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CRITERI DI LIQUIDAZIONE DEL DANNO DA COMPROMISSIONE DEL REDDITO

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Dr. Marco Rossetti

Magistrato VI Sez. Civ. Tribunale di Roma

CRITERI DI LIQUIDAZIONE DEL

DANNO DA COMPROMISSIONE DEL REDDITO

Considerazioni e proposte per evitare duplicazioni e sperequazioni

Premessa

L’essere umano non è mera corporeità, né mero spirito. Ogni individuo gode infatti non solo del possesso o dell’uso di beni materiali, ma anche della piena fruizione delle proprie capacità

esistenziali: quella di vedere, di sentire, di immaginare, di riflettere.

Fine dell’individuo è il benessere e la felicità propri; fine dell’individuo nelle società

culturalmente avanzate è (o dovrebbe essere) il benessere e la felicità propri e dei propri simili, perseguiti ed ottenuti con strumenti leciti, cioè condivisibili ed utilizzabili da tutti i consociati.

Il massimo benessere può pertanto essere conseguito da ciascun individuo quando ha il pieno godimento dei propri beni materiali e delle proprie facoltà personali. Pertanto una qualsiasi deprivazione di tali beni o di tali facoltà, impedendo o limitando la possibilità di conseguire un pieno benessere, costituisce una lesione della persona.

L’individuo, dunque, “può essere leso mediatamente in quanto ha, e immediatamente in quanto è”1.

Tra i beni personali dell’individuo, quelli che costituiscono - insieme -il suo modo di essere, rientra ovviamente il bene salute. Ed una compromissione sua complessiva integrità psicofisica dell’individuo, tanto momentanea quanto definitiva2, può in vario modo incidere sul patrimonio del soggetto leso. Tale incidenza costituisce un danno giuridicamente risarcibile quando:

a) sia di segno negativo, cioè contragga il patrimonio della persona lesa;

b) sia causalmente collegata all’azione lesiva;

c) non sia stata, dopo il suo prodursi, rimossa dal fatto del terzo3.

Ricorrendo tali presupposti, la lesione del patrimonio conseguita alla lesione della persona rappresenta un tipico “danno-conseguenza”, esterno alla struttura dell’azione illecita che ha cagionato le lesioni4. Tale tipo di danno, proprio perché esterno alla struttura dell’illecito, non è quindi mai presunto, ma deve essere provato volta per volta.

Interludio su patrimonio e danno.

Prima di affrontare l’esame delle conseguenze di una lesione della salute sul patrimonio del soggetto leso, è opportuno fissare, per chiarezza espositiva, alcuni concetti fondamentali, da avere costantemente compresenti nell’analisi che seguirà.

A) Il patrimonio

Il concetto di patrimonio da prendere in considerazione ai fini della stima del danno non si identifica con quello di cui all’art. 2740 cod. civ., ma è più ampio, comprendendo non solo i beni in senso stretto, materiali o immateriali che siano (art. 810 cod. civ.), ma altresì le opportunità o

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chances, sempre che queste ultime si presentassero, al momento della perdita, con delle concrete possibilità di avveramento.

Così, ad esempio, costituisce danno patrimoniale la rinuncia forzosa ad un’offerta di lavoro o ad una proposta di promozione o di mutamento di funzioni, quando queste ultime avessero comportato un aumento della retribuzione, e sempre che il danneggiato - per condizioni soggettive e requisiti professionali - avesse avuto serie e concrete possibilità di ottenere la promozione od il

trasferimento.

La chance perduta, in altri termini, deve essere un’eventualità intimamente collegata ad un bene perduto5.

B) Il danno

Tradizionalmente si definisce il danno come una deminutio patrimonii, vale a dire come una entità accertabile quantitativamente mediante una operazione aritmetica di sottrazione, in cui

sottraendo è il patrimonio del danneggiato nella sua composizione al momento dell’azione dannosa;

sottrattore è lo stesso patrimonio, nella sua composizione successiva all’azione dannosa6.

Il risarcimento del danno patrimoniale, di qualsiasi danno patrimoniale, deve dunque fondarsi non sull’affectio singularis, vale a dire sulla attrazione o pulsione che il danneggiato avvertiva verso il bene perduto, ma unicamente sulla utilitas singularis, vale a dire sull’utilità concreta che il danneggiato ritraeva dal bene perduto. Questa soltanto è la misura del danno: onde ove essa non dovesse sussistere, ad esempio perché non vi è stata alcuna lesione di utilità concrete; ovvero perché la lesione è stata riparata, dall’autore del danno o da un terzo, non può fasi luogo ad alcun risarcimento, per la semplice ragione che non esiste alcun danno.

Invalidità ed inabilità

A qualsiasi lesione personale consegue necessariamente un periodo più o meno lungo di malattia, al termine della quale possono residuare postumi permanenti.

Il periodo di malattia7 costituisce in ogni caso - e cioè quali che ne siano le conseguenze

patrimoniali - un danno di tipo biologico, cioè una compromissione della complessiva esistenzialità della persona. Più precisamente, i periodi di malattia e di convalescenza obbligano il danneggiato a rinunciare alle proprie ordinarie attività esistenziali, quali che esse fossero (e cioè remunerative o meno). Ne consegue che il giudice deve tenere conto di tale arco di tempo nel liquidare il

risarcimento del danno biologico. Al giudice è consentita sia una valutazione complessiva del danno biologico, sia una valutazione separata della malattia e dei postumi permanenti, purché l’ammontare complessivo della somma liquidata sia commisurata alla reale entità del danno8.

Quale che sia il metodo cui ricorre il giudice per liquidare il danno biologico, è pertanto necessario sottolineare che la liquidazione di una somma di denaro a titolo di risarcimento della compromissione “biologica” conseguita al periodo di malattia, non esaurisce la potenzialità lesiva della malattia stessa, occorrendo ancora accertare se la stessa abbia prodotto una contrazione ovvero una elisione del reddito.

Il modo in cui tanto la malattia, quanto la sussistenza di postumi, possono incidere sui redditi da lavoro dipendente è tuttora ampiamente dibattuto in dottrina, mentre l’esame della giurisprudenza (di legittimità ma, soprattutto, di merito) mostra un panorama non proprio confortante, quanto a chiarezza di presupposti dogmatici e ad uniformità di decisioni.

Il primo indice della poca chiarezza concettuale lo si riscontra a livello lessicale: il periodo di malattia, ad esempio, viene indifferentemente definito come “inabilità temporanea9, ovvero

“invalidità10 temporanea”

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Per chiarezza espositiva, si precisa che in questa sede si utilizzerà il lessema “invalidità”

(temporanea o permanente) per designare le conseguenze, comunque valutabili, di una compromissione della essenza “biologica” dell’individuo: le conseguenze, cioè, di una

compromissione che limiti o precluda non questa o quella attività cui il danneggiato era dedito, ma che si riverberi in tutte le attività, di qualsiasi tipo, cui il danneggiato era solito attendere.

Si riserverà invece il lessema “inabilità” (temporanea o permanente) per designare la

momentanea o definitiva impossibilità, per il soggetto leso, di svolgere la propria attività lavorativa, in aderenza alle indicazioni fornite dall’ordinamento positivo (cfr. artt. 68 e 74 d.p.r. 30 giugno 1965 n. 1124).

Questa scelta lessicale appare in linea con l’insegnamento della migliore dottrina11, la quale - ormai da oltre un ventennio - per quantificare la compromissione dell’efficienza psicosomatica della persona ha abbandonato l’antico concetto di “capacità”, ricorrendo a quello - giustappunto - di

“validità”, intesa quale generico impedimento o limitazione al compimento di qualsiasi ordinaria attività12.

Lucro cessante, danno emergente, danno passato, danno futuro

Ogni compromissione dell’integrità psicofisica dell’individuo, pertanto, oltre agli immancabili riflessi “biologici”, può determinare una inabilità al lavoro, ovvero una impossibilità di continuare a lavorare con la stessa energia, qualità, produttività, attenzione, impiegate prima dell’evento

dannoso.

Questa inabilità può essere solo temporanea, ovvero irremissibile e permanente. Sia l’una che l’altra possono causare:

-) un danno emergente (come nel caso di chi debba sostenere spese aggiuntive di trasporto, per non potere recarsi al lavoro coi propri mezzi a causa delle lesioni subìte);

-) un lucro cessante (è l’esempio classico di chi, impossibilitato dagli esiti delle lesioni, deve rinunciare al proprio reddito od a parte di esso);

-) un danno passato, come nel caso in cui al momento della liquidazione sia definitivamente venuta meno la possibilità di conseguire l’incremento patrimoniale;

-) un danno futuro, come nel caso in cui al momento della liquidazione è certo o estremamente probabile che il danneggiato debba rinunciare ad utilità postume, che verosimilmente sarebbero entrate nel suo patrimonio ove non avesse subìto il danno alla persona.

Va sottolineato che non necessariamente il danno emergente coincide col danno passato ed il lucro cessante coincide col lucro cessante. Le perdita del reddito maturata nel periodo tra l’evento dannoso e la liquidazione, ad esempio, costituisce un danno passato da lucro cessante, mentre le spese che si dovranno sostenere per rimuovere un mezzo di sintesi applicato chirurgicamente ad un arto rappresentano un danno futuro ed emergente.

La distinzione è assai importante in quanto:

-) sul danno passato va computato l’ulteriore danno da “lucro cessante” per mancata disponibilità della somma dovuta a titolo di risarcimento, somma che ove posseduta tempestivamente sarebbe stata verosimilmente investita per ricavarne un lucro finanziario13. Tale danno ulteriore non può ovviamente computarsi per i danni futuri liquidati in moneta attuale;

-) nelle obbligazioni aquiliane soltanto il lucro cessante, e non il danno emergente, è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso (art. 2056 c.c.). Ciò vuol dire che il danno emergente va sempre liquidato sulla base di una prova rigorosa, e può liquidarsi

equitativamente solo ove ne sia impossibile, e non per inerzia del danneggiato, la stima esatta (art.

1226 c.c.).

Pertanto potrà aversi:

-) un lucro cessante od un danno emergente passati, sui quali computare l’ulteriore lucro cessante da ritardato pagamento;

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-) un lucro cessante od un danno emergente futuri, sui quali non computare l’ulteriore lucro cessante da ritardato pagamento;

-) un danno emergente passato o futuro, da liquidare in base a prova rigorosa del danno;

-) un lucro cessante passato o futuro, da liquidare in base a criteri equitativi.

L’inabilità temporanea

L’inabilità temporanea14 è il danno consistente nelle perdita della retribuzione e delle altre utilità connesse allo svolgimento dell’attività lavorativa, in conseguenza di uno stato di malattia causato dal fatto illecito altrui.

Questo danno costituisce un danno patrimoniale, e dunque un danno-conseguenza. Ne consegue, secondo lo schema concettuale dalla Corte costituzionale con la sent. 14 luglio 1986 n. 184, che esso non è implicito nella commissione dell’illecito, ma va concretamente dedotto e provato.

Di norma, questo tipo di danno può non sussistere per il lavoratore dipendente: infatti, nella maggioranza delle ipotesi, questi godrà per il periodo di forzata assenza dal lavoro dei benefici dell’assicurazione obbligatoria conto gli infortuni o, in mancanza, della tutela patrimoniale

accordatagli dall’art. 2110 cod. civ.. In questi casi - quando, cioè, il lavoratore continui a percepire la propria retribuzione anche durante il periodo di inabilità temporanea - va esclusa l’esistenza stessa di un danno risarcibile15.

Anche nelle ipotesi in cui il lavoratore continui a percepire la retribuzione durante il periodo di inabilità, può comunque residuare un danno patrimoniale nelle seguenti ipotesi:

a) quando la prestazione assicurativa (obbligatoria od anche volontaria) non copra il 100% della retribuzione;

b) quando l’assenza dal lavoro comporti la rinuncia ad utilità extraretributive aggiuntive;

c) quando il protrarsi della malattia determini il superamento del c.d. periodo di comporto, e la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro.

Il caso sub a) non è infrequente: basti pensare, ad esempio, che a norma degli artt. 73 e 116-120 del d.p.r. 30 giugno 1965 n. 1124, il datore di lavoro è tenuto sì a corrispondere la retribuzione durante i primi quattro giorni di malattia, ma tale retribuzione è ridotta del 40% per i giorni che vanno dal secondo al quarto, mentre la rendita corrisposta dall’Inail per le ipotesi di inabilità temporanea è pari al 60% della retribuzione, e decorre solo dal quinto giorno di malattia16.

Poiché la rendita corrisposta dall’Inail per l’ipotesi di inabilità temporanea ha lo scopo di

ricomporre l’equilibrio economico infranto dall’infortunio e dalla conseguente assenza dal lavoro, e costituisce dunque il risarcimento di un danno patrimoniale17, nei casi in esame l’autore dell’illecito è tenuto a risarcire al danneggiato la differenza tra la retribuzione che avrebbe normalmente

percepito, e la minor somma percepita dall’Inail a titolo di indennità giornaliera.

Il caso sub b) può verificarsi allorché la prestazione lavorativa comporti la corresponsione di utilità economiche, ovvero suscettibili di valutazione economica, le quali non entrano a far parte della retribuzione: ad esempio le gratifiche come la tredicesima mensilità18; i compensi in natura19; i redditi aggiuntivi che trovano la propria fonte in consuetudini locali, come le mance20. La

difficoltà per il danneggiato, in questo caso, di provare esattamente l’ammontare del danno, può essere superata dal giudice col ricorso a presunzioni semplici (art. 2729 c.c.) fondate sulla natura dell’attività svolta21 e sul luogo ove è svolta; ovvero col ricorso a criteri equitativi.

Il caso sub. c), infine, comporta la perdita del lavoro e quindi dell’intera retribuzione. In questo caso, il danno patrimoniale subìto dal lavoratore è pari alla capitalizzazione del reddito perduto, in base ad un coefficiente corrispondente alla durata della vita lavorativa residua.

I casi sub a) e b) possono comunque presentare delle difficoltà, in punto di liquidazione del danno, ove il danneggiato non sia un lavoratore dipendente, ma un lavoratore autonomo od un libero professionista. In questi casi, infatti, prendere a base del calcolo il reddito percepito al momento del sinistro potrebbe essere fuorviante, in quanto il reddito del lavoratore autonomo è

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sovente frutto di attività iniziate molto tempo prima del momento in cui il reddito viene percepito.

Per ovviare a tali inconvenienti, il giudice di legittimità ha ritenuto adottabili vari criteri correttivi, come ad esempio quello di porre a base del calcolo il reddito medio della categoria professionale di appartenenza del danneggiato (Cass. 28.4.1976 n. 1519, in Giur. it. Mass. 1976, I, 399)22.

Non sono invece risarcibili i proventi perduti, ma derivanti da rapporti negoziali contra legem per l’oggetto o per la causa, come ad esempio i ricavi dell’attività di prostituzione, di sfruttamento del lavoro minorile, di contrabbando23.

1 Minozzi, Studio sul danno non patrimoniale, Milano 1909, 23.

2 Corte cost. 14 luglio 1986 n. 184, in Riv. giur. circ. trasp., 1986, 1007; Cass. civ. 18 febbraio 1993 n. 2008, in Riv. giur. circ. trasp., 1993, 790.

3 In quest’ultimo caso, più propriamente, il danno - già verificatosi - viene eliso da qualsiasi atto o fatto estraneo alla persona dell’autore dell’azione dannosa.

4 Cfr. Corte cost. 14 luglio 1986 n. 184, cit..

5 Considerando la chance perduta un valore connesso ad un bene del danneggiato, si superano quelle obiezioni secondo le quali la chance è un’aspettativa di fatto, al contrario della perdita di reddito futuro la quale è un danno derivante dalla lesione di un’aspettativa di diritto, e dunque non sarebbe autonomamente risarcibile. In realtà ciò che rileva non è tanto il fatto che la chance in sé sia suscettibile di essere azionata giudizialmente, quanto il fatto che la chance sia pertinente ad un diritto suscettibile di essere azionato giudizialmente: in questo senso, Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Commentario Scialoja- Branca, sub. artt. 1218-1229, Bologna-Roma, 247; Busnelli, Perdita di una chance e risarcimento del danno, in Foro it., 1965, IV, 47; Mastropaolo, Danno: III) Risarcimento del danno, in Enc. Giur. Treccani, Roma, X, 12.

6 Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, cit., 247; Ravazzoni, La riparazione del danno non patrimoniale, Milano, 1962, 37; Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, in Scritti giuridici, I, Roma, 1919, 19;

Carbone, Il fatto dannoso nella responsabilità civile, Napoli, 1853, 221; Schlesinger, La ingiustizia del danno nell’illecito civile, in Jus, 1960, 346.

7 Intesa questa parola non in senso previdenziale, ma in senso medico-legale, quale impossibilità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni, in attesa della guarigione delle lesioni causate dall’illecito altrui.

8 Cass. civ. 15 settembre 1995 n. 9725, inedita, (nella quale si dichiara ammissibile la liquidazione separata, purché il riferimento alla inabilità temporanea ed alla invalidità permanente non sia finalizzato alla individuazione della diminuita capacità di guadagno); Cass. civ. 16 aprile 1996 n. 3563, in Riv. giur. circ.

trasp., 1996, 310. Di norma, la liquidazione avviene separatamente.

9 Cass. civ. 15 settembre 1995 n. 9725, cit..

10 Cass civ. 16 aprile 1996 n. 3563.

11 Cfr. FERRARI Giulia e Gennaro, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Padova, Cedam, 1995, 157 e ss..

12 Cfr. GERIN Cesare, La valutazione medico-legale del danno alla persona, Giuffrè, Milano 1973, pp. 90 e ss., specialmente 96-97. Lungo sarebbe ed ultroneo, in questa sede, ripercorrere l’interessante iter concettuale che ha portato dal concetto di incapacità a quello di invalidità. E’ importante tuttavia ricordare che il concetto di incapacità si affermò in quel momento storico in cui il danno alla persona veniva considerato danno non patrimoniale, e quindi non risarcibile a meno che non si traducesse in una perdita di reddito (cfr., ad es., la “celebre” Trib. Milano 18 gennaio 1971, in Giur. mer., 1971, I, 10). La liquidazione del danno alla persona necessitava pertanto, a livello concettuale, la ricerca del valore economico perduto della persona lesa, il che era impresa ardua nei casi in cui il danneggiato non lavorasse. Pertanto, al fine di assicurare un risarcimento purchessia anche ai non percettori di reddito, fermo restando il principio della non risarcibilità del danno alla persona ove scevro da conseguenze patrimoniali, era necessario costruire un concetto di “patrimonio” inclusivo non solo della ricchezza in atto, ma anche di quella potenzialmente suscettibile di essere prodotta. Tale ricchezza veniva misurata col concetto di “capacità”, il quale reca in sé l’idea della potenzialità, dell’attitudine futura, della produzione ventura. Successivamente, tuttavia, si andò affermando l’idea che la compromissione della integrità psicofisica andasse risarcita non solo per le sue ripercussioni sul reddito, ma anche e innanzitutto per le ripercussioni sulla vita concreta del danneggiato e

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sul suo modo di essere e presentarsi agli altri. Nasceva così l’idea della “validità” quale parametro cui commisurare la lesione, intesa quale attitudine non solo a lavorare, ma a compiere tutte le attività dell’esistenza. La persona cessava di essere un mero produttore di reddito, per divenire, o meglio, per tornare ad essere, un essere umano, produttore di una somma di energie fisiopsichiche.

13 Cass. sez. un. 17.2.1995 n. 1712. Il “lucro cessante” da ritardato adempimento di un’obbligazione di valore non è dunque che lo stesso danno che si soleva un tempo liquidare attraverso la categoria concettuale degli “interessi compensativi”.

14 Come già detto, larga parte della giurisprudenza preferisce parlare di “invalidità temporanea”.

15 Cass. 11.7.1978 n. 3507, in Giur. it. 1978, I, 2065 (è la sentenza “capostipite”); Cass. civ. 8 gennaio 1980 n. 142, in Giur. it., 1981, I, 1, 138; Cass. civ. 13 maggio 1982 n. 3020, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1983, 154;

25 giugno 1982 n. 3850, ivi, 1982, 467; Cass. civ. 28 aprile 1983 n. 2920, ivi, 1983, 850; Cass. civ. 2 aprile 1984 n. 2163, ivi, 1984, 584; Cass. civ. 11 gennaio 1986 n. 119, ivi, 1986, 278; Cass. civ. 10 ottobre 1988 n.

5465, in Foro it. Mass., 1988; Cass. civ. 28 novembre 1988 n. 6403, inedita; Cass. civ. 3 maggio 1990 n.

3634, in Arch. civ., 1990, 667; Cass. civ. 16 maggio 1990 n. 4243, inedita; Cass. civ. 15 aprile 1993 n. 4475, in Riv. giur. circ. trasp., 1993, 967; Cass. civ. 6 dicembre 1994 n. 10454, in Riv. giur. circ. trasp., 1995, 572;

Cass. civ. 6 dicembre 1995 n. 12569, inedita; Cass. civ. 13.9.1996 n. 8260, in Riv. giur. circ. trasp, 1996, 773. Per la giurisprudenza di merito, in senso conforme, si vedano App. Perugia 9 febbraio 1988 n. 21, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1988, 837; Trib. Livorno 21 luglio 1988, ivi, 1989, 328; Trib. Firenze 12 luglio 1989 n. 1457, ivi, 1989, 1049; Trib. Milano 7 luglio 1988, in Giur. it., 1989, 318; Trib. Bari 3 aprile 1990 n. 1267, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1990, 597; Trib. Firenze 26 luglio 1989 n. 1617, ivi, 1990, 233; Trib. Messina 2 aprile 1988 n. 281, inedita; Pret. Eboli 2 aprile 1990, Viccione c. Comune di Battipaglia, inedita; Trib. Reggio Calabria 8 febbraio 1991 n. 50, inedita; Trib. Treviso 25 gennaio 1990 n. 1029, inedita; Trib. Verona 10 novembre 1989 n. 1656, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1991, 47; Trib. Lanciano 29 maggio 1991, in PQM, 1991, 46; Trib. Firenze 10 giugno 1991, in Arc. giur. circ. sin. strad., 1991, 842. Deve anche osservarsi che, prima del 1978, la giurisprudenza di legittimità aveva sempre affermato che il lavoratore dipendente aveva comunque diritto al risarcimento al danno da inabilità temporanea, anche se durante il periodo di malattia aveva continuato a percepire la retribuzione, e ciò in quanto - si diceva - al caso di specie non poteva applicarsi il principio della compensatio lucri cum damno (cfr. Cass. 6.2.1978 n. 550, in Giur. it. Mass. 1978, 127; Cass. 21.3.1978 n. 1399, ivi, 1978, 322; Cass. 25.10.1978 n. 4863, ivi, 1978, 1162). Si trattava di un’impostazione teorica criticabile ed infatti criticata in dottrina (ad esempio da Gentile, Danno alla persona, in Enc. del Dir., Milano, 1962, XI, 645 e 652), perché fondata su un errore di impostazione: al lavoratore malato, il quale aveva continuato a percepire la propria retribuzione, non spettava il risarcimento del danno da inabilità non perché dovesse farsi applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, ma semplicemente perché non aveva subìto alcun danno.

16 L’indennità diviene pari al 75% della retribuzione, allorché l’astensione dal lavoro si protragga oltre 90 giorni. La retribuzione presa in considerazione ai fini del computo dell’indennità è quella dei 15 giorni precedenti l’infortunio.

17 Cfr. FERRARI, op. ult. cit., p. 253.

18 Per l’inclusione delle gratifiche nel danno risarcibile cfr. Trib. Firenze 27 maggio 1968, in Arc. resp civ., 1969, 139.

19 Cfr. art. 30 co. II d.p.r. 30 giugno 1965 n. 1124. Tuttavia, nella liquidazione del danno da inabilità temporanea, il giudice della responsabilità civile non è tenuto a valutare queste prestazioni in natura sulla base della determinazioni compiute con decreto ministeriale, ai sensi dello stesso art. 30 d.p.r. 30 giugno 1965 n. 1124, ma può utilmente fare riferimento ai prezzi correnti di mercato.

20 Sulla risarcibilità del mancato guadagno conseguente alla perdita delle mance, cfr. Cass. civ. 25 settembre 1990 n. 9702, inedita; Cass. civ. 25 novembre 1980 n. 6247, in Foro it. Mass. 1980, 1186; Cass.

civ. 3 luglio 1978 n. 3308, ivi, 1978, 628; Cass. civ. 18 maggio 1976 n. 1775 e Cass. civ. 18 maggio 1975 n.

1776, ambedue in Giust. civ., 1976, I, 1268.

21 Ad esempio, è fatto noto (art. 115 c.p.c.) dal quale risalire al fatto ignoto (esistenza del danno) che un cameriere di un esercizio sito in località turistica incasserà più mance il sabato rispetto ad un giorno lavorativo, ovvero nei mesi estivi rispetto ai mesi invernali.

22 Tale criterio non appare in verità troppo equo, in quanto attraverso esso si risarcisce troppo il professionista poco capace e quindi dal basso reddito, mentre si risarcisce troppo poco il professionista assai valido, dal reddito superiore alla media.

23 Cfr., per l’ipotesi dell’impedimento all’esercizio della prostituzione, Cass. 1.8.1986 n. 4927, in Giust. civ.

1986, I, 2712, con nota di Alpa, Il danno alla prostituta tra etica e fattualità.

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CRITERI DI LIQUIDAZIONE DEL DANNO DA COMPROMISSIONE DEL REDDITO (Parte II)

Considerazioni e proposte per evitare duplicazioni e sperequazioni

L’inabilità permanente

Si ha inabilità permanente al lavoro allorché si verificano due condizioni, che debbono essere necessariamente compresenti:

a) il soggetto danneggiato, una volta guarite le lesioni, non ha potuto recuperare interamente la propria complessiva integrità psicofisica;

b) la compromissione della complessiva integrità psicofisica gli preclude la possibilità di continuare a lavorare come faceva prima del verificarsi del danno.

Lo “scarto” tra le prestazioni lavorative erogate prima dell’evento lesivo, e quelle erogate dopo, può concernere: la quantità di lavoro prodotto; la qualità dello stesso; la quantità di energie di riserva che residuano alla fine della giornata lavorativa. Quando tuttavia questo “scarto” non dovesse determinare una contrazione del reddito, l’inabilità al lavoro (la c.d. “incapacità lavorativa”) altro non rappresenta che un ordinario danno patrimoniale.

Il risarcimento del danno causato dalla permanente inabilità al lavoro, totale o parziale, resta attualmente uno dei punti più ambigui in subjecta materia23.

Nelle ipotesi in cui l’inabilità permanente al lavoro determini la perdita ovvero una contrazione del reddito, come detto, non sorge dubbio alcuno: si tratta di un normale danno patrimoniale, da liquidare capitalizzando il reddito perduto sulla base della residua vita lavorativa.

Molte perplessità suscita invece l’ipotesi in cui il soggetto danneggiato continui a lavorare ed a percepire il medesimo reddito di cui fruiva prima del sinistro, ma sia costretto a sostenere uno sforzo maggiore, oppure a ricorrere a più lunghi periodi di recupero (è questo il c.d. danno alla cenestesi lavorativa23).

L’analisi approfondita della giurisprudenza di legittimità e di merito degli ultimi dieci anni rivela come i concetti di invalidità, inabilità, incapacità lavorativa, siano stati spesso usati in modo affatto equivoco e sovrapponibile, soprattutto dai giudici di merito.

Una riflessione sulla materia deve pertanto necessariamente prendere le mosse dall’esame e - ove possibile - dalla sistemazione di questa copiosa e talora contraddittoria giurisprudenza.

Ne emerge che la tipologia di danno in esame (maggiore stancabilità, ovvero maggiore usura, ovvero minore sensazione di benessere, fermo restando il reddito) è considerata da alcuni giudici un tipico danno da lucro cessante, da ritenere esistente in via presuntiva (art. 2729 cod. civ.) e da liquidare in via equitativa (art. 1226 cod. civ.), facendo riferimento ad un valore percentuale; da altri invece una componente del danno biologico, della quale si deve tenere conto nella liquidazione di quest’ultimo, senza procedere a liquidazioni separate.

Coloro i quali aderiscono alla prima impostazione (la c.d. “incapacità lavorativa” prescinde da una contrazione del reddito):

a) sogliono distinguere anche tra la c.d. “capacità lavorativa specifica” e la c.d. “capacità

lavorativa generica”, le quali costituirebbero altrettante voci di danno patrimoniale, ulteriori rispetto al danno biologico ed al danno morale;

b) ritengono di dover liquidare separatamente il danno biologico, il danno alla capacità lavorativa generica, il danno alla capacità lavorativa specifica23.

Secondo questo orientamento giurisprudenziale, il danno biologico attiene unicamente alla riduzione delle energie psicofisiche dell’individuo, a prescindere da qualsivoglia conseguenza

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patrimoniale. Per contro, concettualmente diverso è il danno da “invalidità permanente”.

Quest’ultima, intesa come la definitiva compromissione dell’attitudine al lavoro, può incidere - si afferma - sia sulla capacità lavorativa generica, sia sulla capacità lavorativa specifica: può, cioè, sia limitare o precludere lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa; sia limitare o precludere lo svolgimento della attività lavorativa concretamente esercitata dal danneggiato.

Si aggiunge che questo secondo tipo di danno, che è un danno patrimoniale, può sussistere a prescindere da una reale contrazione del reddito23. Esso infatti consisterebbe: nella maggior sofferenza provata nel lavorare; nel maggior disagio provato nel lavorare; nella maggiore

probabilità di essere costretto ad un pensionamento anticipato; nella maggiore difficoltà di trovare lavori alternativi a fine rapporto; nella maggiore difficoltà di fare carriera. In simili casi, i giudici chiamati a stimare il danno hanno riconosciuto l’esistenza di un danno da invalidità permanente (rectius, da inabilità permanente), anche quando veniva affermata l’insussistenza di un danno da invalidità temporanea (rectius, da inabilità temporanea)23.

Vi è poi, come detto, un secondo orientamento giurisprudenziale, secondo il quale il danno da lesione della c.d. capacità lavorativa generica in realtà non costituisce che un aspetto o porzione del danno biologico. In altri termini, le ripercussioni che la lesione subita dal danneggiato ha prodotto sulla attitudine di quest’ultimo a svolgere un lavoro purchessia, devono essere tenute presenti nella liquidazione del danno biologico, e non valutate a parte. Questo perché la c.d. capacità lavorativa è un concetto ormai obsoleto, assorbito da quello di danno biologico.

Lo stesso orientamento ammette la pensabilità concettuale della nozione di capacità lavorativa specifica, precisando però che si tratta di un ordinario danno patrimoniale23: si ha cioè lesione della capacità lavorativa specifica solo quando i postumi residuati al danno determinano una contrazione del reddito del danneggiato, anche se futura (purché, ovviamente, ragionevolmente prevedibile).

La giurisprudenza di legittimità non ha sinora fornito indicazioni univoche sul modo di concepire e liquidare il danno da inabilità permanente (vale a dire quella che la giurisprudenza chiama invalidità permanente o incapacità lavorativa generica).

Anche nelle pronunce della Suprema corte è possibile ravvisare due orientamenti. Secondo un primo orientamento, affermatosi soprattutto nelle pronunce più recenti, l’invalidità temporanea dovrebbe essere valutata sotto due profili: in quanto fatto negativo che incide sul bene salute, di essa deve tenersi conto nella liquidazione del danno biologico; in quanto fatto potenzialmente idoneo a contrarre il reddito percepito, di essa deve tenersi conto nella liquidazione del danno patrimoniale.

E’ stato infatti affermato che “il danno biologico deve essere valutato anche tenendo conto della invalidità permanente”23; oppure che la riduzione della capacità lavorativa generica, in soggetto non produttore di reddito, “è risarcibile quale danno biologico”23. In altre pronunce questa affermazione appare ancora più esplicita: così, si è detto che nella liquidazione del danno biologico il giudice deve tener conto anche dell’eventuale invalidità permanente, “a prescindere dai riflessi che

quest’ultima possa avere sulla capacità di reddito del danneggiato”23; oppure che la riduzione della capacità lavorativa generica “è risarcibile quale danno biologico”23.

In queste massime la Corte di cassazione sembra voler affermare un principio semplice e consequenziale, già sostenuto da alcuni giudici di merito23, e cioè che occorre accertare e valutare separatamente due distinti effetti che le lesioni personali possono avere sull’attività lavorativa: se le lesioni producono una accertata riduzione del reddito, tale riduzione costituisce un ordinario danno patrimoniale da lucro cessante; se le lesioni non incidono sul reddito (sia perché resta invariato; sia perché manca addirittura un reddito), ma rendono più faticosa la prestazione lavorativa, di tale circostanza deve tenersi debito conto nella liquidazione del danno biologico, elevando l’ammontare del risarcimento dovuto. Naturalmente i due effetti possono anche coesistere: le lesioni ed i postumi da esse derivati possono cioè cagionare sia una riduzione del reddito, sia un maggiore affaticamento nello svolgimento dell’attività lavorativa.

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Vi e però anche un secondo orientamento nella giurisprudenza di legittimità, alla stregua del quale si afferma che il danno biologico costituisce titolo di danno diverso rispetto all’invalidità temporanea23, la quale è qualificata senz’altro come un danno patrimoniale. La invalidità (rectius, inabilità, per quanto sopra detto) è definita infatti come la riduzione della capacità di guadagno23; oppure come la riduzione della capacità di produrre reddito23; oppure come la riduzione della capacità lavorativa23; od ancora come la riduzione della capacità di concorrenza23.

Deve tuttavia osservarsi che mentre la Corte di cassazione afferma in teoria la natura di danno patrimoniale del danno da inabilità permanente, nella pratica esso viene spesso liquidato a prescindere da qualsiasi contrazione del reddito, sulla base di massime di esperienza talora

opinabili, ovvero sulla scorta di presunzioni semplici (art. 2729 cod. civ.) in cui l’aggancio logico tra fatto noto e fatto ignoto resta indimostrato23.

Così, ad esempio, si è detto che:

a) il danno fisiognomico per un lavoratore dipendente costituisce una perdita patrimoniale a prescindere da una reale contrazione del reddito, in quanto il danneggiato incontrerà maggiore difficoltà ad accedere ad altri tipi di attività comportanti contatti con più persone, in ipotesi più confacenti alle sue attitudini e più lucrosi23;

b) la semplice esistenza di lesioni, a prescindere da qualsiasi contrazione di reddito, rende presumibile l’influenza negativa sulla percezione di speciali compensi, per una prestazione di lavoro più intensa del normale; nonché sull’ulteriore sviluppo di carriera o su una possibile collocazione anticipata a riposo; nonché, infine, su una alternativa possibilità di lavoro23.

In realtà, può seriamente dubitarsi dell’affermazione secondo la quale la semplice esistenza di lesioni renda presumibile, ad esempio, un nocumento allo sviluppo della carriera. Nella prova presuntiva, infatti, è necessario che il fatto noto, rispetto al fatto ignoto, pur non dovendo rivestire un carattere di conseguenza necessaria, si ponga comunque come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità causale23.

Alla stregua di questo criterio, per fare un esempio concreto, non può certo affermarsi che una grave anchilosi dell’articolazione tibiotarsica - la quale costituisce un apprezzabile danno biologico - comprometta le possibilità di carriera di un impiegato terminalista, o di una ricamatrice, o di una centralinista, o di uno scrittore.

"L’incapacità lavorativa”: un retaggio storico

Una pur breve analisi storica della genesi e dello sviluppo del concetto di incapacità lavorativa servirà a dimostrare come esso rappresenti oggi una categoria concettuale superflua, perché il contenuto semantico dell’espressione è ibrido e può essere assorbito sia nel concetto di danno biologico, sia in quello di danno patrimoniale. Oltre che superflua, tale categoria concettuale è poi fonte di confusione, come dimostrano le incertezze giurisprudenziali evidenziate nel paragrafo precedente.

La autonoma risarcibilità della lesione alla persona, a prescindere da ogni ripercussione sul reddito prodotto (reale o figurato), venne affermata a partire dalla metà degli anni ’70 dal Tribunale di Genova23.

Prima d’allora, non era ammessa la risarcibilità autonoma di quello che poi sarà chiamato danno biologico: la sola conseguenza giuridicamente rilevante di lesioni alla persona era rappresentata (oltre che dal danno morale) dalle conseguenze che le lesioni stesse avevano sul patrimonio del danneggiato23.

Questo sistema presentava due enormi inconvenienti: da un lato, non consentiva risarcimenti di sorta a chi non provasse contrazioni del reddito; dall’altro, a parità di lesioni l’ammontare del risarcimento variava in funzione del reddito del danneggiato.

La giurisprudenza dell’epoca cercò di ovviare a questi inconvenienti, ma sempre tenendo fermo il principio della irrisarciblità di un danno personale che non sortisse effetti sul reddito. Per far ciò,

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operò in due modi differenti. Quando il soggetto danneggiato non era titolare di redditi, il danno veniva calcolato facendo ricorso al concetto di “presumibile guadagno futuro”: si poneva cioè a base del calcolo un reddito figurato, variamente desunto23.

Quando invece il soggetto danneggiato era titolare di reddito, ma non era stata dimostrata in concreto una reale riduzione di questo, la giurisprudenza ricorse al concetto di incapacità lavorativa generica: si riteneva cioè (rectius, si fingeva concettualmente) che il danneggiato, pur continuando a beneficiare del medesimo reddito, venisse danneggiato nella propria capacità di produrre reddito, e che quindi il reddito stesso, in futuro, sarebbe stato minore rispetto a quello che avrebbe percepito ove non avesse subìto le lesioni23. E’ pertanto chiaro che i concetti di “invalidità permanente” e

“incapacità lavorativa generica” erano stati creati dalla giurisprudenza al solo fine di eludere, con delle finzioni concettuali, il principio della irrisarcibilità in via autonoma delle lesioni alla persona, in assenza di perdite o riduzioni del reddito.

I concetti di “invalidità permanente” e “incapacità lavorativa generica” avevano pertanto ragione d’esistere soltanto in un contesto socioculturale che escludesse la autonoma risarcibilità del danno biologico. In quel contesto, rappresentavano degli escamotages per consentire comunque la liquidazione di una somma di denaro anche a quei danneggiati privi di reddito, od a quelli che il reddito non avevano perduto.

Questi concetti appaiono invece oggi del tutto superflui, una volta ammesso che - in virtù del combinato disposto degli artt. 32 cost. e 2043 cod. civ. - il danno alla persona vada autonomamente risarcito, con somme di denaro pari a parità di danno, quali che siano i suoi effetti sul reddito del danneggiato.

Le conseguenze sotto il profilo risarcitorio di un danno alla persona dovrebbero pertanto risolversi nell’alternativa tra danno biologico e danno patrimoniale (in questa sede non interessa il danno morale), e quindi:

a) se la lesione ha prodotto una contrazione del reddito oggettiva ed accertata; ovvero produrrà - secondo una previsione obiettivamente condivisibile e ragionevolmente plausibile, e non presunta a priori - una riduzione del reddito futuro, sarà dovuto il risarcimento del danno patrimoniale;

b) se la lesione non produce una contrazione del reddito in atto; né lascia verosimilmente ritenere che produrrà una contrazione del reddito futuro, nulla è dovuto a titolo di risarcimento del danno patrimoniale. Tuttavia, ove la lesione - pur non contraendo il reddito - renda più onerosa

l’erogazione dell’energia lavorativa, di tale fatto deve tenersi debito conto nella liquidazione del danno biologico: vuoi elevando il grado percentuale di invalidità permanente posto a base del calcolo; vuoi incrementando il valore monetario del punto di invalidità.

La liquidazione del danno da inabilità permanente al lavoro

La liquidazione del danno derivante da lesioni che hanno prodotto una permanente inabilità al lavoro, totale o parziale, non presenta grandi problemi ove il danneggiato abbia subìto una contrazione del reddito, oggettivamente misurabile, ovvero la perdita totale del reddito. In questi casi il danno risarcibile sarà pari alla capitalizzazione del reddito perduto in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente alla durata residua della vita lavorativa del danneggiato.

Il reddito (o la porzione di esso posto a base del calcolo) dovrà essere depurato delle spese di produzione del reddito stesso (ad esempio, quelle di trasporto o di vestiario da lavoro, ove non fornito dal datore di lavoro), in quanto queste rappresentano una uscita e non entrata per il lavoratore23.

Le imposte vanno invece ricomprese nel reddito da porre a base del calcolo. Infatti la somma liquidata a titolo di risarcimento di danni consistiti nella perdita di redditi è soggetta all’imposta sul reddito delle persone fisiche23. Ne consegue che, ove fosse posto a base del calcolo il reddito netto, il danneggiato verrebbe privato per due volte della parte di guadagno corrispondente all’imposta.

Inoltre, applicando l’imposta sul risarcimento computato ala stregua del reddito netto,

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l’amministrazione finanziaria percepirebbe una minore imposta, con beneficio per il solo danneggiante23.

Nel reddito da considerare devono essere compresi anche i contributi previdenziali, in quanto il cessato versamento di essi (ovvero un versamento di entità minore) compromette la posizione previdenziale del danneggiato.

Non devono, invece, essere considerati i contributi assicurativi INAIL: infatti la parte di retribuzione destinata a contribuzione INAIL comunque non sarebbe stata goduta dal lavoratore;

mentre se il rapporto di lavoro cessa, cessa anche l’assicurazione contro gli infortuni.

Si è visto in precedenza che permangono nella nostra giurisprudenza orientamenti diversi circa il modo di concepire e valutare il danno alla persona che riverbera effetti negativi sullo svolgimento dell’attività lavorativa, quando questi effetti negativi lasciano comunque inalterato il reddito percepito dal danneggiato.

Come si è detto, taluni giudici ritengono questo tipo di danno una componente del danno biologico, mentre altri lo ritengono un danno patrimoniale presunto.

Il differente modo di concepire il danno conduce all’adozione di differenti criteri di liquidazione.

Coloro i quali ritengono che l’inabilità permanente al lavoro, nel suo aspetto biologico e non di pregiudizio reddituale, costituisca una componente del danno da compromissione della complessiva integrità psicofisica, liquidano il danno relativo incrementando il valore del punto di invalidità, ovvero ricorrendo a formule algebriche che elevano il grado percentuale di invalidità permanente23.

Per liquidare il danno patrimoniale, invece, si richiede la prova della effettiva diminuzione patrimoniale23, prova da fornire documentando l’entità dei redditi anteriori e di quelli posteriori al sinistro. In presenza di una contrazione del reddito posteriore al sinistro, dovrà poi accertarsi la riconducibilità causale di tale contrazione ai postumi delle lesioni: l’accertamento della

compatibilità logica dei postumi con una ridotta produttività è demandato ad un consulente medico legale, al quale si chiede di accertare i postumi rilevati incidano sull’attività lavorativa svolta dal danneggiato, precisando in che modo la pregiudichino.

Il nesso causale tra lesioni e contrazione del reddito, salvo casi evidenti come quello di lesioni devastanti, non dovrebbe pertanto mai essere dato per scontato, ma andrebbe sempre accertato in concreto: è evidente, ad esempio, che una riduzione del reddito derivante dalla dimissione di alcuni immobili e dalla conseguente contrazioni del reddito dominicale, difficilmente può essere messa in relazione ex art. 2729 c.c. con i postumi di lesioni alla persona.

Coloro i quali continuano a definire il danno da inabilità permanente come danno patrimoniale da compromissione della capacità di guadagno, sussistente pur in assenza di riduzioni del reddito, per liquidare tale danno ricorrono ad un sistema tabellare. Con questo metodo, si chiede al

consulente medico legale di quantificare in termini percentuali la compromissione della “capacità lavorativa”, e quindi si moltiplica questa percentuale per il reddito del danneggiato, ed il risultato per un coefficiente pari alla residua durata della vita lavorativa23. Il criterio non è tuttavia

omogeneo, ma conosce infinite varianti. Ad esempio, alcuni giudici ritengono che, in presenza di una lesione della salute inferiore ad una certa percentuale (nella specie, 10%), non vi può essere lesione della capacità lavorativa in assenza di prove specifiche: dal che si desume che, per gradi di invalidità superiori, si dà per scontata l’esistenza di un danno da inabilità permanente23.

Altri giudici invece ritengono che non vi sia corrispondenza biunivoca tra grado di invalidità permanente (danno biologico) e grado di inabilità permanente (incapacità lavorativa), in quanto l’incidenza del danno sull’attività lavorativa va sempre accertata in concreto23.

Non mancano infine decisioni curiose, come quella che ha ritenuto - con procedimento inverso rispetto all’usuale - di liquidare dapprima il danno patrimoniale da lucro cessante, e quindi di determinare il danno biologico in una somma pari al 10% del danno patrimoniale23.

La prova del danno

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La prova dell’ammontare del danno e della sua riconducibilità causale al sinistro, per il lavoratore dipendente, è agevolmente fornita mediante l’esibizione dei prospetti di buste paga relativi ai periodi anteriori e successivi all’evento dannoso. Una riduzione improvvisa degli emolumenti percepiti, in coincidenza col verificarsi delle lesioni, può fondatamente lasciar presumere l’esistenza d’un nesso causale tra le lesioni stesse e la diminuzione del reddito.

In questi casi, il danno passato si liquiderà sommando i redditi perduti; quello futuro capitalizzando i redditi futuri fino alla verosimile cessazione dell’attività lavorativa.

Una disciplina particolare, in merito alla prova del danno, è dettata dall’art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, in materia di danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti.

Quando il danno produttivo di una lesione del reddito viene causato dalla suddetta circolazione, il danneggiato può avvalersi di una disciplina privilegiata in punto di prova del danno: per legge infatti si presume che il reddito effettivo sia quello che risulta dalla denunce fiscali esibite in giudizio23.

Il danneggiato può scegliere di avvalersi anche di altri mezzi di prova (testimonianza,

presunzione semplice, esibizione di documenti diversi dalle dichiarazioni fiscali), ma tali prove non avranno l’efficacia privilegiata di cui all’art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857.

E’ stato ritenuto da qualche giudice del merito che se il danneggiato ometta di esibire le

dichiarazioni fiscali, il danno patrimoniale potrà essere liquidato ponendo a base del calcolo il triplo della pensione sociale (criterio anch’esso previsto dall’art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857), quasi che tale ammontare costituisca una sorta di soglia minima di risarcimento23.

Questa interpretazione è stata però esclusa dalla Corte di cassazione, la quale ha ripetutamente affermato che se il danneggiato, il quale sia percettore di reddito, ometta sia di esibire le

dichiarazioni fiscali, sia di provare aliunde l’entità del reddito, andrà rigettata la domanda di risarcimento del danno patrimoniale23.

La giurisprudenza della corte di legittimità è stata avallata anche da una pronuncia della Corte costituzionale, la quale ha ritenuto conforme a Costituzione l’art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, anche nella parte in cui consente al soggetto non percettore di reddito di ottenere risarcimenti più elevati di quelli ottenibili dal soggetto che percepisca un reddito inferiore al triplo della pensione sociale23.

La presunzione di cui all’art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857 è una presunzione juris tantum, e quindi può essere superata sia dal danneggiato, sia dal danneggiante, il quale ha ovviamente interesse a provare che i redditi percepiti dal danneggiato siano inferiori a quanto risulta dalle dichiarazioni fiscali23.

E’ stata ritenuto utilizzabile, ai fini della stima del danno, l’ispezione di cui all’art. 118 cod.

proc. civ., nel senso che il giudice può ordinare al danneggiato di esibire in giudizio le dichiarazioni fiscali23. E’ stato invece esclusa l’utilizzabilità della richiesta di informazioni di cui all’art. 213 cod.

proc. civ.. per richiedere all’amministrazione delle finanze copia delle dichiarazioni fiscali inviate dal danneggiato, e ciò in quanto la richiesta di informazioni alla P.A. è ammessa solo quando le parti non hanno il diritto di accesso al documento richiesto23.

Maggiori problemi pone invece la prova del nesso causale tra lesioni e danno, quando in concreto non sia dimostrabile una effettiva riduzione del reddito. In questo caso, occorre distinguere:

a) i giudici i quali ritengono che la lesione della c.d. capacità lavorativa non costituisca un danno patrimoniale, ma solo una componente del danno biologico, in assenza di contrazioni del reddito nulla liquidano a titolo di danno patrimoniale. In questi casi diventa superflua la prova del nesso causale tra lesioni e danno patrimoniale, semplicemente perché danni patrimoniali non sono ritenuti sussistenti. E’ invece necessaria la prova della maggior afflittività del lavoro, conseguente alle lesioni, e ciò al fine di incrementare il valore di punto da porre a base della liquidazione. Questa prova viene normalmente conseguita attraverso un apposito quesito rivolto al consulente medico

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legale, al quale si domanda se i postumi residuato al sinistro in qualche modo limitino o rendano più gravosa la prestazione dell’attività lavorativa;

b) i giudici i quali considerano la lesione della c.d. capacità lavorativa un danno patrimoniale effettivo, pur in assenza di una contrazione del reddito (c.d. riduzione della capacità di guadagno), hanno invece l’onere di motivare in merito alla esistenza di un nesso causale tra lesioni e

contrazione della c.d. capacità lavorativa.

Tuttavia nelle decisioni giurisprudenziali di merito prese in esame (1986-1996) si riscontra un rigore assai diverso in merito alla prova di tale nesso causale. Talora, infatti, il nesso causale tra lesione e riduzione della capacità di produrre reddito è del tutto presunto; talaltro invece se ne esige la prova rigorosa.

Così, ad esempio, si è ritenuto che ad una diminuzione della capacità lavorativa non consegue automaticamente una proporzionale riduzione del reddito, dovendosi piuttosto considerare la concreta incidenza della lesine sull’attività esercitata dal danneggiato; la prova di tale incidenza, si è aggiunto, deve essere fornita dal danneggiato23.

Ugualmente, facendo ricorso al concetto di presunzione, ma questa volta per escludere

l’esistenza del nesso causale, si è ritenuto “impossibile” che una invalidità di “minimo momento”

potesse in qualsivoglia maniera produrre una riduzione degli introiti o della capacità di guadagno23. In esatta antitesi, altri giudici hanno ritenuto invece che “anche una modesta menomazione rende presumibile un’influenza negativa sullo sviluppo dell’attività lavorativa”23.

In altri casi, invece, si è ritenuto comunque sussistente il danno da lesione della capacità lavorativa, sol che le lesioni siano di natura tale da incidere “in qualche misura” sulla capacità di guadagno23. Alcuni giudici hanno addirittura ritenuta “superflua” la prova di una concreta ed attuale riduzione della capacità di guadagno, essendo sufficiente che a causa dell’invalidità l’individuo sia costretto ad un lavoro più usurante, con conseguente “rischio biologico ed economico potenziale”23.

Non può non rilevarsi come simili pronunce neghino nella sostanza quanto affermano in via di principio, e cioè che la ritenuta lesione della capacità di produrre reddito costituisce un danno patrimoniale. In realtà questo danno, che si afferma patrimoniale: a) è presunto, cioè liquidato a prescindere da ogni prova sull’effettiva deminutio patrimonii, ed anzi anche in presenza della prova della conservazione del reddito; b) è liquidato sulla base di un valore percentuale determinato dal medico legale.

Dr. Marco Rossetti Magistrato Vi Sez. Civ. Tribunale di Roma

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