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Conclusioni

L'uomo preso in considerazione negli scritti sopracitati, soprattutto nella visione kantiana, è un essere «totalmente al di fuori – si potrebbe dire – dell'orizzonte per il quale non attribuire non solo il futuro, ma nemmeno la storia, e la storia del male, al destino o alla Provvidenza è proposto come un compito della ragione. Questo orizzonte infatti, per quanto giustificato in base all'analogia della natura, è ancora pur sempre un orizzonte di conciliazione, di concordanza con una mappa disegnata dalla parola di Dio»

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. E, nonostante questo orizzonte conciliativo, non è possibile trattare questi esseri come se fossero api o castori per poi ottenerne una «storia sistematica», in quanto essi, presi nel loro insieme, non si comportano assolutamente in maniera istintiva come fanno tutti gli altri animali, ma, al contempo, non agiscono neppure seguendo un piano prestabilito. Sarà compito del filosofo

«tentare se in questo assurdo andamento delle cose umane possa scoprire uno scopo della natura, grazie a cui sia comunque possibile, di creature che si comportano senza un proprio piano, una storia secondo un determinato piano della natura»

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. E proprio la ricerca di

1 L. Calabi, La filosofia della storia come problema, Pisa, ETS, 2008, p. 15.

2 I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, cit., p. 30.

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questo cosiddetto “piano”, che può essere ricondotto a Dio o alla natura (a seconda del vocabolario che si preferisce utilizzare), è anche ciò che, oltre Linné, si propose di fare Hegel nelle già citate Lezioni di filosofia della storia; storia che, agli occhi del filosofo di Stuttgart, non

può che essere unitaria e progressiva, come si richiede ad una storia universale. Questo aggettivo venne utilizzato da Hegel non perché tale

storia debba abbracciare tutto quanto l'accaduto (anzi, quella hegeliana

è una storia fortemente selettiva), ma perché universali sono i valori

che vi si affermano e vi si realizzano. Da qui viene il carattere

orientativo, finalistico, del cammino della storia; in altre parole, del

progresso. E proprio questo valore universale da ricercarsi nel

progresso storico dell'uomo è lo stesso che sta alla base dell'esistenza

del male: la libertà. Ma se Kant identifica tale elemento con la moralità,

ossia con l'obbedienza alla legge morale, Hegel cerca una definizione

meno tautologica e astratta, in modo che in lui la libertà assuma figure

più concrete, anche se inevitabilmente molteplici: libertà di disporre

della proprietà privata, libertà di coscienza e di azione, libertà di

obbedire a leggi che non soffochino tutte queste libertà ma che, anzi, le

difendano e le promuovano. Da qui viene la centralità dell'interesse

hegeliano per lo Stato, il principale organismo chiamato a difendere

tutte queste libertà. Ed è proprio nello Stato che si deve tentare di

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conciliare l'elemento singolo con la specie di cui esso è parte, lo spirito soggettivo con quello oggettivo e con la storia mondiale, in modo che nasca la consapevolezza del fatto che tutto ciò che accadde, accade ed è accaduto è essenzialmente opera di Dio.

Tenendo presente come la dottrina della giustizia di Dio, in un certo senso, possa essere formulata anche separatamente da una giustificazione di Dio, la teodicea moderna arriverebbe ad avere un carattere paradossale poiché essa, per scagionare Dio dall'accusa di ingiustizia per il male nel mondo, elimina Dio e imputa la responsabilità unicamente all'autonomia umana. La negazione dell'esistenza di Dio avverrà, nell'età moderna, proprio per un motivo di teodicea: per poter scagionare Dio da quanto, per esempio, sostenne Nietzsche in Così parlò Zarathustra, ossia che, proprio a causa della Sua compassione

per gli uomini, Dio morì. Quindi la modernità, seguendo questo

discorso, consisterebbe nel passaggio dalla teodicea alla filosofia della

storia, nel senso di un passaggio da una teodicea attraverso

l'ottimismo (come quella di Leibniz) a una teodicea attraverso

l'autonomia, cioè senza Dio, in modo che non sia più possibile

riconoscere l'operato di Dio nelle faccende terrene semplicemente

perché, di tale opera, l'uomo non ha più bisogno. La teodicea è così

diventata progressivamente non funzionale all'uomo (oltre che

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ingiustificabile razionalmente, come sosteneva Kant), rimpiazzata dalla filosofia della storia (umana), con buona pace del tentativo conciliatorio di Hegel.

Tornando all'opera di Leibniz, è stato spiegato come la sua Teodicea non sia un'apologia del mondo e dell'uomo, ma un'apologia di

Dio; essa non argomenta a posteriori una giustificazione dell'esistenza del male, e non può nemmeno giustificare a priori la giustizia di Dio nel permettere il male, ma può solo ricondurre la considerazione a posteriori dell'esistenza del male alla prova a priori dell'esistenza di un Dio giusto e provvidente, e quindi sostenere questa verità di fronte all'apparenza. Per questo, discostandoci per un momento dalla terminologia leibniziana, si può chiamare quella appena esposta

“teodicea a priori”, contrapponendola a una “teodicea a posteriori” che pretende di giustificare il male nel mondo dimostrando l'evidenza della giustizia divina. E, seguendo la posizione di Andrea Poma, si può notare come «nella Teodicea di Leibniz vi sono molti argomenti comuni alle teodicee a posteriori, ma qui essi non sono fatti valere per se stessi, ma solo come argomenti apologetici, legittimati unicamente dalla teodicea a priori»

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.

Il termine apologia è di origine giuridica e Leibniz si adegua a

questo campo, facendo emergere chiaramente tale dimensione, pur

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non ritenendo gli argomenti apologetici dimostrativi in sé in quanto essi si riferiscono a un mistero che non può essere compreso, ma soltanto spiegato e sostenuto. Inoltre, per Leibniz, portare tali argomenti non è assolutamente necessario, bensì supererogatorio: è in tutto e per tutto una concessione al dialogo edificante con l'antagonista. Presa in questo suo significato giuridico la teodicea è la difesa di Dio non solo per quanto riguarda la sua giustizia, ma anche la sua bontà; di conseguenza si può vedere la teodicea come una vera e propria forma istruttoria di una causa, con tanto di accusato, accusatore, difensore e giudice. L'accusato è facilmente riscontrabile in Dio, mentre Leibniz stesso si assume il complicato ruolo di avvocato difensore.

L'accusatore, citato più volte, è Bayle ma, più in generale, è lo scetticismo, a cui si deve aggiungere talvolta lo gnosticismo. E qual'è il motivo di questa accusa contro Dio? Secondo il filosofo di Lipsia tale imputazione è stata «alimentata, come essa è, dall'ignoranza, colma di presunzione, degli uomini, che vorrebbero discolparsi in tutto o in parte a spese di Dio»

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. Quindi gli accusatori di Dio, fidandosi troppo delle proprie capacità, sono mossi esclusivamente da interessi pratici negativi, non dall'amore per la verità, come invece è per Leibniz e per i veri filosofi. Ciò che qui fa l'autore della Teodicea è collegare direttamente le contestazioni a Dio (nella forma dell'intenzione

4 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte prima, p. 152.

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accusatoria) alla mancanza di amore per l'Onnipotente. Inoltre tale amore per Dio è rappresentato dalla vera fede, e dunque gli accusatori di Dio sono uomini assolutamente privi di essa.

Per quanto invece riguarda il giudice tale ruolo viene affidato alla ragione. L'accusatore, soprattutto lo scettico, muove infatti la sua accusa contro Dio di fronte alla ragione, confermando che, se una causa contro Dio fosse legittima, questa non potrebbe essere discussa che di fronte ad essa. E il difensore ha dichiarato, nel suo Discorso preliminare sulla conformità della fede con la ragione, di riconoscere

come legittima tale discussione «davanti al tribunale della ragione»

5

.

Questa affermazione è però insufficiente: chi deve impersonare la

ragione giudicante nel dibattimento della causa? Da una parte

l'accusatore pretende di essere lui stesso colui che parla in nome della

ragione, e quindi anche colui che emette il verdetto; il difensore, d'altro

canto, pur non negando l'autorità giudicante della ragione, non la

riconosce all'accusatore, perché costui non è il rappresentante della

vera ragione, ma solo di quella apparente. Tuttavia il difensore non

pretende di per sé il ruolo di giudice, ma vuole solo sostenere la

giustizia di Dio e la credibilità della fede senza emettere alcun verdetto,

perché in realtà la sua vera convinzione, che costituisce anche il suo

argomento di fondo contro l'accusatore, è che la ragione umana non

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può comprendere, ma soltanto sostenere; quindi accusare Dio, prima che essere ingiusto, è illecito, è un lusso che essa non si può permettere. Così infine Dio solo, che appare in primo luogo come accusato, può assumersi la responsabilità di giudice, che proprio per questa illegittimità umana punisce i suoi accusatori con la disperazione e premia i suoi difensori con la felicità. Ancora una volta qui si conferma il carattere fondamentale della teodicea a priori di Leibniz:

con essa la ragione umana non pretende di giudicare sul mistero della giustizia di Dio, nemmeno nel senso di provarla, perché essa si riconosce incapace di questo; il suo ruolo è soltanto quello di sostenere la fede nella giustizia di Dio, fornendo motivi di credibilità.

Un compito, questo, che anche Linné terrà in considerazione quando prenderà gli appunti per comporre quella che diventerà la Nemesis Divina. L'uomo però, più che della bontà e degli altri attributi

divini, deve essere consapevole della nemesi di Dio, e proprio a questo

scopo il botanico svedese, dopo aver trovato moltissimi casi che

rispecchiavano l'operare della provvidenza divina in tutti gli altri regni

della natura, collezionò i vari casi “storici” riguardanti le questioni

umane. Linné non voleva sostenere una teoria piuttosto che un'altra, e

il suo status di scienziato lo facilitava sicuramente da questo punto di

vista: in quanto libero pensatore non ha dovuto inserire il proprio

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pensiero in qualche filone teorico già esistente, e non ha nemmeno dovuto cercare di conciliare le proprie teorie e riflessioni con l'applicazione pratica di esse; tantomeno ha dovuto rendere coerenti tali riflessioni con un sistema più ampio, come dovette invece fare Leibniz. Ricordiamo infatti lo scopo principale per il quale è stato creato questo scritto: Linné voleva soltanto fornire il proprio figlio di una sorta di etica prescrittiva, non aveva assolutamente intenzione di creare un sistema teorico basato sulla nemesi di Dio.

Inoltre Linné, a differenza di Hegel e Kant, i quali fanno un

discorso abbracciando tutto il genere umano, preferiva dare conto della

centralità della singola persona di fronte al fato o alla provvidenza

divina, i quali dovevano fungere da garanti per gli specifici dettami

morali da seguire. Non erano quindi i grandi eventi generali ad essere

investigati, ma le azioni e i pensieri dei singoli inseriti nelle specifiche

situazioni concrete. Questo metodo è da considerarsi come il diretto

corollario del punto focale sul quale è basata la teodicea linneana,

ossia il principio per il quale la profonda conoscenza dell'uomo verso

se stesso non deriva dall'esplorazione dell'universo o delle leggi

generali della natura, ma dall'attenzione alle potenzialità morali di ogni

singolo individuo. Probabilmente il botanico svedese decise di

indirizzare in questo senso il suo lavoro per poter comunicare meglio, e

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più in profondità, i suoi avvertimenti, quindi per raggiungere ogni singolo individuo e riuscire a farlo partecipe di questa sua consapevolezza. Il suo scopo era comunque quello di “toccare il cuore”

del figlio, non di fare propaganda per conto di Dio.

Infine, se Hegel identifica la teodicea con «l'evoluzione e il divenire reale dello spirito», secondo Leibniz la storia stessa ha, per l'intero genere umano, un ruolo istruttivo che definire fondamentale pare un eufemismo: «Lo scopo principale della storia, così come della poesia, dev'essere insegnare attraverso esempi la prudenza e la virtù, e, successivamente, far conoscere il vizio in modo tale da suscitare avversione e da aiutare ad evitarlo»

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. L'uomo, quindi, potrà trovare nella storia l'arma più potente a sua disposizione per migliorare se stesso, con o senza la supervisione di Dio.

6 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 291.

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