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Nella costituzione dell’io, il soggetto narrante è portato a individuare alcuni elementi caratteristici che ritiene siano rappresentativi della propria persona

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V

CONCLUSIONI

L’obiettivo di questa ricerca è cercare di individuare, a partire dalle autobiografie orali, secondo quali aspetti dell’esperienza e in che modo il soggetto che ricorda e si narra, ha costituito la propria identità. Quali sono, in sostanza, gli elementi che permettono ai soggetti (nella fattispecie alcune donne calcesane nate tra il 1914 e il 1933) di definirsi davanti agli altri e a se stessi, che immagine si sono costruiti, più o meno inconsciamente, da presentare alla propria persona e alla comunità di cui fanno parte.

Nel rievocare gli eventi del proprio passato, queste donne manifestano ciò che sentono di essere o che vogliono che gli altri vedano (o non vedano) di loro, “impaginano” le esperienze vissute per dire chi sono attraverso la narrazione di cosa hanno fatto.

Gli avvenimenti del passato sono i vasetti di colore dai quali l’autobiografo attinge per autoritrarsi, mediante i quali abbozza, dipinge, ritocca la sua identità sulla tela bianca dello spazio del dialogo che si costituisce in ampiezze e trama differenti man mano che l’intervista si snoda.

Come per un’ opera d’arte, non si può dare un giudizio basandosi sulla precisione delle proporzioni del disegno alla realtà, come se si stesse parlando di un disegno geometrico e nemmeno si può liquidare il racconto della memoria definendolo un’ accozzaglia casuale di macchie di colori:

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ogni pennellata ha infatti un significato lì dove è stata posta e ci dà informazioni su come è stata stesa la tempera, sullo stile dell’autore, talvolta persino sul suo carattere. Come si suol dire: “Nella sua opera, un artista dipinge sempre se stesso”.

In maniera analoga il dato storico oggettivo diviene, una volta fatto entrare nel laboratorio della memoria, oggetto di continua reinterpretazione funzionale all’autorappresentazione.

Come illustra N.K.Denzin1 la narrazione della propria vita, corrispondente all’ idea che ciascuno ha di sé, è organizzata secondo “turning points”, cioè avvenimenti dell’esistenza di ciascuno particolarmente carichi di significato, momenti pregnanti che segnano svolte nella vita.

Nella costituzione dell’io, il soggetto narrante è portato a individuare alcuni elementi caratteristici che ritiene siano rappresentativi della propria persona.

Ripercorriamo, nel caso delle donne intervistate, gli argomenti che più di frequente vengono portati ad esempio.

Non essendo inclusi nel novero dei ricordi del “picco di reminiscenza”, i racconti dell’infanzia sono sporadici e fortemente aneddotici ma molto vivaci. Riguardano l’arco temporale che va dalla nascita fino al fidanzamento, cioè fino al momento di passaggio dal ruolo di “figlia” a quello di “sposa”. Raccontare l’inizio della propria vita è fissare un punto,

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dire da dove si viene, dove affondano le radici della propria esistenza. La soluzione è doppia: il punto di partenza viene individuato secondo le categorie dello spazio o del tempo, rispetto allo spazio indicando il luogo dove si è nate, in particolare si specifica la frazione del paese di Calci cui si appartiene (“Rosina A: Io sono nata in Venezia di Montemagno”) indicazioni geografiche che rimandano a un tempo in cui il paese era diviso in nuclei abitativi ben distinti tra di loro; se si considera invece la categoria del tempo, la propria storia viene fatta iniziare da prima della nascita con riferimento ai genitori o alla famiglia (“Anna M: [La mamma] dalle montagne della Maremma chiese il trasferimento e fu mandata a Petricci, sempre un luogo lì, a insegnare, lì conobbe il mio babbo, si fidanzarono,

‘nsomma si sposarono e nacqui io, nel ventidue”; “Bianchina: Allora io sono… Bianca, Bianca di nome, di cognome Berrugi, èramo quattro in famiglia, papà ‘nsomma mi’ babbo era ‘l custode del cimitero, mia mamma facea le materasse” ). In entrambi i casi ci si percepisce come l’estensione o della comunità geografica o del nucleo familiare dei quali si farà parte generalmente per tutta l’infanzia.

Della propria famiglia si conservano ricordi molto teneri. Nonostante i tempi duri essa è descritta come una piccola oasi di tranquillità dove i problemi si affrontano insieme. La figura del padre, almeno fino al momento in cui un altro uomo entra nella vita della figlia destando in lui un forte sentimento di gelosia, è descritta come una figura sorridente, non

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severa, a volte fin troppo buona. Chi tiene le redini della famiglia è invece la madre, che sembra racchiudere in sé l’essenza della risoluzione e della praticità. Gli stessi caratteri della donna che parla nel presente si scorgono nella descrizione degli atteggiamenti della madre: alla madre di ieri si sovrappone la sagoma della narratrice di oggi.

Il primo “turning point” della vita è rappresentato dal fidanzamento. Nel racconto della costanza con cui si attese giorno per giorno che il marito o il fidanzato tornasse dal fronte, c’è tutto l’orgoglio di essere rimaste fedeli alla parola data: “L’ho aspettato come una vera fratina” dice Rosina avvolgendo la virtù della fedeltà in un’aura di vocazione. Anche in questo caso parlare del passato serve a definire la propria posizione riguardo al presente: (Rosina A: “Perché ancora, quando si entra nell’infedeltà, dovento una iena! A volte con la mi’ nora si scherza, io dico, “Ma lo sapete che tutte queste separazioni, io do la colpa tutta alle donne! La maggioranza!”). Più ancora di una donna che non abbia avuto figli, la donna fallita è colei che non ha saputo tenere unita la famiglia. Per questo motivo, le separazioni di oggi rendono evidenti, agli occhi delusi delle narratrici, il crollo della concezione della moglie-madre che si vota all’abnegazione per il bene e l’unità della famiglia.

Il momento del fidanzamento rappresenta il primo elemento di frattura, una spinta centrifuga all’interno del microcosmo della famiglia, in questo

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momento il padre assume il ruolo di garante dell’incolumità della felicità della figlia mettendo alla prova la costanza e la determinazione dell’aspirante marito. Questo intento si concretizza in un atteggiamento di gelosia, a volte di aperta ostilità che, se da una parte intralcia un sereno svolgimento del tempo del fidanzamento, dall’altra rende manifesti l’affetto e l’interessamento premuroso del padre per il futuro della figlia. Il fidanzamento crea anche l’occasione di fare i conti con la pungente invidia dei compaesani soprattutto se l’evento lascia intravedere un’ascesa nella classe sociale (“Milena: E ni disse alla mia suocera: “Ma, poi dìano che è bella -‘ce- poi ‘un ni farà nemmen figlioli”, “Rina: Avea la motocicletta, allora teneva la motocicletta, figurati!; Chiara: E che cos’aveva che non andava bene?; Rina: La gente cattiva e gelosa e chissà cosa l’avea raccontato [al padre] che avea fatto morire ‘ genitori, che era orfano e stava con una zia, e allora dice che era un… un libertino, hai capito?”) lo stesso paese, lo stesso vicinato con cui si condividono pane e ore di veglia, che era considerato quasi un prolungamento della famiglia, mostra per la prima volta i suoi artigli. Ma è risaputo che la vita è una ruota e, presto o tardi dà l’opportunità di ricambiare il favore (“Milena: però si dice il Signore non paga solo di sabato, perché ebbe [la donna che parlò male di lei] un figlio, un nipote, poverino, infelice. Uno è morto e uno è sempre vivo, quindi le cattiverie… ‘nvece voi non siete ‘attive così, ve lo dìo io, ch’io vivo coi giovani eh!).

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Il matrimonio segna l’inizio di una nuova vita familiare: generalmente la donna andava ad abitare in casa dei suoceri ed era consuetudine che provvedesse all’arredamento della camera da letto, cioè alla stanza che rappresenta l’unica vera enclave di intimità, almeno finchè i suoceri sono in vita. Il rapporto con la parentela è infatti spesso problematico (“Chiara:

Perché lei è stata, è tornata in casa della suocera, del suo marito? Bianchina:

Sono stata ventidu’ anni, ventidu’ anni d’inferno!) e, solo in una testimonianza, quella di Milena, rappresenta una affettuosa alternativa a quello di consanguineità, (“Milena: Però io le ho voluto tanto bene, l’ho avuta tre anni, quasi quattr’anni ferma eh, proprio, proprio ferma e [non]

voleva altri ‘he me, e c’ava anche la figliola eh, ma lei diceva ‘un c’ava garbo. (…) è stata una donna grande, n’ho voluto tanto bene, lei di più”).

Nonostante si vantino raramente, le donne intervistate, non risparmiano di far notare, a chi come me fa parte di una generazione in cui l’assistenza medica è presente ed efficiente, di come abbiano affrontato il momento del parto quasi autonomamente. Nelle opinioni delle donne intervistate, ecografie, innumerevoli visite mediche e mariti premurosi che assistono al travaglio o aspettano trepidanti la nascita del pargolo, sono classificate quasi come smancerie relative ad una generazione “senza spina dorsale”.

Con altrettanto sdegno si parla delle mamme che non allattano i figli almeno fino ai sedici mesi: non desiderare di nutrire il proprio bambino con il latte materno, per le donne che in tempo di guerra non avevano nient’altro

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per nutrire i loro bambini, è talmente inconcepibile che qualcuna arriva a ipotizzare che ci sia lo zampino della perfida scienza che interviene con losche macchinazioni per privare le donne della possibilità e del piacere dell’allattamento (“Rosina A: Perché sarebbe odioso e vergognoso che la scienza desse medicinali o punture o qualcosa alle mamme per questo motivo! Son cose imperdonabili eh queste! Sarebbero imperdonabili.

Perché io, io son rimasta con la voglia di allattare”).

La maternità è compimento ed emblema della femminilità e chi, come Milena, non ha avuto la gioia di poter avere figli, assume un atteggiamento più “moderno” indicando come proprio punto di forza, ogni qual volta che nel discorso se ne presenta l’occasione, la sua rara bellezza ed il cieco innamoramento del marito.

Un’altra caratteristica che alle donne piace sottolineare è la loro instancabile operosità. Fin da giovani il ritmo della giornata è scandito dal lavoro: la mattina negli uliveti, nei campi o nelle stalle, al ritorno i mestieri in casa e la sera rimaneva ancora un po’ di tempo per andare ad imparare a cucire dalla sarta. Dal momento che gli animali non conoscono la differenza tra giorni festivi e feriali, e siccome quasi ogni famiglia possedeva animali da cortile, non si può parlare di ferie o giorni liberi, eccezion fatta per i tre giorni di viaggio di nozze per il quale qualcuno parte nonostante imperversi la guerra (“Asia: sicché e s’andò a Roma, dal Papa, in viaggio di nozze e ci

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bombardavano, e ‘n casa mia ‘n volevano: “No, ‘un c’andate, ‘un c’andate!” dìo: “È meglio andacci, poi ‘un ci tocca più d’andarci, vedi? Le cose sono ‘uelle che sono ‘un facciamoci illusioni, bisogna vivere giorno, giorno pe’ giorno e volersi bene”; “Rina: Eh, quando poi si scese si restò tutta la notte fra Torre An<nunziata>, andava avanti e andava indietro, i’

treno, andava avanti e andava ‘ndietro. Poi dopo sposati che mi portò a Spezia perché quando andò a Spezia nella notte bisognò scappare in galleria del treno perchè l’allarme, le sirene, che urlavano a più non posso! Chiara:

Bel viaggio di nozze, nonna!”).

Il fatto di non aver potuto godere di giornate di svago rende ancora più amaro oggi lo stato di vedovanza: quasi tutte le donne che hanno perso il marito si rammaricano di non aver potuto godere una serena vecchiaia in compagnia della persona amata finalmente senza l’assillo di impegni di lavoro (chi invece ha la fortuna di avere ancora a fianco il marito si lamenta, a videocamera spenta, che col tempo il carattere del marito è peggiorato tanto che si stava quasi meglio quando si lavorava e non ci si vedeva…).

La guerra annulla parzialmente le differenze tra i lavori dedicati agli uomini e quelli prettamente femminili, da quello in fabbrica a quello nei campi, la donna è diventata duttile a qualsiasi tipo di lavoro vantando molta capacità di organizzazione (per svolgere al ritorno i mestieri casalinghi) e la stessa grinta di un uomo.

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Sempre riguardo alla descrizione dei lavori è da notare in primo luogo come l’esposizione si avvalga di una ricca gestualità che, nonostante possa essere solo accennata nelle trascrizioni per una più scorrevole leggibilità del testo, rendono il dialogo più chiaro, vivace e coinvolgente; in secondo luogo, come via via il linguaggio si faccia più “tecnico” e le riflessioni interpretative meno frequenti. Quest’ultima osservazione potrebbe risultare banale ma è il caso di ricordare che gli episodi della quotidianità più spicciola sono quelli meno soggetti a ripetute rivisitazioni e quindi rielaborazioni. Per questo, dove manca quella sorta di successiva stratificazione di commenti critici relativi al fatto narrato, il racconto consterà soprattutto di descrizioni tattili, visive e olfattive rimanendo più fedele agli stimoli originari. Sui sistemi di codifica che danno vita a memorie autobiografiche qualitativamente diverse tra di loro, Johnson ha proposto la teoria della “Memoria a Entrata Multipla” secondo la quale i dati di cui dispone la memoria sono organizzati in tre sottosistemi: 1) il sottosistema sensoriale; 2) il sottosistema percettivo 3) il sottosistema riflessivo. Il primo si occupa di registrare i dati sensoriali più elementari; il secondo organizza i dati sensoriali raffrontandoli con altri dati che fanno già parte del repertorio conoscitivo del soggetto e riconoscendoli come percezioni specifiche; il terzo è relativo alla continua riflessione e dialogo interno che accompagna sensazioni e percezioni. Salendo di livello aumenta il grado di rielaborazione degli stimoli originari e diminuisce l’

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“autenticità” di questi ultimi. Johnson ritiene che il ricordo di un’esperienza reale riporta per lo più rievocazione di dati di natura sensoriale e percettiva distinguendosi così da un’esperienza di tipo mentale dove i dati rievocati sono soprattutto di tipo riflessivo e rielaborativo2.

Nel caso delle donne intervistate in questa ricerca, il genere di commenti

“tecnici” su come per esempio veniva fatto il pane, o il bucato, diventa funzionale alla solita amara riflessione sui tempi che cambiano e che non sono più come prima: il pane non profuma più come una volta, non ha più lo stesso gusto, prima rimaneva buono per tutta la settimana; il bucato poi era bianco come neve, con la lavatrice non viene così bianco, e soprattutto non profuma così come profumava una volta. Forse hanno davvero ragione, e in fondo anche a me piace pensare al passato come una sorta dell’età dell’oro dei profumi e dei sapori, ma bisogna, per onestà intellettuale, considerare il ruolo che ha l’alterazione percettiva dovuta all’invecchiamento nell’evocazione dei ricordi: con il tempo le sensazioni olfattive e del gusto si deteriorano ed è quindi perfettamente comprensibile, e non solo frutto di un’esagerazione, trovare che i cibi della giovinezza fossero più saporiti, e i profumi più intensi, rispetto a quelli che si provano durante la vecchiaia. In ogni caso queste sensazioni “alterate” vengono impiegate per accreditare e supportare la tesi che una vita lontana dalle diavolerie moderne era sì più scomoda ma certamente più sana (“Anna A: E

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avevano un profumo, questi panni, d’alloro! Eh, e venivano belli bianchi, e senza, senza, senza tanti detersivi e senza veleni. Ora i detersivi son quelli che ci fanno morire tutti; tutti si mòre! I malacci! I malacci sono venuti tutti da’ detersivi, e ora per forza e il mondo è così. ‘n si pò [può] fa’ di meglio”).

Al tema dell’operosità è strettamente connesso quello dell’onestà: tutto ciò che si è guadagnato durante la vita è frutto di fatica e sacrificio, nessuna ha raccontato di essersi comportata scorrettamente. A parole sembra che nemmeno l’estrema povertà possa giustificare in alcun modo il furto (“Bianchina: Penso che miseria, male, morte sì, ma le mi’ mani ringraziando Dio… mai nemmeno una lira!” ). A rubare sono piuttosto i bambini o gli uomini abbrutiti dalla guerra, con la differenza che i primi lo fanno sentendosi in colpa (“Elda: io no’ ‘o so che pere erano, io la vidi così, grossa, io ‘n feci né ai né guai, la staccai, che ‘nzomma sì avevo mangiato ma ‘nzomma l’appetito c’era. La mangiai e il contadino che mi vide:

“Bimba! Non si ruba!” io rimasi così, poi lo guardai, stavo così, sai quando ti rannicchi, e… “Mangia, mangia, vai!” e io ah!(sospira)”). I secondi invece, soprattutto se si parla dei Tedeschi, lo fanno con una certa arroganza. E le donne? No, le donne non rubano, le donne al massimo vanno “a far roba”, a prendere cioè quello che era rimasto di mangiabile nei campi abbandonati (ma sempre e solo quelli abbandonati?). Ci sarebbe poi quella spiacevole faccenda del mulino del Tellini saccheggiato dagli sfollati

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(e sfollate), ma anche lì lo si saccheggiò solo perché la farina che custodiva era ammuffita. Altri tempi insomma, non come ora che c’è da aver paura anche a restare in casa (“Anna A: È tutto un mondo finito ora! Eh! È un mondo che così ‘un si può più andà avanti. Perché alcune notti si cominciava anche a avè paura perché vanno anche a letto a ammazzà le persone a… l’addormentano, ni rubano, è una ‘osa vergognosa eh! Eh.”).

L’unico ambito che mantiene intatta nei tempi la sua disonestà è quello della politica: più si sta vicini alla segreteria del partito, più si ha l’alettante possibilità di arricchirsi (“Anna M: Giuliana il su’ babbo era fascista, era di quelli che picchiava. Il su’ babbo era fascista, era di quelli sempre col fez, era di quelli che picchiava il su’ babbo, sì. E poi, questo non è che si possa… si suppone, ‘un si può dire, le cose si suppongono, quando stava male che poi insomma è morto andarono in casa di quest’òmo c’era un attaccarami pieno! Pieno di rami!”; “Rosina A: presero l’oro, presero questo rame ma io non so se qualcuno poi ci si è arricchito…(ride) Non facciamo cattivi pensieri eh!” ). Ma l’onta più grave, a maggior ragione in tempo di guerra, è quella relativa al fare la spia. (“Rosina A: …La moglie del centurione diceva: se trovate quei militari inglesi che sono nascosti in questi monti e che magari ci sono dei familiari che gli portano da mangiare...

provate a farci, la spia diciamo, vi si farebbe rimpatriare un vostro militare che avete prigioniero. Volevo dire, anche quello... Io potevo...io la tenevo dai partigiani, quella i partigiani l’avrebbe fucilati diciamo” ).Fare la spia

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mina alla base il rapporto di fiducia che lega tra loro gli appartenenti ad una comunità, creando un forte senso di perdita di sicurezza tra coloro che ne fanno parte. Qualunque furto è al limite giustificabile ma una bassezza come quella del tradimento non è ritenuta perdonabile. Nonostante ciò furono comunque in molti a macchiarsene in cambio forse di cibo o favoreggiamenti e pare che uno tra questi, l’infermiere Fiaschi, oltre che il disprezzo dei compaesani, si attirò una morte violenta per mano dei partigiani.

La guerra rappresenta una crisi, un’interruzione nella conduzione di una vita se non proprio agiata almeno serena. Essa mina alla base i cardini che la rendono salda: sconvolge il lavoro, toglie il pane di bocca, smembra la famiglia, viola l’intimità della casa, sostituisce ai ritmi biologici i suoi ritmi di sonno e allerta, di alimentazione e digiuno. Eppure nella memoria delle donne non c’è alcun momento preciso (un discorso del duce, per esempio) al quale ricondurre l’inizio della guerra. “Poi venne, capitò, la guerra” dice Bianchina che vede raddoppiate le difficoltà dei suoi genitori per dare da mangiare ai propri figli. La guerra “capitò” o “venne” o “ci fu”. Qualcuna dice di non essersene accorta da subito, l’esempio estremo è quello di Paola che afferma: “Quando scoppiò la guerra ‘un ci se n’accorse neanche, ma quando poi era scoppiata ci se n’accorse e per tanti anni ‘un ce ne siamo accorti perché tanto qui ‘un si vedeva neanche, fintanto poi ‘un sono arrivati

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i Tedeschi e poi quell’altri [Americani?], hanno buttato all’aria ‘l ponte, hanno fatto tutti i ponti buttati all’aria, no?”

Le donne intervistate generalmente non parlano “della guerra” ma “dei tempi di guerra”, non è frequente che citino la data di inizio o le tappe secondo le quali si svolse. Della guerra si ricordano solo alcuni aspetti essenziali: lo sfollamento, la presenza dei militari nel paese, i bombardamenti e la ritirata dei Tedeschi che facevano saltare i ponti dietro di loro.

Su tutti gli aspetti vagamente politici dei tempi di guerra, sulle ragioni dei due schieramenti, addirittura su chi era alleato con chi, impera il caos.

Semplicemente si impara ad aver timore dei Tedeschi, di questi uomini che parlano strano, perchè cercano gli uomini per portarli chissà dove, forse alla guerra. il Tedesco è cattivo, ma non più del fascista calcesano che lo appoggia e magari fa la spia. Se un Tedesco è buono, qualcuno ha dei dubbi sul fatto che fosse veramente tedesco e, dopo anni che racconta l’episodio che ha per protagonista un Tedesco sensibile, un giorno di punto in bianco trasforma nel racconto il Tedesco in un Francese (“Rina: C’era un Francese…; Chiara: Francese?! Ma non era tedesco, nonna?; Rina: No.

C’era ‘n Francese fra di loro, fra ‘ Tedeschi; c’era ‘n sordato francese, si metteva a sedere sulla finestra e cantava, gli piaceva di cantare, e cantava.”). Di più: se un Tedesco non ha dato fastidio nella casa dove era ospitato (per forza), ci si domanda se per caso non fosse un Americano

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(“Chiara: E il Tedesco che era qui in casa? Paola: No, è venuto un po’ così, pòo c’è stato… Chiara: Ma era buono? Paola: Sì… ‘Un mi ricordo se era tedesco o se era americano ora, ma mi pare era tedesco, una stanza, soltanto una stanza perché poi s’era tutto pieno di persone che si conoscevano”).

Anche se non per tutte, per molte delle intervistate i Partigiani sono quasi figure letterarie: “I famosi partigiani” vengono chiamati o “Quelli che venivano dal monte” o addirittura “I cosi”! Io inorridisco, loro si difendono dicendo “C’ hanno fatto del male tutti quanti”. Sembra che in questa guerra non ci siano nemici o alleati, che ci sia spazio solo per le vittime, in particolare quelle civili che si prendono la propria rivincita sulla storia condannando i “responsabili” di ogni parte ad una sorta di damnatio memoriae.

I ricordi più intensi sono quelli riguardo allo sfollamento. La guerra funziona come una livella e mette sullo stesso piano le persone benestanti, gli sfollati che vengono dalla città senza nessun bagaglio e persino i frati della Certosa, costringendo tutti a lasciare le proprie case e cercare un posto più sicuro, certamente poco confortevole, dove ci si divide lo spazio di un piccolo barroccio per passarci la notte sdraiati in due. Lo sfollamento avvicina corpi e cuori, impasta le storie tra di loro, ricorda per un momento che la paura delle bombe è uguale per tutti. In queste condizioni chi non è sfollato ha l’obbligo morale di ospitare sfollati. I racconti sono pervasi da

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rimandi alla solidarietà di quei giorni. Per un momento dalle narrazioni spariscono i frequenti rimandi ai pettegolezzi, alle dicerie del paese, alle liti dei compaesani. Non è lecito che solidarietà e maldicenze siano menzionati nello spazio di uno stesso racconto.

Poi la guerra finisce, gli sfollati venuti da fuori tornano a casa. E di loro più nessuna notizia. Ma neanche c’è qualcuno che ne cerca più le tracce. Dopo veglie passate gomito a gomito, dopo chilometri percorsi in cerca di cibo, la voglia di dimenticare l’orrore e la paura e il desiderio pulsante di cominciare al più presto una nuova vita è più forte della gratitudine.

Senza dubbio, dunque, il “turning point” principale nella vita di tutte le intervistate è l’evento critico della guerra. Se si mettono a confronto i ricordi relativi a questo evento drammatico, sarà evidente come siano piuttosto differenti tra di loro. Da cosa deriva tanta diversità? Si può dire che le intervistate stiano mentendo?

In più di un caso l’evento della guerra estende man mano la sua ombra su tutti i ricordi precedenti e successivi. Diverse volte Asia utilizza la perifrasi

“In tempo di guerra” non in relazione agli anni dal 1940 al 1945 ma per intendere, più in generale, la sua giovinezza e condensa nel periodo della guerra tutti i momenti difficili della sua vita. Questo accade perché la vita di Asia, come spesso ricorda, è stata dura fin dall’infanzia e la sua memoria ha dunque raggruppato, condensato appunto, in un solo insieme tutti gli

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episodi simili riguardanti le ristrettezze economiche. In altre parole, se Asia, che è nata nel 1921, fin dai tempi delle scuole elementari (diciamo fino al 1930?) andava a rimediare cibo, sarà difficile che ricordi come una novità l’approvvigionamento di cibo relativo alla guerra e lo catalogherà piuttosto come un evento singolo risultato della fusione di diversi episodi separati. La memoria registrerà, comprimendoli in un solo gruppo, tutti i ricordi simili relativi alle giornate in cui doveva andare a rimediare qualcosa da mangiare. In questo modo è molto difficile, al momento di selezionare il ricordo di un evento singolo, ricostruire la cornice temporale esatta cui apparteneva originariamente, a meno che non sovvenga un particolare memorabile (un volto particolare, un riferimento storico, un’ immagine) che possa stabilire un termine ante o post quem e che funga così da “aggancio”

per riportare il ricordo nel suo contesto originale.

Come già illustrato nel secondo capitolo, il “picco di reminiscenza” è individuabile nella sezione di ricordi riguardanti il periodo tra i quindici e i venticinque anni. Per le donne intervistate è proprio all’interno di quest’arco di tempo, che coincide con la formazione dell’identità della persona adulta, che si verifica l’evento della guerra la quale, già difficilmente dimenticabile per la sua eccezionalità, si imprime nelle immagini della memoria in maniera indelebile. I ricordi del “picco di reminescenza” sono quelli che più di frequente vengono consultati durante tutta la vita e, di conseguenza, i più rivisitati, interpretati, censurati,

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arricchiti. Ogni volta che un ricordo viene ripreso in considerazione, spolverato, risfogliato dalla memoria, intervengono immancabilmente i due meccanismi di distorsione costrittiva e generativa. Il primo si occupa di eliminare i punti della vicenda che risultano poco chiari o che stonano con le istanze personali o sociali di quel momento; il secondo di raccordare tra di loro fatti, immagini e intuizioni personali, compilando con specificazioni e riflessioni i vuoti di significato o gli aspetti del ricordo che si “vogliono”

rettificare. Alla fine di questo processo di redazione, il ricordo non avrà più lo stesso aspetto che aveva all’inizio.

Le cose si complicano ulteriormente quando si prende a “raccontare il ricordo”, prima di tutto perché non sempre è facile trovare parole che descrivano in maniera inequivocabile le immagini spesso mute che si hanno nella mente, in secondo luogo perché le stesse immagini spesso affiorano alla mente come fotogrammi piuttosto che come un film e, per renderle consequenziali tra di loro, comprensibili all’ascoltatore (anche nel caso in cui l’ascoltatore sia semplicemente un altro “se stesso”) vanno ordinate, raccordate, commentate. Come accade con i sogni, fintanto che le immagini rimangono ad aleggiare nella nostra mente ci sembra che siano chiare e ben connesse ma, al momento di raccontarle ad un’altra persona, ci mancano le parole, ci confondiamo, e finiamo per fornire una versione del sogno che è molto diversa dall’originale con la beffa che, alla fine del racconto, non saremo più in grado di distinguere che cosa realmente abbiamo sognato.

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L’uso della parola “cristallizza” i ricordi. Le immagini che si sono raccontate sono quelle che si ricordano meglio e più a lungo, ripetere ad alta voce serve a fissare i pensieri, a renderli plausibili, concepibili.

Da qui un passo ulteriore è quello della memoria collettiva cioè del ricordo condiviso ed elaborato da più persone. Gli aspetti fin qui indicati vengono ripetuti per ogni soggetto narrante, sia che il ricordo passi in maniera lineare di bocca in bocca per fasi successive (più o meno come accade nel gioco del “passaparola”), sia nel caso in cui un abbozzo di ricordo sia posto, per così dire, “in mezzo al cerchio dei partecipanti” e fatto crescere con il contributo di tutti. Il ricordo finale, frutto delle “distorsioni”, aspettative, rivisitazioni di tutti coloro che hanno detto la loro, trattato sulla versione dei fatti, o accondisceso alla versione dell’altro, sarà patrimonio di ogni singolo soggetto ma porterà in sé l’impronta del gruppo da cui è stato plasmato;

diverrà parte integrante dei ricordi che costituiscono l’identità al pari di quelli più strettamente personali, anzi di più in quanto facenti parte di quello “scudo affettivo” che produce uno stimolante avvicinamento affettivo tra le persone che ricordano e che vedono così rinsaldati i legami tra di loro. Questo aspetto riveste particolare importanza, come hanno notato Bruner e Feldman3, nell’ambito del contesto familiare che è sede d’elezione del ricordo congiunto, cioè dell’attività di ricordare insieme episodi ed esperienze che fanno parte di un patrimonio comune. In questa

3 cfr.J.Bruner, C.F. Feldman,La narrazione di gruppo come contesto culturale autobiografico in

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tipologia di ricordi la funzione informativa è secondaria e prevale invece il senso di appartenenza a una storia comune che rafforza di riflesso l’identità delle persone coinvolte.

Torno a sottolineare che le distorsioni del “processo memoria” sono, nella maggioranza dei casi, involontarie, non premeditate. Per questo le stesse intervistate ripetono con convinzione: “Verità Vangelo!”, “Tua nonna lo sa”, “Lei te lo può dire”, “Potessi morire se non è vero”, “Lui è nella verità e io nella bugia” ed altre esclamazioni volte a garantire la veridicità delle proprie parole anche se, in qualche caso, ci vorrebbe poco per smentire le loro affermazioni. Qualcuno potrebbe dire che, mentre credono di dire la verità, non si rendono conto che stanno mentendo. Io direi invece che, nonostante non stiano raccontando la Verità, nessuna di loro sta mentendo.

Forse le testimonianze orali raccolte fin qui non saranno utili per la ricerca di nessun dato storico o oggettivo, quel che è certo è che però sono portatrici di “altre verità” su chi ha raccontato, quelle riguardanti il complicato e mai concluso processo di costruzione della soggettività attraverso la memoria.

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