazione. Quando si parla di toglierle per sempre i suoi figli l’unico rimedio è introiettare furiosamente l’oggetto nella speranza di restaurare in maniera regressiva la perduta unità.

Alcuni casi, di recente, hanno particolarmente allarmato l’opinione pubblica e occupato largo spazio giornalistico e televisivo; in specie, alcuni casi di figlicidio hanno indotto l’impressione che il fenomeno sia in preoccupante aumento. Quanto alla crescita, è per ora impossibile e prematuro esprimersi (gli andamenti statistici non si calcolano di anno in anno); quanto alla novità, possiamo subito dire che non lo è affatto.

Narra Ovidio nelle Metamorfosi che Tereo, re della Tracia, ebbe in moglie Procne, figlia del re di Atene; ma in quella terra soffriva di nostalgia e chiese di avere la compagnia della sorella Filomela. Il marito l’accontentò prontamente, si recò ad Atene, convinse la cognata, la condusse con sé, ma durante il viaggio fu preso da passione per lei, giunto in patria la violentò e, per assicurarsi il suo silenzio, le recise la lingua. Filiomela, pur

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Rascovsky, Il figlicidio

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impossibilitata a comunicare con la parola, trovò il modo di far conoscere la scelleratezza alla sorella attraverso un ricamo in cui rappresentò la vicenda.

Procne, sconvolta e sdegnata, architettò la vendetta non solo uccidendo Itis, il figlioletto della sorella e del marito, ma addirittura cuocendone il corpo, imbandendolo a Tereo ed esultando poi, assieme alla sorella, nel rivelare l’orrore al padre che chiedeva del figlio.

Certo, il mito può rappresentare eventi eccezionali, sia nella mostruoisità che nella frequenza, ma il fatto è che i figlicidi nel mito greco sono un po’

troppo ricorrenti per ritenerli così straordinari.

Penteo, re di Tebe, era ostile a Dioniso e cercava di ostacolare l’introduzione del vino e dei riti orgiastici soprattutto femminili ad esso collegati, quelli delle Baccanti, nella sua città. Travestito da donna, si intrufola tra le Baccanti per spiarne i riti, ma Dioniso avverte le donne della presenza del profanatore dei loro misteri e fa sì che esse vedano al posto dell'uomo un leone, che dunque uccidono, facendolo a pezzi, capeggiate proprio dalla madre di Penteo, Agave. Così racconta Euripide nelle

“Baccanti”.

Se non è una novità, se non abbiamo motivo per ora di essere in presenza di allarmanti crescite del fenomeno, perché tanto schiamazzo mediatico?

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Carloni et al., La mamma cattiva

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E’ noto che il timore del crimine non è sempre in proporzione al rischio criminale e che esistono asimmetrie irragionevoli fra paura ed effettivo pericolo del crimine.

Delumeau* fornisce un’altra possibile chiave interpretativa, quella del

“processo di oggettivazione” secondo il quale chi sente paura può anche provare il bisogno di incutere paura.

Secondo Francia, Pintucci e Traverso** persino quest’attenzione dei mezzi di comunicazione e poi di noi tutti non è un fatto nuovo ed è da ricondursi al gioco reciproco fra il meccanismo dell'identificazione con l’aggressore e l’ambivalenza affettiva che lega genitori e figli.

Dal punto di vista psicoanalitico, tale fenomeno viene spiegato attraverso il meccanismo dell'identificazione sia con l’aggressore sia con la vittima, soddisfacendo e controllando, allo stesso tempo, le tendenze sadomasochistiche inaccettabili per la coscienza e temute dall’Io: il tipico sdegno dopo tali notizie implicherebbe una difesa contro la colpevolezza di tale partecipazione.

*Il peccato e la paura, 1987

**1984, pg.307

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1.3 Lettura psicodinamica

La letteratura psicoanalitica ha via via collocato le fantasie inconsce che vengono agite nel gesto figlicida nell’ambito di vari snodi conflittuali dello sviluppo umano ,mai pienamente risolti in ognuno di noi .La fantasia inconscia figlicida può riferirsi ,di volta in volta, all’area classica della conflittualità edipica o controedipica; oppure a quella, più primitiva ,studiata dagli sviluppi kleiniani e post-kleiniani, relativa all’elaborazione dell'originaria organizzazione schizoparanoidea e al rapporto con gli oggetti persecutori interni, che possono essere proiettati sul figlio; oppure può situarsi nell’ambito delle dinamiche descritte da Fornari* relative a quella dimensione inconscia chiamata” famiglia fantasmatica”, non regolata da ruoli e norme e “dove ogni membro si immagina uccisore o ucciso in funzione al fatto che ogni membro si accoppia sessualmente con gli altri”.

Su questa dimensione familiare inconscia e in contrapposizione dinamica ad essa, si organizza la famiglia sociale reale, cui è demandato non solo di raccogliere ed organizzare gli aspetti libidici e protettivi delle relazioni primarie ma anche di schermare e proteggere i sistemi familiari umani dalle angosce connesse alla dimensione familiare più inconscia. L’equilibrio dinamico tra questi diversi livelli dell'esperienza familiare fonda “la

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*Criminogenesi e criminodinamica della psicosi maniaco depressiva, 1968

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grandezza e la tragicità insieme della famiglia umana come istituzione sociale che si struttura a partire dal mondo dei fantasmi inconsci, rimanendo eternamente sospesa su di essi come sull’orlo di un disastro”.

Per quanto riguarda la già citata teoria kleiniana , le dinamiche sono molto più complesse. Durante la vita intrauterina ,il flusso ombelicale dà al feto tutti gli elementi che neutralizzano la domanda istintuale. Con la nascita ciò si interrompe, pertanto compare l’istinto di morte. Se l’individuo è privo di parti di sostanze organiche da disintegrare, la sua aggressione interna si esercita sul proprio Io corporeo. Così nei primi mesi di vita il bambino si alimenta di parti corporali della madre. Questa precoce relazione cannibalistica ha significati psicologici specifici che configurano la posizione schizoparanoide.

Dopo la fase schizoparanoide, nella quale si trova in situazione diadica (a due :egli e il seno),il bambino elabora un complesso sistema mediante il quale sposta l’ingestione di parti corporali della madre sugli alimenti secondo un modello totemico per cui gli alimenti acquisiscono un significato antropomorfico.

In condizioni di eccessivo stress, l’individuo adulto rompe l’equilibrio che risulta dalla sua evoluzione e ritorna a livelli primitivi. La forma più generalizzata è la regressione schizoparanoide. La regressione totale è molto

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Klein, Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi

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rara e si osserva solo nelle forme gravi. In tali condizioni regressive, l’individuo ritorna alla relazione oggettuale parziale e appaiono fantasie cannibalistiche che non vengono agite, però se le tensioni sono troppo gravi l’atto cannibalistico che porta alla distruzione degli oggetti figli risulta assai realizzabile. L’essere umano in condizioni di estremo stress può tornare totalmente alla fase schizoparanoide e da questa primitiva struttura ricorrere all’ingestione dei figli, cioè gli oggetti che normalmente conserva quando mantiene il suo equilibrio affettivo.

Possiamo invocare da un vertice psicoanalitico diverse possibilità interpretative e sostenere per esempio che il figlio possa inconsciamente rappresentare un fratello o una sorella rivale e così suscitare gelosia e ostilità, oppure che il figlio sia vissuto come il proprio padre rivale; oppure si può pensare che il bambino simboleggi un aspetto odiato del proprio Sé e che quindi, come tale, sia una cocente delusione rispetto al figlio ideale o perfetto sognato da ogni genitore, oppure ancora potremmo ipotizzare che i genitori maltrattino il figlio allo stesso modo in cui essi furono maltrattati dai propri genitori.

Ho già sottolineato i due poli ontologici della condizione umana: quello della consapevolezza della morte e il desiderio d’eternità. Essi rimandano strettamente alla dimensione del tempo: la prima legata ad un tempo lineare,

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Freud, Opere vol. 11

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al continuo divenire e fluire delle cose; il secondo legato al tempo circolare, il tempo del puer aeternus della psicologia junghiana, il tempo dell'immobilità. E’ questo un tempo illusorio, quello del sogno e della fantasia, dell'immortalità: esso è il risultato della negazione del tempo lineare, una difesa specifica dalla paura e dal dolore della propria morte. Se la nascita di un bambino è la prosecuzione , per via indiretta, della vita dei genitori, una sonda del proprio Sé corporeo e psichico lanciata nello spazio dell'eternità, essa rappresenta anche un segnatempo inesorabile del limite dell'esistenza individuale.

In numerosi miti ricorre la profezia che il figlio ucciderà il padre e ne prenderà il posto: se questa uccisione può essere letta in termini edipici, così come tradizionalmente si è fatto, essa può essere intesa anche come metafora del fatto che il figlio necessariamente testimonia ai genitori il passar del tempo e quindi l’inevitabilità dell'invecchiamento e della morte.

Uno dei primi studiosi a dare un contributo con considerazioni cliniche e psicodinamiche al figlicidio ed in particolare al neonaticidio è stato Brozovsky* in una rivista del 1971. Egli ha evidenziato, come fattori fondamentali, di rischio il retroterra culturale e sociale e la struttura del carattere della madre. Soffermandosi sul fenomeno della negazione della gravidanza, considerata come una delle varie facce del figlicidio, ipotizza che

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*1971. pagg. 673-683

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questo origini da un Ego disorganizzato e che la successiva dissoluzione di questo diniego porti a far confrontare la madre con la paura che ha inizialmente causato il meccanismo di difesa, come ad esempio l’essere abbandonata dai propri familiari.

1.4 Lettura psicopatologica

Per quel che riguarda il mondo psicopatologico va ricordato che solo una parte delle madri che commettono il figlicidio soffrono di una chiara malattia psichiatrica.

Nelle patologie psicotiche franche l’omicidio del figlio può avvenire in un’elaborazione delirante in cui il figlio diventa il ricettacolo massicciamente proiettivo d’esperienze persecutorie interne, sia si tratti di condizioni schizofreniche o di deliri persecutori non schizofrenici come paranoia e oligofrenia.

Nelle condizioni depressive gravi il figlio può essere inglobato in una tematica melanconica o persecutoria melanconica e ucciso nell’ambito di un suicidio allargato animato da istanze paradossalmente protettive (la riunificazione in un mondo migliore).

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Di Bello et al., 2001, Il rifiuto della maternità

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Vi sono madri poi che fecalizzano il neonato o negano la gravidanza e la nascita come in certe psicosi puerperali.

Questa è a grandi linee la classificazione generica del figlicidio compiuto da soggetti affetti da disturbi psichiatrici. Recentemente si è inserito tra questi anche la sindrome di Munchausen per procura, da molti considerata come la versione moderna del figlicidio.

L’espressione sindrome di Munchausen compare per la prima volta nel 1951 per descrivere quelle persone che si rivolgono insistentemente a medici e ospedali riferendo continui e inesistenti disturbi. Alla triste applicazione ai bambini si giunge circa venti anni dopo con la definizione di Meadow

“sindrome di Munchausen per procura”. Si ritiene che la motivazione di tale comportamento sia il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato.

Volendo risalire ad una nosografia del figlicidio più accurata ma più addietro negli anni si può citare la classificazione di Delay, Lemperiere, Escourelle e Dereux* del 1957. Essa rintraccia in una delle tre forme di figlicidio, quello impulsive, tre cause: puerperio, stati epilettici, etilismo cronico.

La psicosi puerperale è una delle cause più frequenti d’infanticidio: la psichiatria oggi segnala come categorie nosografiche autonome le forme

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Levin, La sindrome di Munchausen per procura

*pgg.4069-4080

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psicotiche che si realizzano nella gravidanza, nel puerperio e nell’aborto, definendole “psicosi puerperali”. Il quadro clinico delle psicosi puerperali presenta sintomi quali la depressione, gli stati maniacali e depressivi con elementi deliranti, le manie. In queste condizioni cliniche, le infanticide arrivano finanche a negare l’esistenza del figlio e della maternità.

Un disturbo tipico dello “infanticida seriale”, soggetto per fortuna rarissimo che si caratterizza per il ripetersi del reato, è invece la cosiddetta

“pazzia impulsiva”.

Il DSM IV parla del disturbo del controllo degli impulsi, riferendosi all’incapacità di resistere ad un impulso, ad un desiderio impellente o alla tentazione di compiere un’azione pericolosa per sé e per gli altri. In questo caso, si prova una fortissima eccitazione prima di compiere l’azione e, dopo averla compiuta, subentra uno stato di sollievo. Questo disturbo si può inquadrare come un’alterazione permanente della personalità e si manifesta in periodi particolari di cambiamento quali, ad esempio, il periodo così delicato della gravidanza.

La valutazione psichiatrica di donne infanticide ha consentito, tra gli altri, di rilevare alcuni casi di disturbo bordeline di personalità. I sintomi della patologia sono qui di difficile identificazione, in quanto l’intelligenza del soggetto bordeline appare, quasi sempre, ben adeguata e nei limiti della

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distribuzione normale, a differenza di quanto capita nella maggior parte di casi d’infanticide. Infatti, in questi casi, è la sfera del sentimento e delle azioni ad essere compromessa: si rileva una sorta di “mancanza di compassione”, accompagnata da una grave confusione della condotta.

La donna infanticida è colei che non riesce a condividere il dolore, non ha la possibilità di sentire nell’anima il dolore dei mali altrui e, quindi, il desiderio di lenirli. In sintesi, è incapace di impietosirsi, di compatire e, infine, di perdonare. Questo tipo di personalità, arriva a progettare un delitto con la massima scaltrezza e notevole freddezza. Per ciò che riguarda nello specifico il figlicidio, colui che uccide il proprio figlio è spesso un soggetto tarato e malato di mente. Generalmente sono soggetti affetti da depressioni gravi di tipo endogeno, che si manifestano attraverso l’autosvalutazione, un senso d’inadeguatezza, la paura della perdita della capacità di svolgere il proprio ruolo genitoriale. In questo senso, il figlicidio, è un suicidio di tipo egoistico. Chi compie questo tipo di reato, di frequente nel passato, ha dovuto combattere contro sentimenti ambivalenti, d’amore e d’odio, vissuti nei confronti del proprio figlio.

Spesso il bambino non è stato desiderato dai genitori, oppure il genitore ha temuto di poter nuocere al proprio figlio, oppure il genitore ha temuto che il proprio figlio fosse portatore di handicap o d’anomalie mentali o che fosse

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incapace di crescere e svilupparsi, oppure il genitore ha vissuto il proprio figlio come un limite alla propria libertà, vivendolo, dunque, come un vero e proprio nemico.

Il figlicidio, anche, può essere agito da genitori affetti da caratteropatia o sociopatia. In questi casi il figlicida manifesta anaffettività, insensibilità, incapacità di stabilire rapporti empatici, sia in famiglia sia fuori di essa, aggressività e non adeguamento alle norme sociali.

Si possono descrivere quindi una serie di tipologie situazionali e motivazionali del figlicidio materno, in un continuum che va dall’assenza di patologia, via via verso la patologia più grave.

1. Nell’atto impulsivo delle madri che sono solite maltrattare i figli, non vi è un progetto omicida, quanto un’evoluzione particolarmente infausta della “battered child syndrome”, un agito impulsivo in risposta a pianti o urla del bimbo, da parte di madri affette da disturbi di personalità, con modesta intelligenza, irritabilità, incapacità a mantenere un lavoro stabile.

2. Non dissimili paiono i casi di uccisione per brutalità di madri infastidite dal pianto o dalle esigenze del bambino.

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Merzagora Betsos, 2003, Demoni del focolare

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3. Nell’agire omissivo delle madri passive e negligenti nel ruolo materno si è al cospetto di madri incapaci di affrontare i compiti della maternità relativi alle necessità vitali del figlio.

4. Abbastanza simili a quelli testè citati sono quei figlicidi per fatalità, poiché alcuni, rifacendosi al concetto di ambivalenza, avvertono che essi

“trovano nel non insolito accompagnamento di fantasie figlicide un ridimensionamento del ruolo assegnato al destino”.

5. Le madri che uccidono i figli non voluti sono coloro per le quali il figlio rievoca momenti di abbandono, magari violenza sessuale o particolari difficoltà concrete ed esistenziali.

6. Le madri che uccidono i figli trasformati in capri espiatori di tutte le loro frustrazioni reputano, talora in modo delirante, che il bambino abbia

“sformato” attraverso la gravidanza il loro corpo e che le costringa a dover trascorrere tutta la giornata per badare alle malattie reali o presunte, alle necessità fisiologiche ed ai loro capricci.

7. Le madri possono uccidere per motivi di convenienza o di pressione sociale e d’onore, questi ultimi ormai scomparsi.

8. Tra i motivi sociali o forse meglio ideologici, taluni annoverano i casi di madri che, aderendo a sette religiose che prescrivono di evitare

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Palermo, 2002, International Journal of Offendre Therapy & Comparative Criminology, Vol. 46

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trasfusioni o medicinali, lasciano che i loro figli muoiano piuttosto che ricorrere a cure mediche che potrebbero salvarli.

9. Un importante contributo al figlicidio materno è poi costituito dalle madri che hanno a loro volta subito violenza dalla propria genitrice e spostano l’aggressività dalla “madre cattiva” verso il figlio.

10. Dinamiche più prettamente patologiche si ritrovano nei neonaticidi attuati in presenza ed a causa di psicopatologie puerperali, che sono descritte in tre diverse forme, tutte caratterizzate da depressione ma con differenti livelli di gravità.

11. Sempre informate a grave depressione ma non così strettamente connesse all’evento del parto, sono le situazioni di quelle madri che desiderano uccidersi e uccidono il figlio (suicidio allargato), delle madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo (figlicidio altruistico), delle madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire (omicidio

“pietatis causa”, eutanasia o omicidio compassionevole o pseudo compassionevole, quando motivato dal desiderio di “liberarsi del fardello” del figlio malato). Sono anche riferiti casi di figlicidio “pietatis causa” commesso dalle madri per sottrarre i figli agli orrori della guerra e delle probabili torture, per esempio di recente in Bosnia.

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Stanton et al., 2002, International Journal of Low and Psychiatry, vol. 25

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“Preferirei tre volte, le armi in pugno combattere, piuttosto che una volta soltanto partorire…”

(Euripide, Medea)

CAPITOLO SECONDO

La depressione materna

2.1 Definizione

Nella nostra cultura i giorni, che seguono una nascita, sono considerati momenti di gioia ,di felicità intensa ,in cui la famiglia e tutto l’entourage partecipano al lieto evento.

L’immagine stereotipa della puerpera viene spesso raffigurata da una donna che sprizza serenità assistita da parenti e amici.

La realtà spesso non è così e, in un certo numero di casi, la nascita di una creatura può essere fonte di preoccupazione ed ansia.

Dopo un parto possono essere rintracciate, in un’elevata percentuale di puerpere, tre situazioni.

Il baby blues ,la depressione post-partum e la psicosi post-partum.

Il baby blues è una reazione emozionale che si manifesta in maniera improvvisa nei primi giorni dopo il parto, spesso in occasione del ritorno a casa, e che è molto frequente nelle giovani madri. I dati disponibili indicano una prevalenza del cinquanta- ottanta per cento nelle primipare e del quaranta

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Romito, 1992, La depressione dopo il parto

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- cinquanta per cento nelle madri con precedenti esperienze. Dopo l’intenso stress fisico e psicologico del parto , si manifesta con un abbassamento evidente del tono dell'umore ,un senso di grande spossatezza ,brevi ma frequenti e ingiustificati episodi di pianto, elevata instabilità emotiva con scatti di irritabilità e permalosità accentuata associata ad agitazione. Questi sintomi compaiono, in genere quasi all’improvviso, tre –quattro giorni dopo il parto. Possono durare qualche giorno e poi si risolvono da soli senza che vi sia bisogno di alcun intervento specifico.

Questa reazione è la più comune e la meno grave delle reazioni emozionali che possono seguire un parto.

Altra cosa è la depressione post-partum.

Si verifica in circa il dieci - quindici per cento delle puerpere e può colpire ogni donna indipendentemente dall’età ,dal numero di gravidanze precedenti e dalla situazione sociale ed economica.

Precedenti episodi depressivi non riconosciuti o minimizzati costituiscono un fattore di rischio. In genere i primi sintomi compaiono qualche giorno dopo la nascita ed aumentano di intensità nelle settimane che seguono. Senza trattamento la durata dell'episodio può variare da quattro - sei settimane ad un anno o più. L ‘ intensità della sindrome può essere esacerbata dalle carenze di supporto emozionale e sociale alla puerpera.

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www.fondazioneidea.it

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I sintomi sono molto vari e possono includere un forte abbassamento dell'umore che pervade totalmente la giornata, disperazione, sconforto, perdita di interesse per la creatura partorita o preoccupazioni ingiustificate per il benessere del neonato, difficoltà di concentrazione ,difficoltà a decidere, senso di colpa ,di inadeguatezza, perdita della libido, paura di essere una cattiva madre, pensieri di morte. Questi sintomi sono spesso accompagnati da cefalee persistenti, palpitazioni, insonnia, incubi notturni.

Attacchi di panico possono pure essere presenti.

Una madre che, soffre di depressione post-partum, può presentare alcuni o molti dei sintomi sopra elencati ed essi possono essere intensi o moderati, può avere dei giorni molto neri e dei giorni molto buoni.

Va ricordato e sottolineato che tutti i sintomi sono temporanei e curabili.

L’approccio terapeutico dovrebbe prevedere un visita medica generale con particolare attenzione alla funzionalità tiroidea, una visita psichiatrica ed un trattamento farmacologico e psicoterapico(psicoterapia interpersonale o cognitivo - comportamentale).

Superata la fase acuta, la partecipazione ad un gruppo di autoaiuto per depressione ed ansia è raccomandato da molti in quanto rappresenta un utile complemento e permette un maggior supporto emozionale, una migliore informazione ed educazione sul disturbo.

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www.depression.ch

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La psicosi post - partum rappresenta invece la reazione più grave e fortunatamente più rara.

La si osserva in genere in una puerpera su mille. L’insorgenza è brusca, improvvisa, durante le prime due - tre settimane e comporta una perdita di contatto con la realtà: sono presenti confusioni, allucinazioni, idee deliranti ,eloquio incoerente, rifiuto di cibo, disturbi mnesici , comportamenti bizzarri e a volte pensieri omicidi e suicidi.

La psicosi post-partum è un’emergenza grave

che richiede il ricovero immediato .Tuttavia, malgrado la gravità dei sintomi, se l’intervento terapeutico è rapido, la prognosi è in genere favorevole.

In realtà la depressione materna può presentarsi già in gravidanza. Infatti una percentuale compresa tra il quattro e il quindici per cento delle gestanti ne soffre.

I disturbi d’ansia e i sintomi di depressione ( stanchezza, esagerata emotività, disturbi del sonno e cambiamenti d’appetito ) si distinguono e si riconoscono con difficoltà dalla normale gamma d’esperienze e di adattamenti propri della gravidanza.

I problemi emotivi, nell’ambiente in cui la donna vive, spesso non sono riconosciuti come tali o nascosti per imbarazzo o pudore.

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www.saperidoc.it

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Normalmente le donne provano ansia e a volte angoscia verso i normali disagi e fastidi di questo periodo, vivono con insicurezza l’esito della gravidanza e temono di non essere in grado di accudire il neonato.

Solo un alto livello di preoccupazione può nuocere sia alla salute della madre che del bambino e causare gravi disturbi dell'umore e depressione postnatale. Un eccesso di stress può peggiorare condizioni psicologiche precedentemente difficili.

E’ opportuno trattare adeguatamente i sintomi depressivi per evitare difficoltà di relazione con il partner, nel legame col bambino e l’insorgenza di problemi psicologici a lungo termine.

I fattori di rischio identificati sono:

• precedente storia psichiatrica personale

• mancanza di supporto emotivo e pratico

• eccesso di disturbi somatici

• avere già partorito

• avere problemi d’adattamento ambientale e sociale cronici.

I due maggiori sistemi diagnostici psichiatrici internazionali differiscono nella loro definizione di postpartum. La classificazione internazionale dei disturbi ammette la denominazione di disordini mentali e fisici associati con il puerperio solo se i disordini compaiono nelle prime sei settimane dopo la

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nascita. La versione attuale del manuale statistico diagnostico dei disturbi mentali, DSMIV-TR*, mostra che la denominazione di inizio del postpartum può essere fatta solo per poche diagnosi fatte entro le prime quattro settimane dalla nascita.

Il termine “inizio del postpartum” potrebbe essere appropriato per svariate diagnosi. Per esempio il periodo del postpartum è ad alto rischio per i disturbi d’ansia , i disturbi di panico e disturbi ossessivo-compulsivo. Molte pazienti infatti hanno descritto pensieri ossessivi.

In accordo con il DSM-IV-TR, le ossessioni sono ricorrenti e persistenti pensieri, impulsi o immagini che sono sperimentate come intrusive e inappropriate e causano marcata ansia e stress. Essi non sono semplicemente eccessive preoccupazioni circa gli eventi di vita reali ma anche ruminazioni.

L’individuo tenta di ignorare o sopprimere le ossessioni o cerca di neutralizzarli con altri pensieri o azioni. Per esempio, alcune madri hanno pensieri ossessivi riguardanti il pugnalare i loro figli e dispongono di ogni forma di oggetto in casa.

Per definizione le ossessioni non sono sintomi psicotici poiché gli individui comprendono che pensieri, impulsi o immagini sono un prodotto della loro mente (non imposte da forze esterne come potrebbe accadere per i sintomi psicotici). Inoltre le immagini ossessive sono brevi e percepite come

*Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali Quarta edizione revisionata, 2001

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se fossero nella mente al contrario delle allucinazioni dove vengono percepite come facenti parte dell'ambiente. Per esempio una paziente può descrivere immagini orribili di sé stessa e del neonato in una bara.

Wisner* e i suoi collaboratori hanno trovato che la privazione di sonno, che è spesso estrema dopo la nascita, potrebbe essere responsabile di questa disorganizzazione cognitiva. Lo stato disorganizzato indotto dalla distruzione dei ritmi circadiani e la mancanza di sonno potrebbero giocare un ruolo eziologico nelle donne più vulnerabili.

La deprivazione di sonno potrebbe anche creare rischio di stati maniacali o ipomaniacali nelle donne con disturbi bipolari. Strouse** ha usato la deprivazione parziale di sonno come trattamento per tre donne con depressione postpartum di tipo psicotico. Tutte e tre le donne sono passate da uno stato di depressione a stati maniacali o ipomaniacali.

* 1994, pgg.77-87

** 1992, pgg.204-206

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2.2 Modello medico

Secondo una teoria controversa ma importante, la depressione è dovuta a cambiamenti ormonali che si verificano dopo il parto. A causa dei delicati livelli biochimici tra mente e corpo, si ritiene che questi cambiamenti possano influenzare il cervello e dare origine a vari sintomi: disturbi del sonno, disordini alimentari, crisi di pianto, confusione ed estrema irritabilità.

I due ormoni coinvolti nella creazione di un bambino sono l'estrogeno e il progesterone.

Il loro livello si alza notevolmente durante la gravidanza favorendo la sensazione di benessere che caratterizza spesso questo periodo.

Dopo il parto gli ormoni che hanno mantenuto livelli altissimi per mesi e mesi si abbassano di colpo: nel giro di poche ore vengono riscontrati in quantità minime. Gli ormoni speciali che vengono prodotti solo durante l’attesa scompaiono del tutto.

Alcuni ritengono che sia proprio questo abbassamento improvviso del livello ormonale a scatenare la depressione, indipendentemente dalla tensione del parto.

Le neo - madri che hanno avuto la diminuzione più marcata di progesterone sembrano essere quelle più predisposte alla depressione.

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Marshall, 2001, Mamma in blu

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Per più di un secolo i medici hanno pensato che le donne che allattavano al seno fossero esposte ad un maggior rischio di ansietà e depressione post- partum, originariamente chiamata “pianto da latte”. Dall’altra , gli avvocati dell'allattamento materno citavano una migliore condizione psicologica come un beneficio dell'allattamento materno.

Considerando gli effetti della prolattina e degli ormoni ad essa associati sull'umore materno, un legame tra allattamento materno e depressione post – partum sembra possibile, ma qual è la natura di questa relazione?

L’allattamento materno aumenta il rischio di depressione post-partum?

Le rassegne di studi scientifici indicano che l’allattamento materno non aumentano il rischio della depressione post- partum.

Nelle donne con concentrazioni ormonali nella norma un allattamento ben riuscito può proteggere dallo svilupparsi di depressione post-partum.

Una parziale spiegazione è che l’allattamento materno procura un rilassamento indotto dallo stato ormonale. Di uguale importanza è il fatto che un allattamento ben riuscito può accrescere la sicurezza della madre e l’adattamento al ruolo materno. Questo procura protezione contro l’insicurezza, la quale accresce la depressione post-partum.

Le donne che allattano al seno naturalmente non solo forniscono sostanze nutritive essenziali e protezione immunitaria ma hanno anche un' efficace

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www.lalecheleague.org

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strada da percorrere per acquisire fiducia nelle loro abilità di madri nutrendo i propri figli così come solo loro possono fare.

Molte neo mamme presentano fatica e stanchezza nel primo mese dopo il parto. Questo può essere collegato ad una condizione medica che riguarda una disfunzione della ghiandola tiroidea spesso chiamata postpartum tiroidite. L’incidenza è stimata intorno al cinque per cento e questo significa che il disturbo non è poi così raro.

Esattamente il PPT è una disfunzione della tiroide, una ghiandola che produce alcuni ormoni nel corpo. Dopo la nascita la produzione della tiroide diminuisce e può verificarsi un problema nel ritornare ai livelli di produzione prima della gravidanza.

La postpartum tiroidite sembra seguire tre fasi successive : ipertiroidismo, ipotiroidismo e guarigione.

La prima fase appare da uno a tre mesi dopo il parto. E’ chiamata ipertiroidismo perché la tiroide produce più ormoni del necessario. Durante questo periodo si possono avere problemi di sonno e ansietà eccessiva.

Dopo questo, all’incirca da tre a sei mesi dopo la nascita, appare una fase di ipotiroidismo. La produzione della ghiandola scende e ne consegue aumento di peso, intolleranza al freddo e pigrizia. Questa disfunzione

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www.postpartum.net

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tipicamente si risolve senza trattamento quando il corpo della madre attraversa la fase di guarigione e ritorna ad un normale stato tiroideo.

Altri sintomi che si possono notare sono costipazione, pelle secca e gozzo.

Quest’ ultimo è il segno fisico più comune: esso è l’ingrandimento indolore della ghiandola della tiroide, situata alla base della gola vicino alla clavicola.

Nel caso di una neo mamma, notando questo sintomo in concomitanza di un eccessivo bisogno di sonno, c’è ragione di richiedere un trattamento dal medico di famiglia.

Dopo aver ricevuto la terapia per risistemare i livelli ormonali, la condizione della donna migliorerà e dopo sei mesi potrà gradualmente sospendere i farmaci.

Il trattamento per PPT varia in dipendenza della fase in cui ci si trova. Per l’ipertiroidismo sarà prescritto un medicinale per controllare i sintomi. Nel caso di ipotiroidismo, dopo la terapia di ristabilimento dei livelli ormonali, c’è bisogno di un appropriato trattamento a base di levotiroxina, un ormone che serve a regolare la tiroide.

Fattori di rischio per lo sviluppo di questo disturbo sono: presenza di anticorpi antitiroidei nella prima metà della gravidanza, precedente presenza di PPT, storia familiare di problemi alla tiroide e presenza di diabetici in cura con insulina.

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2.3 Modello sociologico

Dagli anni Cinquanta in poi, numerose ricerche della sociologia della famiglia, hanno studiato la transizione alla condizione di genitori: obiettivo principale era capire l’effetto della nascita di un figlio sulla vita dei genitori.

I risultati dell'insieme di queste ricerche vanno clamorosamente contro quel che la maggior parte della gente pensa in proposito: l’arrivo di un figlio, benchè accompagnato anche da gioia, rende spesso le relazioni di coppia più difficili, la soddisfazione coniugale tende a diminuire invece di aumentare con la nascita del primo bambino, le coppie senza figli sono mediamente più felici di quelle con bambini.

Data la divisione del lavoro di cura, le madri subiscono conseguenze specifiche :l’aumento del lavoro domestico ,la disponibilità continua del loro tempo richiesta dal bambino, la mancanza di sonno e la fatica.

Oackley* fa un’analisi critica di quel che si chiama il “paradigma femminile”, implicito sia nelle ricerche mediche che in quelle svolte nell’ambito delle scienze sociali. In questo paradigma, le donne sono considerate come persone programmate esclusivamente per la riproduzione e non come esseri umani completi: di conseguenza le loro reazioni,

*1980

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l’adattamento alla maternità o la depressione post -partum, sono attribuite alla loro femminilità più che alla loro umanità.

Oakley propone un’ipotesi alternativa: la nascita di un figlio, e soprattutto del primo, può essere un avvenimento che sconvolge totalmente la vita delle madri.

Come altri avvenimenti di questo tipo (andare in pensione, subire un’operazione chirurgica importante), ed in determinate circostanze, anche la nascita di un figlio può insomma causare una reazione depressiva.

Pedersen* ha trovato un associazione positiva tra la stima espressa dal marito per la moglie e la competenza di quest’ultima nell’occuparsi del bambino; viceversa, la presenza di conflitti coniugali influenzava negativamente il moda in cui la madre nutriva il piccolo.

Questi risultati ci permettono di capire meglio l’associazione tra una cattiva relazione di coppia e la depressione post- partum.

Prendersi cura di un neonato rappresenta un compito impegnativo: non è possibile assumerlo correttamente e serenamente se non si ha il sostegno, materiale e morale, di una persona significativa, che, per molte donne è il padre del bambino(in alcuni gruppi sociali può trattarsi invece di un’altra donna: madre, sorella, amica).

*1979

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Comportamenti materni appropriati possono inoltre svilupparsi e manifestarsi solo se le energie della madre non sono esaurite da un lavoro domestico e di cure eccessivo, e in molte situazioni solo il padre può assumere parte di questo lavoro.

2.4 Modello psicologico

Secondo molti studiosi ,anche di orientamento teorico diverso, alcune forme di sofferenza mentale, come la depressione, possono essere indotte da situazioni in cui il soggetto è privo di potere o ha perduto il controllo. La teoria più famosa è forse quella di Seligman* (1975),uno psicologo sperimentale che l’ha dedotta da alcune reazioni degli animali di laboratorio.

Il nocciolo della questione è l’esperienza della non contingenza: se il soggetto non riscontra alcuna relazione tra le sue azioni(spesso frutto di sforzi e fatiche) ed i risultati ottenuti, finirà per imparare che, indipendentemente da quello che fa, i risultati sono comunque incontrollabili.

Soggiacenti all’impotenza appresa ci sarebbero tre meccanismi di base: un effetto negativo sulla motivazione, un effetto sui meccanismi cognitivi ed un effetto emotivo, costituito da ansia, tensioni e reazioni di tipo depressivo.

*Helplessness on depression, development and death

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Se tali situazioni si ripetono abbastanza spesso, il soggetto finirà per generalizzare il vissuto di impotenza che si tradurrà in quel senso di disperazione o hopelessness , che è al cuore della depressione.

Per quanto riguarda la depressione post-partum, i risultati delle ricerche svolte in questo contesto teorico tendono a confermare quest’ultima teoria:

sarebbero delle situazioni negative ad essere associate alla depressione.

I ricercatori hanno studiato le condizioni che possono generare il sentimento che il proprio comportamento non ha nessuna influenza sui risultati, sentimento concettualizzato in termini di mancanza di potere.

Sperimentare ripetutamente situazioni in cui all’impegno fatto non corrisponde nessun risultato, trovarsi in presenza di obiettivi ritenuti socialmente validi ma sprovvisti dei mezzi per raggiungerli o essere dipendenti materialmente e psicologicamente da altri sono tutte situazioni in cui il soggetto sperimenta una, spesso cronica, mancanza di potere. Questo modello della sofferenza mentale è particolarmente appropriato per capire per quali motivi le donne siano così spesso depresse. L’essenza stessa del ruolo di moglie e madre consiste nella disponibilità costante ai bisogni altrui:

questo implica rinunciare a controllare alcunchè nella propria giornata e nella propria vita. Per esempio come madri ci si aspetta che le donne accudiscano un bambino malato anche se ciò significa rinunciare ad attività importanti. Le

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madri sono inoltre tenute socialmente responsabili della felicità dei membri della famiglia e quando sono sprovviste di mezzi per svolgere un così ambizioso programma sono esposte al rischio di frustrazione.

Il momento del parto, in quanto tale, può essere considerato come un evento dalla forte carica stressante che può generare una serie di sintomi che, in certe circostanze, evolvono in un vero e proprio disturbo post traumatico da stress. Il disturbo post traumatico da stress secondo il DSM IV* (1995), implica la presenza di sintomi che portano a rivivere l’evento traumatico (criterio B), sintomi di evitamento e di attenuazione della reattività generale (criterio C ), sintomi di aumentato arousal (criterio D).

Gli studi che finora hanno analizzato le conseguenze stressanti del parto, in chiave di disturbi post traumatici, hanno focalizzato l’attenzione su alcune principali variabili che, in sé, possono configurarsi come eventi traumatici. In particolare la difficoltà e la lunghezza del parto e le complicazioni connesse allo stato di salute del bambino danno luogo a sintomi di attivazione emozionale che possono poi sfociare nel disturbo post traumatico da stress.

Madri di bambini ad alto rischio che, subito dopo il parto, vedono il neonato ricoverato nelle unità neonatali di cure intensive, manifestano molti sintomi del disturbo post traumatico da stress anche a distanza di mesi dalla

*Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali Quarta edizione, 1994

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dimissione del figlio.

Oltre alla presenza di eventi che oggettivamente si configurano come traumaticamente aggravanti il parto, si potrebbe però dire che l’esperienza del parto, in quanto emozionalmente attraversata da una forte carica di stress, dal timore del dolore fisico e da preoccupazioni per il nascituro, può essere considerata in quanto tale (e non solo se associata a complicazioni o a preoccupazione circa la salute del bambino) una condizione potenzialmente traumatica. Questo insieme di fattori, in quanto implica una valutazione cognitiva negativa dell'evento parto, potrebbe essere responsabile della comparsa di sintomi di stress dopo il parto. Se, infatti, riconsideriamo le reazioni tipiche del cosiddetto disturbo dell'umore, che colpisce un numero elevato di donne e che quindi rappresenta una evenienza abituale e fisiologica, notiamo che esso si compone di risposte tipiche del disturbo post traumatico da stress. Infatti, i sintomi del baby blues quali il disturbo del sonno, stanchezza eccessiva, ansietà, coincidono con alcune tipologie di sintomi del disturbo post traumatico da stress, in particolare con quelli del criterio D di aumentato arousal.

Sebbene non siano sufficienti da soli a configurare il disturbo post traumatico da stress essi tuttavia rappresentano sintomi parziali significativi.

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Sappiamo che l’elemento di connessione tra sintomi da stress ed evoluzione in senso depressivo è rappresentato dal modo in cui viene elaborata l’ansia.

Il disturbo post traumatico è tipicamente un disturbo ansioso che, come hanno sottolineato Beck* ed altri autori (1985) qualche anno fa, implica una percezione del Sé come vulnerabile, una percezione del Sé come inaffidabile e una percezione del futuro come imprevedibile. La depressione condivide con il disturbo ansioso pensieri ed emozioni negativi dello stesso tipo, generalizzandoli e ampliandoli fino a implicare una percezione del Sé in termini fallimentari, una visione del mondo come catastrofica e una percezione del futuro priva di speranza.

Lo schema di riferimento basato sul disturbo da stress ha il vantaggio di consentire una lettura non statica e permette di interpretare il significato di comportamenti e reazioni emotive alla luce di meccanismi psichici che entrano in gioco quando alcuni sintomi sono in azione.

Reynolds** (1997) sostiene che una diagnosi precoce di disturbo post traumatico, che si palesa precocemente nella difficoltà di interazione della madre con il suo bambino, in persistenti dolori addominali, nella reticenza della neo mamma a sottoporsi alle visite o negli improvvisi attacchi di ira, potrebbe prevenire seri problemi di relazione con il bambino e anche il

*Beck A., Emery G.A., Greenberg R.L.

**Pgg.831-835

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