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La disciplina processuale speciale della legge n. 92 del 2012 nell’ambito del processo civile: modelli di riferimento ed inquadramento sistematico - Judicium

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F

RANCESCO

P. L

UISO

La disciplina processuale speciale della legge n. 92 del 2012 nell’ambito del processo civile: modelli di riferimento ed inquadramento sistematico

SOMMARIO: 1. Premessa; 2. Finalità decisoria del procedimento; 3. Ambito di applicazione e funzione specifica del procedimento; 4. Domande connesse; 5. Obbligatorietà del rito; 6. Individuazione del rito applicabile: profili generali;

7. Segue: coordinamento con la disciplina delle domande connesse; 8. Mutamento del rito; 9. Errore del rito; 10. La contemporanea pendenza di cause connesse assoggettate a riti diversi; 11. Efficacia dell’ordinanza.

§ 1. Premessa. L’art. 1 della L. 28 giugno 2012 n. 92, ai commi 47-69, disciplina un procedimento speciale per alcune controversie relative ai licenziamenti. Si tratta di un procedimento che, come vedremo fra breve, sicuramente non è cautelare, ed è strutturato in una fase a cognizione sommaria, in un eventuale primo grado a cognizione piena1 introdotto da una opposizione, ed in un secondo grado introdotto da un reclamo. La sentenza pronunciata in sede di reclamo è impugnabile in Cassazione nei modi ordinari2.

La finalità del presente lavoro è solo quella di fornire un inquadramento sistematico del nuovo procedimento. Non ci soffermeremo quindi sulle molteplici questioni processuali che esso pone (ad es., su cosa si debba intendere per atti di istruzione <<indispensabili>> ex comma 51; o sulla possibilità che la sentenza sia pronunciata ai sensi dell’art. 429, comma 1, c.p.c., oltre che con la modalità prevista dal comma 57; o ancora sull’applicabilità alla fase di reclamo dell’art. 436-bis c.p.c.), ma solo sui profili attinenti all’oggetto del procedimento ed alle tutele attraverso esso ottenibili.

La somiglianza strutturale3 del procedimento in questione con quello previsto dall’art. 28 St.

lavoratori è evidente4, ma con una non secondaria differenza: l’opposizione avverso l’ordinanza che

1 CAPONI, Rito processuale veloce per le controversie in tema di licenziamento, in www.judicium.it, § 4; BENASSI, La riforma del mercato del lavoro: le modifiche processuali, in Il lavoro nella giurisprudenza 2012, § 3; PAGNI, I correttivi alla durata del processo nella L. 28 giugno 2012 n. 92: brevi note sul nuovo rito in materia di licenziamenti [lavoro in corso di pubblicazione che ho potuto consultare per la cortesia dell’A.].

2 Salva una particolarità relativa alla decorrenza del termine breve: art. 1, comma 62.

3 Somiglianza solo strutturale: infatti, come vedremo (§ 3), vi è una netta diversità funzionale fra il procedimento in esame e l’art. 28 St. lavoratori.

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chiude la fase sommaria del procedimento ex art. 28 St. lavoratori apre un processo che è regolato dal rito del lavoro, mentre nel nostro caso il legislatore ha introdotto un rito speciale anche per la fase di opposizione e quella di reclamo (in sostanza, per il primo ed il secondo grado).

Si pone così anzitutto il problema delle fonti di integrazione del procedimento speciale. Mi sembra però indiscutibile che l’integrazione vada ricercata dapprima nel rito del lavoro, ed in mancanza nel rito ordinario, con una sorta quindi di doppio passaggio: si cerca in primo luogo la regola nel rito del lavoro e, se non si la trova, la si individua nel rito ordinario. Infatti, come vedremo fra poco, l’ambito di applicazione del procedimento speciale ricade in toto nell’art. 409 n.

1 c.p.c., sicché il nuovo procedimento, per la materia da esso regolata, sostituisce il rito del lavoro.

In altre parole, le controversie soggette al nuovo rito sono sottratte al rito del lavoro: è ragionevole dunque pensare che l’integrazione vada cercata dapprima nel rito del lavoro e solo dopo nel rito ordinario5.

Inoltre il comma 48 stabilisce che la domanda si propone al tribunale <<in funzione di giudice del lavoro>>. È certo quindi che le fattispecie previste dal comma 47 debbono essere qualificate, a tutti gli effetti, come controversie di lavoro.

§ 2. Finalità decisoria del procedimento. La funzione non cautelare del procedimento è indubbia6: nessuna norma che lo riguarda fa alcun riferimento al periculum in mora. La tutela

4 DE ANGELIS, Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e processo: prime considerazioni, in Working papers del Centre for the study on European labour law “Massimo D’Antona”, § 1 [lavoro in corso di pubblicazione che ho potuto consultare per la cortesia dell’A.]; CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Corriere giur. 2012, 735; BENASSI, La riforma, cit., § 3; PALLADINI, Opposizione e impugnazioni nel rito “Fornero”, relazione al convegno La riforma del mercato del lavoro, Milano 17 ottobre 2012, § 1; DE CRISTOFARO-GIOIA, Il nuovo rito dei licenziamenti: l’anelito alla celerità per una tutela sostanziale dimidiata, in www.judicium.it, § 5.

5 DE ANGELIS, op. cit., § 3; BUONCRISTIANI, Rito licenziamenti: disciplina e profili sistematici, § 10 [lavoro in corso di pubblicazione che ho potuto consultare per la cortesia dell’A.]; CURZIO, Il nuovo rito per i licenziamenti Relazione all’incontro di studio organizzato dal C.S.M. sul tema <<La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n. 92>>, Roma 29-31 ottobre 2012, § 1; SORDI, L’ambito di applicazione del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti e disciplina della fase di tutela urgente, Relazione all’incontro di studio organizzato dal C.S.M. sul tema <<La riforma del mercato del lavoro nella legge 28 giugno 2012 n. 92>>, Roma 29-31 ottobre 2012, § 1.2.

6 VALLEBONA, La riforma del lavoro 2012, Torino 2012, 75; DE ANGELIS, op. cit., § 1; DALFINO, Il nuovo procedimento in materia di impugnativa del licenziamento (nella L. 28 giugno 2012 n. 92), § 6 [lavoro in corso di pubblicazione su Giusto processo civile, che ho potuto consultare per la cortesia dell’A.]; BOLLANI, Il rito speciale in materia di licenziamento, in La nuova riforma del lavoro a cura di Magnani e Tiraboschi, Milano 2012, 318.

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cautelare, dunque, è pienamente compatibile con esso. Ciò è evidente per la tutela cautelare conservativa (si pensi alla eventualità di un sequestro conservativo); ma anche la tutela di urgenza ex art. 700 c.p.c. può essere richiesta in relazione alle controversie, oggetto del procedimento in questione7. La (tendenziale, nelle intenzioni del legislatore) maggior celerità del procedimento, infatti, riduce ma non annulla del tutto il periculum in mora. Sicché ben è possibile che il dipendente licenziato richieda i provvedimenti di urgenza idonei a impedire il pregiudizio che gli deriverebbe da un provvedimento che, nella migliore delle ipotesi, potrà essere pronunciato non prima di quaranta giorni. In altri termini, l’utilizzabilità di un procedimento sommario non impedisce de iure la richiesta di un provvedimento cautelare ma esige una particolare cura nella valutazione del periculum in mora, sì da rendere assai esiguo il margine di ammissibilità della tutela di urgenza. Sempre, s’intende, che i termini previsti dal legislatore siano di fatto rispettati.

La funzione non cautelare del procedimento speciale porta con sé l’incompatibilità del giudice che ha pronunciato l’ordinanza sommaria con quello che sarà investito della eventuale opposizione8. Ciò in conformità a quanto affermato dalla Corte costituzionale con la ben nota sentenza 15 ottobre 1999 n. 3879.

Se è facile, in negativo, escludere la funzione cautelare del procedimento, non altrettanto immediata è, in positivo, l’individuazione della sua funzione. Si potrebbe, invero, per un verso sostenere che siamo in presenza di un procedimento sommario senza efficacia decisoria, la cui funzione è quindi solo quella di creare un titolo esecutivo; ovvero, al contrario, che si tratta di un procedimento di cognizione speciale, la cui funzione è quindi quella di risolvere la controversia, stabilendo una volta per tutte – e pertanto con l’efficacia propria dell’art. 2909 c.c. – i rispettivi diritti ed obblighi del datore di lavoro e del dipendente con riferimento a quella frazione di realtà sostanziale costituita dal rapporto di lavoro a seguito del licenziamento.

La questione è centrale, e quindi deve essere immediatamente affrontata. Ora, molti elementi, sia testuali che sistematici, inducono a ritenere che si tratta di un processo speciale di cognizione, destinato quindi a concludersi con un provvedimento idoneo al giudicato10.

In primo luogo, come già accennato, il legislatore ha disciplinato compiutamente l’intero procedimento, e non solo la fase sommaria iniziale. Se si fosse trattato di un procedimento che non

7 VALLEBONA, La riforma, cit., 75; DE CRISTOFARO-GIOIA, Il nuovo rito, cit., § 6; BOLLANI, Il rito speciale, cit., 320; CURZIO, op. cit., § 10. Contra PAGNI, op. cit.

8 DE ANGELIS, op. cit., § 1; BENASSI, La riforma, cit., § 9; PALLADINI, Opposizione e impugnazioni, cit., § 1.

9 In Giur. it. 2000, 893; Giust. Civ. 2000, I, 14; Corriere giuridico 2000, 40; Foro it. 1999, I, 3441.

10 VALLEBONA, La riforma, cit., 75.

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ha funzione decisoria, ciò sarebbe stato inutile. Risulta inoltre alquanto improbabile che sia previsto un procedimento strutturato in una fase sommaria, una fase a cognizione piena e una fase di reclamo sol per giungere alla formazione di un titolo esecutivo, senza la contestuale risoluzione della controversia.

In secondo luogo, il provvedimento che chiude il processo di primo grado e quello di reclamo è espressamente qualificato come <<sentenza>>. Ora, è vero che il legislatore può denominare <<sentenza>> anche un atto non avente funzione decisoria, però ciò è molto improbabile, in quanto la parola <<sentenza>> denota di solito l’atto finale di un processo che ha funzione dichiarativa.

In terzo luogo, avverso la sentenza di appello è espressamente prevista la possibilità di ricorso in Cassazione. Ancora una volta, è vero che il legislatore può prevedere il ricorso in Cassazione anche nei confronti di provvedimenti non decisori: però è presumibile, salvo prova contraria, che si tratti appunto di una vera sentenza.

Infine, l’intenzione del legislatore è stata senz’altro quella di introdurre un procedimento speciale di cognizione, con effetti decisori. L’art. 1, comma 1, lettera c) della L. 92/2012, fra le finalità che la legge stessa si prefigge, indica la <<previsione altresì di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative [i.e., alla disciplina del licenziamento]

controversie [corsivo nostro]>>.

Si deve dunque concludere che il nuovo procedimento abbia funzioni dichiarative, e che il suo atto finale abbia l’efficacia propria dell’art. 2909 c.c. Esamineremo più avanti (infra, § 9) il problema della compatibilità della peculiare istruttoria prevista dai commi 48, 57 e 60 con l’efficacia piena del giudicato sostanziale.

§ 3. Ambito di applicazione e funzione specifica del procedimento. L’ambito di applicazione del nuovo procedimento è così definito dal comma 47: <<controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n.

300, e successive modificazioni [ivi comprese, quindi, quelle contestualmente introdotte dalla stessa L. 92/2012], anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro>>.

Ora, il novellato art. 18 prevede una serie di ipotesi fra loro diversificate – oltre che naturalmente con riguardo alle rispettive fattispecie – anche con riferimento agli effetti11. Esse

11 Per un dettagliato approfondimento v. DALFINO, op. cit., § 3; CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 729.

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hanno, tuttavia, un elemento in comune: la previsione che il giudice possa disporre la reintegrazione del dipendente invalidamente licenziato. La possibilità della reintegrazione costituisce dunque l’elemento unificante, che caratterizza il nuovo procedimento12. Ciò, una volta richiamato quanto detto nel § precedente a proposito della portata decisoria dello stesso, consente di individuarne la funzione specifica: si tratta di ridurre le incertezze13 legate ad una possibile reintegrazione del dipendente, giungendo quanto prima ad un provvedimento che, una volta per tutte, stabilisca se, a seguito del licenziamento, si avrà o meno la prosecuzione del rapporto di lavoro14.

Non ha rilevanza, sotto questo profilo, che il dipendente non chieda la reintegrazione (optando, ad es., fin dal ricorso per l’indennità di cui all’art. 18, comma terzo, St. lavoratori) 15. Come vedremo nel § 6, la domanda prevista dal comma 47 è sempre unica, qualunque sia la tutela richiesta.

Non è quindi, irragionevole né tantomeno incostituzionale l’esclusione in radice, dall’ambito di applicazione del nuovo procedimento, delle ipotesi in cui la tutela spettante è quella dell’art. 8 della L. 604/196616, poiché in quei casi la reintegrazione non è mai possibile. Né è fondato rilevare che <<il procedimento riguarda anche le ipotesi che il nuovo art. 18 riconduce alla stabilità obbligatoria sia pur rimpolpata>>17, poiché anche in tali ipotesi la reintegrazione è pur sempre possibile. In altri termini: non esiste fattispecie disciplinata dall’art. 18 in cui possa escludersi a priori la reintegrazione; di conseguenza, il procedimento speciale può sempre concludersi con un provvedimento, che dispone la reintegrazione del dipendente.

In realtà, dunque, il legislatore non ha voluto creare uno speciale procedimento finalizzato alla tutela del dipendente ma, come è stato acutamente osservato, <<l’introduzione del nuovo rito

12 A mio avviso, è del tutto irrilevante la querelle sulla natura di accertamento o costitutiva della sentenza che decide la controversia: sul punto v. comunque CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 731 ss.; DE CRISTOFARO-GIOIA, Il nuovo rito, cit., § 7.

13 DE ANGELIS, op. cit., § 1; BUONCRISTIANI, op. cit., § 5; SORDI, op. cit., § 1.1; CURZIO, op. cit., § 2.

14 Non si tratta, quindi, di evitare soltanto che la lunga durata del processo aumenti la somma dovuta dal datore di lavoro in caso di reintegrazione – ciò che, come rileva BOLLANI, Il rito speciale, cit., 313, accade solo nelle ipotesi in cui sia prevista la corresponsione della retribuzione globale di fatto dovuta dal licenziamenti alla reintegrazione – ma anche e direi soprattutto di evitare la incertezza in sé della (possibile) reintegrazione, che evidentemente rende difficile sia al datore di lavoro che al dipendente prendere delle decisioni definitive.

15 SORDI, § 2.

16 Come affermano DALFINO, op. cit., § 1; DE ANGELIS, op. cit., § 1; CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 735; DE CRISTOFARO-GIOIA, Il nuovo rito, cit., § 2.

17 DE ANGELIS, op. cit., § 1. Nello stesso senso, sostanzialmente, BOLLANI, Il rito speciale, cit., 321.

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speciale si pone quindi non come risposta ma come completamento alle modifiche apportate al diritto sostanziale>>18.

La (parziale) somiglianza strutturale con l’art. 28 St. lavoratori pertanto non deve trarre in inganno: là la norma costituisce una tipica ipotesi di diritto in veste di azione19, in quanto ha la finalità di creare e tutelare una situazione protetta di cui sono titolari le organizzazioni sindacali;

qui, invece, il procedimento speciale ha lo scopo di abbreviare i tempi necessari per arrivare ad una decisione nelle ipotesi in cui sullo sfondo c’è la possibilità di una reintegrazione. Esso, dunque, tutela anche la parte che ha torto20.

Ciò consente anche di chiarire cosa significa l’ultima frase del comma 4721. La qualificazione del rapporto di lavoro, infatti, può costituire una questione pregiudiziale, dalla cui risoluzione discende la possibilità di qualificare come <<licenziamento>> la avvenuta interruzione del rapporto sostanziale, e di verificare se tale licenziamento sia valido o invalido. Così, ad es., se è controversa la qualificazione del rapporto come subordinato o meno, ovvero la qualificazione dello stesso come a termine oppure no22.

Ora, le controversie relative all’accertamento dell’esistenza e qualificazione del rapporto rientrano nella previsione dell’art. 409 c.p.c., e dunque, in mancanza di quanto espressamente previsto nell’ultima frase del comma 47, si sarebbe potuto sostenere che – ove l’esito di un’impugnativa del licenziamento dipendesse dalla qualificazione del rapporto – tale qualificazione dovesse essere effettuata con il rito del lavoro, con la conseguente sospensione del procedimento speciale, o la sua attrazione al rito del lavoro ex art. 40 c.p.c. Così, invece, diviene possibile trattare delle questioni relative alla qualificazione del rapporto all’interno del procedimento volto a sindacare la validità/invalidità del licenziamento.

18 BUONCRISTIANI, op. cit., § 5. Nello stesso senso VALLEBONA, La riforma, cit., 77.

19 SATTA, Commentario al codice di procedura civile, IV, 1, Milano 1959-1968, 285 ss. con riferimento alle azioni possessorie.

20 DE ANGELIS, op. cit., § 1, il quale afferma che <<si è così finito per ampliare la portata del principio chiovendiano per il quale la durata non deve andare a danno di chi ha ragione>>. In realtà, qui ciò che viene tutelato non è il diritto della parte che ha ragione, ma il diritto della parte in quanto tale (e quindi anche del soccombente) ad un decisione in tempi brevi.

21 In arg. v. CONTESSA, Il nuovo rito dei licenziamenti: l’ambito di applicazione delle nuove disposizioni processuali, relazione al convegno La riforma del mercato del lavoro, Milano 17 ottobre 2012, § 4.

22 Ma non quando si invochi la nullità dell’apposizione del termine: VALLEBONA, La riforma, cit., 73.

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Ovviamente, ove la qualificazione del rapporto di lavoro divenga antecedente logico necessario della decisione23, questa farà stato anche con riferimento alla esistenza e qualificazione del rapporto stesso, in relazione agli altri diritti ed obblighi collegati alla qualificazione del rapporto che il giudice avrà dato.

§ 4. Domande connesse. Il legislatore, per raggiungere la finalità specifica del nuovo procedimento – ottenere rapidamente una statuizione definitiva sul licenziamento – non consente il cumulo di domande ulteriori, oltre a quelle previste dal comma 47, salvo che si tratti di domande

<<fondate sugli identici fatti costitutivi>>. Il limite si ripropone anche nell’eventuale fase di opposizione (comma 51), salvo per quanto attiene alle domande proposte nei confronti di terzi24.

Dal punto di vista di tecnica processuale, ipotizzare che vi possano essere domande

<<diverse>> fondate su <<identici fatti costitutivi>> è un nonsense. Vi possono essere domande identiche fondate su diversi fatti costitutivi (ciò che accade, ad es., per i diritti eteroindividuati), ma non domande diverse fondate su identici fatti costitutivi25. Se i fatti costitutivi sono identici, anche la domanda è necessariamente identica. Tale conclusione diviene ancora più evidente se si considera che, al comma 56, il legislatore ipotizza una domanda riconvenzionale <<fondata su fatti costitutivi identici>>: il che ovviamente è impossibile.

Se, quindi, la norma è interpretata letteralmente, in realtà nessun’altra domanda potrebbe essere proposta, tranne quella prevista dal comma 47. Si potrebbe allora ipotizzare che, per il cumulo, sia sufficiente una parziale identità di fatti costitutivi: ma in tal caso la portata precettiva della disposizione sarebbe veramente scarsa, in quanto si limiterebbe a correggere quanto prevede l’art. 104 c.p.c., impedendo semplicemente la proposizione di domande non connesse. Il che sembra un po’ poco, a fronte di una previsione così stringente come quella esaminata.

Occorre, dunque, interpretare la norma alla luce della funzione specifica del procedimento, che vedemmo essere quella di giungere velocemente ad una decisione relativa all’impugnativa del licenziamento, quando sullo sfondo vi è la possibilità della reintegrazione. A tal fine è necessario

23 Può accadere, infatti, che la questione pregiudiziale relativa alla qualificazione del rapporto di lavoro sia, nel caso concreto, irrilevante: così, ad es., se il giudice ritiene che il (preteso) licenziamento sia stato tardivamente impugnato dal (preteso) dipendente, è inutile andare a stabilire se si trattava di lavoro subordinato o autonomo.

24 La previsione del comma 51 fa così intendere che nella fase sommaria non è possibile proporre le domande previste dall’art. 106 c.p.c. La parte che ha torto potrà però, nella fase di opposizione, ottenere quella coerenza di decisioni, cui l’art. 106 c.p.c. è strumentale.

25 VALLEBONA, La riforma, cit., 73-74; DE CRISTOFARO-GIOIA, Il nuovo rito, cit., § 2.

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che il procedimento speciale non si appesantisca per la necessità di un’istruttoria relativa a fatti ulteriori e diversi rispetto a quelli rilevanti per decidere della controversia in questione26. Così, ad es., il pagamento di differenze retributive presumibilmente non può essere cumulato all’impugnativa del licenziamento, perché sicuramente esige una istruttoria del tutto autonoma;

mentre la domanda subordinata di condanna al pagamento di quanto spettante nel caso in cui non sia disposta la reintegrazione (ad es., t.f.r. o indennità sostituiva del preavviso) a mio avviso in linea di principio può essere cumulata all’impugnativa del licenziamento.

In ogni caso, la risposta a mio avviso non può essere data in via generale ed astratta, nel senso cioè di poter stabilire a priori quali categorie di domande possono e quali non possono essere cumulate con l’impugnativa del licenziamento. Dovrà essere il giudice a verificare, nel caso concreto, se l’istruttoria relativa alla domanda connessa ritarda o meno la decisione della controversia sul licenziamento27. In altri termini, a mio parere la regola applicabile è quella contenuta negli artt. 103, secondo comma e 104, secondo comma, c.p.c., ma interpretata in modo più stringente: la separazione delle cause deve essere disposta quando la loro trattazione congiunta ritarderebbe la decisione della causa sul licenziamento.

Vedremo meglio al § 6 cosa accade quando viene disposta la separazione delle cause: ma possiamo senz’altro anticipare fin da ora che la conseguenza non è la dichiarazione di inammissibilità della domanda connessa, ma il mutamento del rito.

§ 5. Obbligatorietà del rito. Con riferimento alla domanda introduttiva ex comma 48, in coerenza con quanto ci siamo prefissi nel § 1, ci limiteremo ad esaminare due questioni: se l’attore ha facoltà di scelta fra il procedimento speciale e l’ordinario rito del lavoro; se la domanda possa essere proposta anche dal datore di lavoro.

Alla prima questione deve essere data risposta negativa28, vuoi per ragioni testuali vuoi per ragioni sistematiche.

26 BOLLANI, Il rito speciale, cit., 317

27 CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 737.

28 BUONCRISTIANI, op. cit., § 1; DE ANGELIS, op. cit., § 4; PACCHIANA PARRAVICINI, Il nuovo art. 18 st. lav.:

probeli sostanziali e processuali, in Mass. giur. lav. 2012, 755; BOLLANI, Il rito speciale, cit., 315; CURZIO, op. cit.,

§ 8; SORDI, op. cit., § 1.3 (il quale peraltro ritiene che, se ambedue le parti sono d’accordo, è possibile evitare la fase sommaria). Contra CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 735-736.

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Le ragioni testuali consistono nella dizione del comma 48, secondo il quale <<la domanda

… si propone con ricorso al tribunale>>. Il legislatore, quindi, impone di utilizzare il rito speciale, e non consente all’attore la scelta fra il ricorso ex art. 414 c.p.c. ed il ricorso ex comma 48.

Le ragioni sistematiche derivano da quanto visto nel § 4 in riferimento alla funzione specifica del rito speciale. Esso, vedemmo, non costituisce uno strumento finalizzato alla tutela delle ragioni del dipendente – sicché questi possa ad esso rinunciare, optando per il rito del lavoro29 – sibbene una tecnica di tutela volta ad abbreviare i tempi necessari ad ottenere una decisione definitiva, e munita dell’efficacia del giudicato sostanziale, ogni qual volta sia in gioco la possibilità della reintegrazione. Dunque il dipendente licenziato non può <<rinunciare>> al procedimento speciale, perché la specialità non è prevista nel suo interesse.

La seconda questione – può la domanda essere proposta anche dal datore di lavoro? – in realtà pone un problema che non è tipico del solo rito speciale, ma che riguarda più in generale la posizione propria del datore di lavoro. In altri termini, se si dovesse concludere che il datore di lavoro può proporre una domanda volta ad accertare la validità ed efficacia del licenziamento, e quindi escludere la reintegrazione, sicuramente tale domanda dovrebbe essere proposta nei modi previsti dal comma 48. L’interesse specifico alla cui tutela è finalizzato il procedimento speciale – la decisione in tempi rapidi di una controversia che può portare alla reintegrazione – non appartiene al solo datore di lavoro, e quindi non è per lui disponibile. Solo che il vero problema sta a monte: ha interesse il datore di lavoro a proporre una domanda del contenuto sopra individuato?

Prima della modifica introdotta all’art. 6, secondo comma, della L. 604/1966 dall’art. 32, comma 1, della legge 183/2010 (che, com’è noto, ha previsto un termine di decadenza di duecentosettanta giorni decorrenti dall’impugnativa del licenziamento ex comma primo dello stesso articolo 6 per la proposizione della domanda giudiziale o la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato: termine successivamente ridotto a centoottanta giorni dal comma 38 della L. 92/2012) era pacifico che, avvenuta l’impugnazione del licenziamento ai sensi dell’art. 6, primo comma della L. 604/1966, anche il datore di lavoro avesse interesse a proporre la domanda volta ad accertare la validità/efficacia del licenziamento30.

29 Come accade per la fase sommaria ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori: Cass. 26 gennaio 1982 n. 515, in Foro it.

1982, I, 1043.

30 V. di recente Cass. 9 maggio 2012 n. 7096 (in una fattispecie, peraltro, nella quale il dipendente aveva già instaurato il relativo giudizio).

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Dopo la riforma dell’art. 6, secondo comma, della L. 604/1966 è dubbio che il datore di lavoro abbia interesse ad agire31, in quanto delle due l’una: o entro centottanta giorni il dipendente propone la domanda, oppure si crea una fattispecie secondaria (costituita dal licenziamento + l’inerzia del dipendente) idonea a produrre gli stessi effetti di un licenziamento valido ed efficace.

Sicché una domanda <<in prevenzione>> del datore di lavoro non sembra avere molto senso.

In ogni caso, come già detto, se si dovesse concludere che il datore di lavoro ha interesse a proporre una domanda volta ad accertare la validità ed efficacia del licenziamento, senza dubbio essa andrebbe proposta nelle forme del rito speciale.

§ 6. Individuazione del rito applicabile: profili generali. Il procedimento per l’impugnativa dei licenziamenti costituisce senz’altro un rito speciale rispetto al rito del lavoro ed ovviamente rispetto al rito ordinario: rito speciale, come già detto, che arriva fino alle soglie del ricorso per cassazione. Diviene quindi necessario verificare se vi siano e quali siano le norme applicabili in tema di mutamento di rito e poi, fondamentalmente, come si determina il rito, nonché quando si ha e cosa accade quando si ha un errore nel rito.

La prima questione, come già esposto, si suddivide in due sottoproblemi: si applica l’istituto del mutamento di rito? e, se la risposta è positiva, quali sono le norme che lo disciplinano?

A mio avviso, la soluzione, in virtù della quale l’errore sul rito determina una sentenza di chiusura del processo – mi si scusi il bisticcio – in rito32, non può essere accolta, perché contrastante con il principio fondamentale in base al quale, ove il vizio di un presupposto processuale sia sanabile, la chiusura in rito del processo può avvenire solo dopo che la parte sia stata invitata dal giudice a porvi rimedio, e non lo abbia fatto33. Ciò perché il processo deve tendere, laddove possibile, ad una decisione di merito e limitare le pronunce di mero rito ai casi strettamente necessari34: quelli, cioè, in cui il vizio processuale è insanabile35. E nel caso dell’errore di rito il vizio è sanabile appunto con il passaggio dal rito sbagliato a quello giusto.

31 In senso affermativo CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 734. Contra BUONCRISTIANI, op. cit.,

§ 1.

32 Così DE ANGELIS, op. cit., § 4. Contra SORDI, op. cit., § 7.1; CURZIO, op. cit., § 7.

33 V., se vuoi, LUISO, Diritto processuale civile, I, Milano 2011, ss. Il

34 PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2010, 213, sulla scorta di Andrioli ed ancor prima di Chiovenda. Conf. DALFINO, op. cit., § 9.

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Una volta appurato che l’errore determina il mutamento del rito, a me pare che l’alternativa costituita, da un lato, dagli artt. 426 e 427 c.p.c. e, dall’altro lato, dall’art. 4 del D.L. 150/2011 debba essere sciolta a favore delle due norme del c.p.c.36. Come già detto, la materia del procedimento speciale è <<estratta>> dall’art. 409 n. 1 c.p.c., e l’impugnativa del licenziamento costituisce una controversia di lavoro. È vero che gli artt. 426 e 427 c.p.c. disciplinano i rapporti fra rito ordinario e rito del lavoro, ma ben possono essere utilizzati, mutatis mutandis, anche nei rapporti fra rito del lavoro <<ordinario>> e rito del lavoro <<speciale>>.

Ma quando si ha errore di rito? Qui occorre richiamare il principio giurisprudenziale (tanto saldo quanto tranquillamente ignorato dalla dottrina37), secondo il quale il rito si valuta dalla domanda38. Dunque, il rito si applica ogni qual volta venga impugnato un licenziamento che l’attore afferma rientrare in una delle ipotesi regolate dall’articolo 18 dello St. lavoratori. Dal momento che l’istruttoria rileva solo ai fini del merito e non del rito, ove al termine del processo il giudice accerti l’infondatezza della domanda sub specie dell’art. 18 St. lavoratori, ma la (possibile) sua fondatezza sotto altro profilo (ad es., perché è stata chiesta la reintegrazione in una delle ipotesi previste dal quarto al settimo comma dell’art. 18, e si è appurato che il datore di lavoro non ha i requisiti dimensionali previsti dal comma 8 della stessa disposizione, ovvero che datore di lavoro è un’organizzazione di tendenza), salvo quanto vedremo fra poco deve rigettare nel merito la domanda proposta, e disporre il mutamento di rito da speciale a lavoro per la trattazione e la decisione della domanda sotto il diverso profilo giuridico39.

35 Ad es., se difettano la capacità di essere parte o legittimazione ad agire, non si può far niente per sanare il vizio. Ma se manca la capacità di agire, è possibile porvi rimedio: art. 182 c.p.c.

36 DALFINO, op. cit., § 9. Contra BENASSI, La riforma, cit., § 4, secondo il quale si applica l’art. 4 del D. Lgs.

150/2011. Secondo DE ANGELIS, op. cit., § 4, non si applica l’istituto del mutamento di rito né ai sensi degli artt. 426 e 427 c.p.c., né ai sensi dell’art. 4 del D. Lgs. 150.

37 Basti pensare che di esso non vi è traccia né nel Commentario al c.p.c. Giuffré né nel Commentario al c.p.c. Ipsoa.

38 Cass. 3 marzo 2000 n. 2368; Cass. 17 giugno 1996 n. 5544; Cass. 6 febbraio 1993 n. 1916. Per citazioni di giurisprudenza anteriore sia consentito rinviare a LUISO, Il processo del lavoro, Torino 1992, 85 ss. Più approfonditamente ora BUONCRISTIANI, op. cit., § 2; CURZIO, op. cit., § 6-7. Contra DE ANGELIS, op. cit., § 4.

Del resto, il principio in virtù del quale il rito si determina dalla domanda è solo un’applicazione del principio più ampio, in base al quale, se un fatto processualmente rilevante coincide con un fatto rilevante per il merito, ai fini del processo determinante è l’affermazione dell’esistenza del fatto e non la sua esistenza reale (v., se vuoi, LUISO, Diritto processuale civile, I, 89 ss.). Così, tanto per fare l’esempio più eclatante, la legittimazione ad agire si stima dall’affermazione di essere titolari del diritto fatto valere, e l’accertamento che di tale diritto l’attore non è titolare determina il rigetto nel merito della domanda, e non il rigetto in rito per carenza di legittimazione.

39 V. la giurisprudenza citata alla nota precedente la quale, per la verità, non giunge alle conclusioni di cui al testo, ma afferma che il rigetto non impedisce di esercitare un’altra azione fondata sulla diversa qualificazione del rapporto (così,

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Infatti, la domanda volta ad impugnare il licenziamento è unica vuoi che sia sussumibile nelle ipotesi previste dal comma 47 vuoi che sia sussumibile nelle ipotesi che da tale comma fuoriescono40. Ipotizzare che si tratti di domande diverse41 – cioè, in sostanza, che si abbia un concorso di diritti – significa giungere a conseguenze del tutto inaccettabili, in quanto comporta che il rigetto dell’una non impedirebbe la proposizione dell’altra: e ciò, si noti bene, non soltanto quando il motivo di rigetto riguardi l’elemento differenziante (ad es., i requisiti dimensionali del datore di lavoro), ma anche quando si tratta di un elemento comune (ad es., la qualificazione del rapporto come autonomo, o del licenziamento come valido ed efficace). Quando si ha concorso di diritti, solo l’accoglimento dell’una domanda (rectius, la soddisfazione dell’un diritto) produce l’estinzione dell’altro diritto42.

Poiché la domanda è unica, la litispendenza si produce in ordine a tutti i profili giuridici che riguardano il licenziamento, ma il rito si differenzia a seconda che si tratti dell’impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 oppure nelle ipotesi che fuoriescono dall’art. 18.

Poiché ciascun profilo giuridico della controversia dev’essere deciso con il rito suo proprio, ecco che – proposta la domanda con il rito speciale, in quanto il lavoratore ha invocato l’applicazione dell’art. 18 St. lavoratori – l’accoglimento della domanda è possibile solo se si accerta effettivamente applicabile l’art. 18: cioè se il diritto fatto valere è sussumibile in detta norma o, se si vuole, se per decidere la controversia deve essere utilizzato l’art. 18. Altrimenti la domanda è

ad es., Cass. 16 febbraio 1993 n. 1916). Tuttavia, la conclusione non convince. Se la domanda è unica, la litispendenza coinvolge tutti i profili giuridici della stessa: qualora la domanda non possa essere accolta perché il rito ne consente la sussunzione solo sotto uno dei più profili giuridici, non per questo la litispendenza viene meno rispetto agli altri.

Di riproposizione della domanda, anziché di prosecuzione del processo previo mutamento del rito, si può parlare solo se si riconosce che si tratta di due domande diverse che generano due distinti oggetti del processo: ma ciò per un verso è in contrasto con quanto la stessa giurisprudenza afferma (v. la nota successiva); per altro verso determinerebbe le inaccettabili conseguenze di cui immediatamente a seguire nel testo.

Sul problema in generale si v. MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato civile, Milano 1987, 285 ss. Con specifico riferimento al problema qui affrontato, BUONCRISTIANI, op. cit., § 2. La soluzione di cui al testo non è presa in considerazione da BENASSI, La riforma, cit., § 5.

40 Infatti la giurisprudenza costante afferma che, proposta una domanda ex art. 18 St. lavoratori, il giudice può esaminarla ed accoglierla anche ai sensi dell’art. 8 della L. 604/1966: Cass. 27 maggio 2011 n. 11777, in motivazione;

Cass. 22 marzo 2010 n. 6846, in motivazione; Cass. 11 settembre 2003 n. 13375, in Foro it. 2003, I, 3321; Cass. 19 novembre 2001 n. 14486; Cass. 11 settembre 1997 n. 8905, in Foro pad. 1998, I, 10; Cass. 9 settembre 1991 n. 9460.

41 VALLEBONA, La riforma, cit., 73.

42 MENCHINI, I limiti oggettivi, cit., 340 ss., spec. 347.

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rigettata nel merito, ma ciò non esaurisce – può non esaurire – la controversia, se resta possibile che la domanda sia accolta applicando un’altra norma.

Quanto appena visto consente anche di evitare il problema che deve risolvere chi ritiene che si abbiano domande diverse: come impedire, infatti, che – rigettata la domanda ex art. 18 St.

lavoratori e proposta la domanda (in tesi diversa) ex art. 8 L. 604/1966 – il dipendente si veda opporre la decadenza prevista dall’art. 6, secondo comma, della L. 604/196643 ?

È evidente, infine, che se la domanda è rigettata per ragioni che ne impediscono l’accoglimento anche applicando norme diverse dall’art. 18 St. lavoratori – ad es., perché si accerta che si trattava di rapporto di lavoro autonomo – il rigetto sarà totale.

Per un verso, dunque, sarebbe errato sostenere che il rigetto della domanda proposta ex art.

18 St. lavoratori impone di riproporre un’altra domanda ex art. 8 L. 604/1966: in realtà la domanda è unica, perché unico è il diritto, e ciò che ne impedisce l’accoglimento sotto l’altro profilo è la diversità del rito, non il fatto che essa non sia stata proposta. Per altro verso, ed al contrario, il rigetto della domanda proposta ex art. 18 St. lavoratori consente la prosecuzione del processo, previo mutamento di rito, solo se il motivo del rigetto non è di ostacolo all’accoglimento della domanda ex art. 8 L. 604/1966.

7. Segue: coordinamento con la disciplina delle domande connesse. Queste, che sono le conclusioni cui si perviene applicando i principi generali, debbono tuttavia essere corrette alla luce di quanto previsto dal comma 48, il quale – come vedemmo – consente la proposizione cumulata della domanda di cui al comma 47 (impugnazione del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’articolo 18) con domande differenti, purché fondate sugli identici fatti costitutivi. Se, dunque, il legislatore a certe condizioni consente di trattare, con il rito speciale della domanda di cui al comma 47, domande che di per sé sono invece assoggettate al rito del lavoro ordinario, a maggior ragione è possibile, alle stesse condizioni previste per queste differenti domande, decidere con il rito speciale anche il diverso profilo giuridico dell’unica domanda costituita dall’impugnazione del licenziamento.

In altri termini, se alla fine dell’istruttoria il giudice ritiene che non vi siano gli estremi per accogliere la domanda ex art. 18 St. lavoratori, ma che essa possa essere accolta ex art. 8 della L.

604/1966, egli può farlo, così come può decidere nel merito una differente domanda, purché

43 V. in generale Cass. 18 gennaio 2007 n. 1090, in Vita notarile 2007, 185; Cass. 8 giugno 2000 n. 7801; Cass. 14 aprile 1994 n. 3505, in Foro it. 1995, I, 2229; Giust. civ. 1994, I, 1475; Cass. 9 marzo 1993 n. 2813, in Foro it. 1993, I, 3304.

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<<fondata sugli identici fatti costitutivi>>. Si tratterà di vedere volta per volta se la controversia è matura per una decisione anche sotto il profilo dell’art. 8 L. 604/1966 oppure no: ad es., se il giudice ritiene assorbente la qualità di organizzazione di tendenza o la mancanza dei requisiti dimensionali del datore di lavoro, e rigetta per questo motivo la domanda ex art. 18 St. lavoratori senza che questa sia istruita relativamente alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, alla sentenza di rigetto verrà unita l’ordinanza di mutamento del rito; ma se, pur rigettando la domanda per le ragioni sopra esposte, la causa è già istruita relativamente alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, allora egli potrà deciderla nel merito anche sotto il profilo dell’art. 8 della L. 604/1966.

Non si vede, infatti, perché ciò che è possibile per domande differenti non potrebbe essere possibile per un diverso profilo giuridico dell’unica domanda.

Si potrebbe obiettare che, accettando questa ricostruzione, basta proporre la domanda invocando, sia pur infondatamente, l’applicazione dell’art. 18 St. lavoratori per avere accesso alla via veloce costituita dal procedimento speciale. Ma l’obiezione è solo apparentemente decisiva.

In primo luogo, come abbiamo già visto, non è affatto certo che, al rigetto della domanda per la mancanza dei presupposti di applicazione dell’art. 18 St. lavoratori, possa sempre seguire il suo esame nel merito ex art. 8 L. 604/1966: si tratterà di vedere se l’istruttoria relativamente alla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo è stata compiuta. Insomma, invocare l’applicazione dell’art. 18 St. lavoratori non garantisce di per sé che la domanda sia esaminata anche sotto un differente profilo giuridico.

In secondo luogo – ma in via assorbente – è lo stesso legislatore che consente, a controversie che di per sé non sono assoggettate al rito speciale, l’accesso alla via veloce anche quando la domanda principale è rigettata. Se il legislatore non subordina, come di fatto non subordina, all’accoglimento della domanda principale la decisione nel merito di domande differenti dall’impugnazione del licenziamento, non si vede perché la stessa disciplina non dovrebbe valere quando si tratta di decidere non di una domanda differente, ma della stessa domanda (sia pur sotto un diverso profilo giuridico).

Con riferimento alla sorte delle domande connesse, di cui abbiamo trattato nel § 4, quando il giudice opta per la loro separazione, deve disporre per esse il mutamento di rito da speciale a lavoro ordinario. È vero che il comma 48 stabilisce che esse non possono essere <<proposte>>, però è anche vero che ciò non significa che, ove proposte, debbano essere inesorabilmente rigettate in rito.

Anche l’art. 102 c.p.c., per fare un esempio, stabilisce che, ove si abbia litisconsorzio necessario, tutti i litisconsorti debbono agire o essere convenuti nello stesso processo: ma, se ciò non accade, si ha non già il rigetto in rito della domanda, sibbene la sua sanatoria sulla base del secondo comma della stessa norma.

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§ 8. Mutamento del rito. Un mutamento di rito quindi si avrà solo quando l’attore invoca l’applicazione dell’art. 18 St. lavoratori, e propone invece la domanda nelle forme del rito lavoro

<<ordinario>>; ovvero quando propone la domanda nelle forme del rito speciale invocando l’applicazione di una normativa diversa dall’art. 18 St. lavoratori.

In tal caso, come abbiamo visto nel § precedente, entrano in gioco i principi di cui agli artt.

426 e 427 c.p.c. Più in dettaglio, l’errore di rito è rilevabile in ogni stato e grado delle fasi di merito44 (sommaria, opposizione, reclamo nel rito speciale; primo grado e appello nel rito lavoro ordinario). L’ordinanza di mutamento di rito è modificabile e revocabile: poiché peraltro il rito si valuta dalla domanda e non dall’istruttoria, non si potranno avere mutamenti a caleidoscopio a seconda dei risultati che danno le prove acquisite in giudizio, poiché rilevante resta solo ed unicamente la domanda.

Se l’errore di rito è rilevato nella fase sommaria di una controversia iniziata con il rito speciale, in applicazione dell’art. 426 c.p.c. il giudice disporrà il passaggio al rito lavoro ordinario, fissando un termine per l’eventuale integrazione degli atti introduttivi: e ciò perché nella fase sommaria non sono previste preclusioni. Se invece l’errore di rito è rilevato nella fase di opposizione, il passaggio al rito lavoro ordinario avverrà senza assegnazione di un termine per l’integrazione degli atti: e ciò perché nella fase di opposizione sono previste le stesse preclusioni del rito lavoro ordinario.

In senso inverso, se il passaggio è da rito lavoro ordinario a rito speciale, si avrà la fissazione dell’udienza della fase sommaria ai sensi del comma 48. Ciò determina il venire meno delle preclusioni previste dagli artt. 414, 416 e 420 c.p.c., che non si applicano alla fase sommaria del rito lavoro. Infatti, la regola contenuta nell’art. 4, quinto comma, ultima frase del D. Lgs.

150/2011 (non applicabile, come visto, al procedimento speciale in materia di licenziamenti) deroga al principio generale, in virtù del quale le parti hanno i poteri propri del momento del processo, nel quale si trovano. E se il processo transita dal rito lavoro ordinario a rito speciale, le parti si vengono a trovare in un ambiente, nel quale non ci sono preclusioni.

44 Se, al contrario, si applicasse l’art. 4 del D. Lgs. 150/2011, il rilievo dell’errore di rito dovrebbe essere effettuato al massimo nella prima udienza. Per la verità, l’art. 4 del D. Lgs. 150/2011 prevede che l’ordinanza che dispone il mutamento del rito venga <<pronunciata>> non oltre la prima udienza: ma evidentemente la norma non può essere interpretata alla lettera, perché altrimenti il giudice – pur dinanzi ad un tempestivo rilievo – potrebbe omettere del tutto la pronuncia. Il che è ovviamente assurdo.

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§ 9. Errore del rito. Resta da vedere cosa accade se il processo si svolge con il rito sbagliato.

Anche qui possiamo utilizzare la ferma regola giurisprudenziale, secondo la quale l’errore del rito è motivo di nullità della sentenza, e quindi motivo di impugnazione, solo se determina un concreto

<<pregiudizio processuale incidente sulla competenza, sulle prove, o sui diritti di difesa>>45.

Com’è evidente, esclusa l’incidenza sulla competenza46 e sui diritti di difesa, rimane il problema se l’istruttoria svolta nel procedimento speciale <<nel modo che [il giudice] ritiene più opportuno>> sia utilizzabile anche quando il processo passa al rito lavoro ordinario, e viceversa.

Non si pone, invece, il problema tipico dei rapporti fra rito lavoro e rito ordinario, ossia la possibilità di acquisizione, nell’uno e non nell’altro, delle prove anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile, in quanto l’art. 421 c.p.c. trova applicazione anche nel procedimento speciale.

Pur con tutte le riserve del caso, a mio avviso la diversa modalità di assunzione delle prove non costituisce un ostacolo alla loro utilizzazione nell’altro rito47. Se i limiti di ammissibilità delle prove sono gli stessi, e se è rispettato – come deve essere rispettato anche nel rito speciale: commi 49 e 57 – il principio del contraddittorio, non vedo ostacoli all’utilizzabilità, nell’altro rito, dell’istruttoria svolta.

Se questo è vero, molto probabilmente l’errore di rito diviene sempre o quasi sempre irrilevante. Riesce difficile, infatti, immaginare quale pregiudizio l’errore del rito abbia arrecato alle parti, una volta escluso, come dev’essere escluso, che tale pregiudizio possa derivare dalle diverse modalità dell’istruttoria. Ove al contrario così fosse, è chiaro che l’errore del rito determinerebbe la nullità dell’intero processo: un esito francamente poco giustificabile48.

§ 10. La contemporanea pendenza di cause connesse assoggettate a riti diversi. Può accadere dunque che – vuoi perché separatamente proposte, vuoi perché proposte congiuntamente, ma separate dal giudice – si trovino ad essere trattate, in distinti processi, domande diverse ma connesse fra di loro. Più raramente si tratterà di connessione per pregiudizialità-dipendenza (ad es., quando sia richiesto il tfr); più facilmente si tratterà di connessione per titolo, in quanto i più diritti (magari contrapposti: si pensi ad un licenziamento per infedeltà aziendale, impugnato ex comma 47,

45 Così Cass. 18 aprile 2006 n. 8947, in Giur. it 2007, 1463. Nello stesso senso Cass. 18 luglio 2008 n. 19942; Cass. 13 maggio 2008 n. 11903; Cass. 12 aprile 2006 n. 8611; Cass. 30 giugno 2005 n. 13993.

46 Che nel rito speciale coincide con quella del rito del lavoro: DE ANGELIS, op. cit., § 5.

47 BUONCRISTIANI, op. cit., § 3.

48 Sulla compatibilità di un rito deformalizzato con le necessarie garanzie processuali, v. più in generale CAPONI, Rito processuale veloce, § 4.

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ed alla domanda del datore di lavoro, proposta in sede ordinaria. per ottenere il risarcimento dei danni) nascono dallo stesso rapporto.

È ben noto che il nostro sistema – come del resto quello comunitario – adotta il principio c.d. dell’antecedente logico necessario, in base al quale, se la decisione si fonda sull’esistenza e modo di essere del rapporto fondamentale, essa fa stato anche in ordine all’accertamento relativo al rapporto stesso. Diviene quindi opportuno evitare la pendenza di separati giudizi aventi ad oggetto diritti diversi, ma scaturenti dallo stesso rapporto, in quanto in tutti e due i processi si può giungere ad una decisione relativa al rapporto fondamentale. A tal fine la giurisprudenza utilizza, si sa, lo strumento della continenza.

Ma nel nostro caso il legislatore vieta il cumulo fra la controversia prevista dal comma 47 ed altre cause, a meno che queste ultime non siano fondate su <<fatti costitutivi identici>> (comma 51 e 56), ovvero si tratti delle ipotesi previste dal comma 54 (litisconsorzio necessario, comunanza di causa, garanzia). Dall’altro lato, la sospensione per pregiudizialità non è neppure astrattamente ipotizzabile49, in quanto nessuna delle due cause è pregiudiziale all’altra, essendo i diritti oggetto delle stesse <<figli>> dello stesso rapporto giuridico fondamentale.

Di fronte ad una tale esplicita volontà normativa, non vi è che da prendere atto che ben sarà possibile la contemporanea pendenza di più controversie che – oltre a decidere dei diritti oggetto di ciascuna di esse – sono tutte potenzialmente idonee a produrre un accertamento dell’esistenza e del modo di essere del rapporto fondamentale50. Ove tali accertamenti siano di egual contenuto, nulla questio; ma ove essi siano contrastanti, come coordinarli?

A mio avviso la situazione è la stessa che si ha quando l’identica controversia pende in sede giurisdizione ed in sede arbitrale. In quel caso, come è noto, non essendovi strumenti per prevenire un eventuale contrasto fra le due pronunce, questo contrasto, ove si verifichi, è ricomposto ex post attraverso la spendita, nell’altro processo, della prima decisione che divenga definitiva. Così, anche nel nostro caso, ove nell’un processo – che, almeno nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe essere quello relativo all’impugnazione del licenziamento – si giunga ad un provvedimento che accerti esistenza e modo di essere del rapporto, questo provvedimento potrà essere fatto valere nell’altro, che si dovrà dunque adeguare a quanto stabilito nel primo.

In tal modo l’economia processuale è certamente sacrificata sull’altare della celerità del procedimento speciale, ma i risultati sono comunque accettabili.

49 Contra SORDI, op. cit., § 6.

50 SORDI, op. cit., § 2.6.

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§ 11. Efficacia dell’ordinanza. Il legislatore niente dice in ordine alla efficacia del provvedimento che chiude la fase sommaria, prevedendo solo l’immediata esecutività dell’ordinanza. Ma abbiamo già visto nel § 2 come non possa negarsi che il procedimento appartenga alla giurisdizione dichiarativa, e che dunque il provvedimento che lo conclude abbia efficacia decisoria.

Qualcuno dubita, tuttavia, che all’ordinanza possa ascriversi l’efficacia propria dell’art. 2909 c.c., in considerazione della sommarietà dell’istruttoria51. Sommarietà che, si noti, riguarda solo la fase sommaria, in virtù di ciò che l’istruttoria ivi si limita agli atti di istruzione <<indispensabili>>, mentre nella successiva fase di opposizione l’istruttoria si estende agli atti di istruzione

<<ammissibili e rilevanti>>. Ma il dubbio non sembra fondato.

Infatti, laddove ad una fase ad istruttoria sommaria possa seguire una fase a cognizione piena, non vi è alcun ostacolo ad attribuire efficacia di giudicato al provvedimento sommario52. Tanto per rimanere in un ambito vicino, è pacifico che l’ordinanza ex art. 28 St. lavoratori, ove non opposta, sia idonea al giudicato53. Del resto, negare efficacia decisoria al provvedimento sommario significa rinnegare la ratio del procedimento speciale che, come abbiamo già visto, è quella di ottenere, il prima possibile, una statuizione definitiva sulla reintegrazione o meno del dipendente licenziato.

Né, a mio avviso, è possibile circoscrivere l’efficacia precettiva dell’ordinanza facendo riferimento ad un quid minus rispetto a quanto prevede l’art. 2909 c.c., come accade per chi parla di preclusione pro iudicato54. Infatti – ferma ed impregiudicata la piena ed incondizionata efficacia precettiva dell’ordinanza che accolga o rigetti la domanda con cui è stato impugnato il licenziamento: rispetto alla quale ordinanza parlare di efficacia minore di quella propria del giudicato, e dunque di una quasi vincolatività, sarebbe come affermare che vi può essere una donna quasi incinta! – negare che tale provvedimento faccia stato anche sull’esistenza e qualificazione del

51 CONSOLO-RIZZARDO, Vere o presunte novità, cit., 735. In arg. v. anche DALFINO, op. cit., § 9.

52 BUONCRISTIANI, op. cit., § 10.

53 V. fra le tante, Cass. 7 settembre 1993 n. 9405; Cass. 23 novembre 1989 n. 5039, in Giust. civ. 1990, I, 2123; Cass. 5 maggio 1984 n. 2744.

54 Sulla preclusione pro iudicato v. per tutti PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli 2010, 80-81.

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rapporto55 a monte, o sui diritti dipendenti a valle significa produrre delle distorsioni inaccettabili del diritto sostanziale56.

È immaginabile che, reintegrato il dipendente, possa essere posta in discussione la natura subordinata del rapporto di lavoro? O che, affermato valido ed efficace il licenziamento, al dipendente possa essere negato il t.f.r., sostenendo che il rapporto di lavoro non è cessato? Se così fosse, allora anche la parte vittoriosa avrebbe interesse a proporre l’opposizione avverso l’ordinanza, al fine di ottenere con la sentenza, pronunciata in sede di opposizione, quella maggior tutela che, in tesi, solo questa può dargli e che l’ordinanza non gli dà.

55 In ciò parte della dottrina più attendibile trova la distinzione fra efficacia del giudicato ed efficacia della preclusione pro iudicato: PROTO PISANI, op. loc. cit.

56 Per la dimostrazione di quanto affermato nel testo, sia consentito rinviare a LUISO, L’articolo 824-bis c.p.c., in Riv.

arb. 2010, 242 ss.

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