• Non ci sono risultati.

SATIRA XI

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "SATIRA XI"

Copied!
10
0
0

Testo completo

(1)

218

SATIRA XI

Sdegno

a messer Marchiò Zane

Il componimento – strettamente legato, sia per l’argomento che per la cerchia dei

destinatari, alla XV satira – raccoglie lo sfogo irato dell’autore che paragona se

stesso (per l’ingratitudine subita) a una serie di autorevoli personaggi – quali

Giobbe, Scipione e Belisario – che, in virtù del loro prestigio, riflettono una luce

altrettanto rispettabile sulla reputazione del poeta; il caso malauguratamente

occorsogli suscita, perciò, anche nel lettore lo sdegno a cui il testo è intitolato.

Signor1, io credo omai ch’abbiate inteso

di tante mie fatiche, affanni e stenti qual premio or ne riporto ad ugual peso2,

e parmi di veder come presenti

il Barbarigo e voi3 fare un discordo 5

che sia peccato4 a servir simil genti5.

1 Marchiò Zane, dedicatario di questa satira, viene sempre definito (cfr. IX, v.

85: «Il Zane m’è padron, padre e fratello», e anche XV, vv. 46-47: «Il magnifico Zane, vostro amico/e mio padron…») in termini encomiastici, e particolarmente affettuosi; inoltre, non è da escludere che questo gentiluomo veneziano di professione avvocato – come starebbe a testimoniare il sostantivo «padron» (nel senso di “patrono”, ovvero “difensore giudiziario”) con cui viene, dallo stesso autore, più volte definito – potesse essere legato al poeta da un rapporto di tipo anche professionale, oltre che certamente amichevole.

2 Il termine «premio» (“riconoscimento del proprio valore o merito”, e più

specificamente “ricompensa”) allude qui, antifrasticamente, al suo contrario, vale a dire – con ogni probabilità – al mancato riconoscimento del faticoso impegno assunto dal poeta, o addirittura a un vero e proprio danno ricavato in luogo dell’attesa ricompensa (come sembra indicare la locuzione «ad ugual peso», da riferire probabilmente alla climax «fatiche, affanni e stenti» del verso precedente).

3 All’autore sembra di vedere davanti a sé – come fossero presenti in carne e

ossa – il destinatario della satira, e l’amico di lui, Benedetto Barbarigo, importante signore veneziano e dedicatario della XV satira di questo libro).

4 I due interlocutori – venuta a sapere la notizia della mancata ricompensa

ottenuta dal comune amico – esprimono tutto il loro sincero disappunto biasimando la condizione del poeta, costretto a «servir simil genti».

5 L’aver prestato servizio presso persone a tal punto ingrate è motivo

scatenante della composizione della satira, che, al sentimento, suscitato da questa infelice avventura “professionale”, è non a caso intitolata (cfr. Sdegno).

(2)

219 S’io dirò non aver biasciato ’l morso6,

non scrollato la testa e gonfio ’l naso7,

come polledro ch’ha ’l cozzon sul dorso8,

non mel crediate9, che certo un tal caso, 10

fuor di meriti e fuor d’ogni credenza10,

faria scredere ’l Credo a san Tomaso11.

Qual destrezza, qual longa sofferenza12,

qual industria, qual arte, qual ingegno,

qual buono antiveder13, qual diligenza, 15

credeste mai che venisse a quel segno

che venne questa mia14? qual odio o rabbia,

6 Biasciare il morso (biasciare, voce onomatopeica per “mangiare lentamente

qualcosa masticandola male e facendo rumore”, e qui genericamente “masticare”; morso, nei finimenti del cavallo, “tipo di imboccatura a cui si attaccano le redini”) ha il significato figurato di “mal sopportare il controllo di qualcuno”.

7 Scrollare la testa (“scuotere la testa”) e gonfiare il naso («gonfio» sta per

“gonfiato”, o meglio “aver gonfiato”: “riempito d’aria”, per la rabbia o la stizza provata) vanno a completare – dopo il riferimento al «morso» del verso precedente – la descrizione figurata dello stato di crescente impazienza del poeta (autorappresentatosi qui attraverso le reazioni fisiche del cavallo riottoso).

8 L’immagine del polledro (forma letteraria per “puledro”) pronto a disarcionare

il cozzone (termine toscano per indicare propriamente il “sensale”, e, più in generale, il “domatore” di cavalli) che gli siede sul dorso, si ricollega, e meglio spiega la descrizione contenuta ai vv. 7-9.

9 «Non mel crediate» come a dire “non date credito alle mie parole” (nell’uso

letterario, il pronome atono proclitico lo talora si tronca, e si unisce a me dando luogo alla forma mel).

10 Il caso «fuor d’ogni credenza» (ovvero, “talmente lontano da ogni principio di

comune buon senso per poter essere avvalorato di qualche credibilità”) è lo sfortunato accidente capitato al poeta, argomento della satira.

11 Far scredere (“non credere più”) il Credo a san Tomaso è un’affermazione

ironicamente iperbolica che, grazie al contenuto fortemente paradossale – “far smettere di ritenere credibile qualcosa degno d’incontrovertibile fiducia (la formula di fede della liturgia cattolica) a qualcuno (l’apostolo san Tommaso) noto per la sua proverbiale incredulità” – sottolinea ancor di più l’eccezionalità, e quindi la scarsa verosimiglianza dell’episodio.

12 La «longa sofferenza» patita dall’autore è, con accezione arcaica, “capacità di

sopportare”, e genericamente “pazienza (protratta nel tempo)”.

13 “Antivedere” è termine letterario col significato di “vedere avanti nel

tempo”; qui col valore sostantivato di “previsione”, e più specificamente – in unione con «buono» – “prudenza”, nel senso di “accortezza”.

(3)

220 persecuzion fratil15, gelosia, sdegno,

peggio mai fero altrui16, di quel che m’abbia

fatto quell’asin guercio17, per me tolto 20

dal molin, da le mosche e da la scabbia18?

qual fuor del fango, da cavezza sciolto, nelle fatiche mie lucido e grasso, or come asino ver m’impiastra ’l volto.

Se quel viso d’arpia di Settenasso 25 dava un simil tormento al vecchio Giobbe19

cacciava anch’ei la pacienza in chiasso, né il mal francioso ch’adosso li piobbe er’atto a farli rinnegar la fede,

né il torli buoi, danar, figliuoli e robbe, 30 né tanti altri tormenti che li diede,

14 Il poeta, rivolgendo ai propri interlocutori una domanda retorica articolata

per ben cinque versi (vv. 13-17), attira l’attenzione del lettore – per mezzo d’un lungo elenco di sostantivi indicanti ammirevoli virtù, quali “prontezza”, “pazienza”, “operosità”, “abilità”, “perspicacia”, “accortezza” e “sollecitudine” – sul valore grande, sia per ampiezza che per zelo, del proprio impegno.

15 Della persecuzione subita (da intendere genericamente come “ostilità”, e in

questo caso più specificamente quale “sopruso”) viene sottolineata – tramite l’aggettivo arcaico «fratile» (per fratesco, ovvero “da frate”) qui usato in senso spregiativo – la carica particolarmente virulenta.

16 A conclusione dell’elenco dei vizi attribuiti al proprio avversario – parallelo,

anche dal punto di vista retorico, a quello delle proprie virtù (cfr. vv. 17-18: “avversione”, “stizza”, “ostilità”, “risentimento” e “disprezzo”) – , l’autore inserisce un netto giudizio sul suo conto che non ammette replica alcuna.

17 Il termine asino, come simbolo d’ignoranza, ha dato origine a una larga serie

di modi di dire, e con lo stesso valore viene spesso usato anche come apostrofe o titolo ingiurioso; in questo caso, l’aggettivo guercio (che, dal significato proprio di “chi guarda storto per difetto fisico”, è passato a indicare, per lo più in tono spregiativo, “chi ci vede male”) aggiunge la sfumatura figurata di “privo della facoltà di discernimento”, e quindi “sciocco”.

18 L’autore allude nuovamente a tutto ciò che di buono avrebbe fatto nei

confronti di colui che s’è, poi, rivelato così ingrato; compreso l’“averlo tirato fuori” (e, quindi, “salvato”) «dal molin, da le mosche e da la scabbia».

19 L’autore mette il suo personale caso di ricevuta ingratitudine a confronto con

le numerose sventure subite dal patriarca biblico Giobbe, la cui infinita pazienza nel sopportarle, mantenendo inalterata la propria fede, è diventata proverbiale per indicare la sofferenza del giusto.

(4)

221 quanto ’l farlo ricever danno e oltraggio

da gl’asinacci onde attendea mercede. Ma, per venir sul quia, per dare ’l saggio,

che, s’a caso del manico esco fuori, 35 non mi tenghi la gente asin di maggio20,

le mie vettorie for tanto maggiori

quant’io trovai più duro incontro, e quanto rotte mie genti e mie forze minori:

l’invidia è stata di peso altrettanto 40 all’opra, e la percossa così grave

che potria fare indiavolare un santo, onde, se ponto da le genti prave avessi io fitta la pacienza ove

le feste vanno a Genove le schiave21, 45

non doverian parervi cose nuove,

perché ogni giorno senza inarcar ciglia voi vedete in Venezia simil prove. Batte quel vostro amico e mio la figlia,

le dice “Asina, vacca, orca, puttana!”, 50 vituperio di sé, di sua famiglia,

sol perch’ella piatosa diè la lana,

non potendo la pecora, al suo amante e perché se li mostra dall’altana22;

e se ben corna così dure e tante 55 non ha il macel ch’ei digerir non possa,

pure in questo fa il schifo23, e fa il gigante.

Sol perché non si muove ad ogni scossa

20 “Asino di maggio” vale qui qualcosa di simile a “ciarlatano”, o comunque

“qualcuno che parla troppo, e soprattutto a vanvera” (cfr. la locuzione cantar di maggio, riferito all’asino che in tal mese, essendo in amore, fa sentire frequentemente i suoi ragli; può voler dire anche “poetastro”).

21 Non ho trovato alcuna attestazione per tale locuzione. 22 Altana è voce veneta per “balcone”.

(5)

222 di calonnie ch’a lei dia la matregna

che l’ha più in odio che ’l grinzo e la tossa, 60 e perch’egli stimandonela degna

vuol maritarla ancor ch’ella rampogna e monacarla ad ogni via s’ingegna con dir: - L’è una mulaccia, una carogna!

Non consentirò mai che diate a questa 65 la dote ch’alle mie figlie bisogna - .

Deh, conciatevi voi la scuffia in testa, abbadessa gentil, poi dite altrui

“Bastarda e mula” e s’altro a dir vi resta24.

Son rare al mondo le figlie di dui 70 padri, e s’una trovar pur ne volete

andate al specchio e chiedetela a lui, e se ben poi che stomacose e viete mostra le guance, grinzose e pendenti,

come bugiardo biasmar lo solete, 75 credetelo a vedere quei tre contenti:

padre, compare e madre, che a comuno hanno messo per fin la lingua e i denti. Ma, tornando all’amico, egl’è pur uno

di quei padri ch’han stomaco d’acciaro 80 da non lo muover schifezze d’alcuno,

ch’ha visto delle volte più d’un paro alle strette col figlio la nepote, or d’una busca vuol fare un pagliaro:

tutt’avvien ch’egli sofferir non puote 85 dalla figlia difesa aver tal merto,

non è l’onor che lo spinge o percuote. Non ho maggior cagione io, ch’ho sofferto

(6)

223 impeto così grande, accioché adorno

fosse di mie fatiche un asin certo, 90 vegendomi pagar d’infamia e scorno,

di trar via ’l capo, non pur la berretta, e di tirar giù a terra ’l ciel del forno25?

Voi già faceste assai giusta vendetta

di quell’ingrata per cui il dio d’amore 95 v’avea ferito ’l cuor de la brachetta,

a cui di voi, di robba e di favore foste sì largo al tempo de la peste per cui poneste a rischio vita e onore:

ma quando per quel drappo conosceste 100 ch’era simile all’altre donne anch’ella,

la pacienza in Frizzaria26 poneste.

Pur voi dolce di cuor, pur era quella unica di bellezze (perché alora

non si vedeano i raggi di mia stella), 105 pur dite voi che più facile fora

trovar un corvo bianco, un cigno nero, che donna ferma in proposito un’ora, qual cagion donque vi mostrò sì altiero

verso colei, se non ch’a’ vostri merti 110 non poteste patir premio sì fiero?

Or, io ch’a mille morti, a mille certi perigli messi questa vita, e mille volte m’esposi a precipizi aperti,

non mosso come voi da le faville 115 di due begl’occhi, ma per la bruttezza

25 Il cielo del forno indica genericamente l’“aldilà”; tirare a terra il ciel del forno

significa “fare gran rumore per qualche avvenimento”.

26 La «Frizzaria» (Frezzaria) è una strada veneziana di grande transito che sfocia

all’imbocco di Piazza San Marco; porre la pazienza in Frezzaria potrebbe voler dire “lasciarla altrove”, quindi “perderla”.

(7)

224 far parer bella, e Tersite un Acchille27,

non ho cagion di romper la cavezza veggendomi trar calci e tor la vita

da un asino per me posto in altezza? 120 Voi dovete aver letta, io forse udita,

la valentia di quel valente greco che Italia suscitò da morte a vita, che dal cognato poi fu fatto cieco,

al cui imperio avea aggionti Arabi e Persi, 125 Africa, Spagna, Italia e ’l mondo seco,

e, conchiudendo ogni cosa in due versi, egli avea al cielo alzato e a Giove unito l’imperador di quei tempi perversi.

Quand’egli ebbe assai fatto, fu fornito 130 proprio della moneta ch’or son io

da l’uomo ingrato a cui gl’avea servito. Or, conferendo ’l fatto suo col mio, quel Bellisario et io siamo uno et asso,

e quasi io sono il iota et egli il y. 135 Egli per il ben far fu messo al basso

per tema ch’ei non mangiasse la mensa onde aveva i bicchier mandati a spasso, a me l’invidia e ambizion che pensa

che il mio vincere le toglia ’l pan di mano, 140 sì ingratamente ’l mio ben far compensa.

Fe’ trarre gl’occhi a lui Giustiniano

per lui ingrassato, a me fe’ quasi peggio l’asino per me tratto del pantano28.

27 Far apparire Tersite un Achille vale “far apparire prestante e valoroso qualcuno

che è, invece, pavido e sgraziato”, quindi “far apparire migliore qualcuno che non lo merita”.

28 Termina qui il lungo passo in cui l’autore paragona il proprio caso a quanto

(8)

225 Dunque, s’io fossi uscito del carreggio, 145 chi sarà ch’a ragion mi biasmi o dica

ch’io sia furioso, ghengo o piangoleggio29?

Conosco un io che grida con l’amica che tien bottega, si fa ricca e grassa

con le sue merce e con la sua fatica, 150 brava, taglia, sporteggia, e ’l Cielo abbassa,

non può in groppa tener peso sì grave ch’ella talor con fra’ Berton si spassa; e in tanto in casa (senza ’l marito) have

sua sorella la pancia fin a gl’occhi 155 né di ciò udiste mai parole brave.

Onde questo? se non che, da’ pidocchi avendo insignorita quella ingrata, non può patir ch’altri gliel’infinocchi30?

Or, se a caso da me fosse squarciata 160 la pacienza, io n’ho vie più cagione

ch’egli non ha da far tanta tagliata31.

Un altro non può inghiottir un boccone d’un suo fratel mal peso, e via lo scaccia

perché li disse in collera “Menchione!”, 165 e alla moglie che ’l grida, che ’l minaccia,

che lo suona talvolta alla distesa32,

che li dice ogni giorno “Becco!” in faccia, non ardiria, per quanto oro ella pesa

(e pur faria due madonne Adriane), 170

riconquistare l’Italia: sospettato di cospirazione contro l’imperatore, Belisario divenne protagonista di alcune leggende medievali (come quella citata secondo la quale Giustiniano volle vendicarsi rendendolo cieco).

29 Ghengo è voce onomatopeica senese per “smorfioso”; piangoleggio vale

“piagnucoloso”.

30 Infinocchiare significa “ingannare qualcuno con imbrogli e raggiri”. 31 Minaccia fatta in modo grossolano.

(9)

226 dire ’l mal anno o far seco difesa.

Onde a un par suo ch’ha sì grosse campane, stomaco sì da digerir macigno,

quel sdegnuzzo da far rider un cane?

solo perché, sendo al fratel benigno 175 di notrirli un figliuol simile al padre,

non può patirne un premio sì maligno. Ma se il notrir gl’altrui figliuoli a squadre obliga chi gli ha fatti o ingenerati,

onde hanno i suoi così rabbiosa madre? 180 Or, s’io avessi gli stracci gettati

sul fico, io fora più degno di scusa ch’egli non è ne i par suoi mal menati. M’ha detto un messer Livio a bocca chiusa

ch’un degno uom ebbe ancora al tempo vecchio 185 il pagamento ch’anco oggidì s’usa.

Questo, avendo arso la rocca e ’l pennecchio a madonna Cartagine, i Romani

volean frustarlo e tagliargli un orecchio,

con dir che basse menava le mani, 190 e con simili infamie e bagatelle

gl’erano intorno come all’ossa i cani, tal che un giorno, squarciando le gonnelle, fa vedere a gl’ingrati e sconoscenti

ove per loro li mancava la pelle. 195 Or, se un par suo, ch’era pur de’ valenti,

squarciò la pacienza in un momento, né mai più volse star fra quelle genti, anzi, morendo lasciò in testamento

di non dar l’ossa a Roma per dispetto, 200 tanto di quelli ingrati ebbe spavento,

(10)

227 del maggior domo o da colera spinto

fatto volar gli stracci sopra un tetto33?

Quale Annibal da me restasse vinto 205 voi lo sapete, e ancor molt’altri, e quale

avversario ne sia di sdegno tinto, perché s’io ne fui il verbo principale, voi foste il participio, e diece volte

senza voi, fora andato all’ospedale34. 210

Ma l’incommodata, le più che molte fatiche mie, non sapeste voi tutte ch’io le tenea nel mio petto sepolte, n’ho scritto parte in queste rime asciutte

al mio dotto Pasin, l’altre mi tegno 215 per buon rispetto, e forse le più brutte:

udendole da lui con quell’uom degno, mio signor Barbarigo, compar vostro, giudicate s’a torto me ne sdegno

e s’ho cagion da spender carta e inchiostro. 220

33 L’ultimo esempio di ingratitudine citato dal poeta è la vicenda di Scipione

l’Africano nella versione narrata da Tito Livio.

34 La satira sarebbe, dunque, una sorta di ringraziamento nei confronti del

destinatario, che – a quanto pare dai vv. 205-210 – sarebbe stato coinvolto nell’episodio che ne fa da sfondo.

Riferimenti

Documenti correlati

VERBO  INDICATIVO  PASSATO REMOTO .

Corsi di Probabilità, Statistica e Processi stocastici per Ing. Si osserva l’intensità del vento nel porto di Marina registrando uno 0 ogni giorno in cui il vento non supera una

Inoltre, oggi il «presente», quello che bambini e studenti possono percepire e intuire dai mass media, ha una dimensione mondiale, i problemi sono quelli di un mondo in cui l'Europa

Suite à l’affaire Belmarsh, le Home Secretary a déclaré qu’il “acceptait la déclaration d’incompatibilité prononcée par la Chambre des Lords” et son “verdict, selon

Ogni singolo giorno di attesa risparmiato acquistando le prestazioni sanitarie nel privato a tariffa piena piuttosto che nel pubblico con ticket costa da 28 euro a 4,2 euro, a

E' la somma dei primi n numeri naturali dispari

Eccoti i nomi delle maschere da mettere a posto: Arlecchino, Meneghino, Gianduia, Stenterello, Colombina, Pantalone, Balanzone, Fagiolino, Meo Patacca,

Ci siamo più particolarmente interessati alle modalità dell’impegno responsabile dei cittadini nella transizione ecologica attraverso le traiettorie individuali e collettive