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LA RESPONSABILITÀ DEL MEDICO: LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA

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LA RESPONSABILITÀ DEL MEDICO:

LO STATO DELLA GIURISPRUDENZA

Dr. Marco Rossetti*

1. PREMESSA

È stato acutamente osservato che “nella borsa del diritto il titolo responsabilità del medico è segnalato in forte e costante rialzo”1. L’analisi di qualsiasi repertorio di giurisprudenza mostra infatti come, negli ultimi anni, il numero delle controversie giudiziarie aventi ad oggetto casi di responsabilità del medico è più che triplicato. Nello stesso tempo, ed in sintonia con tale fenomeno, è esponenzialmente cresciuto il numero di studi e monografie dedicate ai vari aspetti della responsabilità del medico (civile, penale, deontologica)2. Le cause del fenomeno sono molteplici, ed in parte non ancora ben studiate. È certo comunque che l’aumento delle controversie non va letto come indice di un decremento della competenza o della professionalità dei medici rispetto al passato. Il lievitare del contenzioso sembra invece ascrivibile, secondo gli osservatori più autorevoli, a vari fattori:

*Magistrato, Tribunale di Roma

1 Palmieri, Relazione medico-paziente tra consenso “globale” e responsabilità del professionista, in Foro it., 1997, I, 772.

2 La letteratura sul punto è sterminata. Si vedano, tra le monografie più recenti o più significative, De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995; Bilancetti, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1996; Giannini-Pogliani, La responsabilità da illecito civile.

Assicuratore, magistrato, produttore, professionista, Milano 1996; Zana, Responsabilità medica e tutela del paziente, Milano, 1993; Princigalli, La responsabilità del medico, Napoli, 1983; AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982. Per una ampia rassegna di dottrina e giurisprudenza si veda da ultimo Iamiceli, La responsabilità del medico, in Cendon (a cura di), La responsabilità civile, VI, Torino 1998, 311 e ss..

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a) ad una più consapevole presa di coscienza dei propri diritti da parte degli utenti del servizio “sanità”;

b) all’attività di sensibilizzazione compiuta dalle associazioni di difesa dei diritti del malato;

c) all’accresciuta scolarizzazione della popolazione, la quale ha fatto scomparire quella sorta di metus reverentialis che, un tempo, caratterizzava i rapporti tra cliente e professionista;

d) all’evoluzione dei mezzi di cura e diagnosi, che hanno consentito un più approfondito controllo ab externo sull’attività del medico3;

e) all’evoluzione significativa del concetto e delle funzioni della “responsabilità civile”, sempre più prossima a divenire, da criterio di riparto delle conseguenze sfavorevoli di un evento dannoso, strumento di allocazione delle risorse del sistema4.

In esito a questo fiorire di studi e moltiplicarsi di pronunce giurisprudenziali, è possibile oggi cercare di trarre un bilancio di questa pluriennale elaborazione, componendo in un quadro organico e razionale i princìpi che presiedono ai rapporti tra medico e paziente, per quanto attiene al settore della responsabilità civile5.

3 Cfr. Rodotà, Tecnologie e diritto, Bologna, 1995.

4 : Sul questo punto fondamentale si veda Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Utet. 1990. In una prospettiva meno filosofica e più propriamente giuridica, è stato inoltre segnalato come il sintagma “responsabilità civile”, che sempre più va sostituendo quelli di “atto illecito” e di

“fatto illecito”, usati rispettivamente dalla dottrina tradizionale e dal codice civile, ponga l’accento - più che sul danno in sé - sulla reazione dell’ordinamento, ponendo in primo piano l’interesse alla riparazione del danno (in questo senso, si vedano Rodotà, Modelli e funzioni della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 595; Corsaro, Responsabilità civile - Diritto civile, in Enc. giur. it., XXVI, Roma, 1991, 1; Busnelli, La parabola della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 649.

5 : Nella enucleazione e nella elaborazione di tali princìpi è stato da più parti riconosciuto il fondamentale ruolo di nomofilachia svolto dalla III sezione civile della Corte di cassazione: se ne vedano gli echi in Palmieri, Relazione medico-paziente tra consenso “globale” e responsabilità del professionista, in Foro it., 1997, I, 773, ed in Ponzanelli, la corte di cassazione ed il criterio equitativo nella valutazione del danno alla salute, in Resp. civ. prev., 1995, 526.

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Qui di seguito si cercherà dunque di ordinare in sistema le membra disiecta dei princìpi sparsi in molteplici pronunce, sia di legittimità che di merito, al fine di ricostruire quello che può definirsi il vero e proprio sistema della responsabilità professionale del medico.

2. L’OBBLIGO DI INFORMARE 2.1. Il fondamento normativo

Il primo è fondamentale obbligo del medico nei confronti del proprio paziente è quello di informarlo in modo chiaro ed esauriente sulla natura e sui rischi delle attività sia terapeutiche, sia diagnostiche, cui il paziente sta per essere sottoposto6.

6 : Sull’obbligo di informazione del medico e sulla necessità del consenso del paziente, in generale, oltre le opere citate alla nota 1, si vedano anche Abbagnano Trione, Considerazioni sul consenso del paziente nel trattamento medico chirurgico, in Cass. pen. 1999, 146; Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. crit. dir. priv. 1998, 37; Massa, Il consenso informato: luci ed ombre, in Questione giustizia, 1997, 407; FERRANDO, Chirurgia estetica,

«consenso informato» del paziente e responsabilità del medico, in Nuova giur. civ., 1995, I, 941; CALCAGNI e MEI, Sul diritto del consenso all'atto medico, in Zacchia, 1994, 375; POLVANI, Il consenso informato all'atto medico: profili di rilevanza penale, in Giust. pen., 1993, II, 734; RODRIGUEZ, Intervento chirurgico praticato senza il consenso del paziente e radiazione dall'albo professionale, in Riv. it. medicina legale, 1994, 233; POSTORINO, Ancora sul «consenso» del paziente nel trattamento medico-chirurgico, in Riv. pen., 1993, 44; SCALISI, Il consenso del paziente al trattamento medico, in Dir. famiglia, 1993, 442; PASSACANTANDO, Il difetto del consenso del paziente nel trattamento medico-chirurgico e i suoi riflessi sulla responsabilità penale del medico, in Riv. it. medicina legale, 1993, 105; GIAMMARIA, Brevi note in tema di consenso del paziente ed autodeterminazione del chirurgo nel trattamento medico-chirurgico, in Giur. merito, 1991, 1123;

RODRIGUEZ, Ancora in tema di consenso all'atto medico-chirurgico - Note sulla sentenza del 18 ottobre 1990 della corte d'assise di Firenze, in Riv. it. medicina legale, 1991, 1117; IADECOLA, In tema di rilevanza penale del trattamento medico-chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in Giust. pen., 1991, II, 163; BONELLI e GIANNELLI, Consenso e attività medico-chirurgica: profili deontologici e responsabilità penale, in Riv. it. medicina legale, 1991, 9; GUALDI e CIAURI, Il «consenso informato» in chirurgia refrattiva ed onere probatorio del corretto adempimento, da parte del professionista, al dovere di informazione, in Nuovo dir., 1991, 781; IADECOLA, Consenso del paziente al trattamento medico chirurgico, Padova, 1989;

NANNINI, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989; NORELLI e MAZZEO, Sulla progressiva svalutazione del consenso all'atto medico nella recente giurisprudenza costituzionale, in Giust. pen., 1989, I, 311; DEL CORSO, Il consenso del paziente nell'attività medico-chirurgica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1987, 536; ANGELINI ROTA e GUALDI, In tema di consenso del minore al trattamento medico-chirurgico, in Giust.

pen., 1980, I, 368.

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Questo principio è da tempo affermato dalla giurisprudenza7, ma è significativamente mutato, negli ultimi anni, il fondamento normativo su cui si costruisce l’obbligo di informazione.

Una volta, si riteneva che l’attività medica e specialmente quella chirurgica, in quanto dirette ad alterare l’integrità fisica delle persona, avevano ad oggetto un’attività coincidente con l’elemento oggettivo di un reato, quello di lesioni personali. Tuttavia, poiché tale attività era effettuata col consenso dell’avente diritto, questo stesso consenso ne escludeva l’illiceità, in base al principio volenti non fit iniuria (art. 50 c.p.). Da ciò si articolava il seguente sillogismo:

a) l’attività medica è scriminata dal consenso del paziente;

b) il consenso, per essere efficace, deve essere esente dai tradizionali vizi della volontà (errore, dolo, violenza);

(c) ergo, l’assenza od il vizio del consenso, non avendo efficacia scriminante, facevano risorgere l’illiceità della condotta del medico.

In seguito, tuttavia, tale costruzione dogmatica venne ritenuta inappagante. Si osservò infatti che l’attività medica non poteva essere considerata alla stregua di una qualsiasi condotta diretta a cagionare ad altri una lesione della salute. Al riguardo ha osservato la Suprema Corte che

“sarebbe riduttivo (…) fondare la legittimazione dell'attività medica sul consenso dell'avente diritto (art. 51 c.p.), che incontrerebbe spesso l'ostacolo di cui all'art. 5 c.c.,

7 : Si vedano, tra le varie pronunce, App. Milano 21.3.1939, in Mon. trib., 1939, 587; Cass. 25.7.1967, in Foro it. Rep. 1967, voce Responsabilità civile, n. 313; Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389;

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risultando la stessa di per sé legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico è abilitato dallo Stato.

Dall'autolegittimazione dell'attività medica, anche al di la' dei limiti dell'art. 5 c.c., non deve trarsi, tuttavia, la convinzione che il medico possa, di norma, intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. La necessita' del consenso - immune da vizi e, ove importi atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all'ordine pubblico ed al buon costume -, si evince, in generale, dall'art. 13 della Costituzione, il quale, come è noto, afferma l'inviolabilità della libertà personale - nel cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica -, escludendone ogni restrizione (anche sotto il profilo del divieto di ispezioni personali), se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge. Per l'art. 32 co. 2 Cost., inoltre, "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge" (tali norme hanno trovato attuazione nella l. 13 maggio 1978, n. 180, sulla riforma dei manicomi, per la quale "gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari", salvi i casi espressamente previsti - art. 1 -, e nella l.

23 dicembre 1978, n. 833, che, istituendo il servizio sanitario nazionale, ha ritenuto opportuno ribadire il principio, stabilendo che "gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari": art. 33). Si eccettuano i casi in cui: a) il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare un qualsiasi consenso o dissenso: in tale ipotesi, il dovere di intervenire deriva dagli art. 593 c. 2 e 328 c.p.; b) sussistano le condizioni di cui all'art. 54 c.p.”8.

Cass. 18.6.1975 n. 2439, inedita

8 : Cass. 25.11.1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913, con nota di SCODITTI, Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale, nonché in Nuova giur. civ., 1995, I, 937, con nota di FERRANDO, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico.

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Nel pensiero del giudice di legittimità, pertanto, due sono i fondamenti giuridici dell’obbligo, per il medico, di informare il paziente: gli artt. 13 e 32 co. II della Costituzione. Infatti, ove il paziente non fosse informato sull’attività cui sta per essere sottoposto, si violerebbe da un lato il suo diritto alla autodeterminazione, e dall’altro il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà.

Un ulteriore fondamento normativo dell’obbligo del medico di informare il paziente può ravvisarsi (oltre che nei princìpi cardine di cui agli artt. 13 e 32 Cost.) anche in numerose disposizioni normative di rango subordinato, e segnatamente:

a) nell’art. 33 co. I e V l. 23.12.1978 n. 833 (“Istituzione del servizio sanitario nazionale”), in base al quale

“Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari (...).

Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori (...) devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”;

b) nell’art. 4 l. 26.6.1967 n. 458 (“Trapianto del rene tra persone viventi”), in base al quale

“Il trapianto del rene legittimamente prelevato e destinato ad un determinato paziente non può aver luogo senza il consenso di questo o in assenza di uno stato di necessità”;

c) nell’art. 14 l. 22 maggio 1978, n. 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”), in base al quale

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“Il medico che esegue l'interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite, nonché a renderla partecipe dei procedimenti abortivi, che devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità personale della donna.

In presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro, il medico che esegue l'interruzione della gravidanza deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione di tali processi”;

d) nell’art. 2 l. 14 aprile 1982, n. 164 (“Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”), in base al quale

“La domanda di rettificazione di attribuzione di sesso di cui all'articolo 1 è proposta con ricorso al tribunale del luogo dove ha residenza l'attore (...).

Quando è necessario, il giudice istruttore dispone con ordinanza l'acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni psicosessuali dell'interessato”,

dal che si desume che l’attribuzione di sesso può essere disposta solo previo esperimento di un giudizio sull’esistenza d’una effettiva volizione;

e) nell’art. 121 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (“Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”), in base al quale

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“L'autorità giudiziaria o il prefetto nel corso del procedimento, quando venga a conoscenza di persone che facciano uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, deve farne segnalazione al servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio.

Il servizio pubblico per le tossicodipendenze, nell'ipotesi di cui al comma 2, ha l'obbligo di chiamare la persona segnalata per la definizione di un programma terapeutico e socio- riabilitativo”;

f) negli artt. 1 e 2 d.m. 27 aprile 1992 (“Disposizioni sulle documentazioni tecniche da presentare a corredo delle domande di autorizzazione all'immissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in attuazione della direttiva n. 91/507/CEE”), in base ai quali

“1. Le norme di buona pratica clinica cui fa rinvio la «Parte 4» dell'allegato della richiamata direttiva n. 91/507/CEE sono riportate nell'allegato 1 del presente decreto (...).

2. Fatte comunque salve le disposizioni dell'art. 1, le sperimentazioni cliniche effettuate in Italia devono essere condotte in cliniche universitarie, in strutture ospedaliere o in altre strutture a tal fine ritenute idonee dal Ministero della sanità. Ove costituiti in Italia, i comitati etici, in ogni caso conformi alle indicazioni delle norme di buona pratica clinica di cui all'art. 1, comma 2, devono aver sede presso strutture sanitarie o scientifiche di comprovata affidabilità”.

Poiché nell’allegato si indicano, tra i princìpi della “buona pratica clinica”, il necessario consenso di coloro sui quali sono effettuate le sperimentazioni, se ne desume che anche

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per il legislatore comunitario il consenso del paziente è elemento indefettibile per l’avvio del programma di cure sperimentali.

2.2. L’ambito dell’obbligo di informare.

L’obbligo del medico di informare il paziente ha raggiunto un ambito di applicazione amplissimo.

Fino a qualche anno fa, infatti, si riteneva che l’obbligo di informare il paziente sussistesse solo nei casi in cui venissero poste in serio pericolo la vita o l’incolumità fisica del paziente9.

Oggi, invece, la giurisprudenza afferma espressamente che l’obbligo in questione sussiste non solo in relazione alla necessità di intraprendere interventi devastanti o complessi, ma sussiste in relazione ad ogni attività medica che possa comportare un qualche rischio:

quindi il medico ha l’obbligo di informare il paziente sia quando intende compiere attività chirurgica; sia quando intende compiere esami diagnostici o strumentali.

Significativa, al riguardo, è la decisione resa da Cass. pen. 24.3.1986, (in Foro it. Rep.

1987, voce Violenza carnale, n. 12), la quale ha affermato che quando il medico, estendendo abusivamente l'area della sua indagine, operi all'improvviso ed all'insaputa del paziente, estendendo la propria visita superfluamente anche agli organi sessuali, pur sapendo che il consenso non vi sarebbe stato e che l'opposizione o la resistenza non sarebbero mancati, se fossero stati possibili, commette il delitto di atti di libidine. Il

9 : Si vedano Cass. 25.7.1967 n. 1950, cit.; Cass. 18.6.1975 n. 2439, in Foro it. 1976, I, 745; Cass.

29.3.1976 n. 1132, Foro it. Rep. 1976, voce Professioni intellettuali, nn. 40-42; Trib. Genova 20.7.1988, ivi, 1989, voce cit., n. 99. Significativa, fra le altre, l’affermazione contenuta in Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp.

civ. prev. 1970, 389, secondo cui il medico deve adeguare l’obbligo di informazione al “grado di cultura del malato”.

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consenso, in questi casi, è dunque presupposto e fondamento sinanche della mera inspectio corporis.

2.3. Il contenuto dell’obbligo di informazione.

L’obbligo di informare il paziente ha un contenuto molto ampio.

Il fine dell’obbligo di informazione è infatti quello di mettere il paziente in condizione di valutare serenamente e consapevolmente se sottoporsi o meno al trattamento, e tale fine non potrebbe essere utilmente perseguito se al paziente fosse sottaciuto una qualsivoglia circostanza rilevante in merito all’intervento.

L’informazione fornita deve dunque comprendere:

a) la natura dell’intervento o dell’esame (se sia cioè distruttivo, invasivo, doloroso, farmacologico strumentale, manuale, ecc.);

b) la portata e l’estensione dell’intervento o dell’esame (quali distretti corporei interessi);

c) i rischi che comporta, anche se ridotti (come effetti collaterali, indebolimento di altri sensi od organi, ecc.);

d) la percentuale verosimile di successo;

e) la possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi, ed i rischi di questi ultimi10.

In altri termini, il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa:

10 : In questo senso, si vedano Cass. 25.11.1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913cit., e Cass. 15.1.1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771.

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“nell’ambito degli interventi chirurgici, in particolare, il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento. Assume rilevanza, in proposito, l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non venga edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita.

L’obbligo di informazione si estende, inoltre, ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa determinarsi verso l’una o l’altra delle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi”11.

Come si vede, il giudice di legittimità ha dato limiti rigorosi all’obbligo di informazione:

esso comprende tutti i rischi prevedibili, anche se la loro probabilità è minima; mentre non comprende i rischi anomali, cioè quelli che possono essere ascritti solo al caso fortuito.

Dalla violazione di quest’obbligo di completa informazione, discende la responsabilità del medico nel caso di insuccesso dell’intervento. Questa responsabilità si fonda sia sulla

11 : Cass. 15.1.1997 n. 364, in Foro it., 1997, I, 771. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche Cass. 26.3.1981 n. 1773 e Cass. 9.3.1965 n. 375, in Foro it. 1965, I, 1040.

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violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.); sia sulla assenza di un valido consenso, che - per essere tale - deve essere consapevole. In assenza di informazione, pertanto, l'intervento è impedito al chirurgo tanto dall'art. 32, 2º comma, cost., a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall'art. 13 cost., che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall'art. 33 l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.)12.

Va altresì segnalato che, in materia di completezza dell’informazione fornita al paziente, la giurisprudenza di legittimità ha sovente distinto tra intervento di chirurgia estetica ed intervento operatorio a fini funzionali. Si è detto infatti che, per valutare un’eventuale responsabilità del medico, è necessario innanzitutto stabilire se l'operazione in concreto eseguita sia diretta all'uno od all'altro tipo d'intervento, conformemente alla richiesta dell'interessato, e se, nell'uno o nell'altro caso, quest'ultimo vi abbia acconsentito, dopo essere stato opportunamente informato dal chirurgo dell'effettiva portata dell'intervento, in relazione alla sua gravità, agli effetti conseguibili, alle inevitabili difficoltà, alle eventuali complicazioni ed ai prevedibili rischi coinvolgenti probabilità di esito infausto, così da poter decidere tra l'opportunità di procedere all'intervento, stante la ragionevole aspettativa di

12 : Cass. 25-11-1994 n. 10014, in Foro it. Mass., 1994; Cass. pen. 21-04-1992, in Riv. pen., 1993, 42, con nota di POSTORINO; nonché in Cass. pen., 1993, 63, con nota di MELILLO; in Dir. famiglia, 1992, 1007; in Dir. famiglia, 1993, 441 (m), con nota di SCALISI; in Riv. it. medicina legale, 1993, 460, con nota di RODRIGUEZ; Trib. Roma, 10-10-1992, in Giur. it., 1993, I, 2, 337; Trib. Genova, 20-07-1988, in Foro pad., 1989, I, 172.

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successo, e la necessità di ometterlo in mancanza di prevedibili vantaggi, esclusi in ogni caso dalla certezza di esiti infausti permanenti.

Tuttavia, fermo quest’obbligo sia per il terapeuta che per il chirurgo estetico, il primo deve informare il paziente soprattutto sui possibili rischi dell’operazione; il secondo invece deve informare il paziente sulla effettiva conseguibilità di un miglioramento fisico13.

Si vuol dire, in sintesi, che nel caso di chirurgia estetica l’informazione da fornire deve essere assai più penetrante ed assai più completa (specie con riferimento ai rischi dell’operazione) di quella fornita in occasione di interventi terapeutici. È stato infatti sostenuto che il dovere d'informazione gravante sul chirurgo estetico ha un contenuto più ampio rispetto al corrispondente dovere a carico del terapeuta, in quanto dev'essere esteso alla possibilità di conseguire un miglioramento effettivo dell'aspetto fisico, che si ripercuota favorevolmente nella vita professionale e in quella di relazione14.

Il consenso, infine, deve essere continuato. Esso non può essere prestato una tantum all’inizio della cura, ma va richiesto e riformulato per ogni singolo atto terapeutico o diagnostico, il quale sia suscettibile di cagionare autonomi rischi.

La Corte Suprema è stata su questo punto molto chiara:

“è noto che interventi particolarmente complessi, specie nel lavoro in équipe, ormai normale negli interventi chirurgici, presentino, nelle varie fasi, rischi specifici e distinti.

Allorché tali fasi assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo, esse stesse a

13 : Cass., 12-06-1982 n. 3604, in Arch. civ., 1982, 1124; nonché in Giust. civ., 1983, I, 939; Trib. Roma 10.10.1992, in Giur. it. 1992, I, 2, con nota di Magni.

14 : Cass. 08-08-1985 n. 4394, in Foro it., 1986, I, 121, con nota di PRINCIGALLI; nonché in Resp. civ., 1986, 44, con nota di DANOVI, ed in Giust. civ., 1986, I, 1432, con nota di COSTANZA.

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scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi, l’obbligo di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi”15.

In applicazione di questi princìpi, è stata affermata la responsabilità della USL per lesioni conseguite all’erronea effettuazione di una anestesia epidurale: la Corte ha osservato che la paziente, pur essendo stata informata sulla natura e sulle alternative dell’intervento, non lo era stata sui vari tipi di anestesia che potevano esserle praticate.

2.4. L’integrità del consenso.

Per essere efficace, il consenso all’attività medica deve essere prestato da soggetto capace di intendere e di volere. Per il soggetto incapace, ovviamente, il consenso dovrà essere prestato da chi ne ha la rappresentanza legale (il genitore od il tutore).

È stato tuttavia sostenuto che anche il minore possa validamente prestare il proprio consenso al trattamento medico, quando abbia acquisito una sufficiente maturità di giudizio16.

Il consenso non può tuttavia essere prestato dal soggetto che, pur legalmente capace, si trovi in concreto in stato d’incapacità di intendere e di volere17. In quest’ultimo caso (l’esempio tipico è quello del paziente incosciente od in stato comatoso), qualora vi sia l’urgenza e l’indifferibilità di un trattamento terapeutico anche rischioso, il medico non andrà tuttavia incontro a responsabilità di sorta, in quanto la sua condotta sarebbe

15 : Cass. 15.1.1997 n. 364, in Foro it. 1997, I, 771.

16 : App. Milano 25.6.1966, in Foro it. Rep. 1966, voce Patria potestà, n. 11; Trib. min. Bologna 13.5.1972, ivi, 1974, voce cit., n. 7; Trib. min. Bologna 26.10.1973, ivi, n. 5.

17 : Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389.

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comunque giustificata dalla necessità di evitare un danno grave alla salute od alla vita del paziente, ai sensi dell’art. 54 c.p..

Il consenso, naturalmente, per essere efficace deve essere immune dai vizi della volontà tipici di qualsiasi negozio giuridico: errore dolo e violenza.

L’errore, nel caso di consenso prestato alla sottoposizione a trattamenti medici, normalmente si identifica con una mancanza di informazione, cioè con un consenso prestato senza che il medico avesse preventivamente fornito al paziente tutte le informazioni necessarie sull’intervento.

In altri termini, un consenso prestato sulla base di un’informazione carente o scorretta è un consenso viziato e perciò inefficace.

Per questo motivo è stato giustamente osservato che, a rigore, parlare di “consenso informato” è un’endiadi: in materia di prestazioni sanitarie, infatti, il consenso o è informato, oppure non è neanche consenso18.

2.5. La forma del consenso.

La prestazione del consenso non è soggetta ad alcuna forma particolare. Nel nostro ordinamento vige infatti il principio della libertà delle forme del negozio giuridico, con la conseguenza che le parti possono scegliere quella ritenuta più opportuna (ivi compresa la forma orale e la forma tacita, cioè il comportamento concludente)19. Naturalmente, la forma scritta resta quella preferibile, in quanto facilita enormemente il problema della prova del consenso.

18 : In questo senso, FERRANDO Gilda, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico (Nota a Cass., sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014, Sforza c. Milesi Olgiati), in Nuova giur. civ., 1995, I, 941.

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2.6. L’onere della prova.

L’onere di provare che il medico curante ha fornito una informazione completa e corretta ricade, secondo la suprema Corte, sul paziente.

Tale affermazione viene ricavata dai princìpi costantemente affermati in materia di responsabilità extracontrattuale. Il medico che non fornisce un’informazione completa si rende inadempiente al contratto di prestazione d’opera professionale. L’inadempimento è fatto costitutivo della pretesa risarcitoria: pertanto è chi allega l’altrui inadempimento che ha l’onere di provare, oltre che l’esistenza e l’efficacia del contratto, la condotta inadempiente altrui.

Tale principio è stato affermato ore rotundo da Cass. 25.11.1994 n. 10014:

“Questa Corte ha avuto modo di chiarire, anche di recente, che ai fini della ripartizione dell'onere della prova in materia di obbligazioni, si deve aver riguardo all'oggetto specifico della domanda, talché, a differenza del caso in cui si chieda l'esecuzione del contratto e l'adempimento delle relative obbligazioni, ove è sufficiente che l'attore provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioè l'esistenza del contratto e, quindi, dell'obbligo che si assume inadempiuto, nell'ipotesi in cui si domandi invece la risoluzione del contratto per l'inadempimento di una obbligazione l'attore è tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l'inadempimento e le circostanze inerenti in funzione delle quali esso assume giuridiche rilevanza, spettando al convenuto l'onere probatorio di essere immune da colpa solo quando l'attore abbia provato il fatto costitutivo dell'inadempimento" (da ultimo, Cass. 29.1.1993, n. 1119). Il problema non si pone

19 : Cass. 25.7.1967 n. 1950; Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389; Cass. 18.6.1975 n.

2439.

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diversamente allorché l'inadempimento venga addotto non per conseguire la risoluzione del contratto, ma ai fini di ottenere il risarcimento del danno”.

La Corte non si è nascosta le difficoltà cui potrebbe andare incontro il paziente, obbligato a provare non un fatto positivo, ma la circostanza negativa di non essere stato informato, ma ha rilevato che

“L'obiettiva difficoltà in cui si trovi la parte di fornire la prova del fatto costitutivo del diritto vantato non può condurre ad una diversa ripartizione del relativo onere, che grava, comunque, su di essa (fra le altre, Cass., sent. n. 83-2596 del 1983), mentre l'antico brocardo, negativa non sunt probanda, è da intendere nel senso che, non potendo essere provato ciò che non è, la prova dei fatti negativi deve essere fornita mediante la prova dei fatti positivi, ma non già nel senso che la negatività dei fatti escluda od inverta l'onere (Cass., sent. n. 2612 del 1969). Esattamente, quindi, la Corte di Appello ha ritenuto che spettasse all’[attore] fornire la prova che la controparte non aveva adempiuto all'obbligo di informazione ovvero dell'oggetto del contratto, eventualmente estendendosi al conseguimento di un determinato risultato (dovendosi escludere che la Corte abbia ritenuto che, in astratto, l'obbligazione assunta dal chirurgo estetico sia sempre una obbligazione di risultato, anche se non ha omesso di valutarne l'attività sotto tale profilo)”.

Le conclusioni non mutano ove si volesse ritenere la responsabilità del chirurgo, per omessa informazione, di natura aquiliana e non contrattuale. Infatti, come si è visto sopra, l’obbligo di informare sussiste prima ancora della conclusione del contratto di prestazione d’opera professionale, ed è espressione del più generale obbligo di correttezza nel corso

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delle trattative. Si potrebbe dunque affermare che la violazione dell’obbligo di informazione dia ingresso a responsabilità extracontrattuale, nella specie della responsabilità precontrattuale. Anche in questo caso, tuttavia, la condotta illecita (cioè l’omissione di informazione) sarebbe fatto costitutivo della pretesa risarcitoria, e dovrebbe essere provata dal paziente.

2.7. Le conseguenze dell’omessa informazione.

Nel caso in cui il medico ometta di informare adeguatamente il paziente sui rischi e sulle possibilità di successo dell’intervento che si appresta a compiere (si tratti di intervento chirurgico vero e proprio, od anche soltanto di accertamento diagnostico di tipo invasivo), egli è responsabile nei confronti del paziente per l’ipotesi in cui dall’intervento derivino lesioni personali (e, a fortiori, sarà responsabile nei confronti degli eredi del paziente se dall’intervento derivi la morte di quest’ultimo). In questi casi, secondo la Suprema Corte, è del tutto irrilevante che l’intervento sia eseguito correttamente, con perizia, e senza colpa.

La mancata richiesta del consenso costituisce infatti autonoma fonte di responsabilità per il medico: non per avere male operato in corpore, ma per avere impedito al paziente di autodeterminarsi nelle proprie scelte20.

20 : Cass. 24.9.1997 n. 9374, in Resp. civ. prev. 1998, 78, con nota di Martorana, Brevi osservazioni su responsabilità professionale ed obbligo di informazione, nonché in Riv. it. med. leg. 1998, IV, 821, con nota di Introna, Consenso informato e rifiuto ragionato. L'informazione deve essere dettagliata o sommaria?; nello stesso senso, Trib. Napoli 30.1.1998, in Tagete, 1998, fasc. 4, 62, con nota di Rossetti.

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3. L’OBBLIGO DI DILIGENZA

Una volta informato esaurientemente e correttamente il proprio paziente, il medico non è per ciò solo esonerato da responsabilità.

Il medico ha infatti, oltre l’obbligo di informare il paziente, anche quello di fornire una prestazione professionalmente valida. Eseguire una prestazione professionalmente valida non vuol dire, ovviamente, garantire la guarigione del paziente: l’obbligazione del medico costituisce infatti tradizionalmente una obbligazione di mezzi, non di risultato, e da questa distinzione21 la giurisprudenza fa discendere la conseguenza secondo cui l’inadempimento del sanitario non è rappresentato dall’esito sfortunato della terapia, ma dalla violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale22.

L’adempimento dei doveri inerenti lo svolgimento della professione comporta vari obblighi, sia commissivi che omissivi.

In particolare, sotto il profilo commissivo, il medico ha l’obbligo:

a) di rispettare scrupolosamente le regole della buona pratica sanitaria;

b) di attivarsi per compiere tutte le attività ulteriori o non previste o non pattuite che, nei limiti di un apprezzabile sacrificio, siano necessarie per conseguire il risultato terapeutico prefissato (è in colpa, ad esempio il medico che, nel seguire il decorso postoperatorio del paziente, rilevando una qualsiasi alterazione delle funzioni vitali ometta di segnalarla allo specialista competente, ritenendo che ciò non sia “affar suo”);

21 : La quale, in verità, negli ultimi anni sembra essere entrata in crisi: si vedano, al riguardo, FRANZONI, La responsabilità nelle obbligazioni di mezzi e nelle obbligazioni di risultato, in Resp. comunicazione impresa, 1997, 319; CARBONE, Obbligazioni di mezzi e di risultato tra progetti e tatuaggi, in Corriere giur., 1997, 546;

BILLI, Prestazione professionale: obbligazione di mezzi o di risultato?, in Rass. giur. umbra, 1995, 736;

PONTONIO e PONTONIO, La responsabilità del chirurgo estetico: obbligazione di mezzi o di risultato?, in Resp. civ., 1994, 771.

22 : In questo senso si veda già Cass. 13.10.1972 n. 3044, in Foro it. 1973, I, 1170.

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c) di aggiornarsi costantemente per garantire al paziente il trattamento più moderno, più sicuro e meno doloroso (è in colpa, ad esempio, il medico che, omettendo negligentemente di informarsi sui ritrovati più diffusi ed accreditati della pratica sanitaria, costringa il proprio paziente a sottoporsi ad un intervento obsoleto per la tecnica adottata e rischioso per le modalità di esecuzione; ovvero ometta di far eseguire al proprio paziente un accertamento strumentale più sicuro ed affidabile rispetto a quello prescritto). Al riguardo è stato affermato dalla Suprema Corte che il medico-chirurgo, nell'adempimento delle obbligazioni contrattuali inerenti alla propria attività professionale, è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall'art. 1176, 1º comma, c.c., ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dal 2º comma dell'art. 1176, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica, tenendo conto che il progresso della scienza e della tecnica ha notevolmente ridotto nel campo delle prestazioni medico-specialistiche l'area della particolare esenzione indicata dall'art. 2236 c.c. (nella specie, la suprema corte ha confermato la sentenza di merito la quale aveva escluso che possa considerarsi problema tecnico di speciale difficoltà per uno specialista ortopedico la corretta terapia della immobilizzazione delle articolazioni di un arto ustionato:

Cass. 03-03-1995 n. 2466, in Foro it. Mass., 1995; nello stesso senso, da ultimo, Cass.

19.5.1999 n. 4852, inedita).

In generale può dirsi che anche il medico, come qualsiasi altro professionista, si rende colposamente inadempiente all’obbligo di adempiere la propria prestazione professionale quando tiene una condotta imprudente, imperita, negligente, oppure non osserva leggi, regolamenti, ordini o discipline.

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3.1. La limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c..

Anche per il medico, come per gli altri prestatori d’opera professionali, la responsabilità per colpa è mitigata dall’art. 2236 c.c., in base al quale se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave.

Il giudice di legittimità ha comunque precisato che la portata mitigatrice dell’art. 2236 c.c.

non si estende ad ogni ipotesi di colpa professionale, ma solo alle ipotesi di colpa consistita nell’imperizia. Quando, invece, la cattiva riuscita della prestazione sia dovuta a imprudenza o negligenza, la limitazione di cui all’art. 2236 c.c. non opera, ed il medico risponderà anche solo per colpa lieve. In questo senso si veda, tra le tante, Cass. pen. 23- 08-1994, in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 2, 118, secondo la quale

“in materia di colpa professionale del medico quando l'evento venga addebitato a titolo di imperizia, la valutazione del giudice deve essere particolarmente larga nel ristretto ambito della colpa grave; mentre se l'addebito si concreta in una condotta imprudente o negligente la valutazione del giudice deve essere effettuata nell'ambito della colpa lieve per la omissione della più comune diligenza rapportata al grado medio di cultura e capacità professionale, secondo i criteri normali e di comune applicazione, valevoli per qualsiasi condotta colposa”.

Anche la cassazione civile è dello stesso avviso: si veda, ad esempio, Cass. 11-04-1995 n.

4152, in Foro it. Mass., 1995, secondo cui

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“in tema di responsabilità del medico, ai sensi dell'art. 2236 c.c., la limitazione di responsabilità ai casi di dolo o colpa grave si applica, non a tutti gli atti del medico, ma solo a quelli che trascendono la preparazione professionale media, altrimenti il medico risponde anche per colpa lieve, spettando al cliente provare che l'atto del medico era di facile esecuzione e che per effetto dell'opera del medico egli ha subito un peggioramento delle proprie condizioni di salute, salvo per il medico, in tal caso, di provare di avere eseguito la prestazione con diligenza”23.

Questo indirizzo deve ritenersi ormai consolidato ed è stato, ancora in tempi recentissimi, confermato dalla suprema corte, la quale ha ribadito che

“il medico chirurgo chiamato a risolvere un caso di particolare complessità, il quale cagioni al paziente un danno a causa della propria imperizia, è responsabile solo se versa in dolo od in colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c.. Tale limitazione di responsabilità invece, anche nel caso di interventi particolarmente difficili, non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza od imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso”24.

3.2. La nozione di “colpa lieve”.

Non sempre è agevole quando il medico abbia arrecato un danno al paziente con colpa lieve. La dottrina, da tempo, ha messo in evidenza il carattere relativistico della nozione di colpa: in essa è implicito un venir meno, una manchevolezza, un deviare rispetto ad una regola prestabilita. Questa regola può essere una norma giuridica od anche una norma di

23 : Nello stesso senso, si veda pure Cass. 12-08-1995 n. 8845, in Foro it. Mass., 1995.

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condotta, variabile in funzione delle circostanze di tempo, di luogo e di persona: di talché lo sforzo dell’interprete si riduce, di volta in volta, a delineare quale avrebbe potuto essere, nel caso concreto, il “modello” astratto cui l’autore dell’illecito avrebbe dovuto uniformarsi25. In tema di colpa medica occorre ricordare che l’art. 1176, comma secondo, c.c., esige da chi deve adempiere una obbligazione inerente l’esercizio d’una prestazione professionale una diligenza proporzionata alla natura dell’attività esercitata. L’intensità della colpa del medico va pertanto valutata con riferimento non al generico modello del bonus pater familias, ovvero dell’uomo coscienzioso e diligente, ma con riferimento al modello astratto del professionista diligente. Non è possibile ovviamente stabilire a priori quale sia il modello astratto del bonus medicus o del bonus vulnerarius, ma utili elementi possono essere offerti dalla analisi sistematica della giurisprudenza.

Innanzitutto, il metro di valutazione della colpa muta a seconda del contenuto oggettiva di questa: se la colpa è consistita in una mancanza di perizia, l’esame non deve essere necessariamente “rigoroso”, in quanto il giudice deve tener conto che la patologia è sempre condizionata, nelle sue manifestazioni concrete, dalla individualità biologica del paziente; che i dati nosologici non sono tassativi e che è sempre possibile un errore di apprezzamento dei riscontri clinici, sicché il giudizio diagnostico può, con frequenza, risultare errato. Di conseguenza, se il medico è stato imperito, egli risponde soltanto se versi in colpa grave, a meno che l’intervento non fosse routinario o di facile esecuzione26. Se, invece, la colpa è consistita in una mancanza di diligenza, l’esame deve essere

24 : Cass. 18.11.1997 n. 11440, in Riv. giur. circ. trasp. 1998, 67.

25 : Forchielli, Colpa – I) Diritto civile, in Enc. giur., Roma 1988, VI, 3-4.

26 : Cass., sez. III, 18-11-1997, n. 11440, in Foro it. Rep. 1997, voce Professioni intellettuali, n. 118; Cass., sez. III, 08-07-1994, n. 6464, in Corriere giur., 1995, 91, con nota di Batà; Cass., 30-11-1982, imp.

Massimo, in Riv. pen., 1983, 872.

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particolarmente rigoroso, perché la tutela della salute, che viene affidata al medico, impone a questi l’esercizio della massima attenzione27. Pertanto il medico imperito risponde solo per colpa grave (salvi i casi di interventi routinari); il medico negligente risponde anche soltanto per colpa lieve.

Il metro di valutazione della colpa, inoltre, muta a seconda della natura dell’intervento richiesto al medico: è infatti affermazione ormai consolidata, in giurisprudenza, quella secondo cui il professionista medico-chirurgo risponde anche per colpa lieve, quando per omissione di diligenza o per inadeguata preparazione provochi un danno nell'esecuzione d'un intervento operativo o d'una terapia medica, mentre egli risponde solo se versi in colpa grave, quante volte il caso affidatogli sia di particolare complessità, o perché non ancora sperimentato e studiato a sufficienza o perché non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire28.

Le distinzioni operate dalla S.C. possono essere organizzate nella seguente tabella:

Grado della colpa necessario per una pronuncia di condanna

Intervento complesso Intervento routinario

Colpa per imperizia grave lieve

Colpa per negligenza lieve lieve

27 : Cass., 11-07-1980, imp. De Lilla, in Riv. pen., 1981, 283.

28 : Cass., sez. III, 11-04-1995, n. 4152, in Foro it. Rep. 1995, voce Professioni intellettuali, n.

168; Cass. 26.3.1990 n. 2428, in foro it. Rep., 1990, voce Professioni intellettuali, n. 113.

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Come si nota, il medico è sempre tenuto anche soltanto per colpa lieve, ad eccezione dell’ipotesi in cui sia chiamato a compiere un intervento complesso, ed il danno sia stato arrecato non per negligenza, ma per imperizia.

L’esame della giurisprudenza è di valido ausilio per stabilire “quando” sia sufficiente la colpa lieve per radicare un giudizio di responsabilità; ma aiuta molto meno per stabilire il contenuto della colpa lieve. Dal punto di vista teorico, la nozione di “colpa lieve” è stata ben scolpita da Cass., 22-02-1988, n. 1847, in Arch. civ., 1988, 684, la quale ha affermato che versa in colpa lieve il medico che, di fronte ad un caso ordinario, non abbia osservato, per inadeguatezza od incompletezza della preparazione professionale, ovvero per omissione della media diligenza, quelle regole precise che siano acquisite, per comune consenso e consolidata sperimentazione, alla scienza ed alla pratica, e, quindi, costituiscano il necessario corredo del professionista che si dedichi ad un determinato settore della medicina. Non si deve tuttavia pensare che versi in colpa lieve soltanto il medico che non si attenga alle comuni regole della scienza e della pratica. Può versare in colpa anche il medico che non si aggiorni o non si sia aggiornato; quello che abbia sovrastimato le proprie capacità; quello che abbia omesso di informare il paziente anche degli aspetti o dei rischi secondari dell’operazione (una affermazione recisa di tale ultimo obbligo è stata compiuta dai giudici d’oltralpe, i quali hanno ritenuto che il medico non è dispensato dall’obbligo di informazione per il solo fatto che il rischio si verifichi soltanto eccezionalmente: Cour de cass., 7.10.1998, 97-10.267, in Recueil Dalloz, 1999, 144).

Da un punto di vista pratico l’esame delle singole fattispecie sottoposte all’esame della S.C.

rivela come la nostra giurisprudenza sia per lo più propensa a ritenere sussistente la colpa grave del medico convenuto. Si direbbe, in altri termini, che delle due l’una: o la domanda

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di risarcimento nei confronti del medico viene rigettata; o se, viene accolta, il giudizio di responsabilità si fonda sulla colpa grave, e quasi mai sulla colpa lieve.

Così, ad esempio, è stato ritenuto in colpa grave:

-) il medico che abbia somministrato un anestetico locale, rivelatosi poi letale per il paziente, senza previamente eseguire alcun previo accertamento sulle condizioni del paziente stesso (Cass., 01-03-1988, n. 2144, in Foro it., 1988, I, 2296);

-) il medico specializzato in ortopedia per avere affrontato, con esito negativo, un intervento di alta neurochirurgia (Cass. 26.3.1990 n. 2428, in foro it. Rep., 1990, voce Professioni intellettuali, n. 113);

-) il medico che abbia omesso di informare una donna sul possibile esito negativo dell’intervento abortivo cui si era sottoposta, in un caso in cui la paziente, dopo l’intervento, aveva volontariamente abbandonato l’ospedale (Cass., sez. III, 08-07-1994, n. 6464, in Corriere giur., 1995, 91, con nota di Batà);

-) il medico che, nell’esecuzione di un trattamento chirurgico di riduzione di una lussazione dell’anca e di frattura femorale, con rimozione dei frammenti articolari, abbia lasciato libero nella cavità acetabolare un frammento osseo della testa femorale (Cass., sez. III, 11-04-1995, n. 4152, in Enti pubblici, 1996, 908);

-) il medico che abbia omesso di rilevare una frattura del femore (Cass., sez. III, 12-08- 1995, n. 8845, in Foro it. Rep. 1995, voce Professioni intellettuali, n. 170);

-) il medico primario che, pur essendo in ferie, abbia ritardato un intervento indifferibile, causando un danno al paziente (C. conti 20.9.1996, n. 100/A, in Riv. corte conti, 1997, fasc. 2, 103);

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-) il medico che, chiamato ad intervenire chirurgicamente su una tumefazione al seno, decida di asportare l’intera ghiandola mammaria senza previamente eseguire un esame istologico intraoperatorio (Cass. 2.12.1998 n. 12233, inedita).

Deve anche rilevarsi che la corte di cassazione, agendo con lo strumento della presunzione semplice (art. 2727 c.c.) e del fatto notorio (art. 115 c.p.c.), perviene di fatto al risultato di spostare l’onere della prova a carico della parte ritenuta meno meritevole di tutela rispetto al caso concreto. Così, nel caso in cui abbia esito infausto un intervento medico routinario o di agevole esecuzione, la Corte ritiene in re ipsa la prova della colpa del medico (o meglio, ritiene provata ex art. 2727 c.c. tale colpa, risalendo dai fatti noti dell’insuccesso e della facilità d’esecuzione al fatto ignorato della imperizia del medico). È consueta al riguardo l’affermazione che “quando (…) si tratti di interventi che siano al di fuori dell'ipotesi della "speciale difficoltà" presupposta dall'art. 2236, occorre riportarsi alla disciplina generale prevista dall'art. 1176 per l'esercizio di un'attività professionale, la quale importa l'obbligo di usare la diligenza del buon padre di famiglia, implicante una scrupolosa attenzione ed una adeguata preparazione professionale. In tali ipotesi è la colpa lieve che viene in considerazione, da presumere sussistente ogni volta che venga accertato un risultato peggiorativo delle condizioni del paziente” (Cass. 18.10.1994 n.

8470, in Foro it. Rep. 1994, voce Professioni intellettuali, n. 107). Un esempio di questo tipo di decisione è fornito da Cass. 16.11.1988 n. 6220, in Foro it. Rep. 1988, voce Professioni intellettuali, n. 94, la quale dinanzi ad un caso di atrofia testicolare insorta immediatamente dopo un intervento di erniotomia, ha presunto il nesso causale tra intervento e patologia, addossando al medico l’onere di provare che l’insorgenza indesiderata era dovuta a fattori estranei od eccezionali.

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3.3. L’onere della prova.

Si è visto dunque che il giudice di legittimità ha operato in materia di responsabilità del medico, una tripartizione:

a) per l’insuccesso di interventi e prestazioni routinari, il medico risponde anche se versa soltanto in colpa lieve;

b) per l’insuccesso di interventi e prestazioni non routinari, il medico risponde solo se versa in colpa grave;

c) per l’insuccesso di interventi e prestazioni non routinari, il medico risponde anche se versa soltanto in colpa lieve, qualora la colpa sia consistita in negligenza od imprudenza.

Come si ripartisce, nelle varie ipotesi, l’onere della prova tra medico e paziente? Anche su questo punto la giurisprudenza del giudice di legittimità può definirsi consolidata. La Corte ha distinto due ipotesi:

A) se l’intervento è routinario, il fatto stesso che non sia riuscito pone a carico del medico una presunzione de facto di imperizia29. Pertanto:

a’) il paziente ha l’onere di provare soltanto la routinarietà dell’intervento;

b’) sarà il medico, se vuole andare assolto, a dover provare che l’insuccesso va ascritto a complicazioni imprevedibilmente insorte.

B) Se l’intervento è complesso, il fatto che non sia riuscito non è idoneo a far ritenere imperito il medico. Pertanto:

a’’) il medico ha soltanto l’onere di provare la complessità dell’intervento;

29 : Si ricordi che la presunzione semplice è il fatto noto dal quale il giudice, con una deduzione logica, risale ad un fatto ignoto (art. 2727 c.c.), secondo il principio res ipsa loquitur.

(29)

b’’) sarà il paziente, se vuole ottenere la condanna del medico, a dover provare che, nonostante la complessità dell’intervento, l’insuccesso va ascritto ad una banale imprudenza o negligenza del medico.

Le sentenze in questo senso sono numerose e sempre conformi: si vedano, tra le ultime, Cass. 16-11-1988 n. 6220, in Foro it. Mass., 1988; Cass. 16-11-1993 n. 11287, in Foro it.

Mass., 1993; Cass. 18-10-1994 n. 8470, in Foro it. Mass., 1994; Cass. 30.5.1996 n. 5005, in Foro it. Mass. 1996.

Particolarmente significativa è la motivazione di Cass. 18.10.1994 n. 8470, cit., nella quale si legge che

“in tema di danno cagionato ad un paziente da prestazioni mediche, va applicato il disposto dell'art. 2236 cod. civ. - a norma del quale il sanitario risponde del danno soltanto in caso di dolo o colpa grave - nell'ipotesi in cui la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. Si tratta di una forma attenuata di responsabilità, dettata dalla legge per interventi che trascendono la preparazione professionale media, con la conseguenza che il paziente leso ha l'onere di far conoscere in modo specifico e preciso il genere di intervento subito, le ragioni che lo hanno imposto e le modalità di esecuzione, allo scopo di provare che il sanitario, mancando di attenersi ad un canone di ordinaria diligenza, non abbia adottato quei metodi di accertamento divenuti di uso comune, perché acquisiti dalla ricerca scientifica e dalla pratica, facendo ricorso ai mezzi allo stato ritenuti idonei a raggiungere il risultato desiderato. Quando invece si tratti di interventi che siano al di fuori dell'ipotesi della "speciale difficoltà" presupposta dall'art.

2236, occorre riportarsi alla disciplina generale prevista dall'art. 1176 per l'esercizio di un'attività professionale, la quale importa l'obbligo di usare la diligenza del buon padre di

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famiglia, implicante una scrupolosa attenzione ed una adeguata preparazione professionale. In tali ipotesi è la colpa lieve che viene in considerazione, da presumere sussistente ogni volta che venga accertato un risultato peggiorativo delle condizioni del paziente. Questi allora, avendo subito danno, potrà soddisfare all'onere a suo carico esistente, limitandosi a provare che l'intervento era di facile esecuzione e che dallo stesso è derivato un risultato peggiorativo, dovendosi presumere l'inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale, mentre sul professionista graverà l'onere inverso di provare che la prestazione è stata eseguita con l'uso della massima diligenza e capacità, e che l'esito peggiorativo è dovuto ad eventi imprevisti od imprevedibili, oppure ad una particolare condizione fisica del malato, non accertabile con il criterio imposto dalla diligenza professionale, ovvero si tratti di caso non ancora sperimentale e studiato a sufficienza, specie per quanto concerne i metodi terapeutici”30. Tale principio è stato confermato da una recentissima sentenza della Suprema Corte, la quale ha ribadito che

"occorre distinguere l’ipotesi in cui l’intervento operatorio sia di difficile esecuzione (poiché richiede notevole abilità, presuppone la soluzione di problemi tecnici noto o di speciale complessità e comporta un largo margine di rischio), da quello in cui l’intervento sia di facile o routinaria esecuzione. Nel primo caso, una volta provato dal professionista che la prestazione implica problemi tecnici di particolare difficoltà, è il paziente che deve dimostrare, ai fini dell’accertamento della responsabilità del predetto, in modo preciso e specifico, le modalità - ritenute non idonee - di esecuzione dell’atto e del prestazioni post

30 : Nello stesso senso, per la giurisprudenza precedente, si vedano Cass. n. 6141 del 1978, n. 1847 e 6220 del 1988, n. 2428 del 1990, n. 977 del 1991.

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operatorie. Nel secondo caso, provata dal paziente la non difficile esecuzione dell’intervento richiesto, incombe al professionista l’onere di dimostrare - al fine di andare esente da responsabilità - che l’insuccesso dell’operazione non è dipeso dal difetto di propria diligenza o perizia”31.

Il riparto dell’onere della prova tra medico e paziente può essere riassunto nella seguente sinossi:

Medico Paziente

Intervento routinario Ha l’onere di provare che l’insuccesso è dipeso da fatti imprevedibili ed eccezionali

Ha l’onere di provare la sola natura routinaria dell’intervento

Intervento complesso Ha l’onere di provare la sola natura complessa dell’intervento

Ha l’onere di provare che, nonostante la natura complessa dell’intervento, l’insuccesso è dovuto a negligenza od imperizia del medico

Intervento con

garanzia di risultato

Ha l’onere di provare che il medico aveva garantito il risultato

31 : Cass. 4.2.1998 n. 1127, in Giur. it. 1998, 1800.

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4. L’OBBLIGAZIONE DI RISULTATO

Una volta informato correttamente il paziente, ed eseguito diligentemente l’intervento, il medico ha di norma adempiuto le obbligazioni sorte dal contratto di prestazione d’opera professionale, le quali costituiscono obbligazioni di mezzi, e non obbligazioni di risultato.

Possono tuttavia darsi dei casi in cui il medico pur avendo informato il proprio paziente;

pur avendo eseguito diligentemente la propria prestazione professionale, ancora non può dirsi adempiente: sono le ipotesi in cui il medico ha garantito al paziente-cliente il conseguimento di un determinato risultato. Infatti nel contratto avente ad oggetto una prestazione di chirurgia estetica (ma il principio può certamente estendersi anche a settori diversi dalla chirurgia estetica: si pensi agli interventi di protesizzazione), il sanitario può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato, da intendersi quest'ultimo non come dato assoluto ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie32.

In questi casi, il sanitario è responsabile nei confronti del cliente per l’omesso conseguimento del risultato promesso, ma l’onere di provare che il sanitario aveva garantito il risultato incombe sul paziente33.

32 : Cass. 25-11-1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913; ed in Nuova giur. civ., 1995, I, 937. In dottrina si veda, sul punto, PONTONIO Felice e PONTONIO Chiara, La responsabilità del chirurgo estetico: obbligazione di mezzi o di risultato? (Nota a T. Trieste, 14 aprile 1994, in Resp. civ., 1994, 771.

33 : Cass. 10014/94, cit..

(33)

5. IPOTESI PARTICOLARI DI RESPONSABILITÀ: CONCEPIMENTO, GESTAZIONE, PARTO

Un aspetto del tutto peculiare della responsabilità professionale del medico è rappresentato dalle ipotesi di danno legate al concepimento, alla gestazione, al parto.

Vengono in rilievo, in subiecta materia, essenzialmente due ipotesi di danno:

(a) il danno da nascita indesiderata. Ricorre questo tipo di danno quando la nascita di un figlio avviene contro la volontà della madre (come nell’ipotesi di insuccesso di un intervento abortivo); ovvero oltre la volontà della madre (come nell’ipotesi di omesso rilevamento delle malformazioni del feto);

(b) il danno da lesioni o malformazioni colposamente causate al feto durante la gestazione, od al momento del parto;

(c) il danno da “perdita del frutto del concepimento”, cioè da morte del feto.

Ciascuna di queste tra ipotesi ha posto e pone formidabili problemi alla giurisprudenza ed alla dottrina, relativi alla individuazione dei soggetti legittimati a domandare il risarcimento, ed alla individuazione del danno risarcibile34.

Muovendo dai princìpi che possono ritenersi pacifici, va in primo luogo rilevato come si neghi generalmente l’esistenza d’un diritto del concepito a non nascere. Il fatto di venire ad esistenza non può infatti essere considerato un danno in sé, quale che sia la qualità dell’esistenza. Di conseguenza, è stato negato che i genitori del bimbo venuto alla luce con gravi malformazioni congenite, la cui esistenza non era stata rilevata per imperizia dei

34 : Per riferimenti si veda Bona, Filiazione indesiderata e risarcimento del “danno da bambino non voluto”, nota a Trib. Milano 20.10.1997, in Danno e resp. 1999, 82.

(34)

medici, possano agire in giudizio, in rappresentanza di lui, per chiedere il risarcimento del danno alla salute subìto dal proprio figlio35.

Del pari, può ritenersi oggi pacifico che, nel caso in cui l’imperita condotta del medico cagioni un danno alla salute all’infante durante il parto; ovvero ometta di rilevare una malformazione del feto, e da ciò derivi un danno alla salute della madre, anche il padre sarà legittimato a domandare in giudizio il risarcimento sia del danno alla salute, sia del danno biologico, sia del danno patrimoniale, ove dimostri l’esistenza d’un nesso causale tra la lesione del neonato, o della madre, ed il proprio danno personale o patrimoniale36. È stato altresì riconosciuto, nell’unico precedente sinora edito, il diritto del neonato al risarcimento del danno alla propria integrità fisica, sebbene subìto – per causa ascrivibile all’imperizia del medico - nel corso della vita prenatale37.

Sostanziale concordia si ravvisa anche nelle ipotesi in cui l’imperizia determini la morte del feto prima della nascita: in questi casi, poiché il procurato aborto costituisce una ipotesi di reato, è stato riconosciuto alla madre il risarcimento del danno morale, ai sensi dell’art.

2059 c.c.38

Dove, invece, la giurisprudenza ha fatto registrare contrasti non ancora sopiti, è in merito alla configurabilità di un diritto della madre al risarcimento del danno per avere dato alla

35: Trib. Roma 13.12.1994, in Dir. famiglia, 1995, 662, con nota di CONTE, Dovere d’informazione e danno biologico: unno strano connubio, e 1474 (solo massima), con nota di DOGLIOTTI, “Diritto a non nascere” e responsabilità civile.

36 : Sulla risarcibilità del danno morale ai congiunti della vittima di lesioni personali, si veda il revirement compiuto da Cass. 23.4.1998 n. 4186, in Assicurazioni, 1998, II, 2, 116. Sulla risarcibilità (affermata però in astratto, e non ritenuta in concreto) del danno alla salute del padre di un bimbo nato con malformazioni, non diagnosticata durante la gravidanza, si veda Cass. 1.12.1998 n. 12195, in Foro it. 1999, I, 77.

37 : Trib. Verona 15.10.1990, in Foro it. 1991, I, 261.

38 : Cass. 11.3.1998 n. 2677, in Giur. it. 1999, 735, con nota di Bona e Castelnuovo, La perdita del frutto del concepimento: questioni di responsabilità medica e risarcimento del danno (una ipotesi di danno esistenziale?); si veda anche, sulla risarcibilità del danno morale per forzosa interruzione della gravidanza, Trib. Roma 24-01-1995, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 1995, 543.

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