55
4.
Potenziale inibizione della P-gP nel trattamento del morbo di
Parkinson
4.1.Il morbo di Parkinson
Il morbo di Parkinson è una patologia neurodegenerativa cronica, molto disabilitante caratterizzata da lentezza e povertà dei movimenti volontari (bradicinesia), tremore nelle mani, nelle gambe e alla testa, alterazioni posturali e rigidità muscolare. I soggetti colpiti molte volte mostrano anche alterazioni della sfera cognitiva e affettiva [69]. Attualmente in Italia ci sono più di 200000 malati di Parkinson. Questa patologia fu descritta per la prima volta nel 1817 da un medico britannico, James Parkinson, che la definiva “paralisi agitante”. È un disturbo tipico dell’età senile, colpisce principalmente soggetti con un’età superiore a 50 anni, con una leggera prevalenza per il sesso maschile. È una patologia cronica e progressiva, in quanto tende a peggiorare con il tempo, ma di per sé comunque non è mortale; i pazienti affetti da Parkinson hanno un’aspettativa di vita media uguale a quella di un soggetto sano.
4.1.1. Eziologia
Come già visto in precedenza la principale causa di questa patologia è la degenerazione dei neuroni dopaminergici a livello di alcune strutture del sistema extrapiramidale tra cui la sostanza nigra e il nucleo striato, principali centri deputati al controllo e all’avvio dei movimenti volontari e al mantenimento della postura. Questa alterazione neuronale comporta una riduzione della produzione di dopamina che non riesce a stimolare in modo adeguato i suoi recettori. (Fig.4.1) È stata osservata una riduzione dei livelli di dopamina del 60-70% rispetto ai valori normali. Questa carenza porta ad uno squilibrio tra sistema dopaminergico e colinergico, con conseguente prevalenza di quest’ultimo. L’eccesso di acetilcolina è responsabile del caratteristico tremore soprattutto alle braccia, alle gambe e alla testa.
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Figura 4.1. Livelli di dopamina in un neurone normale e in uno affetto da Parkinson
Le cause del blocco della produzione di dopamina non sono ancora ben conosciute; sono state avanzate varie ipotesi tra cui quella tossica e quella genetica.
L’accumulo di pesticidi e neurotossine a livello dei nuclei del sistema extrapiramidale sembra essere implicato nella patogenesi del Parkinson [47]. Durante le fasi iniziali della patologia è stata osservata una ipoespressione della P-gP, implicata nel trasporto di queste sostanze. Questa disfunzione è responsabile della ridotta eliminazione di composti tossici che si accumulano a livello cerebrale, determinando la degenerazione dei neuroni dopaminergici.
L’ipotesi tossica è stata ulteriormente avvalorata dalla scoperta di una particolare tossina, l’MPTP (1-metil-4-fenil-1,2,3,6-tetraidro-piridina) (Fig.4.2), che è responsabile di una sintomatologia neuropatologica e motoria simile al Parkinson. L’MPTP è un composto secondario che si forma durante la sintesi dell’estere inverso della meperidina noto come MPPP o “eroina sintetica”. E’ stato riscontrato che numerosi pazienti affetti da Parkinson in passato avevano fatto uso di sostanze stupefacenti contenenti MPTP [47]. Diversi studi hanno dimostrato che di per sé l’MPTP non è tossico, ma viene attivato in vivo ad MPP+ (1-metil-4-fenilpiridinio) ad opera della
monoamminoossidasi (MAO-B) dei mitocondri cerebrali [70]. Farmaci inibitori della MAO-B prevengono la tossicità da MPTP.
57 Il metabolita attivo MPP+ è responsabile della distruzione dei neuroni
produttori di dopamina. Sembra che questo composto alteri la respirazione mitocondriale inibendo l’enzima NADH deidrogenasi, con conseguente deplezione di ATP e morte cellulare [70].
Figura 4.2. Struttura MPTP
Una recente ricerca sostiene che a correre il rischio di contrarre il morbo di Parkinson siano quei soggetti che si trovano a contatto con idrocarburi, solventi, resine, pesticidi, ecc [47].
Diversi studi hanno dimostrato un’associazione tra esposizione a pesticidi e polimorfismo del gene MDR1, che codifica per la P-gP nell’uomo (vedi capitoli precedenti)[26].
Nei neuroni dopaminergici dei pazienti affetti da Parkinson è stata osservata al microscopio elettronico la presenza di corpuscoli sferici detti
Lewy Bodies (LBs), formati principalmente da α-sinucleina [47]. Questa è
una proteina neuronale che in condizioni patologiche forma degli aggregati insolubili. Non è ancora chiaro se la P-gP sia in grado di trasportare questa proteina e se la sua ipoespressione sia responsabile della formazione di questi aggregati che danneggiano i neuroni dopaminergici. Un’altra ipotesi volta a spiegare l’insorgenza di questa patologia è quella genetica, anche se attualmente non ha trovato conferma in un recente studio condotto su gemelli omozigoti [71]. Le mutazioni riguardano geni che codificano per proteine implicate nella risposta allo stress ossidativo e nelle funzioni mitocondriali, tra cui la α-sinucleina, parkin, DJ1, LRRK2, ecc. Solamente il 10 % dei casi risulta essere ereditario; in alcuni sono state riscontrate anche mutazioni geniche che vengono trasmesse tramite modalità mendeliane.
58 Un altro importante fattore di rischio è l’età [72]. In genere i primi sintomi compaiono intorno ai 60 anni, in quanto viene meno la protezione delle cellule che producono dopamina. Inoltre con l’età si ha anche una riduzione della funzionalità della P-gP a livello della BEE che determina l’accumulo di sostanze tossiche responsabili della patologia.
I casi in cui non si riesce a trovare una causa specifica vengono definiti “parkinsoniani idiomatici”.
In seguito al danno ai neuroni dopaminergici indotto dalle sostanze tossiche, si ha la produzione di radicali liberi, citochine, attivazione delle microglia che inducono l’espressione della P-gP.
Questa iperespressione è responsabile dell’instaurarsi del fenomeno della resistenza ai farmaci antiparkinson e quindi del fallimento della terapia. Un aumento dell’attività della proteina a livello della BEE, riduce l’accumulo cerebrale di farmaci e quindi la loro efficacia terapeutica; un aumento dell’espressione a livello intestinale riduce la biodisponibilità di farmaci somministrati per via orale.
4.1.2. Terapia farmacologica
La terapia utilizzata nel trattamento del morbo di Parkinson è di tipo sintomatico cioè agisce sui sintomi ma non permette la guarigione o la regressione della malattia.
Come già visto in precedenza, il morbo di Parkinson è caratterizzato da una degenerazione di neuroni dopaminergici a livello di alcuni nuclei del sistema extrapiramidale, con conseguente riduzione dei livelli di dopamina centrale. Per contrastare questa carenza del sistema dopaminergico si può ricorrere a diverse strategie terapeutiche:
• aumentare la sintesi di dopamina a livello centrale;
• stimolare in modo diretto i recettori dopaminergici;
• favorire la liberazione di dopamina dai terminali presinaptici;
59
• somministrare farmaci anticolinergici per migliorare la sintomatologia, soprattutto il tremore.
La levodopa (Fig.4.3) è il farmaco d’eccellenza utilizzato per il trattamento della malattia di Parkinson. Questa viene convertita in dopamina ad opera del’enzima DOPA-decarbossilasi. Per essere efficace, la L-DOPA deve oltrepassare la BEE e a livello del SNC essere decarbossilata a dopamina. Quindi la L-DOPA può essere considerata un pro-farmaco.
Figura 4.3. Struttura della L-DOPA
La L-DOPA è somministrata per via orale in modo continuo per un tempo indefinito. Dopo un certo periodo di utilizzo compaiono però diversi effetti collaterali tra cui disturbi neuropsichiatrici (allucinazioni, alterazioni del sonno), gastrointestinali e cardiovascolari, inoltre si manifesta il fenomeno della resistenza. La L-DOPA dopo una somministrazione prolungata perde la sua efficacia terapeutica ed è necessario aumentare la dose e ridurre l’intervallo di somministrazione tra una dose e l’altra. La dose di L-DOPA iniziale va da 200 a 500 mg al giorno, suddivisa in 3 dosi giornaliere; nelle fasi avanzate si arriva fino a 1500 mg in 6-8 somministrazioni. Nella maggior parte dei malati in terapia con L-DOPA compare un fenomeno complesso definito “sindrome da trattamento cronico con levodopa” [73].
Questa è caratterizzata da fluttuazioni motorie giornaliere, che consistono in variazioni della capacità motoria del paziente, e quindi della sua autonomia, durante l’arco della giornata, e discinesie.
60 Il paziente alterna dei momenti, che possono durare da 30 minuti ad alcune ore, in cui è in grado di muoversi e camminare autonomamente, a momenti in cui i sintomi classici della malattia, come il tremore e la rigidità muscolare, appaiono in modo più o meno grave riducendo quindi la sua autonomia. Queste fluttuazioni motorie vengono suddivise in fluttuazioni prevedibili e non prevedibili. Le fluttuazioni prevedibili sono direttamente collegate con le singole somministrazioni di L-DOPA e vengono dette “end of dose deterioration” (effetto di fine dose). Il paziente si rende conto che la dose di farmaco sta finendo il suo effetto e ricompare il tremore, la lentezza dei movimenti, ecc. Al momento dell’assunzione della dose successiva si ha un miglioramento del quadro clinico. Questa sintomatologia può presentarsi ad ogni somministrazione di farmaco. Le fluttuazioni prevedibili quindi sono correlate alla concentrazione plasmatica di L-DOPA.
Le fluttuazioni non prevedibili si verificano nelle fasi avanzate della malattia, quando la L-DOPA non provoca più il suo normale effetto terapeutico. Le discinesie invece sono dei movimenti involontari rapidi della testa, delle mani e degli arti. Osservando il volto dei paziente si possono notare movimenti della lingua e della mandibola come se masticasse.
Proprio per limitare gli effetti collaterali della L-DOPA sono stati sperimentati nuovi farmaci che possono essere somministrati da soli o in associazione a questa sostanza (vedi paragrafo successivo).
Un altro tipo di approccio terapeutico è di andare a stimolare direttamente i recettori della dopamina a livello centrale. I recettori della dopamina sono di 2 tipi: D1 e D2 suddivisi in vari sottotipi. Gli agonisti dopaminergici si dividono in ergolinici (bromocriptina (Fig.4.4), pergolide,
lisuride, cabergolina) e non ergolinici (apomorfina, ropinirolo). Anche i
dopamino-agonisti però provocano la comparsa di gravi effetti collaterali, soprattutto a carico del sistema cardiovascolare, che ne limitano l’utilizzo.
61
Figura 4.4. Struttura della bromocriptina
4.2.Inibizione della P-gP nella terapia antiparkinson
La P-gP è la principale proteina trasportatrice localizzata nella membrana apicale delle cellule endoteliali dei capillari cerebrali che costituiscono la BEE [13]. A questo livello funziona come una specie di “guardiano” del SNC, limitando l’accumulo di composti tossici nel cervello e diminuendo l’assorbimento cerebrale di numerosi farmaci.
L’interazione tra farmaci e P-gP a livello della BEE è stata dimostrata da esperimenti condotti su topi che esprimono il gene mdr1a e su topi knock-out [3]. In questi ultimi è stato osservato un maggior accumulo cerebrale di farmaci substrati per la P-gP rispetto ai topi che esprimono il gene. Inoltre, nei topi knock-out è stata osservata una maggiore frequenza di effetti tossici a carico del SNC. Mentre i risultati in vitro dimostrano il ruolo della P-gP nella distribuzione di xenobiotici a livello del SNC, gli studi in vivo hanno evidenziato che esistono meccanismi di controllo più complessi che coinvolgono, oltre alla P-gP, altri trasportatori appartenenti alla stessa famiglia [3]. La P-gP gioca un ruolo fondamentale nel regolare l’assorbimento cerebrale di farmaci antiparkinson e nel controllare la loro neurotossicità [74]. Disturbi del sonno, allucinazioni, confusione mentale, sono effetti collaterali tipici della L-DOPA e dei dopamino agonisti [74], principali farmaci utilizzati nel trattamento del morbo di Parkinson. Questi composti sono substrati per la P-gP. Di conseguenza alterazioni nella funzionalità e nell’espressione della proteina possono influenzare la loro concentrazione cerebrale e i loro effetti tossici a carico del SNC.
62 Uno dei principali limiti nell’utilizzo della L-DOPA, oltre ai suoi effetti collaterali, è il fenomeno della resistenza, che si instaura dopo un certo periodo di somministrazione. Dopo trattamento cronico il farmaco non risulta più efficace, per cui sono necessari sia un aumento della dose da somministrare sia del numero di somministrazioni.
Il fenomeno della resistenza ai farmaci antiparkinson e in particolare alla L-DOPA sembra essere dovuto ad un aumento dell’espressione e della funzionalità della P-gP nelle fasi tardive della patologia. Questa iperespressione è indotta, in seguito al danno neuronale, dall’attivazione delle microglia e di altri fattori implicati nel processo infiammatorio come l’interleuchina-6, il TNF-α e l’ossido nitrico. Questi sono in grado di aumentare l’attività della P-gP [48]. L’iperespressione della P-gP a livello della BEE favorisce l’estrusione di farmaci dal SNC. La L-DOPA è un substrato per questa proteina che ne limita l’accumulo nel SNC con conseguente ridotta decarbossilazione a dopamina. A livello intestinale si ha una riduzione dell’assorbimento, e quindi della biodisponibilità di farmaci somministrati per via orale, favorendo la loro eliminazione tramite le feci. L’efficacia del farmaco risulta quindi compromessa.
L’inibizione della P-gP potrebbe essere una valida strategia terapeutica per prevenire il fenomeno della resistenza ed aumentare l’efficacia della terapia antiparkinson. Associazioni tra L-DOPA e inibitori della P-gP sono ancora in fase di studio. È comunque evidente che la somministrazione di inibitori della P-gP è capace di influenzare l’accumulo cerebrale della L-DOPA.
La ciclosporina A, immunosoppressore e inibitore competitivo della P-gP, sembra essere in grado di influenzare la concentrazione intracellulare della L-DOPA [75]. Studi condotti su roditori pretrattati con ciclosporina A hanno permesso di osservare una ridotta escrezione urinaria di dopamina, che deriva dalla decarbossilazione della L-DOPA a livello renale ad opera dell’enzima L-DOPA-decarbossilasi. Inoltre, dopo somministrazione di L-DOPA esogena, è stato osservato un notevole aumento della concentrazione di dopamina di nuova sintesi [75]. Ciò sta ad indicare che il trattamento con ciclosporina A favorisce l’accumulo intracellulare di L-DOPA, che viene poi convertita in dopamina [75].
Questa teoria è stata successivamente avvalorata da altri studi condotti su cellule LLC-PK1 [76]. Queste cellule in vitro mostrano un’attività simile alle cellule tubulo-prossimali
renali, contengono elevati livelli dell’enzima DOPA-decarbossilasi e sono quindi in grado di convertire la L-DOPA in dopamina [77].
63 Dopo esposizione di queste cellule per un breve periodo di tempo (30 min) alla ciclosporina A, è stata osservata una ridotta capacità delle cellule di eliminare la L-DOPA con conseguente aumento della concentrazione intracellulare di dopamina di nuova sintesi. In seguito ad esposizione prolungata (14 ore) è stato osservato l’effetto opposto [76].
Questi effetti sono correlati alla doppia attività della ciclosporina A, ovvero quella di inibitore ma anche di induttore della P-gP. Utilizzata ad una concentrazione bassa la ciclosporina A inibisce la P-gP, mentre l’esposizione cronica induce l’espressione della proteina [76].
Questi esperimenti sono stati condotti anche in presenza della benserazide, un inibitore dell’enzima DOPA-decarbossilasi: in questo caso la concentrazione di dopamina di nuova sintesi è risultata inferiore [76].
Nuovi esperimenti sono stati condotti su cellule LLC-PK1 e LLC-GA500 Col300, cellule
renali che esprimono la P-gP umana a livello della membrana apicale [78]. Lo scopo di questi studi è di valutare l’effetto dell’esposizione al verapamil, un inibitore della P-gP, e all’UIC2, un anticorpo anti-P-gP, sull’estrusione della L-DOPA a livello della membrana apicale ad opera della P-gP. Da questi esperimenti è emerso che :
• l’esposizione per 30 minuti all’UIC2 (3 µg/ml) o al verapamil (25 µM) aumenta la concentrazione di L-DOPA nelle cellule LLC-PK1 rispettivamente del 27±4% e del
88±14% e diminuisce l’estrusione a livello della membrana apicale del 29±4% e del 23±1%; l’esposizione alle stesse sostanze per 3 ore ha mostrato effetti meno marcati sia sull’accumulo intracellulare della L-DOPA, sia sull’eliminazione a livello della membrana apicale [78]; (Fig.4.5)
Dopo 30 minuti Dopo 3 ore
64
Figura 4.5 Effetti dell'UIC1 e del verapamil sull'accumulo intracellulare e sull'estrusione della L-DOPA nelle cellule LLC-PK1 dopo 30 min e 3 ore di esposizione
• nelle cellule LLC-GA5 Col300 l’esposizione per 30 min all’UIC2 (3 µg/ml) e al verapamil (25µM) non ha mostrato significativi cambiamenti nell’accumulo intracellulare e nell’estrusione apicale della L-DOPA; l’esposizione più prolungata (3 ore) alle stesse sostanze utilizzate alla stessa concentrazione ha mostrato un aumento della concentrazione intracellulare della L-DOPA rispettivamente del 105±13% e del 146±24% e una diminuzione dell’estrusione a livello della membrana apicale del 91±1% e del 92±1% [77]. (Fig.4.6)
Dopo 30 minuti Dopo 3 ore
65
Figura 4.6. Effetti dell'UIC2 e del verapamil sull'accumulo intracellulare e sull'estrusione della L- DOPA nelle cellule LLC-GA5 Col300 dopo 30 min e dopo 3 ore
di esposizione
Il fatto che gli effetti sulle cellule LLC-GA5 Col300 sono più marcati utilizzando una concentrazione maggiore di inibitori sta ad indicare che queste cellule iperesprimono la P-gP [78].
In conclusione da questi studi è emerso che la P-gP è implicata nell’estrusione della L-DOPA dalle cellule LLC-GA5 Col300 e LLC-PK1 e che la somministrazione di inibitori di questa proteina favorisce l’accumulo intracellulare del farmaco [78].
Un altro farmaco antiparkinson substrato per la P-gP è la bromocriptina, un agonista dei recettori della dopamina, poco utilizzato a causa della comparsa di gravi effetti collaterali a carico del SNC (i.e. allucinazioni, confusione, depressione, ecc). Sono stati effettuati diversi studi per descrivere l’interazione tra bromocriptina e P-gP a livello della BEE e per comprendere se questo farmaco sia in grado di modulare l’attività della P-gP e di influenzare l’assorbimento cerebrale di farmaci co-somministrati [79].
La bromocriptina è stata studiata come:
possibile substrato per la P-gP,analizzando il suo assorbimento cerebrale in topi CF1 che esprimeno il gene mdr1a e in topi knock-out;
possibile induttore della P-gP, valutando l’effetto della somministrazione di dosi ripetute di bromocriptina sull’assorbimento cerebrale della digossina, un substrato per la P-gP, e comparandolo all’azione di altri induttori come ad esempio il desametasone e la rifampicina;
possibile inibitore della P-gP, determinando l’effetto di una singola somministrazione di bromocriptina sull’assorbimento cerebrale della digossina e comparandolo all’effetto di altri inibitori come il valspodar.
66 In questi esperimenti è stata utilizzata la digossina in quanto, oltre ad essere un substrato per la P-gP, è un composto che viene scarsamente metabolizzato ed ha poca affinità per le proteine plasmatiche. Queste caratteristiche fanno della digossina un ottimo “candidato” per studiarla in associazione con modulatori della P-gP (induttori o inibitori) [79].
I topi knock-out hanno mostrato un maggior accumulo cerebrale di bromocriptina rispetto ai topi che esprimono il gene mdr1a; se precedentemente trattati con inibitori della P-gP come il valspodar o l’elacridar, l’assorbimento cerebrale della bromocriptina è risultato maggiore. Questi dati dimostrano che la bromocriptina è un substrato per la P-gP a livello della BEE [79].
L’inibizione chimica della P-gP con il valspodar e l’elacridar però ha mostrato solamente una parziale riduzione del trasporto della bromocriptina ciò sta ad indicare che altri trasportatori sono implicati nel passaggio di questo farmaco attraverso la BEE [79].
Per quanto riguarda l’assorbimento cerebrale della digossina, questo non appare modificato nelle cavie che esprimono il gene mdr1a né dopo somministrazione di una dose singola di bromocriptina né dopo ripetute somministrazioni. Ciò sta ad indicare che la bromocriptina non è né un induttore né un inibitore della P-gP a livello della BEE [79]. Da questi dati è emerso quindi che la bromocriptina in vivo è un substrato per la P-gP a livello della BEE, ma non è un suo modulatore. La contemporanea somministrazione di farmaci inibitori della P-gP può influenzare l’assorbimento cerebrale della bromocriptina con conseguente aumento della sua efficacia terapeutica [79]. Un recente studio è stato condotto su cellule endoteliali di topo (GPNT) che esprimono la P-gP. Lo scopo di questo studio è quello di determinare se i farmaci antiparkinson sono substrati e/o inibitori della P-gP. Inoltre sono state analizzate le possibili interazioni tra la L-DOPA e la bromocriptina quando vengono co-somministrate [80].
Le cellule GPNT sono state incubate con il valspodar (PSC 833), un inibitore della P-gP, e con farmaci antiparkinson utilizzati ad una concentrazione non tossica. In particolare sono stati utilizzati: la L-DOPA e dopamino-agonisti quali la bromocriptina, la pergolide e il pramipexolo. Durante l’esperimento è stato osservato un notevole aumento della concentrazione cerebrale dei quattro farmaci testati. (Fig.4.7)
67 Ciò dimostra che questi composti in vitro sono tutti substrati per la P-gP a livello della BEE e la loro concentrazione cerebrale è influenzata da alterazioni della funzionalità ed espressione della P-gP.
Figura 4.7.Concentrazione intracellulare della bromocriptina (BCT), del pramipexolo (PMX), della pergolide (PERG) e della L-DOPA in presenza o meno di PSC 833
Durante questi studi è stato analizzato anche l’effetto dei farmaci antiparkinson sul trasporto della Rodamina (Rho 123) e della [3H]-digossina, entrambi substrati per la
P-gP. La bromocriptina inibisce il trasporto della Rho 123 ad una concentrazione di 6.71 µM e il trasporto della [3H]-digossina ad una concentrazione di 1.71 µM [80]. Questo
significa che la bromocriptina agisce anche come inibitore della P-gP.
Le cellule GPNT sono state poi trattate con una miscela di L-DOPA (5µM) e bromocriptina utilizzata a 3 concentrazioni differenti (10, 50 e 100µM). E’ stato osservato un aumento della concentrazione intracellulare della L-DOPA in presenza di dosi crescenti di bromocriptina. (Fig.4.8)
68
Figura 4.8. Concentrazione intracellulare di L-DOPA in presenza di dosi crescenti di bromocriptina
Ciò significa che la bromocriptina ha più affinità per la P-gP rispetto alla L-DOPA [80]. L’effetto P-gP inibitorio della bromocriptina è stato dimostrato anche da studi condotti da Orlowsky e collaboratori su vescicole membranose contenenti la P-gP, preparate da fibroblasti DC-3F/ADX [81]. Queste cellule sono resistenti alla vincristina, farmaco antitumorale substrato per la P-gP. La resistenza è dovuta ad un’iperespressione della P-gP. Le cellule DC-3F/ADX hanno anche un’attività ATPasica basale dovuta alla P-gP. In presenza di dosi crescenti di bromocriptina è stata osservata una progressiva riduzione dell’attività ATPasica; in particolare ad una concentrazione di 0.30±0.15 µM la bromocriptina inibisce questa attività. Da questo risultato si evince che la bromocriptina è un composto che si comporta da substrato saturabile.
L’attività ATPasica della P-gP può essere stimolata dal verapamil, che agisce con un meccanismo competitivo legandosi alla P-gP e venendo trasportato da essa. La bromocriptina è in grado di inibire questa attività indotta dal verapamil. È stato osservato che in presenza di concentrazioni crescenti di bromocriptina, sono necessarie dosi maggiori di verapamil per attivare la P-gP. Questo è un tipo di inibizione competitiva che indica che la bromocriptina e il verapamil si legano allo stesso sito presente sulla P-gP [81].
La bromocriptina è un farmaco che viene estesamente metabolizzato a livello epatico. I suoi metaboliti idrossilati hanno diversi effetti sull’attività ATPasica della P-gP. Solo i composti mono-ossidrilati sono in grado di modulare sia l’attività basale che quella indotta da altri farmaci [81].
69 Altro farmaco anti-parkinson substrato per la P-gP è la budipina (Fig.4.9), antagonista del recettore NMDA (N-metil-D-aspartato) per il glutammato [82], che presenta un effetto dopaminergico indiretto inducendo la sintesi di dopamina. Attualmente il suo impiego nel trattamento del Parkinson è piuttosto limitato.
Figura 4.9. Struttura della budipina, antagonista NMDA
Esperimenti effettuati su topi che esprimono il gene mdr1a/b e su topi knock-out, hanno dimostrato che la budipina è trasportata dalla P-gP a livello della BEE [83].
La budipina è stata somministrata per 11 giorni tramite pompe di infusione osmotica ad una dose di 30 ug/24ore e misurata la sua concentrazione nel plasma, nel cervello e in altri organi mediante la tecnica HPLC. La concentrazione cerebrale è risultata più elevata nei topi knock-out mentre i livelli di budipina nel plasma, nel fegato e nel rene sono rimasti invariati [83].(Fig.4.10)
Figura 4.10. Concentrazione di budipina nel plasma e in alcuni organi dopo somministrazione per 11 giorni a una concentrazione di 30ug/24h
70 Sulla base dei dati ottenuti dagli studi citati, che confermano che i farmaci antiparkinson sono substrati per la P-gP, la contemporanea somministrazione di inibitori di questa proteina potrebbe essere un valido approccio terapeutico per prevenire il fenomeno della resistenza e aumentare l’efficacia della terapia.
Questa nuova strategia terapeutica è stata studiata anche per prevenire la resistenza ad altri farmaci tra cui quelli utilizzati nel morbo di Alzheimer [46], gli antiepilettici [40] e gli antitumorali [32], tutti substrati per la P-gP.
Gli inibitori della P-gP rappresentano una classe emergente di composti in grado di aumentare l’efficacia terapeutica di un gran numero di farmaci chimicamente differenti. Diversi inibitori sono stati studiati anche per rendere reversibile il fenomeno della MDR nella terapia antineoplastica. Poiché questo tipo di impiego non ha dato i risultati sperati a causa della elevata tossicità dei composti utilizzati, recentemente è stato proposto l’utilizzo di inibitori della P-gP nel trattamento di diverse patologie neurodegenerative come nel Parkinson e nell’Alzheimer.
L’utilizzo degli inibitori della P-gP può aumentare la biodisponibilità e ottimizzare la farmacinetica di numerosi farmaci clinicamente importanti.
Ciò è dovuto al fatto che la P-gP:
• funziona come una barriera a livello dell’intestino riducendo l’assorbimento di farmaci somministrati per via orale;
• è distribuita in organi escretori, come il fegato e il rene, dove provoca alterazioni nella distribuzione e nell’eliminazione di numerosi composti;
• è espressa a livello della BEE, dove limita l’accumulo di farmaci nel SNC.
E’ stato studiato un numero elevato di modulatori della P-gP. I composti appartenenti alla seconda e terza generazione hanno mostrato una maggiore selettività e minori effetti tossici, ma i loro benefici terapeutici richiedono ancora numerose conferme.
71 4.3. Terapie alternative
Terapia con cellule staminali. Una nuova prospettiva terapeutica per il trattamento del
morbo di Parkinson deriva dalla scoperta che cellule staminali embrionali stimolate in vitro, in presenza di una particolare proteina, sono in grado di differenziarsi in neuroni produttori di dopamina. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che queste cellule, se introdotte nel cervello di primati affetti da Parkinson, sono in grado di ridurre la progressione della patologia [84]. Problemi di tipo etico e pratico limitano però l’utilizzo di questa tecnica.
Terapia genica. La terapia genica può essere un valido approccio per il trattamento
del Parkinson in quanto può essere utilizzata per rimpiazzare la dopamina perduta. Questa tecnica consiste nell’inserzione di un gene potenzialmente terapeutico in neuroni che hanno perso la capacità di esprimere questo gene. Nonostante siano stati ottenuti ottimi risultati in esperimenti condotti su animali, il principale rischio è che si verifichi un eccessivo rilascio di dopamina, con conseguenti effetti collaterali soprattutto a carico del sistema cardiovascolare. Negli Stati Uniti è in fase di sperimentazione una terapia genica che prevede l’iniezione di un virus contenente un particolare gene, a livello del nucleo subtalamico [85]. Il gene iniettato è il gene GAD che codifica per il GABA, un neurotrasmettitore di tipo inibitorio che nei pazienti affetti da Parkinson risulta deficitario [85].
Terapia neurochirurgica. In continua evoluzione è la terapia neurochirurgica, utilizzata
soprattutto nei casi di Parkinson resistenti alla terapia farmacologica. Attualmente la tecnica più utilizzata è la terapia stereotassica che permette di trattare punti in profondità del parenchima cerebrale. La neurochirurgia è proponibile ad un numero ristretto di pazienti soprattutto per i limiti di età e per la non proponibilità a soggetti con disturbi psichiatrici o con declino cognitivo [86].