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LE MALATTIE NEOPLASTICHE: ASPETTI CLINICI, METODOLOGICI E VALUTATIVI D’INTERESSE MEDICO-LEGALE

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LE MALATTIE NEOPLASTICHE:

ASPETTI CLINICI, METODOLOGICI

E VALUTATIVI D’INTERESSE MEDICO-LEGALE

Dr. Angelo Porrone - Dr. Federico Cattani∗∗ - Dr. Lucia C. D’Acquarica∗∗∗

Lo scopo del presente lavoro è di approfondire vari contesti metodologici inerenti alle neoplasie, che abbiano interesse medico legale, con particolare riguardo ad alcuni aspetti rilevanti ai fini della applicazione del disposto degli artt. 1 e 2 della Legge 222/84.

Pertanto gli argomenti della discussione riguarderanno in special modo:

νElementi clinici, terapeutici, prognostici e metodologia d’indagine in campo oncologico aventi riflessi sull’attività del medico legale che operi in ambito previdenziale

νFunzione strategica della documentazione sanitaria

νAnalisi del criterio tabellare di valutazione delle neoplasie in uso in ambito di Invalidità Civile e proposta di approccio valutativo in ambito I.N.P.S.

La malattia neoplastica è un tipo di patologia che, per le caratteristiche intrinseche che connotano la sua storia naturale, presenta difficoltà valutative oggettive maggiori e di diverso genere rispetto ad altre malattie o infermità.

Sotto il profilo valutativo i tumori rappresentano sicuramente un’eccezione, in quanto, nel giudizio sulla riduzione o abolizione della capacità lavorativa, non sempre è direttamente e unicamente implicata la limitazione funzionale immediatamente obiettivabile, derivante dalla neoplasia in sé e/o dagli esiti di interventi terapeutici più o meno demolitivi.

E’ questo il motivo per cui è necessario cercare altri e più opportuni parametri valutativi.

La classificazione in stadi è il metodo che serve a descrivere in modo obiettivo lo stato di una neoplasia nel tempo, in determinati momenti, ovvero in rapporto alla storia clinica naturale del

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tumore, essa rappresenta infatti la descrizione della malattia in modo dettagliato:

• fornisce al clinico indicazioni per una pianificazione terapeutica;

• dà già qualche indicazione prognostica;

• permette una migliore valutazione dei risultati terapeutici;

• uniforma lo scambio d’informazioni fra i vari centri, in merito a pazienti simili ma trattati diversamente, allo scopo di un confronto;

• oltre all’estensione anatomica fornisce altresì indicazioni sul sottogruppo istologico e sul grado di malignità, elementi discriminanti assai importanti ai fini terapeutici e prognostici.

Per molte neoplasie il grado di estensione della malattia è il più importante fattore prognostico.

Anche un’accurata diagnosi istologica rappresenta elemento essenziale per una corretta valutazione oncologica.

Lo staging di un tumore non è una scienza esatta poiché continuamente si arricchisce di nuove conoscenze biologiche e cliniche.

In genere si può dire che la sopravvivenza globale e la guarigione stessa del tumore sono inversamente proporzionali al grado di diffusione iniziale.

La classificazione TNM può essere pre-terapeutica, basata sulla obiettività clinica che precede il trattamento, con esame obiettivo e indagini radiologiche o endoscopiche o eventuale laparoscopia, e post-chirurgica, che si fonda sugli accertamenti della prima integrati dalle novità o modificazioni derivanti dall’atto chirurgico o dall’esame istologico.

La profondità d’invasione, la diffusione superficiale, la dimensione in cm. e, talora, l’emorragia e la necrosi sono le categorie di T.

Per i linfonodi si valutano dimensione, consistenza, presenza d’invasione capsulare, mobilità e fissità, monolateralità, omolateralità, controlateralità, bilateralità, localizzazione regionale o a distanza, prima stazione, regione o seconda stazione, iuxta regionale: caratteristiche tutte definite categorie di N.

Il numero delle lesioni metastatiche o delle sedi anatomiche compromesse sono le categorie M.

In genere la storia naturale di gran parte delle neoplasie solide è caratterizzata da una tipologia di

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presentazione ad un certo stadio più o meno avanzato, simile. Spesso la asintomaticità degli stadi clinici più iniziali rappresenta una costante.

Sono da considerare essenzialmente 4 componenti:

• stadiazione clinica, con esame obiettivo, esami di laboratorio, Rx grafie, endoscopia;

• stadiazione radiografica, con arteriografia selettiva, linfografia, indagini radiodiagnostiche come TAC e RMN;

• stadiazione chirurgica che verifica l’estensione anatomica di una neoplasia (laparotomia esplorativa nel L. di Hodgkin e nel Ca ovario);

• stadiazione anatomopatologica che si basa su una completa valutazione istopatologica, grazie alla asportazione della neoplasia con l’organo d’origine e i linfonodi regionali, le dimensioni macroscopiche ed i veri limiti microscopici della neoplasia.

Essi rappresentano dei gradini successivi di tipo diagnostico per accertare accuratamente la vera estensione della malattia.

Grazie alla possibilità del prelievo bioptico tissutale per zone sospette od organi a rischio di metastasi è stato possibile sviluppare una classificazione in Stadi a livello istopatologico.

Nel Ca mammario, nel 25-30% dei casi con E.O. ascellare negativo, si sono trovati linfonodi istologicamente positivi, per cui ai fini della stadiazione e quindi della cura, si parla oggi di N+, trascurando il criterio clinico che deporrebbe per un N0, N1a.

L’applicazione sistematica di alcuni esami, radiologici e non (linfografia, ecografia, TC ecc.), consente l’esplorazione di regioni anatomiche profonde, prima inesplorabili se non in modo cruento.

E’ noto che per metastasi si intende la trasmissione della malattia neoplastica da una sede primaria od organo ad un altro tessuto od organo con cui il primo non è in collegamento e che la probabilità di metastatizzare dipende da vari fattori comprendenti:

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• la sede

• le dimensioni

• le peculiarità istologiche della neoplasia

• la storia clinica naturale

Secondo il modello classico la diffusione tumorale avviene prima con una estensione locale a cui fa seguito un’invasione linfatica regionale e quindi una disseminazione per via ematogena.

Tale disseminazione può essere constatata in tre epoche diverse, ovvero:

• prima della terapia

• durante l’evoluzione che segue il trattamento primario

• all’autopsia

I tumori invasivi si caratterizzano tutti per la perdita della membrana extracellulare che li circonda, mentre gli altri preservano intatta la loro membrana basale.

Le metastasi rappresentano l’acme di un processo dinamico di trasformazione all’interno della neoplasia.

Ciò è dovuto alla eterogeneità della popolazione cellulare tumorale, che spiega altresì la risposta spuria alla terapia con regressione solo di alcune metastasi e non di altre, con ovvie conseguenze sul piano diagnostico-terapeutico e quindi prognostico.

L’estensione della neoplasia va quindi valutata in tutte e quattro le suddette componenti:

clinica, radiografica, chirurgica ed anatomopatologica.

L’APPROCCIO TERAPEUTICO

Fino a 40-45 anni fa non esisteva nessuna terapia efficace nella cura dei tumori: solo nelle forme solide localizzate si tentava la semplice resezione chirurgica o la radioterapia, con esiti quasi inevitabilmente ed in breve fatali.

Oggi la situazione è cambiata poiché il trattamento medico è in grado di controllare diversi tumori in modo più o meno completo.

Esistono alcune neoplasie che sono infatti guaribili con l’uso della chemioterapia, anche se in

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percentuale diversa in funzione dell’istotipo e dello stadio, con l’aggiunta di terapie integrative o meno, mentre in un altro gruppo di tumori, in pazienti sensibili al trattamento, è ottenibile un effetto palliativo consistente, con un reale prolungamento della sopravvivenza,.

Mentre fino al 1970 i tumori maligni in fase avanzata venivano curati con la monochemioterapia, successivamente, con l’utilizzo dello schema MOPP, ha fatto il suo ingresso, nella farmacopea ufficiale, la polichemioterapia.

Premesso che la polichemioterapia va somministrata a pazienti in discrete condizioni generali, che rene, cuore e polmoni sono possibili organi bersaglio e che la terapia va assunta a dosaggi pieni, che va poi condotta una cura di mantenimento e una di salvataggio, in caso di resistenza, si può finire dicendo che il trattamento neoadiuvante può essere utilizzato prima della terapia loco- regionale, mentre la cura adiuvante è utile per distruggere le micrometastasi a distanza dal focolaio tumorigeno primitivo e rendere più attuabile la guarigione, dopo chirurgia ablativa o radioterapia.

Valutando più da vicino il fenomeno delle micrometastasi in biologia, è possibile verificare che, per una lesione obiettivabile, quindi di almeno un cm cubo, si è già raggiunta una crescita equivalente ai 2/3 del totale che consta di 30 raddoppiamenti di volume.

Ciò avrà senz’altro dato luogo a metastasi linfatiche o ematiche, essendo dipendente dall’età e dal volume della neoplasia.

Così, se il tumore non viene diagnosticato, le metastasi crescono e in 5 raddoppiamenti la massa neoplastica raggiunge e supera i 30 cm. cubi e dopo altri 5 raddoppiamenti, provoca la morte dell’ospite.

In genere, la diagnosi di tumore maligno è più frequente in fase avanzata: pertanto anche in caso di ablazione completa della neoplasia evidenziabile macroscopicamente, compresi i linfonodi, spesso permangono nidi di cellule, in numero minore di 10 elevato alla nona, sparsi nell’organismo.

La radicalità ovvero la guarigione clinica è subordinata alla distruzione della frazione di cellule tumorali residue, detta malattia minima residua, che permane dopo la terapia loco-regionale e che va eliminata, se non proprio in modo totale, almeno in gran parte, così che le cellule che sopravvivono non possano dare luogo a una entità morbosa clinicamente riconoscibile.

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La sperimentazione clinica su animali ha consentito di valutare queste risultanze:

• la presenza di metastasi è direttamente proporzionale alla massa tumorale primitiva;

• le cellule delle micrometastasi si accrescono maggiormente rispetto ai tumori solidi visibili clinicamente, per cui sono più chemiosensibili.

Fattori sfavorevoli alla riuscita della terapia adiuvante sono:

• un aumento della massa solida tumorale residua, per aumento della frazione cellulare farmaco-resistente;

• un prolungamento dell’intervallo tra il trattamento loco-regionale e l’inizio del trattamento farmacologico;

• dosi di chemioterapici troppo basse.

In definitiva i trattamenti multidisciplinari, comprensivi di quelli adiuvanti, troveranno sempre maggiore applicazione nella terapia antineoplastica, anche nelle età avanzate.

Sono state messe a punto metodiche di culture cellulari a breve termine per valutare la chemiosensibilità o responsività, specie per lo screening dei farmaci utilizzabili come terapie di seconda scelta e per evitare l’uso di principi inefficaci o tossici.

Rispetto all’utilità e alle possibilità del trattamento farmacologico vanno valutati due aspetti, cioè la durata ottimale della terapia e i rapporti fra responsività delle neoplasie e tipo di terapia intrapresa, ovvero la classificazione dei tumori in quattro diversi gruppi, in base alle qualità biologiche di sensibilità.

In base a quest’ultimo parametro prognostico possiamo avere, in particolare:

• neoplasie non responsive, in assenza di alcuna riduzione dei parametri stimabili, malgrado la cura o addirittura progressione con aumento di volume o nuove localizzazioni; tra l’altro la mancanza di risposta entro un certo termine deve indurre a cambiare il trattamento;

• neoplasie responsive, per cui le terapie sono in grado di ottenere una risposta completa con remissione di tutte le manifestazioni neoplastiche precedenti in atto, con scomparsa, almeno transitoria, del tumore medesimo;

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• neoplasie parzialmente responsive, con risposta clinica incompleta,

• neoplasie che non si giovano affatto della polichemioterapia standard e i cui protocolli di trattamento adiuvante sono ancora poco o affatto standardizzati (es. tumori a cellule chiare del rene).

La finalità del trattamento può essere mirata ad una remissione parziale, con tre-quattro cicli di terapia, dopo di che, se non si osserva una riduzione progressiva, è meglio smettere anche se c’è chi propende per la prosecuzione fino all’accertata progressione della neoplasia.

Nei casi migliori si può avere una remissione completa verificata attraverso un controllo meticoloso di tutti i parametri iniziali (13 neoplasie venivano considerate, storicamente, interamente curabili con chemioterapia fra cui varie leucemie e linfomi).

In realtà, fatta eccezione per i carcinomi testicolari e per una certa percentuale di neoplasie solide dell’infanzia, gli altri tumori solidi dell’adulto si giovano relativamente poco della chemioterapia.

Circa la durata del trattamento l’effetto tumoricida sembra esplicarsi in modo ottimale nello spazio di 4-6 mesi, ovvero rapidamente.

In pratica la terapia farmacologica si adopera prevalentemente per la cura delle metastasi o a scopo neoadiuvante, per rendere cioè resecabile una neoplasia solida altrimenti inoperabile.

Infatti il trattamento delle neoplasie primarie è condizionato, dopo l’asportazione chirurgica o la radioterapia locale, dalla presenza di possibili ripetizioni a distanza.

Si sono potuti quantificare gli effetti della chemioterapia in base a modelli sperimentali.

La massa delle cellule tumorali ha una notevole incidenza sui risultati terapeutici, onde lo scopo anche solo citoriduttivo di molti interventi di resezione chirurgica.

Vari modelli teorici fondati sulla sperimentazione che hanno dimostrato che:

• esiste una relazione inversa costante fra la massa cellulare del tumore prima della chemio e la guaribilità;

• la frazione di crescita e la morte cellulare influiscono sulla velocità e sull’incremento o decremento della crescita (per frazione di crescita si intende il numero di cellule che stanno replicando il loro DNA);

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• le cellule a riposo sono temporaneamente resistenti a molti agenti antineoplastici;

• una o poche cellule neoplastiche sopravvissute possono determinare una recidiva;

• una data dose di farmaco uccide la stessa percentuale e non lo stesso numero di cellule purché vengano soddisfatte le altre condizioni;

• quanto più è grande la massa cellulare tumorale tanto più è piccola la frazione di crescita;

• quanto più, grande è la massa cellulare, tanto superiore è la probabilità di popolazioni farmaco resistenti;

• in definitiva la sensibilità dei tumori umani e sperimentali è in relazione, in genere, con le rispettive frazioni di crescita.

Variando il numero delle linee cellulari resistenti in funzione della massa del tumore, è lecito pensare che aumenti la probabilità di chemioresistenza quando sono presenti metastasi diffuse.

Poiché tale resistenza può avverarsi dopo appena sei raddoppi cellulari si comprende come un ritardo nell’inizio del trattamento possa essere della massima importanza.

Tutto ciò spiega in larga misura gli insuccessi della chemioterapia in caso di metastasi diffuse, anche se la velocità di mutazione varia da paziente a paziente malgrado l’identità di istotipo e di stadio, rendendo conto della risposta individuale alla cura.

Anche la presenza di una piccola frazione di cellule resistenti in un tumore può spiegare perché, anche in caso di remissione completa, non si può sempre parlare di guarigione ed il pericolo di recidiva è sempre in agguato.

Viceversa una lenta distruzione può dar luogo ad una modesta riduzione della massa obiettivabile che può indurre a credere ad una falsa resistenza.

Attualmente sono disponibili molti più farmaci dei circa 35-40 antineoplastici storici conosciuti fino a 15-20 anni fa. Molti altri sono in fase di sperimentazione clinica.

Il rapporto proporzionale diretto esistente fra dimensione peso e numero di cellule da un lato e decorso clinico del paziente è ben codificato.

La durata della remissione completa, per i tumori sistemici può essere relativamente lunga identificandosi con il prolungamento della sopravvivenza.

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Per la gran parte dei tumori solidi che recidivano dopo terapia chirurgica, di solito non è possibile ottenere nuovamente la remissione completa, che è, in genere, di breve durata.

Nella realtà i pazienti si presentano dal medico in una di queste 4 condizioni:

• con una lesione localizzata che è trattabile totalmente o parzialmente con chirurgia o radioterapia;

• con un tumore che è una malattia sistemica, ovvero ne ha tutte le caratteristiche;

• con un tumore recidivante dopo terapia locale chirurgica o radiante;

• con un cancro recidivante dopo trattamento sistemico.

Le prime 2 situazioni e la 4^ sono dominio della chemio, tutt’al più della radioterapia e della chirurgia solo in forma palliativa.

Esistono, però, anche situazioni in cui la recidività fa parte della storia naturale della malattia senza aggravarne più di tanto la prognosi; si tratta per lo più di neoplasie vescicali superficiali, di tumori germinativi testicolari, di linfomi di Hodgkin e non Hodgkin, ad alto grado di malignità: in definitiva la prognosi, in questi casi, dipende dalla possibilità di ottenimento della remissione clinica completa e della fase di intervallo libero da malattia.

I pazienti del 3° punto possono essere convenientemente trattati tanto in caso di recidiva solo locale, che è l’ipotesi meno grave, che di ripetizione a distanza (se con un ridotto numero di metastasi) con la chirurgia.

Dall’inizio del secolo ad oggi si è notato un incremento costante della sopravvivenza dei pazienti con tumore fino a sfiorare quasi il 48-50 % di valore in base alle statistiche dal 1981 in poi, quota che già è stata superata di qualche punto negli ultimi 20 anni.

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Principi di chirurgia oncologica I suoi scopi sono i seguenti:

• terapia radicale;

• terapia riduttiva;

• terapia palliativa ;

• finalità diagnostica esplorativa, per interventi terapeutici;

• effettuazione di biopsie, stadiazione.

Talora sono da considerare i provvedimenti chirurgici indiretti, ovariectomia, orchiectomia, surrenalectomia, ipofisectomia, ecc., utili ancora a fini terapeutici, più in voga in epoche pregresse.

Talaltra, come nel caso della tiroidectomia, la chirurgia consente l’esecuzione della scintigrafia total-body o può permettere di eseguire, come vettore, terapie tipo chemio locoregionale.

La chirurgia oncologica preventiva mira all’eliminazione delle precancerosi, lesioni spesso ad elevata capacità trasformativa maligna.

La curativa ha in sé insito il concetto della radicalità, partendo dall’ottimistico presupposto che tutta la malattia neoplastica sia circoscritta nei tessuti da asportare.

Nel caso ci siano metastasi a distanza per un tumore solido, ciò esclude, in teoria, ogni possibilità di guarigione da parte dell’intervento chirurgico.

Ci sono comunque eccezioni a questo enunciato riguardanti metastasi solitarie o multiple ma con unica manifestazione clinica per merito delle difese biologiche che sono riuscite a neutralizzare gli altri foci.

La radicalità dell’intervento apparentemente ampia non garantisce in assoluto la riuscita della terapia nel tempo, come prognosi a distanza.

La radicalità chirurgica può essere locale, regionale, globale.

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La prima deve tener conto del diverso sviluppo e progressione locale delle neoplasie che dipendono in gran parte da:

• tipo istologico

• comportamento biologio;

• rapporti con i tessuti circostanti varianti da sede a sede.

Tale approccio è valido per:

• neoplasie della cute e delle mucose; nel caso delle mucose va valutata la sede (ad es.

nell’esofago si ha una progressione linfatica e muscolare longitudinale; invece in genere negli organi cavi si ha una crescita piuttosto lenta; nel caso dell’albero respiratorio si ha uno sviluppo eccentrico e la ipervascolarizzazione favorisce le metastasi, per cui la radicalità periferica dà meno problemi di quella parailare);

• neoplasie ginecologiche (più utile in caso di Ca del collo uterino);

• sarcomi dei tessuti molli;

• sarcomi dei tessuti ossei (elevatissima metastatizzazione per gli osteosarcomi, rispetto agli altri istotipi);

• neoplasie maligne del S.N.C. che costituiscono intuitivamente un serio problema per la radicalità;

• neoplasie maligne degli organi parenchimali, rene, surrene, pancreas, tiroide, ghiandole salivari.

I problemi che inficiano una ottimale radicalità sono la multifocalità e l’interessamento della capsula, per cui, come nel caso della tiroide e delle salivari, si procede all’asportazione dell’organo, mentre l’interessamento capsulare può indurre, data la gravità, ad ampie demolizioni; per il Ca mammario è invalsa, negli ultimi anni, la tendenza a passare da interventi super-radicali ad altri più conservativi, in ossequio ad un criterio più biologico che tiene conto della ormonodipendenza e della multifocalità, onde l’uso della radioterapia, in una visione multidisciplinare del problema dove l’elevata tendenza a metastatizzare ha consigliato, non di rado, l’uso della chemioterapia.

La necessità di una radicalità regionale nasce dall’evidenza di una diffusione per via linfatica dei

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tumori, secondo vie anatomiche stabilite e regole di fisiopatologia.

Il tumore primitivo e l’intero albero di drenaggio linfatico costituicono una sorta d’unità che è alla base del concetto di radicalità locoregionale globale, ed implica l’esigenza di asportare, ove possibile, in un tempo e in un blocco unico, l’intera unità.

Non bisogna dimenticare che l’interessamento linfonodale diffuso può essere, da solo, motivo di rinuncia alla radicalità.

In base ad indagini epidemiologiche retrospettive è stato possibile dimostrare che l’intervento radicale evita complicazioni locali, migliora la sopravvivenza a 5 anni, permettendo di conseguire i migliori risultati mediante lo svuotamento chirurgico.

Localizzazioni metastatiche solitarie, soprattutto polmonari o cerebrali, ma anche ossee ed epatiche, possono essere trattate chirurgicamente, e molto spesso, non inficiano il concetto di radicalità, specie se all’unicità della lesione corrisponde un istotipo non particolarmente maligno e un certo lasso di tempo tra tumore primitivo e metastasi.

In genere ciò si verifica a distanza di tempo dal trattamento.

In casi di metastasi epatiche, specie da tumori del colon retto, le tendenza di maggiore avanguardia indicano l’asportazione di multiple metastasi, purché resecabili, con apparenti buoni risultati, secondo molti autori.

La chirurgia conservativa rispetto ai criteri di massima radicalità anatomica, va presa in considerazione per particolari localizzazioni neoplastiche e specifiche condizioni:

• maggiore rischio perioperatorio rispetto ai presunti vantaggi di una radicalità anatomica;

• la radicalità, comunque non conseguibile, in funzione della prognosi globale, a causa della presenza di micrometastasi;

• migliore funzionalità in caso di guarigione difficile o impossibile;

• nuove conoscenze e nuove tecniche chirurgiche meno demolitive;

• possibilítà di altri mezzi terapeutici.

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Le conoscenze anatomo-cliniche derivate dagli studi istologici, specie dei margini dei pezzi operatori, hanno permesso di valutare la scarsa invasività di molte neoplasie evitando in molti casi la dissezione in blocco, ed osservazioni cliniche hanno permesso di verificare la maggiore efficacia della polichemioterapia, in molti casi.

La chirurgia palliativa va riservata a casi di urgenza assoluta, grave sintomatologia dolorosa e grave sconforto psicologico.

Più interessante ai fini prognostici risulta il concetto di chirurgia riduttiva, in caso di tumori solidi non aggredibili con chemio e radioterapia in prima istanza, quando la popolazione cellulare è elevatissima, pari a circa 10 elevato alla 12 cellule, per cui un intervento riduttivo, pur lasciando residui di tessuto tumorale integro ai margini, può consentire l’utilizzo di altri metodi con migliori possibilità di conseguimento di risultati utili.

Peraltro si sa che le difese immunologiche possono prevalere qualora il numero delle cellule tumorali non sia maggiore di 1 milione, e ciò accade per residui tumorali invisibili ad occhio nudo.

La chirurgia riduttiva con scopo di guarigione, è valida allorché si possa ottenere una riduzione della massa pari almeno al 90-95 %.

Inoltre se non c’è chemio o radiosensibilità, riduzioni minori non consentono l’utilizzo proficuo di terapie associate in modo additivo.

La scelta delle sequenze ottimali di terapia, variabile da tumore a tumore, l’evitare, in definitiva, di operare alla cieca sono elementi prognosticamente determinanti, ai fini della riuscita dell’intervento.

Tutto ciò in ossequio al presupposto della necessaria pianificazione terapeutica.

In nessun altro campo come nell’oncologia vediamo come sia necessario attenersi a protocolli accuratamente studiati e validati.

Ormai le possibilità della chirurgia e della radioterapia sono state pressoché esaurite e si assiste, pertanto, ad una fase di stallo o di plateau.

Attualmente si suole mettere soprattutto in rapporto il trattamento dei tumori con il tipo di storia naturale degli stessi, in modo tale da attuare le strategie più opportune e le migliori possibilità terapeutiche degli svariati presidi (terapia oncologica integrata o multidisciplinare).

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Il protocollo terapeutico rappresenta, quindi, lo strumento della volontà collettiva di applicare l’arte medica in modo uniforme ed aggiornato.

Esso rappresenta un ragionevole compromesso fra i vari punti di vista e i diversi dati disponibili nella letteratura medica corrente.

La struttura del protocollo si avvale di poche ma precise valutazioni che permettono di operare il bilancio oncologico completo:

• istologia;

• stadiazione;

• velocità di progressione;

• condizioni generali;

• funzionalità di organi strategici (cuore, rene, fegato, midollo osseo) per la terapia medica;

• complicazioni e altre malattie;

• precedenti terapie;

• parametri clinici, radiologici, ematologici, biochimici, ecc

• prognosi di sopravvivenza specie in caso di neoplasia molto avanzata.

Si arguisce l’importanza di una coordinazione e di un aggiornamento continuo dei protocolli terapeutici convenzionali.

Valutazione della risposta terapeutica

E’ invalsa una terminologia sufficientemente ben standardizzata per stimare la risposta terapeutica in oncologia medica.

Si parla pertanto di:

1. regressione completa o parziale obiettiva della neoplasia primaria e/o delle sue metastasi;

2. regressione completa di tutti i segni e sintomi di neoplasia;

3. durata della regressione (in mesi o anni);

4. miglioramento della sopravvivenza libera da malattia o globale.;

5. grado di morbilità iatrogena, reversibile o meno.

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La neoplasia può essere valutata, in termini di regressione obiettivabile, con misura bidimensionale, con stratigrafia, TAC e RMN, o in forma unidimensionale, nelle radiografie standard; il tumore può non essere misurabile in caso di masse addomino-pelviche o metastasi linfangitiche o polmonari nodulari confluenti, cutanee, ascite, versamento pleurico ecc..

Scintigrafia, linfografia, test biochimici dei vari markers tumorali possono consentire, insieme, di valutare la risposta al trattamento anche in questi casi (non misurabile ma valutabile).

La neoplasia non è né misurabile né valutabile per forme ovariche o gastroenteriche dimostratesi laparotomicamente non eradicabili.

Nei casi in cui si è ottenuta la remissione completa, dopo ablazione e radioterapia associata, o dopo chemioterapia adiuvante o dopo la sola radioterapia, la risposta viene misurata tramite l’intervallo libero da malattia e la sua durata a partire dalla fine della terapia adiuvante fino alla dimostrazione certa di ricaduta.

Si suole comunemente parlare di remissione completa se la sua durata è almeno di tre mesi.

Ciò può essere valutato appieno non solo in base alla regressione dei segni clinici, ma per certi tumori (linfomi, leucemie, Ca ovarici, ecc.) mediante un secondo prelievo bioptico delle zone inizialmente colpite.

Questo non è facile: nel complesso si può avere un 30% di errore.

Si parla di stazionarietà o di progressione della malattia per un aumento di oltre il 50 % del volume della massa tumorale.

Fondamentale a livello prognostico è la differenza fra vera remissione completa e remissione parziale, in virtù del fatto che solo nel primo caso è lecito poi parlare di guarigione definitiva o almeno di miglioramento reale della sopravvivenza.

La remissione clinica è direttamente funzione dell’entità della distruzione delle cellule tumorali che a sua volta comporta come fatto conseguente un proporzionale miglioramento dello stato di validità o performance status.

Anche una risposta mista, con regressione di alcune lesioni e comparsa di nuove, va valutata certamente come un insuccesso della terapia instaurata.

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Metodi di valutazione della risposta terapeutica

La presenza di noduli va apprezzata palpatoriamente o radiologicamente in centimetri, mentre l’infiltrazione del midollo osseo va riscontrata in almeno due sedi.

In caso di coinvolgimento epatico vanno eseguite biopsie multiple per via laparoscopica.

I1 quadro linfografico è l’ultimo a normalizzarsi per cui il restaging con agobiopsia va effettuato almeno dopo la remissione radiologica.

In caso di noduli o infiltrazione mammaria è difficile valutarne correttamente le dimensioni, per cui occorrono più misurazioni palpatorie e controlli mammografici.

L’obiettivazione di manifestazioni negli organi cavi come orofaringe, utero e vagina è oltremodo complessa e perciò, in questi casi, ci si deve avvalere del consulto degli specialisti del settore per i cambiamenti di terapia.

Sono dunque i marker tumorali che consentono, in caso di lesioni non chiaramente misurabili, di monitorare l’andamento della neoplasia nei riguardi della terapia.

Per molti tumori, come accennato, è necessario eseguire un controllo laparotomico per verificare la remissione completa (Ca ovarico, alcuni linfomi, Ca testicolare, alcuni sarcomi addominali) anche se con l’avvento di alcune metodiche diagnostiche, TC, RMN, ecc., si sta limitando questa necessità.

Ma è soprattutto la sopravvivenza libera da malattia, nei pazienti con remissione clinica completa, che rappresenta un vero indice di guarigione “funzionale”, ma anche questa va adeguatamente considerata a seconda del tipo di tumore in questione.

In effetti ci sono neoplasie molto aggressive biologicamente (linfomi non Hodgkin o di Hodgkin, leucemia acuta, Ca testicolare, sarcomi ossei o dei tessuti molli, melanomi, microcitoma polmonare, glioblastoma multiforme) in cui la recidiva si verifica entro i primi 3 anni dalla fine del trattamento.

Perciò solo nel caso che la remissione completa superi il terzo anno, la probabilità di guarigione definitiva supera il 90 %.

Per altri tipi di tumore con evoluzione più lenta (linfoma follicolare, carcinoma mammario, ovarico, gastroenterico, uterino, adenocarcinoma e carcinoma squamoso dei bronchi, carcinoma differenziato della tiroide, del colon-retto e gran parte delle neoplasie solide) bisogna aspettare

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almeno il 5° anno dalla fine della terapia per poter dichiarare davvero reali le possibilità di guarigione.

Del resto recidive si devono attendere dal 5% al 20 % negli anni a venire (per carcinoma mammario e linfomi follicolari perfino dopo il 10-15 anni).

Anche i sarcomi ossei possono essere a lenta evoluzione e recidivare a distanza di molti anni, per cui va sempre valutato, per tutti i tipi di tumori, la storia clinica naturale ai fini della recidività e della guarigione clinica completa, conseguibile, comunque, nella stragrande maggioranza dei casi di neoplasie solide, con il superamento della fase di follow up di controllo a 5 anni.

L’uso della polichemioterapia, utilizzata in modo ottimale, potrebbe mutare questo quadro.

La sopravvivenza globale comprende quella libera da malattia più quella dalla recidiva alla morte eventuale.

Così se la sopravvivenza libera da malattia è per una certa neoplasia del 60 % a 5a e quella globale del 75 % vuol dire che, malgrado la recidiva dopo il trattamento iniziale, le terapie secondarie sono ancora in grado di controllare efficacemente la neoplasia.

Per poter perciò parlare correttamente di miglioramento della sopravvivenza globale, che è, poi, il fine ultimo di ogni terapia, bisogna saper valutare adeguatamente l’efficacia delle terapie instaurate dopo la prima ricaduta.

Ci sono infatti molti tumori in cui la cura d’elezione primaria è locoregionale chirurgica o radioterapia ( testicolare e Hodgkin) e la successiva terapia di salvataggio, instaurata dopo la prima recidiva, è in grado di produrre un apporto notevole alla sopravvivenza globale, fino anche all’ottenimento della guarigione clinica completa.

Gli esiti favorevoli della chemioterapia prevedono l’analisi di alcune variabili:

• quantità totale di cellule neoplastiche e popolazione sensibile o resistente ai farmaci;

• percentuale di cellule mutanti farmacoresistenti;

• velocità di crescita e ricrescita della popolazione tumorale;

• intensità di dose dei farmaci;

• efficacia del protocollo terapeutico.

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In caso di recidiva, in generale, la terapia ottiene dei risultati più modesti rispetto a quelli attesi dalla cura di un tumore mai trattato in precedenza.

Ne consegue che il primo trattamento è un fattore prioritario ai fini prognostici condizionando pesantemente la riuscita terapeutica in base al suo grado di adeguatezza, efficacia, radicalità, tecnica d’avanguardia. modernità, livello di competenza e specializzazione, osservanza di uno schema e protocollo ben definito, scelta del metodo più appropriato ed esauriente, realizzazione pratica più idonea e più soddisfacente delle forme di terapia.

In definitiva appaiono importanti:

il livello di preparazione degli operatori

il livello d’avanguardia, in termini specialistici, della terapia adottata.

Ciò al fine di evitare, come talvolta accade, ritardi o instaurazione di metodi di trattamento antiquati e quindi sostituiti, da tempo, da protocolli assai più redditizi, più tollerati e più opportuni.

Ciò che si richiede non è semplicemente la cura esclusiva presso centri pilota, ma piuttosto il richiamo ad una costante aderenza a protocolli diagnostico-terapeutici consolidati e scientificamente condivisi.

Nessuna altra branca medica è in grado di risentire come l’oncologia di sbagli e ritardi terapeutici che finiscono per gravare pesantemente e inevitabilmente sulla prognosi.

Nuovi metodi di diagnosi e terapia

Una brevissima citazione meritano, infine, alcuni moderni metodi di cura, fra cui annoveriamo fra i più interessanti e produttivi, l’ipertermia, utile anche in caso di radioresistenza, distinguibile in loco-regionale e total-body o sistemica; la radioterapia intraoperatoria, RTIO, (applicata solo in alcune decine di centri in tutto il mondo) metodo che permette di controllare la neoplasie con minori effetti tossici grazie alla visualizzazione diretta del tumore, e apposizione diretta (ciò consente di escludere dal trattamento radioterapico tessuti ed organi normali, mobilizzandoli, con possibile uso anche di mezzi di protezione); la terapia fotodinamica, con uso di fotosensibilizzanti, ha invece trovato utile applicazione mediante sistemi laser ad argon applicata nella diagnosi precoce di tumori

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polmonari occulti, tumori cutanei e sottocutanei, compreso il melanoma, il ca mammario infiammatorio, il ca esofageo, il ca polmonare stesso, quando difficilmente operabile, basata sul principio di maggiore accumulo e ritenzione di fotosensibilizzanti emato e protoporfirina, ottenuto nei tumori sperimentali di vari tessuti.

La radioterapia con fasci di particelle e nuovissimi metodi d’avanguardia sono allo studio insieme a radiosensibilizzanti e radioprotettori in fase di sperimentazione in alcuni centri pilota, e promettono nuovi e interessanti sviluppi.

E’ doveroso un cenno alle più recenti tecniche radiodiagnostiche che, come nel caso della PET (tomografia ad emissione di positroni) si rivelano di rara utilità nello svelare ripetizioni metastatiche a distanza, o forme primitive iniziali o residui tumorali loco-regionali, non altrimenti identificabili e, spesso, ancora trattabili, ovvero nel negare l’esistenza delle stesse manifestazioni, evidentemente dovute ad artefatti diagnostici in corso di TAC, evitando pericolose e non dovute terapie locali o sistemiche.

EVOLUZIONE, RICADUTE, BIOMARCATORI E FOLLOW UP

Lo studio delle ricadute è di notevole importanza dottrinale e pratica, potendosi avere forme di recidiva nell’ambito di una malattia neoplastica considerata, al momento del primo trattamento, in fase locale o loco-regionale.

La recidiva può aversi essere:

• vera o in situ, ovvero nella sede anatomica di partenza e dimostrare l’incompleta estirpazione e sterilizzazione del focolaio primitivo;

• marginale, posta ai limiti della zona trattata con chirurgia e/o radioterapia;

• regionale cioè individuabile in una sede o regione linfonodale, contigua al tumore primitivo e depone, come nel caso della recidiva marginale, per un trattamento primario chirurgico e/o radioterapico poco esteso ovvero effettuato in modo insufficiente;

• a distanza, ovvero una nuova manifestazione di malattia lacalizzabile in una zona, regione, organo, tessuto lontano dal focolaio primitivo.

Secondo le moderne teorie essa esprime l’esistenza di micrometastasi già presenti fin dall’inizio

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della terapia.

E’ importante valutare la stima del rischio di recidiva dopo un certo trattamento, cosi da poter effettuare un cambiamento nella strategia terapeutica, in funzione della tendenza evolutiva predominante del tumore.

Esistono neoplasie che:

• hanno una notevole tendenza alla ripetizione a distanza malgrado in prima istanza si presentino in forma locale o loco-regionale (Ca mammario e bronchiale, melanoma, sarcomi ossei ecc.)

• hanno un’evoluzione prevalentemente loco-regionale, (Ca spinocellulari cervicofacciali e del collo uterino)

• manifestano caratteristiche intermedie fra quelli predetti (malattia di Hodgkin, adenoCa del digerente).

Anche la sede delle metastasi a distanza può assumere un diverso significato prognostico, come nel caso dei tumori della tiroide, con una diversa crescente valenza negativa a seconda che le metastasi riguardino le ossa, i polmoni o altre sedi a distanza o in caso di Ca mammario, in cui il livello crescente di appesantimento prognostico è stimabile a seconda che le localizzazioni riguardino, via via, le vertebre, il fegato e i polmoni, con stime di sopravvivenza apprezzabilmente diverse a seconda dei casi.

I biomarcatori

Si definiscono marcatori tutte quelle sostanze che per tipo e quantità sono considerevoli e sono in rapporto causale o probabilisticamente connessi con le neoplasie maligne.

Essi rappresentano un indicatore dell’esistenza e/o della progressione di un tumore e si distinguono in marcatori

• genetici (oncogeni e loro prodotti);

• citoplasmatici (enzimi), metabolici (ormoni) e di differenziazione (sostanze ectopiche, antigeni oncofetali, prodotti rilasciati dalle cellule in replicazione);

• di superficie (glicoproteine, antigeni tumore associati).

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L’interesse maggiore dei clinici è per i marcatori circolanti nei liquidi biologici, esaminabili attraverso un semplice prelievo e capaci di monitorare a distanza dalla sede della neoplasia, l’esistenza o il comportamento della stessa.

Non esiste, attualmente, nessun marcatore specifico né di neoplasia, in generale, né di un solo tipo di neoplasia, per cui molti di essi appaiono aumentati non solo in caso di trasformazione neoplastica ma anche in altre condizioni patologiche e non.

La speranza attuale è quella di ottenere marcatori tumorali più specifici per singoli tumori.

Le nuove tecnologie di produzione degli anticorpi monoclonali hanno consentito di fare un vero salto di qualità, permettendo di riconoscere un solo determinante di una struttura antigenica, aumentando la specificità di riconoscimento dei marcatori dosabili con metodi immunologici.

Ciò ha condotto all’isolamento di nuovi e interessanti markers tumore-associati, alcuni dei quali si sono affermati nella pratica clinica come sostanze tumorali circolanti.

Il dosaggio dei markers non trova applicazione nella diagnostica di primo impatto bensì come indice funzionale di attività e proliferazione tumorale, nel monitoraggio durante la terapia dei tumori e nel decorso della malattia.

Tuttavia il dosaggio della sostanza all’atto della diagnosi o prima di intraprendere qualsiasi terapia può assumere valore prognostico e ai fini della stadiazione.

Questi indici vanno correlati con altre metodiche strumentali o di laboratorio utilizzate nella diagnostica.

Un limite evidente è dato dal fatto che è necessaria la presenza di un numero elevato di cellule neoplastiche per positivizzare il livello dei marcatori biologici in modo sufficiente da poter essere dosato nei liquidi extracellulari.

Pur tuttavia il numero di cellule tumoralinecessario è, in genere, di gran lunga inferiore a quello della massa critica obiettivabile con gli strumenti conosciuti.

Tra gli antigeni tumore associati, TAA, importante il CEA (antigene carcinoembrionario) glicoproteina che si riscontra maggiormente nelle neoplasie epiteliali del tubo digerente e ghiandole annesse, dosabile nel siero e nei liquidi biologici con metodi di tipo radioimmunologico e immunoenzimatico.

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Una certa positività del CEA però si riscontra in varie malattie non neoplastiche come quelle infiammatorie dell’intestino, pancreatiti, gastriti, bronchiti dei fumatori ovvero in corso di stato proliferativo dell’epitelio tipo metaplasia o displasia.

Da notare che:

• valori elevati di CEA persistenti dopo un intervento chirurgico radicale sono un segno di malattia residua;

• tali valori sono più elevati per la metastatizzazione che per la malattia residua (specie metastasi epatiche in oltre il 95% dei casi);

• che dapprima una negativizzazione post-operatoria e successivamente aumenti progressivi del marker indicano con certezza la presenza di metastasi.

Al contrario esistono tumori del colon - retto che non sintetizzano CEA, ma alfa-feto-proteina, glicoproteina che può essere marker anche di tumori epatici, del seno endodermico ovvero derivanti dagli elementi del sacco vitellino ed i teratocarcinomi, con presenza perciò di elevati livelli per i tumori germinali del testicolo e dell’ovaio.

Ai fini prognostici livelli maggiori di 1.000 ng/ml sono quasi sempre espressione di attività neoplastica, valori superiori a 10.000 indicano una sopravvivenza inferiore a 12 mesi, mentre livelli al di sotto di 200 indicano sopravvivenza maggiore di 2 anni.

L’AFP ha un tempo di dimezzamento di 5 giorni dopo asportazione completa del tumore, in caso contrario è indice prognostico negativo.

L’antigene polipeptidico tessutale TPA aumenta nei tumori del digerente, del tratto genito- urinario, della mammella, della tiroide e del polmone con valore soglia di 80-100 U/L.

Il Ca 125 è un antigene ovarico riconosciuto dall’anticorpo monoclonale OC 125 di natura glicoproteica, che aumenta nell’80% dei casi di Ca ovarico di tipo sieroso; la soglia è 35 U/ml,è utile nel monitoraggio dei predetti tumori, ma ha il limite di una bassa sensibilità diagnostica in pazienti con malattia minima residua. Si eleva solo quando la massa neoplastica ha raggiunto determinate dimensioni, superiori, purtroppo al cm di diametro.

Il Ca 15.3 sembra essere associato alle neoplasie mammarie ed elevati livelli si riscontrano soprattutto in pazienti con malattia avanzata. Andrebbe ritenuto pertanto un indicatore di

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progressione ovvero di monitoraggio della malattia metastatizzata. Sono necessari ulteriori studi in proposito.

Ormoni proteici come l’ACTH, le gonadotropine, come la betaHCG, la calcitonina, ecc. possono aumentare in molti tumori.

Catecolamine e metaboliti aumentano in caso di feocromocitomi, neuroblastomi e sindrome carcinoide.

Anche vari tipi d’enzimi, fosfatasi acida prostatica, fosfatasi alcalina, LDH, ecc., sono talora utili marker.

Varie altre sostanze vengono considerate antigeni tumore associati, beta 2 microglobulina, tiroglobulina, ferritina (quest’ultima aumenta nei tumori emopoietici e nelle neoplasie di rene, polmone, fegato e mammella).

Anche acidi sialici e poliamine aumentano in molte neoplasie.

Tra i prodotti dell’ospite liberati come reazione al tumore ricordiamo, aspecificamente la proteina C reattiva, la VES, l’idrossiprolina (che aumenta in caso di metastatizzazione scheletrica di tipo osteoblastico ad es. nel Ca mammario).

In caso di malattia di Hodgkin la cupremia aumenta, lo zinco diminuisce.

L’impiego simultaneo di più marcatori può rendersi necessario nel caso in cui manchi un marcatore abbastanza specifico, oppure in caso di neoplasie composte da istotipi diversi, capaci di secernere markers diversi.

L’applicazione più utile dei markers resta il monitoraggio dell’attività tumorale, nonché il riconoscimento più precoce di recidive per alcuni tumori, ciò che consente l’avvio della terapia prima dell’affioramento clinico della recidiva settimane o mesi in anticipo rispetto al previsto.

Il marker andrebbe testato in periodi vicini al tempo di duplicazione, fase durante la quale la crescita del tumore è esponenziale.La loro concentrazione andrebbe valutata una volta per ogni intervallo dell’emivita biologica.

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LA PROGNOSI

“Pro-gnosis”, etimologicamente significa “per la conoscenza”, e considera quanto sia proiettabile temporalmente in avanti un giudizio rispetto al momento in cui lo esprimiamo, specie circa il verificarsi di un evento futuro.

In medicina si definisce prognosi una previsione concettualmente e tecnicamente logica sul verificarsi di un fenomeno biologico, sia normale che patologico.

Ciò che particolarmente importa, nella fattispecie, è la possibilità di predire l’eventuale sopravvenienza di certi stati morbosi, oppure la evoluzione, la durata, le complicazioni, gli esiti, i postumi, o ancora, la possibilità di riesplosione della malattia, ricaduta, o di ripetizione della stessa, recidiva morbosa.

Il concetto di malignità prognostica, in genere, si riferisce di volta in volta:

1. all’esito quoad vitam,

2. alla letalità più o meno rapida della storia naturale della forma morbosa;

3. alla diffusione del processo patologico.

Cosi dicasi ad esempio per l’ipertensione maligna e la glomerulosclerosi conseguente, con lesioni diffuse ai nefroni, rapida evoluzione a coma uremico e morte, se prima non si hanno insufficienza cardiaca e ictus cerebrali.

Pur tuttavia la nozione di malignità non è sinonimo di irreversibilità, è suscettibile di variazioni cliniche migliorative, anche se il giudizio globale resta per lo più infausto.

Una particolare cautela è necessaria nel caso di una prognosi relativa ai tumori a causa dei frequenti errori diagnostici che secondo alcuni autori di medicina legale, varierebbero dal 20 al 37

%, stando alle risultanze autoptiche successive.

Ma l’arte della prognosi è esercizio talora più difficile della stessa diagnosi; esso è una diretta espressione di cultura e di esperienza nonché di intuizione e di arguzia.

Essa presume cognizioni fisiopatologiche e cliniche concernenti la malattia, oltre all’assunzione delle rilevazioni medie statistiche inerenti alla sua evoluzione; malgrado ciò il giudizio deve rimanere individuale, nel rispetto della singola personalità dei malati, poiché è più corretto parlare di prognosi di un determinato malato, che di una certa malattia.

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La prognosi si dice globale se riguarda popolazioni o classi sociali, individuale se si riferisce a singoli casi; immediata, prossima, lontana o lontanissima, in base ad un criterio temporale, come può essere, ad es., la formazione di un tumore da una precancerosi.

La prognosi si dice naturale se il fenomeno biologico considerato si presume non debba dipendere dal verificarsi di particolari accadimenti esteriori; può riguardare la durata della vita, lo stato di salute, il lavoro, le ordinarie occupazioni, il rischio annesso e la qualità usurante di un lavoro, speciali abitudini tipo il tabagismo, l’uso di terapie, l’indebolimento o la perdita di organi, la possibilità di compenso funzionale o anatomico, l’adattamento o la riabilitazione.

Si parla di prognosi clinica se si fa riferimento all’evoluzione di una malattia.

Si parla altresì di prognosi subordinata per indicare la necessità di:

astensione da certe attività, cure medico chirurgiche, allontanamento da certi ambienti insalubri, ecc., per esprimere un giudizio di merito in rapporto alle premesse.

La prognosi può riguardare la persona fisica, intesa come feto, neonato, fanciullo, giovane, uomo maturo, vecchio, ecc.; può anche variare in base al sesso, esistendo infatti tumori prevalenti a seconda dei diversi sessi, con maggiore incidenza generale riguardante quello maschile; può anche interessare soggetti con determinati stili o abitudini di vita, ovvero colpire, in prevalenza, esattamente determinate fasce di età, di un certo sesso.

Particolare rilevanza nel nostro caso ha la prognosi “ di temporalità” di cui al fattore cronologico. Si distinguono, a tal proposito,

• un tempo di sopravvivenza nel corso di una malattia in cui si prevede l’evento letale;

• un tempo di latenza o intervallo libero o periodo d’incubazione prevedibile, ad es., nelle precancerosi;

• una durata della limitazione funzionale dopo un evento lesivo, ovvero la perduranza dello stesso;

• una durata della malattia per ciò che attiene l’incapacità alle ordinarie occupazioni ecc..

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Altresì importante è la prognosi rispetto a processi di nuova formazione, riguardo tanto alla sede primitiva che alla localizzazione secondaria di fenomeni morbosi come le metastasi.

Ancora vanno ricordate la prognosi riguardo allo stato anteriore, specie per le malattie pregresse e per l’invalidità, quella rispetto al rischio terapeutico, chirurgico o farmacologico.

Fattori prognostici generali in oncologia

In oncologia esistono differenze individuali nella prognosi di accrescimento delle neoplasie in dipendenza di diversi fattori:

1. diversità della suscettibilità individuale ad ammalare di malattie neoplastiche e di resistere alle stesse

2. diversità delle sostanze cancerogene in questione, ovvero della cancerogenesi, e, quindi, della patogenesi;

3. diversità delle sostanze antitumorali, identificabili principalmente nell’azione della vitamina A e di altri principi attivi;

4. diversità dei mezzi di difesa immunitari cellulo-mediati.

La difesa contro tessuti estranei all’organismo, siano essi trapianti o tumori e la prognosi conseguente, variano a seconda di fattori strettamente individuali, che sono tuttavia modificabili in funzione di influenze e circostanze particolari, in specie di tipo terapeutico.

Sono, infatti, diversi gli elementi che in fase diagnostica e successivamente sono in grado di influenzare e determinare la prognosi.

Si possono distinguere fattori comuni alla gran parte delle neoplasie ovvero 1. grading, cioè grado di malignità,

2. staging, cioè estensione anatomica, 3. sesso;

4. età;

essi infatti sono da considerare in ogni caso di tumore.

Esistono poi fattori specifici riferiti a gruppi di tumori, tali ad es. l’istotipo (carcinomi sarcomi,

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ecc.), variando, talora, radicalmente la prognosi a seconda del tessuto di provenienza, oppure la localizzazione, per organi e apparati, ovvero la differente resecabilità in rapporto anche all’estensione.

Esistono infine fattori assolutamente specifici per ogni singolo tipo di tumore, come ad es. tipo e quantità di Ig prodotte e deficit funzionale renale, con aumento della creatininemia e dell’azotemia in caso di mielomi.

In realtà anche il grading e lo staging assumono una diversa rilevanza a seconda dell’istotipo e della sede della neoplasia.

Ciò contribuisce a rendere il quadro della prognosi dei tumori assai intricato e complesso, rendendo necessaria un’accurata distinzione tra una neoplasia e l’altra a causa del diverso influsso determinato sulla prognosi dai vari fattori considerati.

Riassumendo possiamo raggruppare le diverse variabili prognostiche in 4 insiemi di fattori principali che appunto sono:

1. fattori legati alla malattia 2. fattori legati al paziente 3. fattori legati al trattamento 4. fattori legati al follow up

Essi non sono separati ma concatenati gli uni con gli altri, cioè interagenti fra loro.

All’atto pratico si considerano alcuni fattori riscontrabili fin dall’inizio (età sesso, elementi anamnestici), poi successivamente stadio clinico (Staging) istotipo e grading, condizioni fisiche generali del malato, talora numero di cellule tumorali presenti in circolo, come nelle leucemie acute o nei linfomi.

Esistono, nell’ambito delle neoplasie solide, protocolli terapeutici variabili a seconda dello stadio e delle condizioni generali del paziente, protocolli che possono anche variare in funzione della

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diversa risposta terapeutica che si ottiene di caso in caso, variando così di conseguenza la prognosi.

Ci sono poi neoplasie, in cui (tumori anaplastici e microcitomi) l’istologia prevale sul parametro stadio clinico, ovvero il grading diventa parte integrante dello stadio. Ancor più vige questa regola nel caso dei sarcomi dei tessuti molli e altri tipi di neoplasie solide.

Per altri tipi di tumore è prevalente la localizzazione di sede laddove i fattori clinici giocano un ruolo piuttosto variegato (carcinomi delle prime vie aero-digestive, bocca, palato, faringe ecc.): i parametri di T e di N variano reciprocamente in funzione della diversa localizzazione.

Mentre l’estensione locale in certe zone può anche non avere un ruolo decisivo, la diffusione linfatica sembra avere maggiore importanza, almeno nel campo delle neoplasie solide.

Restando ai fattori della malattia, diremo che la sede rappresenta un parametro prognostico assai importante, variando di molto le caratteristiche del tumore a seconda della sede di localizzazione. E anche localizzazioni diverse nell’ambito della stessa sede possono assurgere a vasta importanza (ad.

es. varia la prognosi dei carcinomi laringei a seconda che siano sopraglottici, glottici e sottoglottici).

L’anamnesi, ovvero la storia clinica della neoplasia prima della cura pure svolge un ruolo assai importante. Infatti, un lento accrescimento di un tumore localmente avanzato che non dia metastasi linfonodali fa propendere per una minore malignità clinica e migliori difese dell’organismo.

Viceversa un tumore esordito da poco che già ha metastatizzato testimonia per una maggiore aggressività.

Dato il frequente ritardo con cui viene effettuata, la diagnosi assurge a valore prognostico rilevante, dovendosi poi confrontare l’intervallo compreso fra il primo sintomo e la diagnosi e ancora fra il primo sintomo e la terapia.

Data la loro estrema importanza ai fini prognostici e, di conseguenza, valutativi, l’istologia e lo stadio meritano, una trattazione particolare.

Per quanto, infatti, attiene all’istologia, variabile assai importante per la gran parte dei tumori, è bene sottolineare che l’istotipo, ovvero il tessuto d’origine della neoplasia, è da ritenersi spesso elemento discriminante in tema di terapia antineoplastica, ma talora assume scarsa importanza,

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come nel caso dei sarcomi dei tessuti molli, in cui né la prognosi né la terapia variano a seconda che si tratti, ad es., di fibro- rabdo o angio sarcoma.

In altri casi ciò che varia non è l’istotipo, che è identico, ma il grading, cioè il grado di malignità o di atipia, la cui rilevanza prognostica varia da un tumore all’altro; così, di norma esso si apprezza come un elemento assai rilevante in vista dei risultati terapeutici finali, tanto come produttivo di recidiva locale che di una diffusione sistemica, con possibilità di metastasi linfonodali o a distanza.

Va allora spesso valutato, come nel caso dei tumori mammari, l’indice proliferativo, labeling index.

Ma esistono pure casi (osteosarcomi) in cui il grading non rappresenta un fondamentale fattore prognostico, mentre lo è la sede.

Ci sono, poi, tumori che recidivano anche se sono ben differenziati e altri che non recidivano malgrado la spiccata malignità istologica.

Di norma, lo stadio della malattia, ovvero la sua estensione anatomica, rappresenta un fattore prognostico di primaria importanza, anzi il più importante di tutti.

La stadiazione o staging è di estrema importanza nella classificazione clinica dei tumori solidi, essendo la più usata quella TNM, le cui caratteristiche principali sono riferibili pressoché a tutte le neoplasie solide.

Anche i sintomi associati possono avere valore predittivo, quali la febbre, la sudorazione, l’astenia, l’ittero, l’i.r.c., ecc..

Ancor più, ai fini del monitoraggio della neoplasia, per il loro valore obiettivo e predittivo, assumono importanza i rilievi laboratoristici, potendo, alcuni di essi apparire come i più fedeli indici dell’andamento della malattia neoplastica, come, ad es., la cupremia, l’anemia eventuale e la leucopenia sia nei linfomi che nelle leucemie, oppure, LDH e VES, nel sarcoma di Ewing, fosfatasi alcalina ed acida prostatica, PSA, in quota libera, nel caso di un Ca prostatico, beta Hcg, nel caso dei tumori testicolari, l’iperazotemia, nel caso del mieloma multiplo, tutti i più noti markers tumorali, CEA, alfafetoproteina, CA 125, CA 15.3, CA.19.9, ecc., tanto per citarne solo alcuni, per il monitoraggio dei tumori colon-rettali, mammella, ovaio, ecc.

Neppure sono da ritenersi trascurabili i fattori legati al paziente:

• il sesso, con prognosi migliore per le donne, in generale, escluso stomaco e mammella;

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• l’età, con impatto sfavorevole per bambini ed anziani, o per l’età giovanile, come nel caso della mammella, mentre per i Ca tiroidei un’età maggiore di 45 anni rappresenta un fattore prognostico sfavorevole;

• le condizioni generali, vale a dire il performance status, che ostacola, se scadente, l’effettuazione di onerose ma adeguate terapie;

• il livello culturale del paziente, che spinge, talora, a rifiutare terapie ottimali o trascurare le esigenze legate al follow up di controllo.

Se lo stadio, la storia naturale, il grado di anaplasia, l’istotipo sono da ritenersi alcuni fra i fattori prognostici principali per il rischio di metastatizzazione, è pur vero che il tipo di approccio terapeutico, la prescrizione o meno di adeguati trattamenti medici e/o chirurgici, l’utilizzo o meno di tecniche neoadiuvanti, l’assenza o esistente collaborazione fra specialisti o centri, l’ottenimento o meno della remissione clinica completa, si rivelano fattori di estrema rilevanza prognostica, tali da condizionare pesantemente la sopravvivenza a lungo termine del paziente.

ASPETTI PECULIARI DI ANALISI DEI DATI SANITARI

Gli aspetti peculiari specifici da ricercare, confrontare e valutare, in relazione alle risultanze della visita medico legale e in rapporto alla patologia neoplastica manifestata, sono essenzialmente da ritenersi:

• la sintomatologia e fase clinica di esordio, per valutare la corrispondenza fra essi e quelli prevedibili in base alla storia clinica naturale della presunta neoplasia in atto;

• lo stadio clinico iniziale, presuntivo, stadio radiologico, in rapporto al protocollo diagnostico atteso per il tumore considerato;

• la tipizzazione oncologica, ovvero istotipo, con valutazione dell’esame istologico definitivo eseguito sul pezzo anatomico riportato, anche con disamina dell’esame macroscopico dello stesso e verifica di quello microscopico, onde accertarne, ove possibile, le dimensioni e le caratteristiche istopatologiche, ovvero la compatibilità e la plausibilità con la diagnosi oncologica formulata;

• lo stadio anatomopatologico valevole per la singola fattispecie di tumore considerato, laddove riportato ed indicato nella cartella clinica relativa all’intervento chirurgico, eventualmente

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comunque ricavabile (nel caso non infrequente in cui sia stato omesso) con attenta valutazione delle dimensioni della lesione neoplastica descritta, delle diverse sedi loco-regionali di invasione ed infiltrazione verificate, dell’eventuale localizzazione secondaria in stazioni linfonodali di I°, II°, III°

livello.

Il medico legale nella stragrande maggioranza dei casi può effettuare, da solo, la stadiazione anatomopatologica, laddove carente, confrontando la sede e la diffusione della neoplasia in atto con quella più aggiornata e comunemente usata. In ogni caso il medico legale non si deve limitare ad accettare acriticamente la certificazione di un pur accreditato centro oncologico, senza acquisire, ove possibile, tutta la documentazione sanitaria in possesso dell’assicurato, anche se, in verità, in base all’esperienza quotidiana, non è infrequente il caso in cui lo stesso si presenti a visita unicamente con il solo certificato diagnostico redatto dal Centro Oncologico che lo tiene in cura.

E’ essenziale, altresì valutare, temporalmente la data di effettuazione dell’intervento chirurgico radicale o la data relativa all’effettuazione completa di cicli di chemio e radioterapia primaria, rappresentando quello cronologico un elemento indispensabile ai fini della quantificazione e qualificazione prognostica.

Oculatezza, rigore ed equilibrio, unita all’esperienza e alla possibilità di consultazione di testi specialistici, rappresentano, in ogni caso il bagaglio di conoscenza su cui far leva, per la formulazione di un ponderato ed equo giudizio valutativo, in ogni tipo di accertamento medico legale.

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Analisi della valutazione tabellare delle neoplasie in uso per l’Invalidità Civile e proposta di valutazione in ambito I.N.P.S.

Il concetto di invalidità pensionabile in rapporto alla valutazione delle neoplasie

L'articolo 1 della legge 222/84 testualmente recita : "Si considera invalido… l'assicurato la cui capacita' di lavoro in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo…”, mentre l’articolo 2 “considera inabile, ....l’assicurato o il titolare di assegno di invalidità....il quale a causa di infermità o difetto fisico o mentale si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa”.

Quest’ultimo ha istituito ex novo la pensione ordinaria d’inabilità .

Ripudiando il principio dell’incapacità di guadagno a favore dell’incapacità di lavoro il legislatore pone in primo piano esclusivamente valutazioni di ordine bio-psichico delle infermità fisiche o mentali in stretto rapporto alla loro incidenza sulla attività lavorativa del soggetto, eliminando cosi ogni tipo di interferenza socio-ambientale.

In pratica il giudizio di invalidità e/o di inabilità è subordinato all’accertamento di requisiti che comportano il riferimento alle condizioni oggettive della persona colpita dalla infermità fisica o mentale laddove esse vanno ad incidere sulla capacità lavorativa di ogni singolo assicurato in modo permanente.

Ovviamente il concetto di permanenza non è un asserto del principio di irreversibilità o inemendabilità assolute, infatti il legislatore ha previsto l’istituto della revisione e quindi della eventuale revoca, anche per l’inabilità, nel caso espressamente previsto in cui risultino mutate le condizioni che diedero luogo alla concessione della prestazione.

Come già detto all’inizio di questa trattazione, se la valutazione di tipo disfunzionale appare essere sempre e comunque il più attendibile parametro di giudizio in ambito previdenziale, nel caso specifico dei soggetti affetti da patologia tumorale, salvo casi eccezionali, la prognosi sembra configurare il principale e più distintivo attributo qualificativo, atto a convalidare una equa ed efficace valorizzazione dello stato psicofisico dei soggetti affetti da malattia neoplastica.

Già in ambito di invalidità civile, la prognosi rappresenta il principale parametro di giudizio,

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distinguendo prioritariamente tra “neoplasie a prognosi favorevole” e “neoplasie a prognosi infausta o probabilmente sfavorevole…”, poi nell’ambito delle prime la valutazione varia a secondo della compromissione funzionale.

Più esattamente, per la Patologia Neoplastica, cod. 9322, 9323 e 9325 la tabella distingue i seguenti tre ordini di ipotesi:

Neoplasie a prognosi favorevole con modesta compromissione funzionale

Min. 0 Max. 0 Fisso 11

Neoplasie a prognosi favorevole con grave compromissione funzionale

Min. 0 Max. 0 Fisso 70

Neoplasie a prognosi infausta o probabilmente sfavorevole nonostante asportazione chirurgica

Min. 0 Max. 0 Fisso 100

E’ doveroso riconoscere la validità del principio di basare la valutazione sulla prognosi oncologica, ma è altrettanto doveroso dire che la tabellazione in uso pecca sotto molti aspetti: in primis appare incomprensibile il gap tra l’11 ed il 70% (non scordiamo che a 33% scatta il diritto alla fornitura di apparecchi protesici ed a 46% quello al collocamento mirato!) e tra il 70 ed il 100%

(ma il diritto all’assegno scatta al 74%…).

Poi la distinzione fra neoplasie a prognosi favorevole e sfavorevole ovvero infausta, sic et simpliciter, è eccessivamente drastica, accorpando, nella seconda ipotesi neoplasie con prognosi severa ma comunque con discrete possibilità di sopravvivenza, a neoplasie con prognosi verosimilmente o sicuramente ed a breve infausta.

Insoddisfacente, perché priva di rigore scientifico, appare quindi l’assimilazione fra neoplasie con fondate possibilità di sopravvivenza a 5 o 10 anni intorno al 60-70 % dei casi, e neoplasie con percentuali di sopravvivenza del 90-100 %, ma ancor più insoddisfacente l’aggruppamento fra tumori a prognosi severa ma con percentuali di sopravvivenza che variano tra il 45 ed il 20 e tumori con ridotte o ridottissime percentuali di sopravvivenza, in quota anche inferiore al 10 % !

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Ai fini di equità valutativa è necessario lo sforzo di operare le dovute distinzioni sia tra diverse neoplasie che fra neoplasie dello stesso tipo, ma in stadi o situazioni diverse, essendo in tali casi rilevante il criterio di confronto basato sul diverso grado di operabilità e resecabilità, in quanto così varia profondamente la prognosi.

Nell’ambito della invalidità pensionabile, accertata nei Centri medico Legali dell’I.N.P.S., la metodologia di valutazione in atto è rapportata al disposto degli artt. 1 e 2 della Legge 222/84 precedentemente riportati.

Proprio per ottemperare al disposto legislativo, il medico legale operante in ambito previdenziale I.N.P.S., nella generalità dei casi, esamina le condizioni psicofisiche dell’assicurato rilevandone la attuale e reale incidenza sulla capacità lavorativa in occupazioni confacenti o su qualsiasi attività lavorativa.

Nel caso di specie, giudizio valutativo da esprimere nei confronti di un assicurato affetto da neoplasia, la valutazione della capacità lavorativa collegata unicamente al performance status, si appalesa come un criterio di giudizio estremamente infido, comunque insufficiente o, talora, del tutto secondario, per la pratica medico legale di uso corrente, salvo pochi particolarissimi casi,

Di fatto, nell’operatività quotidiana, si tende a fare largo uso del criterio prognostico, riconoscendolo come privilegiato per un’efficace formulazione del giudizio in caso di malattia neoplastica.

Se ciò è vero, allora è utile fornire delle indicazioni, delle linee guida orientative, al fine di facilitare ed uniformare i giudizi.

Se si prende come riferimento il parametro prognostico, appare possibile operare, in modo orientativo, una distinzione, specie se si tratta di neoplasie solide, secondo lo schema qui proposto:

(35)

Neoplasie a prognosi molto favorevole o favorevole (% di sopravvivenza globale superiore al 60 % dei casi correttamente trattati, in modo radicale)

Con rilevante compromissione funzionale in esiti: valutare solo questi secondo i classici criteri

NON INVALIDO

Neoplasie a prognosi discreta

(% di sopravvivenza globale compresa fra 60 e il 40 % dei casi correttamente trattati, in modo radicale)

INVALIDO

Neoplasie a prognosi severa

(% di sopravvivenza globale tra 40 e 20 % dei casi correttamente trattati, in modo radicale in fase di intervallo libero da malattia)

Se ancora in follow up o se con rilevanti esiti disfunzionali

INVALIDO

INABILE (in casi eccezionali revisione non inferiore alla durata del follow up previsto)

Neoplasie a prognosi probabilmente o certamente infausta, a breve-medio termine

(% di sopravvivenza inferiore al 20%) o recidiva, con impossibilità di effettuare ulteriori terapie di salvataggio

INABILE

Ad una prima sommaria disamina si nota subito come le situazioni che presentano le maggiori difficoltà valutative siano quelle relative ad assicurati affetti da neoplasia a prognosi molto sfavorevole o severa (con percentuali di sopravvivenza orientativamente inferiori al 20 %) e che si trovano in una fase di intervallo libero da malattia, a distanza di poco tempo dall’inizio del follow up di controllo a 3 o 5 anni (ricordiamo che esso di regola parte dalla fine dell’ultimo trattamento

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