Valutazione urologica nel trapianto
Per il successo del trapianto devono essere soddisfatti alcuni requisiti urologici, comprendenti l’ assenza di calcoli , di infezioni urinarie in atto e di neoplasie dell’apparato urinario nonchè dalla presenza di un tratto urinario funzionante, sterile e continente (95). Churchill et al. raccomandano inoltre, un idoneo resevoir urinario, che assicuri un adeguato volume urinario a bassa pressione, e una competenza uretrale necessaria per garantire la continenza e lo svuotamento vescicale. La prerogativa nel paziente trapiantato, per ridurre il rischio di complicanze urologiche nel post-trapianto, è ristabilire l’integrità anatomica e funzionale delle vie urinarie . Il protocollo di valutazione prevede per tutti i potenziali candidati, con diuresi conservata, un’ accurata anamnesi, un esame obiettivo completo , l'esame citologico delle urine , l’ urinocoltura e l’ecografia renale.
Altre indagini da eseguire, se esiste indicazione, sono la cistouretrografia minzionale, la TC addome, l’ uroflussometria con valutazione del RPM, lo studio della pressione- flusso, l’ esame videourodinamico, la pielografia ascendente, la cistoscopia e l’
ureteroscopia. Attualmente non è ancora riconosciuta la capacità dello screening pre- trapianto, nel ridurre l’incidenza di tumori che si svilupperanno nel periodo dopo il trapianto.
Alcuni centri nell’iter diagnostico di routine precedente al trapianto , includono anche la cistouretrografia minzionale, utile per la visualizazzione di un eventuale reflusso vescico-ureterale. Altri invece, utilizzano questo approccio solo in alcuni pazienti, rappresentati dai bambini, allo scopo di indagare la presenza di anomalie delle vie urinarie e/o di reflusso vescico-ureterale , dai portatori di alterazioni morfo- funzionali delle vie urinarie, per valutarne l’entità, dai pazienti con storia di ricorrenti infezioni e disturbi minzionali, per indagarne l’origine ed eventualmente la presenza di vescica neurogena.
In queste stesse categorie di pazienti spesso si rendono utili altre indagini, come la cistoscopia, e la pielografia ascendente.
In passato la nefrectomia dei reni nativi contestualmente al trapianto, non era scevra di complicanze, rappresentate soprattutto dall’ anemia e dall’osteodistrofia renale , così nella maggior parte dei pazienti non veniva eseguita. Attualmente invece, la disponibilità dell'eritropoietina e la possibilità di una diagnosi precoce, ha reso questa procedura praticabile (96).
La nefrectomia dei reni nativi si esegue soprattutto in presenza di:
1. infezioni renali croniche resistenti al trattamento medico, 2. pielonefrite cronica con infezioni ricorrenti,
3. sindrome nefrosica intrattabile, 4. calcolosi infetta,
5. reflusso vescico-ureterale infetto,
6. reni policistici che hanno raggiunto grandi dimensioni, 7. cisti con ricorrenti infezioni e/o sanguinamenti,
8. ipertensione arteriosa intrattabile,
9. anomalie congenite, come mutazione del cromosoma WT1, correlato all’aumentato rischio di sviluppo di tumore di Wilms,
10. tumori renali,
11. ed infine nel sospetto di adenocarcinoma in cisti renali acquisite.
I pazienti anziani , che all’intervento di trapianto , si presentano con ipertrofia prostatica occulta, devono essere preventivamente trattati con TURP o adenomectomia, se hanno conservato una minima diuresi, altrimenti in presenza di mitto insufficiente , possono essere operati dopo trapianto e ripresa della diuresi, mantenendo un catetere vescicale a permanenza in questo intervallo di tempo.
Alcuni risultati di Maisonneuve et al. hanno confermato l’aumentato rischio di neoplasie genitourinarie nei pazienti con IRT, rispetto alla popolazione generale, con un’incidenza che sembra ridursi all’aumentare dell’età , al di sopra dei 35 anni. Tale aumento riguarderebbe soprattutto i tumori del rene,della tiroide e della vescica (97), al contrario di quelli della prostata e del testicolo che invece tendono a mantenere un percentuale di insorgenza analoga a quella della popolazione generale (98).
Tumori del rene
Epidemiologia ed eziologia nella popolazione generale
Nella popolazione generale, i tumori renali maligni, rappresentano il 3% di tutti i carcinomi e la variante più rappresentata è quella a cellule renali. L’incidenza di 4000 nuovi casi per anno è inferiore rispetto a quella del tumore della prostata e della vescica, e l’età di insorgenza è fra i 50-60 anni, interessando prevalentemente il sesso maschile. In Italia il carcinoma renale ha una mortalità di 2000 casi .
Esistono forme familiari e sporadiche del tumore, nelle quali i fattori ereditari ed ambientali hanno ruolo determinante, rispettivamente. Dei primi fanno parte le traslocazioni cromosomiche 3-8 , 3-6 , 3-11 , responsabili dell’alterazione di espressione dell’ oncosoppressore proprio del cromosoma 3. I fattori ambientali principali includono l’alimentazione, la fenacetina, il piombo ed il fumo di sigaretta, quest’ultimo responsabile nel 30% dei casi diagnosticati, ma ne esistono molti altri.
Incidenza in pazienti trapiantati
I carcinomi renali rappresentano circa il 3.6 - 5% delle neoplasie che insorgono nei pazienti trapiantati e tra lo 0.5 - 3.9% nei trapiantati di rene (99). Il rischio di sviluppare carcinoma renale nei pazienti trapiantati è da 10 a 100 volte superiore a quello della popolazione generale (100). I fattori che determinano un aumento di incidenza sono un precedente abuso d'analgesici, una storia positiva per carcinoma renale indipendentemente dal tipo di trattamento, la presenza di formazioni cistiche renali insorte con l'uremia, e di malattia di Von Hippel Lindau (101). L’incidenza per tumore renale nei pazienti trapiantati è più alta rispetto ai pazienti in lista d’attesa e la comparsa di tumori renali de novo, si verifica prevalentemente nei reni nativi, anche se non può essere esclusa l’insorgenza nel graft. Una recente review del Cincinnati Transplant Tumor Registry, su un totale di 202 pazienti trapiantati, ha riscontrato la comparsa di 24 tumori de novo nel graft, con un tempo medio di comparsa di 42 mesi dopo il trapianto (102). Per fare diagnosi
essere sospesa la terapia immunosoppressiva e deve essere trattato il tumore . Mentre in passato la migliore strategia di cura consisteva nella esclusiva nefrectomia, attualmente stanno emergendo tecniche chirurgiche conservative come l’enucleoresezione della neoplasia e l’ablazione percutanea con radiofrequenze (103).
Tumori renali pre-esistenti nel rene del donatore
Al momento del prelievo, rappresentano il 21% secondo i dati riportati dal Cincinnati Transplant Tumor Registry (46).
Il mancato riconoscimento di una neoplasia renale in corso di prelievo d’organo, determina conseguenze letali nel 40% dei riceventi, soprattutto a causa della rapida progressione favorita dalla terapia immunosoppressiva .
La valutazione oncologica del rene donato comprende:
• l’attenta anamnesi del paziente donatore, volta ad indagare una pregressa storia di ematuria e/o nefrectomia per carcinoma renale,
• l’ attento esame intraoperatorio dei reni, con eventuale biopsia sotto guida ecografia intraoperatoria, per ed esame istologico estemporaneo della lesione,
• la biopsia al banco, per esame istologico a fresco in presenza di noduli sospetti,
• l’autopsia completa del donatore cadavere, al fine di evidenziare eventuali metastasi.
Sebbene nel nostro paese, le linee guida riguardanti la sicurezza dell’organo donato, proibiscano l’utilizzo di reni , nei quali sia stata rilevata una massa solida di qualsiasi dimensione e sede, attualmente la possibilità di eseguire un’enucleoresezione è reale.
Questa tecnica chirurgica trova indicazione per le neoplasie di piccole dimensioni e con localizzazione intracapsulare (104).
In letteratura sono stati riportati i dati di esperienze riguardanti l’utilizzo di reni con tumori renali primitivi, trattati al banco con enucleoresezione e margini di resezione negativi (105). D’altro canto necessitano di un follow-up oncologico ancora più accurato comprendente , oltre alle indagini di routine, controlli periodici ecografici e
tomografici. L’utilizzo di questi reni è in linea con la recente tendenza ad allargare i criteri di selezione degli organi trapiantabili.
In letteratura è stato dimostrato che la nefrectomia radicale e la nefrectomia parziale (NSS) riescono a garantire un’equivalente efficacia terapeutica delle lesioni renali unifocali e di piccole dimensioni (<4 cm). Novick in uno studio che comprendeva 485 pazienti sottoposti a NSS per neoplasie renali in stadio T1, ha riportato una sopravvivenza a 5 anni tra il 90 ed il 100% (106). Analoghi risultati sono stati ottenuti da un altro studio, con follow-up di 10 anni , che studiando 107 pazienti trattati con NSS per tumori renali in stadio T1, ha riportato una sopravvivenza a 5 anni dell’ 88.2% ed a 10 anni del 73.0% (107).
Tumori pre-esistenti nei reni nativi del ricevente
In corso di valutazione pre-trapianto, una neoplasia renale è stata riscontrata occasionalmente nel 3.8% dei pazienti (108). Secondo i dati del Cincinnati Transplant Tumor Registry, nei reni nativi , le varianti istologiche più frequenti sono in linea con quelle della popolazione generale, con comparsa di carcinoma a cellule chiare nel 76.56% dei casi. L’aumentato rischio neoplastico sembra dipendere dall’immunodepressione intrinseca all’uremia e dalla presenza di noxae pro- cancerogeniche secondarie ad alterazioni immuno-biochimiche proprie dell’insufficienza renale cronica (109). La prevalenza di carcinoma renale, nei pazienti emodializzati, ha una frequenza 40 volte maggiore rispetto alla popolazione generale (110) anche perché aumenta l’ insorgenza di malattia cistica renale acquisita (112).
Stewart et al. hanno analizzato una popolazione di pazienti in trattamento dialitico cronico, derivanti dal registro Americano, Europeo ed Australiano nel periodo compreso fra il 1980 ed 1994, dimostrando che il rischio relativo di sviluppare una neoplasia renale è pari a 3.6 (CI 95%), con un aumentato rischio nei giovani e nelle donne, proporzionale all’età dialitica e non correlabile con il tipo di dialisi (111).
Secondo Matson et al, la malattia cistica renale acquisita si presenta nel 30-95% dei pazienti in emodialisi, e favorisce lo sviluppo di un carcinoma renale nel 30-40% dei pazienti (115).
La malattia cistica renale acquisita, correla con l’insorgenza di tumore renale, per la progressiva distruzione del tessuto renale funzionante , per l’accumulo di sostanze mitogene e citogenetiche non dializzabili nei nefroni superstiti e per l’ipertrofia - iperplasia delle cellule epiteliali . In particolare l’EGF , il PDGF, ed il proto- oncogene C-erb B , sono imputabili della degenerazione neoplastica (113).
L’isotipo rappresentato più frequentemente in presenza di malattia cistica renale acquisita, con un’incidenza del 42 -86%, è il carcinoma di tipo papillare al contrario di quanto avviene nella popolazione generale in cui questa variante tende a svilupparsi solo in 1 caso ogni 8 (114).
Inoltre tale malattia sembra correlare con il tempo di trattamento dialitico (Tab. I).
Tab. I – prevalenza di malattia cistica renale acquisita in pazienti dializzati, stratificata per età dialitica
Età dialitica (anni) Prevalenza di MRMA 1-3
3-5
>5
10-20%
40-60%
>90%
Frequentemente, con una percentuale del 30.3%, i pazienti in dialisi sviluppano delle cisti atipiche che possono rappresentare i precursori di adenomi renali papilliferi e di adenocarcinomi renali.
Per identificare un tumore pre-esistente nel ricevente l’indagine di prima scelta è rappresentata dall’ecografia , nel caso in cui avvenga il riscontro di cisti complicate si rendono necessarie anche la TC e la RM .
Attualmente la presenza di cisti o di malattia cistica renale acquisita non meglio definibili, necessita di nefrectomia del rene affetto per poter inserire il paziente in lista d’attesa, mentre il riscontro occasionale di tumori renali ,durante lo screening
pre-trapianto, non pregiudica l’iscrizione in lista di attesa , se è passibile di trattamento.
Nel caso in cui il paziente abbia subito una nefrectomia ed è iscritto nella lista d’attesa , per poter essere iscritto nelle lista di attesa ed essere sottoposto a trapianto deve trascorrere un periodo di tempo libero da malattia maggiore di due anni.
L’incidenza di recidiva neoplastica nel rene nativo ,dopo il trapianto varia dell’1% al 27% a seconda di un riscontro occasionale o di presenza di sintomi (116).
Il trapianto renale rappresenta un valida opzione terapeutica anche per i pazienti riceventi affetti da neoplasie renali perché garantisce una sopravvivenza del graft e del paziente sovrapponibile a quella dei pazienti trapiantati non affetti da neoplasia.
Tumore insorto “de novo” dopo il trapianto nei reni nativi
Mediamente tende a presentarsi dopo un periodo di 7 anni dall’intervento e di i 10 anni dall’inizio del trattamento dialitico. Doublet, in una casistica di 129 trapianti renali , ha dimostrato un ‘incidenza di carcinoma renale maggiore di 100 volte rispetto alla popolazione generale (117) . La terapia immunosoppressiva non rappresenta però, l’unico fattore responsabile.
Infatti sebbene Hoshida abbia dimostrato che il trattamento con ciclosporina determini un’insorgenza precoce rispetto alla somministrazione di azatioprina e corticosteroidi, la malattia renale cistica acquisita e la nefropatia cronica analgesica potrebbero svolgere un ruolo sinergico alla terapia (118).
In presenza di malattia renale cistica i paziente trapiantati presentano un’insorgenza neoplastica metastatica del 53% dei casi, mentre in assenza di trapianto, l’incidenza è dell’8%, senza alcun decesso ad essa correlabile (119).
I dati del registro di Cincinnati, hanno evidenziato che il 10% dei pazienti che sviluppa neoplasia erano affetti , prima del trapianto da nefropatia cronica da analgesici (46).
Tumori insorti “de novo” nel graft
Clinicamente sono tumori meno aggressivi rispetto a quelli che insorgono dopo il trapianto nei reni nativi e mediamente insorgono a distanza di 56 mesi dal trapianto (120). Nella casistica di Penn comprendente 24 tumori diagnosticati nel rene trapiantato, sono stati riscontrati 16 carcinomi renali, 5 carcinomi a cellule transizionali, e 3 carcinomi di altra natura (46). Il trattamento di queste neoplasie prevede l’espianto del graft e la sospensione della terapia immunosoppressiva.
In letteratura sono stati riportati pochi casi di neoplasie a basso grado, trattate con successo con resezione della stessa (121). Nei pazienti anefrici per malattia di Von Hippel-Lindau, non è stato registrato alcun aumento significativo di incidenza di tumore nel graft.
Tumore della vescica
Epidemiologia ed eziologia nella popolazione generale.
Il carcinoma della vescica costituisce il 9% di tutti i tumori maligni. Il picco di incidenza è compreso tra i 55 ed i 70 anni, ed aumenta al crescere dell’età. In Italia l’incidenza si aggira intorno ai 20 casi /100.000/anno , nei maschi è la seconda neoplasia più frequente dopo l’adenocarcinoma prostatico mentre nelle donne è al quinto posto con un’ incidenza comparabile a quella del tumore dell’ovaio.
I fattori ambientali hanno il ruolo di iniziatori , mentre le alterazioni genetiche di promotori. Una teoria sulla evoluzione neoplastica propone, che le neoplasie vescicali superficiali di basso grado, derivino dalle mutazioni del cromosoma 9, mentre le varianti Cis e di alto grado, correlano con l’ inattivazione del P53 , cromosoma 17.
Incidenza in pazienti trapiantati
Nei pazienti trapiantati il rischio di sviluppare il tumore della vescica risulta aumentato, con un’incidenza del 2,2,% per istotipo uroteliale.
L’insorgenza di neoplasie vescicali è evidente soprattutto nei pazienti che sono stati trapiantati a causa di una nefropatia terminale provocata dall’ abuso di analgesici, perché hanno un maggiore rischio di sviluppare carcinomi a cellule transizionali multicentrici (122). La maggior parte dei casi riportati in letteratura evidenziano inoltre un aumento delle forme rapidamente progressive , muscolo invasive, extravescicale , associate a linfoadenopatie e le varianti più aggressive come la micropapillare e la squamosa.
Buzzeo et al. hanno evidenziato, in uno studio che comprendeva 3130 pazienti trapiantati di rene, che il rischio relativo di sviluppare un carcinoma vescicale è del 3.31, rispetto alla popolazione generale e con un’insorgenza variabile dai 3 agli 11 anni (123).
Le ragioni di questo aumentato sviluppo che sono emerse nello stesso studio comprendono:
1) la ridotta capacità di riparare i danni del DNA ed il danno cellulare diretto per l’utilizzo di farmaci immunosoppressori,
2) l’azione sinergica degli immunosoppressori e degli immunomodulatori con i fattori cancerogeni,
3) la ridotta difesa contro oncogeni virali come il papillomavirus, 4) l’aumentata incidenza di infezioni del tratto urinario,
5) la regione geografica di appartenenza e lo stile di vita.
Tra i farmaci la ciclosporina favorisce l’insorgenza neoplastica. Un ruolo è stato attribuito anche al trattamento emodialitico , associato ad un’incidenza di 1.4 - 1.8 volte maggiore rispetto alla popolazione generale, soprattutto se praticato in paziente affetto da IRT secondaria a tossici, infezioni, e nefropatie ostruttive.
Il rischio di recidiva, nei pazienti trapiantati e trattati precedentemente per carcinoma vescicale, è del 29% mentre la percentuale di mortalità è del 38%.
I tumori superficiali e in situ sembrano avere una più bassa incidenza di recidiva.
Per un paziente trapiantato di rene da donatore cadavere, che aveva sviluppato nel post-trapianto un carcinoma vescicale, Yamamato et al. aiutati dalle analisi di genetica molecolare, hanno proposto la trasmissione da donatore a ricevente.
In letteratura, allo stato attuale, non sono stati riportati altri casi.
Nei casi in cui il paziente candidato al trapianto presenti, uno o più fattori di rischio per carcinoma vescicale, il suo screening deve includere oltre all’anamnesi e all’esame obiettivo anche l’ analisi delle urine, la citologia urinaria, l’ ecografia pelvica, la cistoscopia e l’ urografia.
L’esperienza del reparto di urologia di San Francisco, mostra che la sopravvivenza in pazienti trapiantati di rene con tumore vescicale, può essere garantita preservando il garft e sottoponendo il paziente a cistectomia radicale, attualmente però non esistono protocolli specifici di gestione.
Anche per l’ematuria nel paziente trapiantato, non esiste un menagement specifico, in quanto la microematuria è comune nella popolazione trapiantata sana, soprattutto in presenza di reni nativi in sede.
È stato dimostrato che a parità di quadro clinico, la cistectomia radicale associata a linfoadenectomia pelvica standard, permette di ottenere una sopravvivenza sovrapponibile tra paziente trapiantato e non trapiantato. L’intervento però non deve danneggiare il graft durante la linfoadenectomia ipsilaterale , deve preservare la vascolarizzazione dell’uretere ed il tessuto periureterale , inoltre particolare attenzione deve essere posta alla preparazione intestinale.
Le opzioni di ricostruzione delle vie urinarie attuabili nel trapiantato, comprendono l’ureterocutaneostomia, e la neovescica ileale ortotopica. La prima viene eseguita quando il rischio di diffusione del tumore vescicale è alto, anche se il suo ruolo profilattico non è stato ancora chiarito.
Pazienti in attesa di trapianto
L’opzione della vescica ileale ortotopica può essere presa in considerazione nei pazienti che presentano un tratto urinario intatto e devono essere trattati con cistectomia radicale e trapianto renale. Nei pazienti trapiantati in seguito a derivazione urinaria, i tumori più frequenti sono rappresentati dagli adenocarcinomi del sito anastomotico uretero-intestinale. La recidiva per un pT3a , dopo cistectomia radicale è del 29% , comunque più frequente rispetto alla trasformazione maligna intestinale.
Anche Penn ha ottenuto dei buoni risultati trattando una donna, trapiantata di rene, con derivazione urinaria ileo-cecale per carcinoma pan-uroteliale. La donna era stata sottoposta a nefroureterectomia bilaterale ed escissione vescicale per carcinoma vescicale pT3aG2 associato a multipli carcinomi transizionali superficiali pTaG1, in assenza di impegno linfonodale (125).
Strategia terapeutica con bacillo di Calmette Guarin
Il BCG è un ceppo di Mycobacterium Bovis vivo attenuato , con ridotta capacità infettiva e con buona azione immunostimolante, capace di indurre una reazione
muscolare. Gli autori Palou et al., hanno riportato risultati promettenti, in seguito all’utilizzo del bacillo in pazienti trapiantati. L’instillazione endovescicale del bacillo, proposto come trattamento profilattico di carcinoma ad alto grado e in situ, è invece considerato teoricamente pericoloso nel paziente trapiantato, a causa dell’immunosoprresione . Nello studio l’utilizzo del bacillo era stato associato ad una terapia profilattica con rinfampicina e isoniazide.
Generalmente i carcinomi a cellule transizionali in stadio T1G3 trattati con la sola TURB , possono recidivare nel 54 -74% e progredire nel 20 - 45% . Invece i Cis possono evolvere a forma invasiva nel 40 -80% dei casi.
Le complicanze più frequenti del trattamento con BCG sono la cistite, la polmonite, la febbre, l’epatite, l’artrite, e la temibile seppur rara sepsi.
Tumore della prostata
Epidemiologia ed eziologia nella popolazione generale
L’incidenza del carcinoma prostatico tende ad aumentare in relazione all'invecchiamento della popolazione maschile. Il carcinoma prostatico è frequente nel Nord America, particolarmente nella popolazione di colore e nei paesi Scandinavi mentre è raro in Giappone e negli altri Paesi Orientali. L'Italia ha un’incidenza intermedia , di 28/100.000 abitanti/aa. Nella sola comunità europea, i morti per anno sono 35.000 mentre nel territorio italiano la mortalità è del 3%. A fronte di una eccezionalità di comparsa del carcinoma al di sotto dei 50 anni , calcoli statistici stimano che un uomo su quattro sia già portatore di tale neoplasia dopo la suddetta età.
I fattori che determinano o che contribuiscono a determinare l'insorgenza del tumore non sono ancora stati chiariti del tutto, ma sicuramente risulta coinvolto il fattore ormonale, come dimostrato da Huggins. Altri fattori sono l'alimentazione troppo ricca di grassi , le malattie virali da papovavirus, citomegalovirus, virus herpetico, e un comportamento sessuale irregolare e promiscuo. Una correlazione fra tumore prostatico e fumo non è ancora stata dimostrata.
La predisposizione familiare è confermata da alcuni geni potenzialmente coinvolti nella forma ereditaria (HPC-1). Oncogeni, come myc, che sono amplificati , correlano con una prognosi peggiore mentre geni oncosoppressori, come p53, RB1 o PTEN mutati sono relazionati ad un Gleason score più alto.
Altre modificazioni genetiche possono coinvolgere le vie dell'apoptosi, come l'iperespressione di FAS (sintetasi degli acidi grassi) e di BCL-2, una proteina antiapoptotica, e l'amplificazione di p53 . Il carcinoma prostatico è imprevedibile, in quanto può sviluppare metastasi sia durante la progressione che indipendentemente dal suo accrescimento
Incidenza in pazienti Trapiantati
Non esistono evidenze che mostrino un aumento di tumori nei pazienti con IRT ed in dialisi rispetto alla popolazione generale , sebbene all’aumentare degli anni di post- trapianto, il paziente rientri nella fascia di età a rischio per sviluppo di carcinoma prostatico. Le aspettative future sono una maggior incidenza di tumore prostatico in pazienti anziani sottoposti a trapianto.
Alcuni studi riportano incidenze diverse tra loro, a causa di una sottostimata per mancanza di protocolli di screening e follow-up. Frezza et al riportano una percentuale di tumore , tra i pazienti trapiantati di fegato , del l’1,5% (127).
Per i pazienti con IRT candidati al trapianto o già trapiantati , al momento del riscontro di carcinoma prostatico, è necessario un approccio aggressivo, perché non è conosciuto l’impatto della terapia immunosoppressiva nel determinare recidive e metastasi. Rimane ancora dubbio il beneficio del ritorno all’emodialisi, proposto nelle varianti metastatiche.
È stata ipotizzata un’ azione negativa per l’associazione azatioprina , ciclosporina e cortisone. Attualmente, con diagnosi di carcinoma prostatico, la terapia immunosoppressiva deve essere ridotta.
Il trattamento dialitico e la presenza di IRT non sembrano modificare i valori del PSA e quindi anche nei pazienti trapiantati o in attesa , questo antigene può essere utilizzato come screening .
Un follow-up molto diffuso prevede l’esecuzione annuale dell’esplorazione rettale e della misurazione del PSA con eventuale biopsia dirimente, nei pazienti trapiantati con un’ età superiore ai 50 anni e un’ aspettativa di vita superiore ai 10 anni . Questo screening deve essere anticipato ad un’ età più giovane, se il paziente dimostra una familiarità per cancro della prostata.
Chirurgia, radioterapia e terapia ormonale sono le tre opzioni terapeutiche utilizzate nel paziente trapiantato, ponderandole singolarmente per ogni paziente.
Il trattamento di una forma neoplastica circoscritta, in pazienti trapiantati, è sovrapponibile ai risultati ottenuti nella popolazione generale , mentre in presenza di
metastasi aumentano i fallimenti terapeutici . Il watchful waiting sembra essere una valida opzione, per il paziente molto anziano e per quello con patologie maggiori, che oltre a non permettere il successo del trattamento chirurgico sottendono una aspettativa di vita inferiore ai 10 anni (128).
Generalmente,un paziente con meno di 70 anni e in buone condizioni cliniche, viene sottoposto a prostatectomia radicale retropubica, con linfoadenectomia limitata al lato opposto a quello sede del graft renale. La linfoadenectomia viene riservata in presenza di una positività linfonodale maggiore del 3% . Soprattutto a causa della necessità di praticarla solo monolateralmente, è difficile valutare il reale staging patologico della neoplasia. Attualmente esistono i nomogrammi che sono dei parametri prognostici capaci di stimare il rischio di recidiva, per ogni singolo paziente . Alcuni autori li propongono come linee guida specifiche.
L’ intervento di prostatectomia radicale si è dimostrato sicuro ed efficace nel trattamento neoplastico in pazienti trapiantati di rene , di fegato e di cuore (129). I vantaggi di questa procedura chirurgica sono la possibilità di preservazione della vescica , del reimpianto ureterale e dell’anastomosi vescico-uretrale , mentre tra gli svantaggi devono essere menzionati la perdita ematica, la limitazione a sottoporsi ad un successivo trapianto e il danno del graft per l’uso dei divaricatori e della cateterizzazione del neo-uretere atta alla visualizzazione dell’ureteroneocistostomia.
La prostatectomia radicale laparoscopica non può essere praticata per la presenza del graft in fossa iliaca. La radioterapia esterna e la brachiterapia sono indicate nel paziente con più di 70 anni o in condizioni cliniche scadenti. Gli effetti collaterali imputabili al primo trattamento sono l’urgenza minzionale, l’ incontinenza, la disuria la prostatite, l’impotenza e la diarrea , mentre il secondo ha dimostrato un’efficacia simile alla chirurgia.
Della soppressione androgenica mancano i risultati a lungo termine.
Incidenza in pazienti in attesa di trapianto
Recentemente è stata pubblicato uno studio dall’Israel Penn International Transplant Tumor Registry , che ha valutato per un periodo di folow-up di 20,5 mesi, gli esiti di trapianto d’organo, in pazienti con storia di carcinoma prostatico (132). Nei 90 pazienti trapiantati con storia di carcinoma prostatico, l’intervallo medio tra diagnosi e trapianto è stato di 19.3 mesi e il tempo medio d’insorgenza della recidiva neoplastica , dopo trapianto, è stato di 10.6 mesi. La sopravvivenza media è stata di 49.2 mesi e la mortalità del 28.8%, con un tasso di mortalità correlata al carcinoma prostatico del 7.8% ed un tasso di recidiva del 17.7%.
La terapia includeva la somministrazione di coricosteroidi, inibitori della calcineurina e agenti antiproliferativi così distribuiti:
- il 65 % dei pazienti faceva uso di tutti e 3 i farmaci, - il 23% di due farmaci,
- l’11% era in monoterapia.
Suddividendo i tumori per stadio clinico e patologico, è stata evidenziata una differenza nel tasso di recidiva :
tasso di recidiva tasso di mortalità
stadio I 14% 3%
II 16% 7%
III 36% 28%
In conclusione, pur con breve intervallo di tempo tra neoplasia e trapianto, le recidive neoplastiche sono poco numerose negli stadi I e II, mentre aumentano nei pazienti in stadio III. I dati mostrano che se da un lato i pazienti candidati al trapianto e con carcinoma prostatico in stadio III, devono aspettare un intervallo libero da malattia di almeno 5 anni , i pazienti in attesa di trapianto salvavita invece, possono essere trapiantati.
Inoltre Penn ha osservato che la recidiva del 17,7%, nei pazienti che hanno ricevuto il trapianto tra i 2 e i 5 anni dalla diagnosi di malattia, aumenta al 40% se il paziente si
Prima di procedere all’intervento di trapianto, il dosaggio del PSA deve essere indosabile se il tumore è stato trattato con chirurgia o almeno stabile se è stato sottoposto a cicli di radioterapia.
In letteratura sono riportati casi di pazienti in dialisi, deceduti entro i 5 anni di attesa, a causa della stessa IRT e delle comorbilità mediche.
La sopravvivenza del paziente in dialisi ad 1 e 5 anni è dell’86% e del 41%
rispettivamente ed aumenta con il trattamento del carcinoma prostatico (134). Dei tumori diagnosticati nei pazienti in lista di attesa, il 70% sono confinati e responsivi a terapia curativa, chirurgica e radiante.
Alla luce di questi dati sembra che l’attesa dei 5 anni, sia molto rischiosa per il paziente. Il limite dello studio stava nell’incapacità di diagnosticare precocemente il carcinoma e nella mancanza di variabili predittive di recidiva rappresentate dallo stadio clinico- patologico, dal valore del PSA e dal Gleason score.
Nel 2001 Kattan et al. hanno sviluppato dei nomogrammi per stimare la probabilità individuale di recidiva della malattia, a distanza di cinque anni dall'intervento di prostatectomia radicale (129). Le variabili considerate nel nomogramma sono state il tipo istologico, la dimensione del tumore, lo stadio TNM e le caratteristiche cliniche alla presentazione. I dati hanno dimostrato che i loro nomogrammi riescono a predire l’evoluzione della malattia in un arco di tempo di 7 anni post- chirurgia.
Lo stabilire quali siano i pazienti in dialisi a bassa mortalità, è comunque molto difficile, perché tutti i pazienti sono affetti da co-morbidità multiple che li espongono ad un rischio maggiore di morbilità e mortalità.
Anche in questa popolazione la scelta del trattamento deve essere individualizzata sulla base dell’età del paziente, delle condizioni cliniche e dello stadio della malattia.
Per il carcinoma prostatico localizzato, è suggerita la terapia radiante o quella chirurgica, mentre nei pazienti in dialisi è indicata soprattutto la prostatectomia radicale, perché la risposta del tumore alla radioterapia non essendo immediata può non dare regressione per un lungo periodo, ritardando l’esecuzione del trapianto.
Tumore del testicolo
Epidemiologia ed eziologia nella popolazione generale
Le neoplasie testicolari sono relativamente rare, rappresentando l’1-2% di tutte le neoplasie maligne. La maggior incidenza di questa neoplasia è nei paesi scandinavi, mentre risulta minima in Oriente. In Italia l’incidenza attuale dei tumori germinali testicolari è di 3-4 casi per 100.000 maschi. La frequenza si riduce nella fascia di età compresa tra 20-23 anni ed in proporzione alla precocità del matrimonio. È stata dimostrata una correlazione tra tumore del testicolo e criptorchidismo in circa il 6%
dei casi; con una suscettibilità di sviluppo, di 3 - 14 volte superiore nei soggetti con criptorchidismo non corretto entro il quinto anno di vita È documentata la cancerizzano di 1 su 80 testicoli dislocati in sede inguinale e di 1 su 20 testicoli dislocati in sede addominale.
Altri fattori promuoventi o favorenti la formazione della neoplasia sono la somministrazione di estrogeni alla madre durante la gravidanza, l’atrofia congenita di testicolo o una lesione traumatica o infettiva del testicolo stesso. La familiarità per tali neoplasie è del 2-3% nei tumori bilaterali. Dal punto di vista biologico le neoplasie testicolari sono altamente aggressive, con tempi di raddoppiamento cellulare molto brevi. La diffusione locale si limita di solito all’albuginea ed al funicolo spermatico, mentre l’infiltrazione dello scroto si verifica per apertura iatrogena o rottura del tumore. La diffusione a distanza avviene prevalentemente per via linfatica; nelle stazioni linfonodali localizzate tra T4 ed L1 in particolare nei linfonodi dello spazio interaortocavale precavale e paracavale per il testicolo destro e nei linfonodi premortici per il testicolo sinistro. Poi la disseminazione continua nei linfonodi mediastinici ed sovraclaveari per via ascendente, e nei pelvici ed inguinali per via reflua. Le metastasi per via ematogena sono secondarie a quelle per via linfatica e si estrinsecano a livello polmonare epatico, cerebrale, osseo e cutaneo.Tendenzialmente la sintomatologia è inesistente o vaga e per questo motivo deve essere sospettata sempre la presenza di neoplasia e devono essere condotte indagini di laboratorio.
La conferma diagnostica è ottenibile solo mediante l’esplorazione chirurgica e, l’inguinotomia esplorativa, che consiste nella orchifunicolectomia con clampaggio precoce del peduncolo vascolare e con il prelievo bioptico.
Incidenza nei pazienti trapiantati
I tumori del testicolo in questa popolazione sono rari e non esistono dati in letteratura che ne dimostrino un reale aumento. La recidiva dopo trapianto è del 5%, come riportato nel Cincinnati Transplant Tumor Registry e non sono riportati casi mortali .
Tumore del pene
Epidemiologia ed eziologia nella popolazione generale
Il carcinoma del pene é una neoplasia rara in Europa, dove ogni anno vengono diagnosticati circa 4.000 nuovi casi, pari a meno dello 0.5% di tutti i casi di tumore.
Tuttavia, in Malta, Spagna, Svizzera e Francia e l'incidenza è superiore, e in Uganda e in Brasile l’incidenza annua supera 4/100000/aa. Nella popolazione maschile di età pari o superiore a 70 anni, il tasso di incidenza annua è compreso tra 2 e 3 per 100.000. Circa il 60% delle diagnosi riguarda uomini intorno ai 65 anni . In Europa la sopravvivenza con carcinoma del pene, è pari all’87 % ad 1 anno e al 69% a 5 anni mentre in Italia a 5 anni è di oltre il 70% costituendo un dato superiore alla media europea. La sopravvivenza relativa a cinque anni aumenta lievemente con l'età, passando da 71% nel gruppo più giovane (15-45 anni) al 67% per la 75 anni.
Sebbene non sia stato ancora individuato uno specifico meccanismo di degenerazione maligna , lo smegma , per l’ irritante ed il Papillomavirus sono stati riconosciuti come possibili agenti eziologici . Sono stati riscontrati i sottotipi HPV-16 o HPV-18 . Il 25% dei pazienti con carcinoma del pene ha un’anamnesi positiva per fimosi .Altri possibili fattori di rischio comprendono le malattie infiammatorie croniche come la balanopostite e il lichen sclero atrofico e i trattamenti con raggi ultravioletti A (PUVA) L'associazione tra carcinoma del pene e fumo è stata ampiamente documentata e sembra essere dose-dipendente.
I pazienti con Lichen Sclerosus nell'8 % dei casi possono sviluppare un tumore del pene. Il LS è una malattia cutanea a carattere infiammatorio cronico, che origina dal prepuzio e si estende al meato uretrale e all’uretra.
Tumori anogenitali nei pazienti trapiantati
I carcinomi della regione anogenitale costituiscono il 2.5%-2.8% dei tumori che insorgono nei pazienti trapiantati . Le neoplasie anogenitali nei pazienti trapiantati hanno una frequenza doppia nelle donne, rispetto agli uomini e nei bambini rappresentano la quarta neoplasia (135). In letteratura non ci sono dati che accertino
l’aumentato rischio di tumore del pene nei pazienti con IRT rispetto alla popolazione generale.