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A chi donare? Obiezioni a Jean-Luc Marion

In questa prospettiva è lecito domandarsi: chi dà/dona cosa a chi? Quali sono gli estremi di un simile dono? Ovvero, in cosa esso consiste, se ancora di “dono” si può (o addirittura si deve, apparentemente) parlare? Marion ricorda la secca reazione di Paul Ricœur, alla presentazione di Réduction et donation: «per quanto Lei si sforzi, non riuscirà mai a ricondurre la Gegebenheit al dono». Emerge così, dal fondo di una questione ontologica, il problema ermeneutico, semantico, grammaticale e psicologico. Sebbene questa rosa di problematiche ci abbia accompagnato sin dal principio, tentiamo di scomporla nuovamente, per riformularla nella maniera che segue: sarebbe mai possibile riconoscere qualcosa come la “donazione” (ovvero una struttura donativa relativa al modo di presentarsi del reale), se non si fosse preliminarmente in possesso del dono? Se non si possedesse il concetto che ne anima, fonda ed interpreta il fenomeno? Se non si fosse, cioè, già dotati di un’identità linguistica, sociale e culturale per cui le caratteristiche dell’evento “dono” siano cosa più o meno nota? Simili domande, lo si intuisce, sono puramente retoriche: per comprendere la donazione come tale si deve infatti essere necessariamente calati in un contesto comunitario (il perché di un tale termine dovrebbe ormai esser chiaro) per via del quale sia possibile non soltanto sviluppare un linguaggio e una ragione, ma anche testimoniare del fatto che un soggetto A offre un oggetto B ad un soggetto C172 sulla base di un intento specifico e ben

determinato, qualunque esso sia. Marion, per parte sua, mostra di rendersene conto, laddove scrive:

Nondimeno, si obietterà: sebbene preceda tutto ciò che è o che appare, la donazione presuppone almeno ciò a cui essa [si] dona, qualunque sia il 172 Si ricordi che questo è il modo in cui Jacques Derrida sintetizza la struttura fondamentale ed irriducibile del fenomeno dono nelle prime pagine di Donare il tempo.

nome con cui lo si designa (ego, coscienza, soggetto, Dasein o “vita”). Così, la donazione lascerebbe fuori dal suo campo almeno ciò che essa concerne [affecte] e chi la riceve, come sua unica condizione incostituibile173.

Marion introduce in questa maniera il tema dell’adonné, l’adonato, ovvero il “soggetto” che accoglie la donazione, quale figura della soggettività accordata a e attraverso la donazione: «[...] la determinazione del fenomeno come dato, se essa può e deve dispensarsi da ogni donatore, nondimeno accade sempre a un donatario: “ciò che viene dopo il soggetto”, noi lo descriviamo qui come l’adonato, senza altro subjectum che la sua attitudine a ricevere e a riceversi attraverso ciò che riceve»174. Perché la Gegebenheit abbia

senso e valore in quanto donazione, evidentemente, essa necessita di un soggetto, di una coscienza ricevente: è cioè indispensabile una mente pensante (con altri). Ma perché ciò sia possibile, come tenteremo di dimostrare nell’ultimo capitolo, è altrettanto necessaria una mano che dona/prende (ad/da altri): le due condizioni, parlare/pensare e dare/prendere, sono infatti fra loro connesse molto più saldamente di quanto non si sarebbe istintivamente portati a credere.

Analizzata in questi termini la prospettiva di Marion non pare immune dai limiti che costrinsero l’autore di Essere e tempo ad accantonare il progetto ontologico ben prima che esso potesse considerarsi compiuto175: pur essendo la donazione un orizzonte

173 J.-L. Marion, Étant donné, cit., p. 84. 174 Ivi, p. 9.

175 Come superare le limitazioni di un linguaggio ch’è già interamente intriso di quella Metafisica che attraverso di esso si vorrebbe superare, senza sfociare nel silenzio della mistica? Come dire qualcosa sull’Essere senza ricadere nelle statiche categorie tradizionali che andrebbero una volte per tutte decostruite? Nulla, in effetti, si potrebbe pensare o dire riguardo all’Essere, al di qua della sfera sociale e razionale che definisce come tale l’essenza di quello zôon politikòn e lògon èkhon che è il Dasein. L’Essere, il tempo non sarebbero predicabili, dunque non si darebbero affatto, se il Dasein non fosse ciò che è, ma dimorasse al di fuori della sfera del linguaggio e del pensiero. Ma il pensiero, si sa, è per Heidegger una questione di mano: il suo scatenamento è strettamente legato ad un certo uso della mano che è, come tale, esclusivo del Dasein (il Dasein è colui per il quale l’esistenza degli oggetti “poveri di essere” è sottomano, a portata di mano; e tuttavia il

trascendentale (pre-linguistico, pre-istorico, ultra-concettuale) la sua comprensione resta condizionata ad una serie di eventualità storiche immanenti, ovvero lo sviluppo successivo, nell’essere umano, della tecnica, del linguaggio e della cultura (nel senso ristretto del termine). In ciò la traduzione di Gegebenheit proposta da Marion resta altrettanto arbitraria di quella che si affida al termine ‘datità’: infatti non sembra tener conto del fatto che è esclusivamente sulla base di processi ermeneutici, intenzionali e psicologici i quali sono come tali prodotti di una cultura, che si può descrivere qualcosa come una “struttura di donazione” come il tramite per cui i fenomeni si danno alla coscienza trascendentale. Marion ritiene infatti che la riduzione fenomenologica permette di riconoscere nel concetto di ‘dato’ «una una determinazione ancora più originaria del fenomeno»: la coscienza accede al fenomeno per il fatto che esso è dato, appunto, attraverso una donazione trascendentale.

Ma, a questo punto, o si assume che la donazione sia non già una condizione trascendentale bensì una griglia interpretativa surrettizia prodotta dai meccanismi più propri della ragione, dai “limiti” stessi di una precisa ratio culturale, ovvero, per giustificare la traduzione di Marion, ci si dovrà affidare a un gesto intellettuale (forse un balzo mistico?) che poco condivide con il rigore del discorso fenomenologico che egli si sforza di portare avanti. A meno che non si voglia ammettere, e forse proprio questo resta implicito fra le pieghe del suo discorso, che la donazione riguardi come tale non già il Dasein, l’adonné, bensì il Dasein o l’adonné occidentale: lo Jewgreek176.

Dasein è anche colui la cui mano serve non soltanto per prendere e manipolare, bensì

pure per dare e donare – chiudiamo però in nuce questa parentesi: la riapriremo più avanti, nel tentativo di segnalarne tutte le premesse e trarne tutte le conseguenze). 176 Volendo risalire lungo la catena delle questioni metafisiche e “onto-teologiche”, ci si potrebbe domandare: chi (o cosa) è che dona la donazione? chi (o cosa) è l’estensore di questo dono? chi (o cosa) dona all’adonné la capacità di riconoscere come tale la struttura di donazione? La questione non è speciosa, anzi essa sta a fondamento di tutte le nostre argomentazioni, come si vedrà. Se ad esempio assumessimo, cosa che Marion tuttavia non fa esplicitamente, che chi dona questa struttura al Dasein è un qualche

È piuttosto difficile ritenere che Derrida, per quanto eventualmente concorde con le premesse del discorso di Marion, fosse disposto a spingersi tanto in là nelle sue conseguenze. In ogni caso, l’evidente difficoltà di dirimere simili questioni, che pure sembrano darsi spontaneamente al pensiero, contribuisce se non altro a rendere conto della vastità dei problemi legati al dono; nonché a spiegare perché lo stesso Derrida sentisse il bisogno di chiosare ogni occorrenza di quella parola con la locuzione «s’il y en a»: se ce n’è, se può darsi.