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Collana Medico Giuridica SUB IUDICE II ed. Acomep, 2000

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Academic year: 2022

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La responsabilità penale nel lavoro medico-chirurgico d’équipe

Prof. Gian-Aristide Norelli*- Dr.ssa Antonella Giannelli* - Dr.ssa Elena Mazzeo**

Il tema della colpa medica, o meglio della “ripartizione" della colpa medica nel lavoro d’équipe, ha acquisito crescente attualità in quanto, come già si è avuto modo di dire qualche anno addietro,(1) é divenuta “evenienza addirittura eccezionale l’attività sanitaria intesa come prestazione di carattere individuale, sempre più configurandosi l’atto medico come la risultante di un insieme di azioni concorrenti ad un fine unitario, rappresentando ciascuna di esse quasi “la tessera di un mosaico” non sempre dotata, peraltro, di piena autonomia e di specifica individualità di esecuzione”. L'attività sanitaria, in altri termini, univocamente finalizzata al mantenimento ed al recupero dello stato di salute, è vieppiù scandita da atti apparentemente singoli e tra loro disgiunti, ma in realtà concatenati in maniera tale da rendere sfumata ogni autonoma professionalità, delineandosi con frequenza un’attività che comporta contestuali prestazioni diagnostiche o terapeutiche da parte di un gruppo di sanitari che svolgono insieme, ma con compiti differenziati, un determinato trattamento medico-chirurgico, e che è stata con ragione definita attività d’équipe. Analoga definizione, peraltro, pur con diversa sfumatura, può darsi alle plurime - e non necessariamente contestuali - prestazioni cui è sottoposto un assistito all’interno di una struttura sanitaria ove intervengano operatori “con ruoli diversi ed in tempi diversi”, anche se un'autorevole dottrina(2) preferisce a tale evenienza riservare il termine più specifico di organizzazione interna dell’ente, limitando l’accezione di équipe solo alla prima ipotesi.

Soffermandosi brevemente sul tema e pur condividendo le perplessità formulate dall'illustre Autore sull’opportunità di mantenere concettualmente distinti i due ambiti, si ritiene, tuttavia, il concetto di "équipe" pragmaticamente estendibile anche all'ipotesi

* Istituto di Medicina Legale – Università di Firenze.

** Istituto di Medicina Legale – Università di Perugia.

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del medico cui sia affidato in termini diagnostico-terapeutici l'assistito e degli specialisti che intervengano in forma di attività di consulto, di consulenza o di approfondimento strumentale, ove pur si crea una complessa e multiforme attività sanitaria non necessariamente caratterizzata dalla contestualità di intervento. Posto che la composizione dell'équipe medica risulta, dunque, la più varia, a seconda delle necessità dell'intervento, i rapporti intercorrenti fra i componenti dell'équipe medesima, definita nei termini estensivi che si sono sopra annotati, possono distinguersi in:

a) rapporti fra il personale medico ed il personale non medico;

b) rapporti fra medici legati da vincolo gerarchico;

c) rapporti fra medici operanti su un piano di parità;

d) rapporti fra il capo équipe ed i suoi sottoposti gerarchici, i colleghi parigrado ed il personale non medico.

Del tutto evidenti si mostrano la complessità e la delicatezza del problema che sorge in caso di esito non favorevole dell’intervento, allorché debba individuarsi la responsabilità penale dei singoli componenti l’équipe medico-chirurgica, come complesso é ricercare l'astrazione di un principio giuridico generale che soddisfi ogni esigenza nella riferita diversità casistica, ove sottili sfumature talora esasperano l'assoluta singolarità delle fattispecie.

Per affrontare il tema con un criterio il più possibile unitario, la dottrina giuridica ha, nel corso degli anni, elaborato varie teorie, ciascuna della quali, giova subito premetterlo, non può soddisfare appieno la ricerca di una metodologia obiettiva ed esauriente per l'indagine:

a) la prima teoria, di matrice civilistica, muove dall’assunto che il danneggiato deve essere comunque risarcito, per cui, ad ogni modo, risponde il gruppo nel suo

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complesso (3); bene da un punto di vista civilistico, operando in questa materia criteri che individuano l’interesse “nella tutela del danneggiato che si deve verificare al di là della individuazione di un colpevole certo”. A sostegno di tale teoria ricorrono l’art.

2055 c.c., che prevede la responsabilità solidale, nonché gli artt. 1228 c.c.

responsabilità per fatto degli ausiliari – e 2232 c.c. - esecuzione dell’opera. Difettosa, peraltro, ne risulta l'impostazione da un punto di vista penalistico, in quanto contrastante con il principio costituzionale espresso dall’art. 27 Cost., per cui la responsabilità penale è personale, e da cui discende la necessità dell’esistenza di un nesso di causalità fra la condotta di un soggetto e l’evento;

b) per la teoria del “non affidamento” é da presumere uno stretto controllo del capo équipe su colleghi parigrado, oltre che sui subordinati gerarchicamente e sul personale infermieristico (4). Tale teoria, peraltro, é attualmente ritenuta desueta, poiché connessa inevitabilmente all’impostazione organizzativa degli anni in cui fu proposta;

anche se con sorpresa è resa attuale da una recente decisione giurisprudenziale (5);

c) per la teoria dell’affidamento in senso stretto devono essere definite le sfere di competenza dei singoli partecipanti all'èquipe, ognuno rispondendo del suo specifico settore (6).

Quest’ultima teoria, di cui già si é detto in termini di pratica operatività, ancorché temperata da alcune eccezioni, è quella predominante sia nella dottrina giuridica e medico-legale che nella giurisprudenza, muovendo dal presupposto che, essendo, senza dubbio alcuno, lo scopo dell’attività d’équipe la tutela della vita e della salute del soggetto sottoposto all’intervento, per raggiungere questo scopo ciascun operatore deve concentrarsi sul proprio operato e confidare (in tal senso affidarsi ) sul corretto agire dei colleghi e collaboratori.

Il principio dell’affidamento (7) presuppone i cosiddetti “obblighi divisi” fra più soggetti, nel senso che ciascuno di essi è tenuto all’osservanza delle rispettive norme

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cautelari, e si fonda sul principio dell’autoresponsabilità, per cui ciascuno risponde dell’inosservanza di esse e ciascuno può e deve contare sull’altrui osservanza; ma se ciò comporta in via primaria solo la diretta responsabilità per l’inadempimento del proprio

“dovere diviso”, in via secondaria ne consegue l’obbligo di adottare le misure cautelari per ovviare ai rischi dell’altrui scorrettezza.

Applicando tale principio al lavoro medico-chirurgico in équipe, fermo restando che ogni partecipante deve rispondere solo del corretto adempimento dei doveri di diligenza e di perizia inerenti ai compiti che gli sono stati affidati, o comunque gli competono, posto che solo in tal modo ciascun membro del gruppo è libero di adempiere in modo qualificato e responsabile alle proprie mansioni, è da mettere in evidenza che esistono tuttavia due eccezioni a tale regola generale, e precisamente:

a) l’obbligo per tutti i membri dell’équipe di attivarsi quando ragioni oggettive o soggettive facciano dubitare del fatto che il terzo tenga un comportamento conforme a diligenza;

b) l’obbligo per il capo équipe di coordinamento e di controllo. È di tutta evidenza, dunque, che il problema della responsabilità penale del singolo partecipante all’équipe deriva in gran parte dal contenuto e dai limiti delle eccezioni su indicate, in quanto nell'accettazione esasperata di tali doveri (controllo incrociato dei membri, coordinamento e controllo da parte del capo équipe) si potrebbe giungere addirittura a ribaltare la teoria stessa dell’affidamento. Per quanto riguarda poi la figura del capo équipe, la situazione era già anni addietro resa complessa dall’ineludibile rapporto gerarchico all’interno dell’organizzazione ospedaliera, e più capillarmente all’interno dei singoli reparti o divisioni, così da indurre, in maniera a dir poco semplicistica, ad individuare in ogni ipotesi di contenzioso il coinvolgimento della figura del primario, gerarchicamente responsabile dell’attività del reparto, anche nell’evenienza di generica delega di questi ad altri; il successivo intento del D.P.R. 761/1979, di

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autonomizzare il personale del Servizio Sanitario Nazionale, sembra naufragare nella difficoltà di perseguire un difficile contemperamento fra le responsabilità dei singoli operatori e quella di colui cui è demandato anche l’obbligo organizzativo della struttura.

Secondo la teoria dell’affidamento, all’interno dell’equipé plurispecialistica, al chirurgo capo-equipé non può muoversi alcun rimprovero se l’errore di coloro che con lui collaborano si verifica in una situazione di normalità, cioè che non “dà ragionevole motivo al chirurgo di dubitare dell’operato diligente dei suoi collaboratori”, mentre se quell’errore è dovuto ad una situazione di difficoltà conosciuta o conoscibile da parte del chirurgo capo-équipe, la responsabilità colposa per l’esito infausto dell’intervento potrà gravare anche su di lui.

Quanto detto risulta sottolineato da una sentenza della Corte di Cassazione (8) che riporta un caso emblematico di corresponsabilità fra chirurgo ed anestesista e la cui motivazione, inedita, è assai interessante.

Il caso riguarda la morte di un bambino cardiopatico, in corso di anestesia per intervento chirurgico per idrocele al testicolo sinistro. La cardiopatia congenita, diagnosticata precedentemente in un centro di cardiochirurgia, era stata segnalata dai genitori al chirurgo, il quale non aveva prestato la dovuta attenzione al problema, tanto da non inserire la documentazione in cartella clinica e da non avvertire l’anestesista.

Dalla necroscopia risultò un chiaro nesso di causalità fra la morte del soggetto, determinata da shock cardiogeno, e la somministrazione della succinilcolina, prodotto assolutamente non adatto al quadro clinico del soggetto.

Sia la difesa del chirurgo che quella dell’anestesista invocarono il principio dell’affidamento: il primo (chirurgo) negando la propria personale responsabilità, ritenendo il decesso addebitabile unicamente all’errore dell’anestesista, il quale avrebbe dovuto informarsi personalmente con i genitori del quadro clinico del minore e di

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conseguenza scegliere un anestetico diverso, o consigliare al chirurgo di astenersi dall’intervento, se non “urgente”, per le possibili complicanze derivanti da un trattamento anestesiologico; il secondo (anestesista) addebitando tutta la responsabilità al chirurgo capo-èquipe, che negligentemente aveva omesso di informarlo del quadro clinico, che lui solo conosceva in quanto lui solo aveva avuto contatti con i genitori del minore, suoi clienti. La Corte confermò la condanna di ambedue i professionisti, rimproverando all’anestesista di essere venuto meno ai suoi elementari doveri di diligenza, non sottoponendo il paziente a visita anestesiologica per accertare quale fosse la storia clinica dello stesso e per modulare su questa la scelta anestesiologica; ed al chirurgo superficialità e negligenza nel non aver tenuto in debito conto le informazioni ricevute, non informando l’anestesista di una così grave malformazione. Se il chirurgo si fosse comportato diligentemente avrebbe eliminato l’incidenza causale del proprio comportamento dalla negligenza dell’anestesista; con una informazione corretta sulla malformazione cardiaca, infatti, il principio dell’affidamento avrebbe avuto tutta la sua rilevanza, perché nulla sarebbe stato imputabile al chirurgo, e solo l’anestesista, in caso di errore, sarebbe stato responsabile del decesso, rientrando nella sua autonomia e responsabilità di specialista usare un anestetico idoneo e compatibile con le condizioni pregresse. In questo caso il chirurgo avrebbe potuto fare “affidamento” sulla competenza dell’anestesista.

Sulla stessa linea la decisione della Corte d’Appello di Milano (9), che ha escluso la responsabilità di un chirurgo urologo, affermando che il capo-équipe, in mancanza di una situazione anomala di trasparente evidenza, si era correttamente fidato della valutazione del rischio anestesiologico compiuta dagli specialisti in materia. Anche in questo caso era presente una complessa situazione cardiologica, peraltro annotata in cartella clinica, per cui gli anestesisti ne erano o ne dovevano essere perfettamente a conoscenza.

Questo giudicato è importante perché viene a ribaltare la sentenza pretorile, che

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invece aveva condannato il chirurgo urologo, ritenendo che a lui competesse l’intero rischio operatorio, ivi compreso il rischio anestesiologico, dilatando in tal modo il contenuto del potere di controllo, da svuotare di significato la teoria dell’affidamento ed applicando, invece, la teoria del “non affidamento”, sopracitata.

Inoltre, fermo restando che la responsabilità penale deve analizzarsi nell’ambito del contenuto e dei limiti del dovere di coordinamento e di controllo sul personale medico e non, è in particolare da rilevare che non esistono norme specifiche che codifichino il comportamento del personale di sala operatoria (10), ove con maggiore frequenza ricorrono le ipotesi di responsabilità in équipe, ma anche che ciò non significa che sia impossibile individuare la persona responsabile di determinati atti (ad es. della conta dei ferri e delle garze), il cui abbandono sovente evoca ipotesi di colpa professionale per omissione. È ipotizzabile infatti che in una équipe chirurgica il capo équipe, prima di iniziare l’atto operatorio, possa e debba organizzare l'attività dei collaboratori - dovere di coordinamento - e quindi possa lui stesso individuare un infermiere di sala quale responsabile del conteggio finale degli strumenti. Secondo una corrente interpretazione giuridica, peraltro, neppure è sufficiente a liberare da ogni responsabilità penale il chirurgo capo-èquipe l’individuazione di un responsabile del conteggio dei ferri e delle garze, ma è doveroso chiedere conto all’addetto dell’avvenuto riscontro ed addirittura, secondo taluni Autori, di pretendere una sorta di delega scritta, in forma d’ordine di servizio, accettata dall’incaricato. È indubitabile che l’indicazione debba essere ufficializzata e che al chirurgo (o ad un suo delegato, nel caso più volte accaduto che il secondo operatore porti a termine l’intervento) competa l’onere, al termine dell’intervento, di controllare - dovere di controllo - che il compito sia stato esattamente eseguito. In senso conforme la giurisprudenza (11) ha più volte affermato la responsabilità sia del chirurgo che dell’infermiere strumentista per l’omesso riscontro delle garze al termine dell’atto operatorio.

Negli anni passati qualche aspetto meno equivoco poteva discendere dalla

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considerazione del rapporto esistente fra figure professionali non carismate dal medesimo ruolo professionale ed istituzionale; in altri termini, l'obbligo di sorveglianza, e quindi di responsabilità, quanto meno indiretta, del medico, sembrava in passato emergere con chiarezza nei confronti del personale non medico, posto che, come si disse allora, “gli obblighi di sorveglianza che competono al responsabile del reparto o al sanitario che agisce in sua delega necessariamente comportano anche il dovere di assistere il collaboratore non medico negli atti in cui ha podestà, non in forma autonoma, ed é possibile per lo più discernere le circostanze in cui un mancato controllo é causa del comportamento errato da quelle in cui la responsabilità é invece a totale carico del singolo operatore” (12). Ciò trovava riscontro normativo nel Regio Decreto n. 1265 del 27 luglio 1934, che, nell'individuare le professioni sanitarie ausiliarie, poneva queste ultime in una posizione sostanzialmente subordinata rispetto all'attività sanitaria principale propria del medico ed a questa vincolata non solo da una statuizione gerarchica, ma soprattutto in termini di autonomia operativa e decisionale, essendo sostanzialmente interdetto all'infermiere professionale o all'ostetrica l'attività diagnostica essenziale all'interno della struttura ospedaliera, ed indicandosi in termini precisi di mansionario le attività che a tali figure professionali erano da riservarsi in forma autonoma; pur permanendo in ombra taluni ambiti di confine, connessi a formule ambigue quali "sotto indicazione specifica del medico di reparto", ovvero "su prescrizione e sotto controllo medico", che confondevano i termini del rapporto fra il personale medico e quello paramedico, in riferimento soprattutto all'obbligo o meno di presenza del primo.

Con la legge n. 42 del 26 febbraio 1999, abrogativo della denominazione "professioni sanitarie ausiliarie", indispensabile corollario ai decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali, il personale infermieristico, tecnico-sanitario e della riabilitazione, secondo il disposto normativo, ha acquisito una maggiore autonomia e professionalità nei confronti degli altri operatori ed anche del medico, tanto che il processo assistenziale

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mostra di svilupparsi tramite soggetti le cui funzioni vengono sempre più individuate, ma anche integrate e rese concorrenti nel conseguimento dello scopo.

Non certo di ausilio all'individuazione degli obblighi é stata l'abrogazione dei mansionari, prima previsti per ogni singola professionalità, che, pur con tutti i limiti connessi, come si é detto, ad espressioni variamente interpretabili, quanto meno in linea di massima indicavano e circoscrivevano competenze ed operatività legittimamente esplicabili, relegandosi, fra l'altro, a casi sporadici, la previsione di cui all'art. 348 c.p.

(esercizio abusivo della professione). In assenza di specifiche disposizioni di legge, invece, ad indicare l'ambito di attività delle nuove figure professionali, sempre più coinvolte nella complessità del lavoro di équipe, é quanto mai opportuno, in termini di responsabilità professionale, distinguere fra le mansioni autonome e quelle esecutive proprie agli specifici profili professionali, posto che, se é vero che tali professionisti hanno acquisito, con l'istituzione degli specifici diplomi, una qualificazione ed una competenza che li rende autonomamente idonei anche alla prescrizione di taluni atti, per lo più l'autonomia professionale ne investe l'esecuzione, permanendo per il medico, all'interno dell'équipe, il dovere e la funzione di individuare ed assegnare le funzioni specifiche, secondo l'impostazione e l'interpretazione diagnostica che sono fondamento essenziale dell'atto medico. Sì che, pur essendo ogni professionista libero, in virtù della propria qualificazione ed autonomia culturale, di eseguire gli atti di propria competenza nel modo che ritiene più idoneo alla fattispecie, questi dovrà prestarsi, in una visione programmatica dell'intervento, ad eseguire quanto indicato dal capo équipe, così da impedire, da un lato, uno spreco di energie professionali non utili nella specifica evenienza e, dall'altro, potenziandosi al massimo l'intervento di ciascun professionista, secondo uno schema di intervento programmato (attività esecutiva), nella fiducia vicendevole degli operatori, fermo restando, se del caso, l'obbligo di sorveglianza e correzione per il capo équipe, in riferimento ad atti, ovviamente, per i quali egli stesso abbia specifica competenza.

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In tale dimensione, allora, assumono valore del tutto peculiare il principio giuridico dell'affidamento, della divisione degli obblighi e dell'autoresponsabilità, essenziali per l'individuazione delle singole funzioni all'interno del lavoro di équipe, essendo la divisione degli obblighi presupposto essenziale e subordinante all'affidamento ed all'autoresponsabilità. Se, infatti, per affidamento può genericamente intendersi "la fiducia" che deve riporsi nelle altrui capacità a svolgere una funzione autonoma e legata alla professionalità individuale di chi sia chiamato ad assolverla, e per autoresponsabilità la consapevolezza delle proprie potenzialità, conoscenze, esperienze e cultura, é evidente che tali condizioni hanno come preciso presupposto l'autonomia funzionale del compito e del ruolo operativo all'interno dell'équipe. Indiscutibile, semmai, é la necessità che all'interno dell'équipe sia individuabile la figura cui é demandato il coordinamento e l’organizzazione dell'équipe medesima, sia in termini di distribuzione dei compiti, sia di responsabilità diretta nei confronti dell'assistito per ciò che attiene la scelta e la sequenza con cui le singole professionalità sono talvolta chiamate a intervenire previa richiesta di accertamenti, di consulenze, ecc.

Tale figura può istituzionalmente individuarsi in colui che ricopre le funzioni primariali o che da questi sia delegato, non venendo meno il dovere "in eligendo" e "in vigilando" di più antica memoria, per gli ambiti in cui il capo équipe assegna ad altri funzioni che potrebbe assolvere egli stesso, e che ne limitano la responsabilità proprio in quanto chi l'assume sia professionalmente in grado di espletarla autonomamente e ad esso il delegante possa e debba, dunque, con tranquillità "affidarsi". Ciò che quindi risulta, e non solo in termini teorici, sostanzialmente modificato in termini di sorveglianza del capo-équipe, é il presupposto della fiducia (affidamento) nei confronti dei collaboratori, sovvertendosi “quello che, sviluppato nella classica concezione della responsabilità colposa, sul modello dell'individuo che agisce isolatamente e quindi postulando su una metodica sfiducia del capo nei confronti degli altri membri dell'équipe (finalizzata ad impedire che costoro si comportassero in modo imperito, imprudente o

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negligente) risultava evidentemente di ostacolo al corretto svolgimento dell'attività sanitaria sia per la consequenziale esasperazione dei doveri di diligenza di ogni singolo partecipante ai lavori di gruppo, sia per l'immancabile o quantomeno inopportuna distrazione che siffatti compiti di controllo non potevano non indurre sul chirurgo” (13).

Ogni collaboratore é quindi tenuto ad attenersi alle disposizioni impartite, secondo il principio definito da May T. (14) dell'autorità razionale, ovvero “l'autorità per cui la richiesta di accoglimento di un ordine é giustificata da adeguata motivazione”; principio valido nel rapporto medico - personale non medico, come nel rapporto inverso, per cui, ove l'incarico assegnato sia palesemente incongruo, vale il conseguente dovere dell'incaricato di astenersi dall'eseguirlo. In altri termini, deve trattarsi di un ordine legittimo, formulato in base a chiari presupposti tecnico-scientifici, in assenza dei quali l'incaricato può e deve negare la propria disponibilità ed adesione, non essendo sufficiente per il rifiuto l'opinabilità o divergenza soggettiva sulle modalità del trattamento, fermo restando il presupposto giuridico e giurisprudenziale che vige la responsabilità e la colpa anche del collaboratore che si presti ad eseguire, magari in forma corretta, un'indicazione che sia tecnicamente e scientificamente errata.

Diverse argomentazioni ineriscono il caso in cui il capo équipe assuma forme di responsabilità inerenti la scelta dell'operatore o il controllo sul suo operato, sussistendo per il primo aspetto il dovere di scegliere tra soggetti competenti e per il secondo l'obbligo di vigilare sull'eventualità dell'errore, pena, in entrambi i casi, la sussistenza di responsabilità solidale. È il caso, ad esempio, del chirurgo che deleghi ad altri il completamento di un atto operatorio e questi ne risulti incapace, poiché in tali evenienze il primo dovrà essere consapevole della competenza, dell'esperienza e capacità tecnica del secondo, solo in tal modo potendo affidare alle sue cure la persona assistita.

Autorevole dottrina giuridica sostiene infatti che “... se il medico non é tecnicamente in grado o non é sufficientemente preparato per eseguire determinati interventi, le terapie o le diagnosi, il primario é tenuto a non affidargli tali compiti ed a scegliere colleghi

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preparati ed a compiere lui stesso l'intervento” (15). Ed analogamente, allorché sia delegato un atto caratterizzato dal presupposto dell'autonomia, dovendone rispondere, in caso di errore, sia il delegato che lo ha commesso, sia il delegante che non lo ha evitato o non lo ha saputo correggere, un aspetto che talora ricorre nella pratica medico-legale della responsabilità in équipe riguarda l'ipotesi in cui il collaboratore possa e debba rendersi conto dell’errore, incombendo su quest'ultimo anche l'obbligo, ove possibile ,di provvedere a risolvere il danno cagionato, pena il risponderne con lui in solido. Del resto, é giurisprudenza assolutamente conforme talora, ponendosi, peraltro, problemi pratici che direttamente investono l'organizzazione ospedaliera.

Si consideri, infatti, la seguente, emblematica massima: “Nel caso di evento colposo determinato da negligenza nel corso di un’operazione chirurgica, va ritenuto responsabile sia il chirurgo, principale esecutore dell’intervento, che il suo assistente, poiché quest’ultimo, nella sua qualità di collaboratore e potenziale continuatore dell’operazione, ha il compito di vigilare sulla sua intera esecuzione.” (16); essendovi chiara dimostrazione che il carattere (ausiliario) del collaboratore, non é tenuto in conto giurisprudenziale, assegnandosi, peraltro, a chi interviene in modo solo parziale nell'atto, responsabilità sostanzialmente non dissimile da colui che oggettivamente gestisce l'atto medico. Ben oltre, altresì, si é spinta la massima giurisprudenza, ascrivendo, come peraltro ha da sempre sostenuto la dottrina medico-legale, la colpa per imprudenza al sanitario che, consapevole delle carenze e dei limiti che incombono sulla struttura in cui opera, non provvede ad indirizzare l'assistito ad un centro più e meglio attrezzato, per evitare un danno che non é organizzativamente in grado di prevenire. Quid iuris?

Tuttavia, in riferimento al collaboratore che, ritenendo inadeguata la struttura sotto il profilo organizzativo, disattende l'ordine del dirigente cui, in effetti, compete l'obbligo di ottemperare il servizio all'idoneità strutturale. Venendosi, indubbiamente, a porre problemi non agevoli per armonizzare da un lato il criterio di responsabilità soggettiva pendente sul sanitario e quello, dall'altro, di subordinazione ai compiti organizzativi, la

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cui incorrispondenza obiettiva non é sempre agevole dimostrare, connotandosi di un aspetto particolare dell'attività in équipe, in cui il principio dell'affidamento e quello di gerarchia istituzionale si embricano talora, confondendo peraltro la possibilità interpretativa dei singoli comportamenti.

Di particolare interesse ed attualità, nella prospettiva della responsabilità in équipe, appare la posizione dello specializzando, del medico cioè abilitato all'esercizio della professione medico-chirurgica, ma non in possesso della qualifica di specialista e, tuttavia, sulla base del regolamento didattico, tenuto a svolgere attività anche specialistica, come “assistente in formazione”, anche in prima persona. Il DL 257/91, attuativo della direttiva CEE 82/76, infatti, all'art. 4, afferma che la formazione del medico specialista a tempo pieno “implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche ... ivi compresa la guardia e l'attività operatoria per le discipline chirurgiche nonché la graduale assunzione dei compiti assistenziali ...” (ponendosi, inoltre, fra i compiti propri dello specializzando, l'esecuzione di atti specialistici anche complessi, come condizione pregiudizievole all'acquisizione del titolo - esemplificazione in base agli statuti). Secondo detta disposizione, quindi, lo specializzando ha il compito istituzionale di partecipare attivamente alle attività concrete della struttura, al fine di completare, con attività pratiche, le conoscenze teoriche, ed é evidente, in tale fattispecie, come lo specializzando, per completare il corso di studi, interverrà anche come primo operatore, in particolare nelle discipline chirurgiche, sempre, però, supportato nell'intervento e sorvegliato dal proprio tutor e dal responsabile della Scuola di specializzazione, nonché dal dirigente dell'équipe tecnico-professionale. In tale caso il principio dell'affidamento può ritenersi relativo, posto che il tutor, cui é affidata la preparazione dello specializzando, può confidare solo parzialmente, per definizione, sulla preparazione del proprio allievo, che quanto meno deve ancora affinare la propria preparazione teorica, oltre che pratica. Nel caso in cui, pertanto, si realizzi un errore dello specializzando, non corretto dal tutor, sarà necessario stabilire se l'errore é

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inescusabile anche per un medico non specialista, per cui lo specializzando risponderà con il tutor delle conseguenze dannose del proprio atto, ovvero l'errore risulti scusabile per uno specialista medico in formazione, nel qual caso risponderà del danno il solo tutor. Nel caso in cui l'errore dello specializzando consegua ad una specifica indicazione del tutor, sarà necessario stabilire se lo specializzando era in grado di discernere l'indicazione errata portandola a compimento, per una forma di subordinazione nei confronti del tutor, per cui entrambi risponderanno delle conseguenze dannose, ovvero lo specializzando, privo ancora di complete conoscenze tecniche, confidando sull'indicazione del tutor, ha involontariamente cagionato il danno con il proprio comportamento, onde l'errore ricadrà per intero in capo al tutor. In tale direzione, del resto, sembra muoversi l'intero consorzio professionale medico, in linea con la dottrina medico-legale, l'uno e l'altra preoccupati che lo specializzando non si trovi in condizioni difficili da gestire in termini di responsabilità personale, ottemperando ad un tempo alle indicazioni normative sulla formazione teorico-pratica da impartire nelle scuole di specializzazione. Si ricorda in proposito ed a titolo di esempio, come il Consiglio direttivo dell'Ordine dei Medici dell'Università di Siena abbia avvertito la necessità di invitare le Università, le Regioni e le USL ad un corretto utilizzo degli specializzandi “i quali debbono partecipare a tutte le attività pratiche compresa la guardia, ma non debbono assumersi responsabilità in prima persona: queste spettano soltanto al personale strutturato che deve sovrintendere a tutte le attività svolte dagli specializzandi ...”; ed in ambito di dottrina, come chi scrive ebbe a sottolineare in un incontro con la rappresentativa degli specializzandi, in preparazione ad indirizzi che tutte le Facoltà hanno successivamente assunto (17 ), : “non vi è dubbio che lo specializzando, nel corso del suo apprendimento e formazione specialistica, assolve il ruolo di discente, ma al tempo stesso, con gradualità corrispondente alla evoluzione formativa, di professionista in grado di assumersi la responsabilità diretta delle mansioni che assolve in prima persona e la responsabilità di quelle che, stante la impossibilità di espletarle

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autonomamente, in quanto privo dei requisiti completi di conoscenza ed esperienza che diversificano segnatamente lo specializzando dallo specialista, deve assumere in compartecipazione con altro soggetto (specialista, appunto) che, nel momento in cui partecipa ad una attività di insegnamento teorico-pratico, svolge di conseguenza una attività tutoriale”.

Ciò che si presenta all’interpretazione medico-legale della responsabilità professionale medica, in sostanza, è nella maggior parte dei casi uno scenario ulteriormente nuovo rispetto al passato, ove non solo si acuisce e si esaspera la litigiosità nei confronti del medico, ma addirittura si accentuano le difficoltà ad avere idonea dimostrazione degli eventi per il moltiplicarsi delle figure professionali che intervengono, sovente, anche con compiti e mansioni tra loro embricate ed indistinte. Con il risultato che ancor più complessa diviene la possibilità di esprimersi sulla congruità o meno del comportamento professionale e segnatamente sulla fase precisa in cui l’incongruità eventuale si collochi, ulteriormente sfumando e confondendosi anche i limiti di dimostrabilità del nesso causale. Ancora una volta, dovendosi richiamare l’auspicio affinché i termini della responsabilità e della colpa medica siano normativamente rivisti, svincolandosi l’atto medico dalla dimensione ordinaria del reato e dell’azione penale conseguente, per riservargli ambiti specifici di analisi giudiziaria in cui da un lato predomini la matrice civilistica (ed eventualmente disciplinare) nella ricerca conseguente, da un lato della migliore tutela del soggetto danneggiato, (sottraendolo alla necessità di operare spesso ardue peripezie per individuare il livello dell’errore), e dall’altro nella fiduciosa attesa che ciascuno all’interno dell’èquipe medica risponda effettivamente delle azioni che gli competono e nei cui soli confronti deve sentirsi gravato dal principio di responsabilità e di colpa professionale.

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NOTE E BIBLIOGRAFIA

(1) NORELLI G.A.: “Sul divenire della responsabilità in ambito sanitario, note medico- legali”, Riv. It. Med. Leg., 7,782,1985.

(2) FIORI A.: “Medicina legale della responsabilità medica”, Giuffrè, Milano, 1999., secondo il quale “non è proponibile allargare il concetto di èquipe alle plurime prestazioni cui è sottoposto un paziente all’interno di una struttura sanitaria in quanto manca quel concetto di contestualità che è proprio dell’attività di èquipe”.

(3) CATTANEO G.: “La responsabilità medica nel diritto italiano”, in AA.VV.: “La responsabilità medica”, Giuffrè, Milano, 1982; in senso critico si veda BILANCETTI M.: “La responsabilità in èquipe” e IADECOLA I.: “I criteri della colpa nell’attività medica in èquipe”, Giur. Merito, 29,226, 1997.

(4) CRESPI A.: “La responsabilità penale nel trattamento medico-chirurgico con esito infausto”, Priulla Ed., Palermo, 1955.

(5) Sentenza del Pretore di Milano, segnalata da FUCCI S.: “La responsabilità professionale nell’attività medica in èquipe”, Sanità Pubblica e Medicina Pratica, 6, 42, 1998.

(6) In particolare, si veda MARINUCCI G., MARRABINI G.: “Profili penalistici del lavoro medico-chirurgico in èquipe”, Temi, 42, 217, 1968. Per un’attenuazione del principio dell’affidamento si veda, inoltre, BELFIORE: “Profili penali dell’attività medico-chirurgica in èquipe”, Arch. Pen., , 291, 1986; MANTOVANI F.: “Diritto Penale”, CEDAM, Padova, 1996; IADECOLA I.: “I criteri della colpa…..”, loc. cit..

(7) Così MANTOVANI F.: “Diritto Penale”, loc. cit..

(8) Cass., Sez. IV, n. 2393 del 24 novembre 1992, Ric. Gallo.

(9) Corte di Appello di Milano, segnalata da FUCCI S.: “La responsabilità professionale…..”, loc. cit..

(10) La suddivisione delle mansioni del personale infermieristico che coadiuva in un

(17)

intervento chirurgico, non è codificata per legge, non essendo prevista né nel mansionario (DPR 225 del 1974), che prevedeva genericamente “l’assistenza al medico nelle varie attività di reparto e sala operatoria”, né nella legge n. 42 del 26 febbraio 1999 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie”, che ha fra l’altro indotto l’abrogazione del suddetto mansionario.

(11) Si veda, da ultimo, Pretura di Pavia, sent. N. 23 del 10 marzo 1999; nello stesso senso, Pretura di Firenze, sent. n. 26 del 9 gennaio 1995, Corte di Appello di Roma, sent del 25 luglio 1985, in Giust. Pen., 91, 82, 1986. Sull’argomento si veda, inoltre,

“Il medico e l’infermiere a giudizio”, Atti del 1° Convegno nazionale, Siena, 10-11 aprile 1997, Lauri Ed., Milano, 1998.

(12) NORELLI G.A.: “Sul divenire della responsabilità….”, loc. cit..

(13) MARINUCCI G., MARRUBINI G.: “Profili penalistici del lavoro medico- chirurgico…”, loc. cit.; concetto ripreso da CICOGNANI A., GHIARONI D., LANDUZZI F., MIKUS P.M.: “Il tecnico perfusionista: mansioni e responsabilità”, estratto.

(14) MAY T.: “The nurse under physician autority”, J. of Medical Ethics, 19, 223, 1993.

(15) GRASSO cit. da PARODI C., NIZZA V.: “La responsabilità penale del personale medico e paramedico”, UTET, Torino, 1996.

(16) Cass., Sez. 4, del 22 giugno 1982 n. 07006.

(17) NORELLI G.A., Relazione presentata all’Accademia Anatomico-chirurgica di Perugia, su: “Disciplina e regolamentazione della attività e formazione dei medici specialisti”, Perugia, 24 maggio 1996.

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